BIOGRAFIA
Re di Sardegna 1849-1861 - Poi Re d'Italia fino al 1878

Colui che doveva divenire per l'Italiani il « Padre della Patria » nacque in Torino nel Palazzo Carignano il 14 marzo 1820, da Carlo Alberto, allora principe di Savoia-Carignano, poi re di Sardegna, e da Maria Teresa di Lorena, della Casa granducale di Toscana.
Trascorse i suoi primi anni di vita nella villa di Poggio Imperiale presso Firenze, dove i suoi genitori, in conseguenza degli avvenimenti del 1821, dovettero esiliarsi, subendo l'ostinata durezza di re Carlo Felice. Una nutrice gli salvò la vita col sacrificio della propria, il 16 settembre 1822, strappandolo coraggiosamente alle fiamme di un grave incendio, scoppiato appunto nella villa di Poggio Imperiale. La principessa Maria Teresa era allora incinta del principe Maria Ferdinando, che nacque il 15 novembre di quello stesso anno 1822 e che poi ebbe il titolo di Duca di Genova. Ella fu la prima amorevole educatrice del futuro Re d'Italia, e sono degne di nota queste parole ch'ella scrisse relativamente al carattere del piccolo principe, nel quale già si delineava il carattere dell'uomo « È assai docile, ma ci vuole con lui un po' di pazienza, perchè ha sempre una grande voglia di correre e di saltare. Ma quando ha imparato una cosa, difficilmente la dimentica ».

Per il fratello Ferdinando, Vittorio Emanuele ebbe, fin dall'infanzia, un grandissimo affetto, « una calda amicizia, che rafforzata dagli anni e cementata dalle fatiche e dai pericoli comuni sui campi di battaglia avvinse l'uno all'altro i due principi finchè visse quello che per primo doveva essere rapito dalla Morte ».

I figli di Carlo Alberto ebbero un'educazione principalmente militare, alla quale attesero alcuni esperti ufficiali e soprattutto quel Giuseppe Dabormida, allora maggiore, che fu poi generale e ministro. Il Dabormida fu per i due principi un eccellente precettore ed un consigliere affettuosissimo. «Vittorio Emanuele, scrisse un biografo, crebbe vigoroso, straordinariamente vivace, dedito di preferenza agli esercizi del corpo, ma pieno di sensibilità, d'impulsività, di audacia ». Prestissimo si manifestarono in lui, e nel fratello, quello spirito bellicoso, quel coraggio non comune, che dovevano poi rifulgere in tante battaglie.

Ma Carlo Alberto lo tenne in un'assoluta ignoranza degli affari di Stato, lo fece vivere quasi segregato dalla Corte, e così, senza precisamente volerlo, « lo pose in grado, come nota giustamente il Predari, di parer osservare e conoscere con libera mente e con occhio più sicuro, tanto che poi egli riuscì a distinguere molto bene gli amici ed i nemici del padre e del Paese, e delle cognizioni acquistate da sè, seppe poi provvidamente giovarsi quando fu giunto al potere ».

Nel 1842, compiuti i ventidue anni di età ed avuto il grado di maggior generale, Vittorio Emanuele sposò, dopo un anno di fidanzamento, Maria Adelaide d'Austria, sua cugina, della quale diremo più avanti. Ammogliano, conservò le abitudini della sua gioventù forte, esuberante, insofferente di freni, avversa alla fredda etichetta della Corte paterna. Era cacciatore appassionato, e, scrive briosamente un suo biografo, « corse in montagna o nelle paludi dietro alle anitre selvatiche, lunghissime passeggiate a piedi e a cavallo, lo trattenevano fuori di casa non soltanto tutte le mattine, ma spesse volte tutta la giornata. Nella reggia egli era il Principe Ereditario, marito affettuoso, figlio rispettoso; appena fuori, i suoi naturali istinti, i gusti repressi scattavano violentemente, ed egli diventava una specie di moschettiere del Seicento, di cui aveva persino il tipo fisico ed indossava presso a poco il costume. Non superbo, nè altezzoso, anzi piuttosto familiare con le persone del suo servizio, si mostrava gelosissimo della sua dignità personale e principesca, e con nessun uomo l'avrebbe mai compromessa, ma con le donne, però, non credeva mai di abbassarsi. Bastava che fossero giovani, belle, piacenti, non facessero le ritrose, e anche se popolane o contadine, per il momento egli se ne invaghiva perdutamente. Maria Adelaide sapeva tutto; molte cose egli stesso le diceva e le confessava, ed essa ebbe sempre la virtù di tutto perdonare e, persino, di molto giustificare. La madre di lui andava ripetendo e scrivendo : «Di dove mai è uscito questo figliuolo?... È nato per farci disperare tutti quanti! » Egli godeva nel fare cose pericolose fuori del comune, per darsi importanza, non foss'altro, agli occhi dei cacciatori e del seguito e per poterle raccontare tornando a Racconigi o a Torino, dove il più delle volte, arrivando con un ritardo di cinque minuti sull'ora della colazione, veniva dal rigido padre mandato agli arresti, anche se tornava, come una volta gli capitò, con un braccio al collo.
« Non è da stupire che un temperamento come quello di Vittorio Emanuele si venisse appassionando per le agitazioni politiche, estesesi dal 1846 al 1848 in modo così vertiginoso. Vi si interessava anche suo fratello, il Duca di Genova, ma con maggiore prudenza.

Quanto a Vittorio, travestito da agiato campagnolo, avvolto in un gran mantello e con un cappello a larghe tese sugli occhi, percorreva la sera le strade, mischiandosi alla folla e ai capannelli che si formavano in Torino in Piazza Castello, o davanti al palazzo municipale, o al palazzo del governo in piazza S. Carlo, per vedere, e per udire i discorsi, e per farsi un'idea, di poi commentandosela della generale esaltazione ».

Sopraggiunsero i grandi avvenimenti del 1848, e, come vedemmo, Carlo Alberto, bandita la prima guerra dell'indipendenza italiana, condusse scon se oltre il Ticino i suoi due figli. Vittorio Emanuele duca di Savoia aveva caldeggiato la guerra contro l'Austria, aveva ardentemente desiderato di prendervi parte, ed ebbe il comando di una divisione. In quasi tutte le battaglie del 1848 e del 1849, nelle quali tanto si distinse anche suo fratello Ferdinando, duca di Genova, fece prodigi di valore per i quali meritò di essere ammirato perfino dai nemici.

Successo al padre nel giorno stesso della catastrofe di Novara, il giovane principe diede una prima ammirabile prova di lealtà e di fermezza nel famoso colloquio ch'ebbe a Vignale col maresciallo Radetzkv. La situazione era tragica, e così la riassume efficacemente il Predari « Il Piemonte era in balìa del nemico, il quale in tre tappe poteva occuparne la capitale; l'esercito del nuovo re era sparpagliato e in gran parte disfatto dall'opera pervertitrice dei partiti estremi, i quali, ancor più delle baionette nemiche, minacciavano di rovina la patria; vuoto l'erario; spento il credito; l'anarchia nel Parlamento; la diffidenza in tutti contro tutti; universali lo scoraggiamento, lo sgomento, destati dall'incerto avvenire; l'Austria accennava a voler essere inesorabiile nella vittoria; la Francia, non per noi; l'Inghilterra con noi, ma quanto larga di consigli, altrettanto avara di efficaci soccorsi; in Italia, non solo nemici tutti i principi, ma nemiche perfino alcune province; i popoli stessi, che pure anelavano a libertà, avversari perchè signoreggiati da gelosie e da interessi a covi si posponevano i grandi interessi e i destini della nazione. In Piemonte, frattanto, c'era chi sognava il ritorno del vecchio dispotismo, mentre altri consigliavano, sollecitavano una radicale conciliazione con Vienna, come unico mezzo per ripristinare l'ordine e la tranquillità nel paese ».

A Vignale, Radetzky rispose alla domanda d'armistizio ponendo questi patti: abolizione dello Statuto di Carlo Alberto, soppressione del vessillo tricolore, ritorno al regime vigente ai tempi di Carlo Felice, intima alleanza con la Casa d'Austria. Qualora queste condizioni fossero state accettate, il Piemonte avrebbe ottenuto le condizioni di pace più desiderabili e più vantaggiose. Ma Vittorio Emanuele dichiarò che piuttosto che accettare simili patti, piuttosto che agire contrariamente ai giuramenti di suo padre, avrebbe lottato sino in fondo, pronto a soccombere, ma senza disonore.

Radetzky non insistè nelle sue richieste in nome dell'Austria, ma non mutò sostanzialmente le condizioni dell'armistizio: 20.000 Austriaci occuperebbero i territori piemontesi fra il Po, la Sesia e il Ticino; un presidio misto di Austriaci e Piemontesi, starebbe nella cittadella di Alessandria; l'esercito piemontese verrebbe ridotto come in tempo di pace, col congedamento dei corpi non piemontesi; sarebbero ritirate tutte le truppe occupanti sulla riva destra del Po quel territorio che prima della guerra non apparteneva al Regno Sardo, e richiamate quelle che si trovavano altrove, in territori destinati a ritornare sotto la dipendenza dell'Austria.

"Vittorio Emanuele dovette iniziare il proprio regno sottoscrivendo queste condizioni durissime. Sostanzialmente, aveva ottenuto ben poco e aveva rinunciato a vantaggi personali:non indifferenti; ma, accorto, ardito, animoso, aveva avuto prontamente l'intuito della parte che ormai era riservata in Italia al re di Piemonte, alla casa di Savoia. Il candidato tradizionale alla corona di Lombardia, alla corona d'Italia, capiva oramai, dopo le rivoluzioni italiane del 1848, che a lui, per assicurarsi l'avvenire, conveniva non fare ciò che avevano fatto o dovuto fare Leopoldo Il di Toscana, Ferdinando II di Napoli, Pio IX. Bisognava che l'idea italiana avesse il suo re ideale, che in Italia sarebbe rimasto, con la bandiera tricolore, segnacolo e vessillo, e la cui politica estera di principe costituzionale in un paese dove le costituzioni erano state soppresse per piacere all'Austria, avrebbe trovato il suo logico appoggio anche in Francia e in Inghilterra". (Predari).

« Io terrò alta e ferma la bandiera tricolore aveva detto il nuovo re al conte Vimercati, la sera stessa della battaglia di Novara, prima d'aver preso qualsiasi impegno) poichè è simbolo della nazionalità italiana, che oggi è stata vinta, ma che trionferà un giorno. Questo trionfo sarà d'ora innanzi lo scopo di tutti i miei sforzi ».

Pochi giorni dopo, il 27 marzo 1849, Vittorio Emanuele pubblicò un proclama nel quale si dichiarò erede e continuatore delle libere istituzioni iniziate da suo padre, facendo appello al patriottismo ed al senno della nazione per essere aiutato nel gran lavoro di svolgerle e di perfezionarle. «Gli ordini politici, così disse in quel proclama, le Costituzioni, gli Statuti, non li stabilisce nè li rende adatti ai vari bisogni di un popolo il Decreto che li promulga, bensì il senno che li corregge ed il tempo che li matura. E questo lavoro, dal quale solo possono sorgere la potenza e la felicità di uno Stato, si conduce con l'azione calma e perdurante del raziocinio, non con l'urto delle passioni; si conduce procedendo a gradi per la via del possibile, e non gettandosi a slanci inconsiderati per le vie che l'esperienza dei secoli dimostrò impraticabili... Ora la nostra impresa deve essere di mantenere salvo ed illeso l'onore, di rimarginare le ferite della pubblica fortuna, di consolidare le nostre istituzioni costituzionali. A questa impresa scongiuro tutti i miei popoli. Io mi appresto a darne solenne giuramento, attendendo dalla nazione, in ricambio, aiuto, affetto, fiducia ».

Ma la fiducia non c'era ancora, nè gli si manifestò il 29 marzo, quando prestò davanti alla Camera il giuramento alla Costituzione. Gran parte della Camera e delle popolazioni gli era tacitamente ostile, e fu bello e grande da parte sua, il non disperare, fra tante cause di disperazione, dei destini dell' Italia e della Casa di Savoia.

La Camera era indisciplinabile, e Vittorio Emanuele si affrettò a scioglierla, il 30 marzo, senza fissare la data per le nuove elezioni. Genova insorse e dovette essere sottomessa con le armi dal generale Alfonso La Marmora. Alla testa del ministero venne chiamato Massimo d'Azeglio, nome che dava affidamento per l'avvenire dell'idea nazionale italiana. Nel maggio, venne fucilato a Torino il generale Ramorino, capro espiatorio degli errori che avevano condotto l'esercito alla disfatta di Novara. Frattanto Alessandria era stata occupata dalle truppe austriache.

Sarebbe fuor di luogo ripetere qui una narrazione degli avvenimenti che si svolsero nella penisola ed in Europa in quell'agitatissimo anno 1849; ed anche a quelli del primo periodo del regno di Vittorio Emanuele, accenneremo solo sommariamente, poichè qui non possiamo nè dobbiamo rifare una storia del Risorgimento italiano.

La pace tra il Piemonte e l'Austria venne conclusa a Milano, dopo laboriose trattative, il 6 agosto 1849. Secondo il trattato, i confini dei due Stati vennero ristabiliti come prima del marzo 1848, e Vittorio Emanuele rinunciò a qualsiasi pretesa sui territori situati al di là di quei confini. Il Piemonte si obbligò a pagare all'Austria un'indennità di 75 milioni; l'Austria s'impegnò a ritirare entro otto giorni le milizie sue che occupavano il territorio fra il Ticino e la Sesia e quelle che tenevano la fortezza di Alessandria.

Il 15 luglio avevano avuto luogo le elezioni per la nuova Camera, e questa era riuscita quasi identica alla Camera disciolta, cioè con una maggioranza di fautori d'una sollecita riscossa. Contrariamente alla più elementare saggezza, mentre l'Austria trionfava dovunque e in tutta Europa si affermava un'accanita reazione, dopo lunghissime discussioni venne votata la sospensiva sull'approvazione del trattato di pace. Allora Vittorio Emanuele e il suo ministro d'Azeglio dovettero decidersi a sciogliere nuovamente la Camera, e il re pubblicò il famoso Proclama di Moncalieri, documento memorabile di fermezza, di saggezza e di previdenza, che fu poi base delle nuove elezioni da cui uscì la Camera che finalmente approvò il trattato con l'Austria e che permise al Governo di agire per il bene del paese, continuando a mirare alla unità italiana.

Noteremo qui incidentalmente a che nel 1850 Ferdinando duca di Genova si univa in matrimonio con la principessa Elisabetta, figlia del re di Sassonia. Vittorio Emanuele, il cui affetto per il fratello era vivissimo, come già si disse, fu assai lieto di quell'avvenimento, e quando gli sposi vennero dalla Germania in Italia, passando per la Savoia, andò ad incontrarli, con la regina e col figlio Umberto. Visitò in quell'occasione, per la prima volta dopo la sua assunzione al trono, le sue province poste di là dalle Alpi, e le popolazioni savoiarde lo accolsero entusiasticamente. Da quel matrimonio nacque nell'anno seguente (20 novembre 1851) Margherita di Savoia, la futura regina d'Italia, e nel 1854 nacque il principe Tomaso, che dal padre ereditò il titolo di Duca di Genova.

La maggioranza del Parlamento, dopo il proclama di Moncalieri, fu sempre con Vittorio Emanuele, anche quando non fu coi suoi ministri, perchè sentì, ammirò ed amò in lui il principe forte e leale a cui presto doveva esser dato dal popolo il ben meritato soprannome di Re Galantuomo. « E Vittorio Emanuele, nota il Predari, offrì all'Europa lo spettacolo singolare di un sovrano posto sempre, in ogni questione di ardimento e di libertà, un passo più innanzi degli stessi suoi più liberali consiglieri ».

Fra i suoi consiglieri, egli ebbe, fin dai primi anni di regno, la grande fortuna di poter contare due uomini che seppero prestargli ottimi servigi come ministri: Massimo d'Azeglio e Camillo Cavour. «Il primo (citiamo ancora il Predari), senza essere un grand'uomo di Stato, aveva saputo per l'integrità del carattere, per quell'innato e lucido buon senso che assai spesso vince la scienza, per il fascino dell'ingegno vario ed ameno, per quel piglio franco e sicuro con cui la lealtà s'impone alla lealtà, cattivarsi la fiducia del principe, mentre affatto nuovo alle terribili difficoltà del trono, aveva bisogno di àncora e di pilota. Senza farsi nè dominatore, nè maestro, egli concorse a raffermarlo all'altezza di quei liberali intendimenti che attingevano vita e forza dalla grandezza e dalla bontà dell'animo suo, ma che venivano molto insidiati, e con insidie tanto più pericolose in quanto chè si aiutavano dei più dolci e sacri sentimenti del suo cuore.

"All'opera di Massimo D'Azeglio si aggiunse poco dopo quella di Camillo Cavour. Mente più vasta e al tempo stesso più pratica ed educata ai grandi concepimenti, questi seppe additare al giovane monarca nuove e intentate vie di grandezza e di gloria, che poterono facilmente persuadere ed infiammare l'animo suo, perchè aveva l'animo predisposto ad intraprendere, ed altrettanto capace a riuscire. I nomi di questi due uomini rimangono nella storia del Risorgimento italiano inseparabili da quello di Vittorio Emanuele: il primo per avere innamorato della vera gloria il principe, il secondo per avergli additati e preparati i mezzi di conseguirla ».

"Le vicende politiche che si svolsero in quel periodo furono molteplici e complesse, dominate appunto dalle figure del D'Azeglio, del Cavour, specialmente, di Urbano Rattazzi e di altri illustri politici. Noi ci limiteremo a notare che frattanto le utili riforme e le nuove leggi intese a svecchiare e a migliorare l'organizzazione dello Stato, andavano moltiplicandosi quasi incessantemente, e che Vittorio Emanuele «seguiva fin da allora il sistema che continuò poi per tutta la vita, quello cioè di mantenersi sulla retta via di un re costituzionale, chiamando al potere uomini ch'erano designati dalla illuminata pubblica opinione, legalmente rappresentata dalla maggioranza parlamentare"».

Nella politica estera, il re mostrava di sapere aspettare pazientemente, pur senza perdere mai di vista lo scopo supremo di liberare l'Italia dagli stranieri. Quando poi Luigi Napoleone Bonaparte, nel 1851, si rese arbitro della Repubblica francese, Vittorio Emanuele e Cavour non mancarono di prevedere che dalle muove condizioni della Francia sarebbe presto derivata una guerra facilmente sfruttabile a vantaggio della causa dell'indipendenza italiana.

Il Piemonte, frattanto, sotto gli auspici del suo re e del suo grande ministro, vedeva migliorare di continuo le condizioni interne e diventava uno Stato sempre più forte e rispettato. I patrioti italiani, fra i quali, mentre infierivano le repressioni dell'Austria e dei tiranneggi, Giuseppe Mazzini teneva incessantemente accesa la fiamma della sua appassionata propaganda nazionale, consideravano più che mai quell piccolo Stato come un paese di libertà e su di esso fondavano le loro maggiori speranze.

Non solo alla libertà, ma anche ad ogni civile progresso era infatti aperto il Piemonte, dove le riforme continuavano ardite e sintomatiche. Il ministro Rattazzi, continuando l'opera già intrapresa dal ministro Siccardi all'inizio del regno di Vittorio Emanuele, si propose di sopprimere certi ingiusti privilegi ecclesiastici, con vantaggio dello Stato, ed il re non gli negò il suo appoggio, dando prova di una volontà irremovibile di non opporsi ad alcun provvedimento che potesse, poco o molto, giovare al Paese. Secondo il progetto di legge del Rattazzi, si trattava di sopprimere molte corporazioni monastiche, d'incamerare i beni posseduti dalle comunità religiose, e nel tempo stesso di migliorare le condizioni dei parroci, ch'erano in miseria, mentre gli arcivescovi e i vescovi godevano di rendite eccessive.

"Vittorio Emanuele aveva, nota giustamente un suo biografo, più che principi, sentimenti religiosi, ed era attorniato dalla madre, dalla moglie, religiosissime, alle quali, contro le leggi ecclesiastiche, mettevano capo tutte le influenze clericali conservatrici. Furono adoperati tutti mezzi possibili per distaccare il re dalla politica anticlericale dei suoi ministri, ma furono inutili; e anteponendo ai domestici affetti il suo dovere di sovrano costituzionale, egli rimase saldo nel primo divisamento ».

Al principio del 1855, Vittorio Emanuele fu colpito dai lutti più gravi che potesse temere. Gli morirono successivamente la madre, la consorte, il fratello Ferdinando, duca di Genova, ch'era stato suo inseparabile ed amatissimo compagno nell'infanzia, nella gioventù, nelle battaglie. I clericali non trascurarono di approfittare di quei lutti, cercando di farli credere essere quelle manifestazioni dello sdegno divino per le riforme anti-ecclesiastiche allora in corso; ma con la sua consueta fermezza d'animo, il re seppe resistere e persistere, convinto com'era che le riforme in questione fossero sagge, giuste ed utili. La legge fu approvata dalla Camera e dal Senato; Pio IX lanciò la scomunica maggiore ed altre pene ecclesiastiche (luglio 1855) contro tutti coloro che l'avevano proposta, approvata e sanzionata.

"Ormai, scrive uno storico del Risorgimento, le idee di Cavour si erano talmente compenetrate con quelle di Vittorio Emanuele, che sovrano e ministro formavano un tutto indissolubile, operante per il bene d'Italia, spianando la via di un lieto avvenire. Vittorio era il monarca che poteva comprendere e approvare i concetti di un tanto consigliere, come Cavour era il ministro appunto atto a svolgere nelle vie spinose della pratica, fra le difficoltà della diplomazia, e contro l'opposizione dei meno veggenti, gli alti disegni del Re. Ciò parve manifesto fino da quando si trattò di far partecipare il Piemonte alla guerra di Crimea »

Come si sa, la partecipazione del Piemonte a quella guerra fu onorevole, ma, per quanto limitata dalle circostanze, la vittoria della Cernaia non passò inosservata. Seguì, nel novembre del 1855, il viaggio politico di Vittorio Emanuele a Londra e a Parigi. In quest'ultima capitale come in quella inglese, il re e Cavour si guadagnarono le simpatie dei governanti, ed ebbero delle promesse e degli affidamenti per la "questione italiana" , e nel Congresso di Parigi del febbraio 1856, Cavour riuscì a far prendere in considerazione quella questione, appoggiato dai rappresentanti della Francia e dell'Inghilterra.
Da allora, gli avvenimenti precipitarono, e noi, per non uscire dal nostro modesto compito, ci asterremo dall'elencarli e dall'analizzarli. Diremo soltanto che negli anni di passione c
he seguirono al Congresso di Parigi, carattere di Vittorio Emanuele II non si smentì mai, anzi si affermò sempre più ammirabile in diverse occasioni.

Dopo l'attentato di Felice Orsini contro Napoleone III, questo sovrano pretese dal Piemonte una apolitica interna repressiva contro gli elementi repubblicani e rivoluzionari, e Vittorio Emanuele gli scrisse fieramente :
« Se l'imperatore vuole che io usi qui (in Piemonte) della violenza, sappia che io perderei tutta la mia forza, ed egli tutte le simpatie di una nobile e generosa Nazione... Non si tratta così un fedele alleato... Io non ho mai tollerato violenza da chicchessia, io sono lo specchio dell'onore sempre senza macchia, e di questo onore non rispondo che a Dio e al mio popolo... Sono ottocentocinquanta anni che noi portiamo la testa alta, e nessuno me la farà abbassare; ma con tutto questo io non desidero altro c
he di essere suo amico ».

Comprendeva infatti il re italiano come in un "forse vicino conflitto" con l'Austria dovesse fare grande assegnamento su Napoleone. Tuttavia, egli non avrebbe voluto a nessun costo mutare la sua liberale politica interna.
« Il Cavour, a sua volta, compendia Italo Raulich, ad una nota arrogante del ministro francese Walewsky rispondeva imitando l'esempio del re e dichiarando che il suo governo non si sarebbe lasciato intimidire dalle minacce dei suoi potenti vicini. Tanta nobilità e fierezza indussero Napoleone a miglior consiglio, e il temporale svanì presto, lasciando anzi l'orizzonte più sereno e più lieto di promesse. Soltanto allora, quando ebbe fine il breve contrasto, Cavour fece approvare una legge per punire le congiure contro la vita dei sovrani stranieri e l'apologia del regicidio col mezzo della stampa ».

Seguì la Conferenza di Plombières, nella quale i patti dell'alleanza tra la Francia e il Piemonte contro l'Austria furono verbalmente conclusi (21 luglio 1858), e venne concertato il matrimonio del principe Gerolamo Napoleone, cugino dell'imperatore francese, con la sedicenne principessa Clotilde, primogenita di Vittorio Emanuele.

Cavour, ritornato a Torino, si abboccò segretamente col La Farina, capo della Società Nazionale, e con Garibaldi, perchè fosse intensificata la propaganda per la causa italiana e per la guerra imminente. Napoleone III, al ricevimento di capodanno del 1859, disse all'ambasciatore austriaco una frase minacciosa, e Vittorio Emanuele, dieci giorni dopo, nella solennità di un discorso della Corona, pronunciò parole che risuonarono in tutta Europa come un grido di guerra:
« L'orizzonte in mezzo a cui sorge il nuovo anno non è pienamente sereno. Confortati dall'esperienza del passato, andiamo risoluti incontro alle eventualità dell'avvenire. Questo avvenire sarà felice, riposando la nostra politica sulla giustizia, sull'amore della libertà e della pat
ria. Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei consigli dell'Europa, perchè grande per le idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacchè, nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi. Forti per la concordia, fidenti nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi i decreti della Divina Provvidenza ».

Urna narrazione, qui, della guerra del 1859 sarebbe superflua. I fatti di quella campagna sono ben noti a tutti gl'italiani, come pure la mirabile condotta di Vittorio Emanuele, il cui valore militare, sprezzante dei più gravi pericoli, rifulse specialmente nella battaglia di Palestro (ove gli zuavi lo proclamarono loro caporale) ed in quella di San Martino, nella quale il suo esempio fece conseguire alle milizie piemontesi una splendida vittoria dopo quindici ore di accaniti combattimenti. Accenneremo solo di sfuggita alle altre vittorie, anteriori a quest'ultima a quella di Montebello, a quelle garibaldine di Varese e di Como, a quella francese di Magenta, dopo la quale Napoleone III e Vittorio Emanuele entrarono solennemente in Milano (liberata, accolti con indescrivibile entusiasmo, ed infine a quella, pure francese, di Solferino.

Ed ecco Villafranca! Dopo quel rovinoso ed umiliante armistizio, concluso dall'imperatore francese ad insaputa di Vittorio Emanuele, Cavour consigliò al suo re di continuare la guerra da solo. Ma il Re non volle, "e, osserva un suo biografo già da noi citato, forse fu questa l'unica volta, in cui, armonizzando quanto al fine col suo prediletto ministro, discordasse da lui quanto alla natura dei mezzi. Ed è singolare che Vittorio Emanuele, audacissimo quando occorreva essere audace, si mostrasse questa volta, con intuito meraviglioso, più prudente di quel Cavour, ch'era pure un modello di politico. Ma la prudenza del re era la prudenza dei coraggiosi e dei forti, i quali, anche di mezzo ai disastri, con ferma serenità della mente sanno scegliere fra diverse strade quella che più sicuramente può condurli alla mèta. Vedeva il re che porre il suo piccolo esercito a fronte di quello austriaco (che nella battaglia di Solferino aveva spiegate forze superiori a quelle degli alleati presi insieme, e che per poco nel contrasto di un'intera giornata non era riuscito vincente) sarebbe stato come voler riperdere quanto si era fin lì guadagnato, frutto laborioso di dieci anni di sforzi, di costanza, di sacrificio. E vedeva egli ancora che la strada dell'avvenire era ormai spianata, che lo slancio dei popoli di tutta Italia non poteva essere arrestato, da alcun trattato diplomatico, e che il volere unanime degli Italiani, stretti ad un patto indissolubile intorno al suo nome, avrebbe finito col vincere tutti gli ostacoli frapposti al conseguimento dell'unità e dell'indipendenza nazionali. Fu dunque la fede nelle popolazioni d'Italia, la fede nei destini del Paese, che diede a Vittorio la forza d'animo che occorreva per non ribellarsi rovinosamente a quella pace, nè accasciarsi sotto il peso di una tanto amara delusione ».

I fatti gli diedero pienamente ragione. Seguirono i plebisciti e le annessioni dell'Italia Centrale, che compensarono la dolorosa cessione alla Francia della Savoia e di Nizza; seguì l'audace spedizione di Garibaldi in Sicilia, a cui Vittorio Emanuele non volle opporsi, dando prova di un intuito superiore a quello dello stesso Cavour. L'Eroe al grido di «Italia e Vittorio Emanuele! » passò folgorando da Marsala a Calatafimi, da Palermo a Milazzo, da Reggio a Napoli. A questo punto, per legalizzare l'opera della rivoluzione per mezzo della monarchia, e volgere a profitto di quest'ultima l'audace spedizione garibaldina, che poteva naufragare per l'opposizione del legittimismo delle potenze europee che vi vedevano solo un moto popolare, Re Vittorio, aiutato ancora una volta nel campo diplomatico dal genio di Cavour, invase col suo esercito le Marche e l' Umbria, e tra le meraviglie e le proteste dell'Europa intera, le conquistò ed annesse per i plebisciti al suo Regno; poi scese nel Mezzogiorno a dare il colpo di grazia ai Borboni.

A Teano si incontrò con Garibaldi, che lo salutò Re d'Italia; poi con Garibaldi entrò in Napoli, che già si era dichiarata sua da due settimane; e infine ritiratosi a Caprera l'Eroe - abbattè per sempre il regno borbonico delle Due Sicilie (marzo 1861).

A Torino, frattanto, il 18 febbraio 1861, osi era riunito il Parlamento, nel quale per la prima volta erano raccolti i rappresentanti di ventidue milioni d'Italiani. (Oltre ai deputati piemontesi, vi erano infatti quelli .delle regioni annesse, comprese l'Umbria e le Marche).
Il 14 marzo Vittorio Emanuele fu proclamato Re d'Italia, e il 17 avvenne la proclamazione ufficiale, che fu celebrata con feste entusiastiche in quasi tutte le città d'Italia. I principi spodestati e l'Austria protestarono. Soltanto l'Inghilterra riconobbe immediatamente il nuovo regno. Il cardinale Antonelli cercò di promuovere un congresso delle Potenze, per garantire il potere temporale del Papa, ma non vi riuscì. Mancavano ancora all'Unità italiana le Venezie ed il Lazio.

Densa di eventi e di dibattiti fu la vita politica italiana negli anni che seguirono, ma la figura di Vittorio Emanuele vi campeggiò sempre nobile ed alta. Morì Cavour, dopo aver fatto approvare dal Parlamento una mozione esprimente il voto che « Roma, capitale acclamata dall'opinione nazionale, fosse resa all'Italia »; seguirono i ministri Ricasoli e Rattazzi, che dovettero lottare contro formidabili difficoltà per dare assetto al regno; si dovettero combattere il brigantaggio e le ultime resistenze borboniche, e frattanto le questioni di Venezia e di Roma erano mantenute vive dal Partito d'azione.

Nel 1862 si ebbero i generosi tentativi garibaldini per la conquista del Veneto e per quella di Roma. Quest'ultimo ebbe l'epilogo dolorosissimo e non necessario di Aspromonte. Nel 1863, Marco Minghetti assunse la presidenza del Gabinetto, e si accinse anzitutto a vincere le difficoltà della finanza dello Stato, contraendo un nuovo prestito che ebbe successo. Vittorio Emanuele, quando seppe che per quei provvedimenti si poteva ormai sperare in un vicino assetto del pubblico erario, scrisse al ministro, dalla Venaria, una lettera che fra l'altro diceva : « Possa questo fatto compiuto essere foriero di bellici eventi e condurci al compimento delle glorie italiane. Lei sa come queste glorie siano il sogno di tutta la mia vita, e racchiudano tutte le mie aspirazioni. Fermo nella fede, di cuore impavido e sereno, le aspetto e le otterremo ».

E' dunque dimostrato come per il re al miglioramento delle finanze si connettesse strettamente il proposito di assicurare il compimento delle glorie italiane. « Egli sapeva, fu iscritto, che il fato d'Italia non si sarebbe compiuto senza l'acquisto di Venezia e di Roma, al quale teneva di continuo rivolta la mente ».

Sempre per non ripetere, in questa biografia, che vuol essere succinta, la storia di un periodo di politica italiana denso di fatti, sorvoleremo su quanto avvenne, appunto nel campo politico fra il 1863 e il 1866: sulla non chiara convenzione del 1864 con la Francia, sui dibattiti con la Santa Sede, sul trasporto della capitale da Torino a Firenze, che nel 1865 fu causa di tumulti gravi a Torino, e sulla conclusione dell'alleanza italo-prussiana.
Vittorio Emanuele fu anche in quel periodo un perfetto re costituzionale, il capo ideale di tutti i patrioti anelanti al compimento dell'unità della Nazione.

La guerra del 1866, fu per lui, causa di profonde amarezze, fra le quali ebbe soltanto il conforto di poter essere orgoglioso dell'eroica condotta dei suoi figli Amedeo ed Umberto, che combatterono da prodi a Custoza e a Villafranca. Custoza, Lissa, la pace senza gloria: altrettanti fierissimi dolori per il re! Ma Venezia divenne italiana.

Ormai l'Italia, « fatta ma non compiuta » secondo una frase dello stesso Vittorio Emanuele, si sentiva più che mai attratta verso Roma, che doveva essere sua capitale. Il re aspettava, irremovibile nella sua volontà forte e fiduciosa, mentre il Paese languiva fra le strettezze finanziarie, le meschine lotte politiche, le complicazioni e le ansie della « questione romana ».

Non aspettò Garibaldi, non aspettarono i più ardenti patrioti. Villa Glori, Monterotondo, Mentana... Episodi più gloriosi della stessa conquista ormai imminente! Vittorio Emanuele, dopo Mentana, ebbe a dire al marchese Pepoli che gli chassepots francesi avevano trafitto mortalmente anche il suo cuore di padre e di Re. Aggiunse : « Mi pare che le palle mi strazino le carni, qui (indicava il petto...). È uno dei più grandi dolori che io abbia provato nella mia vita. Poveri giovani!... ». E mandò a Parigi la sua energica protesta, allorchè seppe che il ministro Rouher, in piena assemblea, aveva dichiarato che "gli Italiani non avrebbero giammai avuto Roma".
«Ah, giammai? - esclamò - giammai!... Glielo faremo veder noi il giammai! » (P. De Luca: « I Liberatori »).

E venne il 1870, venne la liberazione di Roma. Mentre a Firenze, dopo la memorabile giornata del 20 settembre, i ministri discutevano quando sarebbe stato opportuno che Vittorio Emanuele fosse entrato a Roma; e alcuni sostenevano che il re non dovesse muoversi se non insieme al Governo e al Parlamento, arrivò la notizia (il 28 dicembre) che Roma era stata in modo drammatico inondata dal Tevere. Vittorio Emanuele, avventuroso, impulsivo, decise di correre subito alla nuova capitale, dove arrivò la mattina del 31 dicembre; e passò tutta la giornata visitando, angosciato, i luoghi più colpiti dal flagello, e ripartì la sera, dopo avere lasciato in Campidoglio una cospicua somma per i danneggiati.

Il 1870 - anno fatidico nella storia del mondo - segnò l'apogeo della meritata fortuna di Vittorio Emanuele II. In quell'anno stesso egli vide il suo secondogenito Amedeo salire sul trono di Spagna. E il 5 dicembre, in una solenne seduta del Parlamento nel Palazzo Vecchio di Firenze, disse con nobile orgoglio parole che rimasero indelebili nella storia del nostro Paese: « Con Roma capitale d'Italia ho sciolto la mia promessa, e coronata l'impresa, che ventitrè anni or sono veniva iniziata dal magnanimo mio genitore. Il mio cuore di re e di figlio prova una gioia solenne nel salutare qui raccolti per la prima volta tutti i rappresentanti della nostra patria diletta, e nel pronunciare queste parolle : L'Italia è libera ed una. Ormai non dipende che da noi farla grande e felice ».

Il 1° luglio 1871 si trasferirono a Roma i ministeri, e il giorno successivo fece il solenne ingresso nella Capitale il Re d'Italia, che pose la sua residenza nel Quirinale. Il 27 novembre si aprì il primo Parlamento nazionale in Roma, e, nel discorso della Corona, Vittorio Emanuele affermò nuovamente la nobiltà del suo animo e la composta grandezza delle sue vedute:
«L'opera a cui consacrammo la nostra vita è compiuta! Dopo lunghe prove d'espiazione, l'Italia è restituita a sè stessa ed a Roma. Qui, dove il nostro popolo, dopo la dispersione di molti secoli si trova per la prima volta raccolto nella maestà dei suoi rappresentanti... qui, dove noi riconosciamo la patria dei nostri pensieri, ogni cosa ci parla di grandezza, ma nel tempo stesso ogni cosa ci ricorda i nostri doveri. Le gioie di questi giorni non ce li faranno dimenticare.
« Noi abbiamo riconquistato il nostro posto nel mondo, difendendo i diritti della Nazione. Oggi che l'unità nazionale è compiuta e si apre una nuova era della storia d'Italia, non falliremo ai nostri principi. Risorti in nome della libertà, dobbiamo ricercare nella libertà e nell'ordine il segreto della forza e della riconciliazione... »

Negli ultimi anni della sua vita, il primo Re d'Italia assistè ad un periodo di pace e di raccoglimento durante il quale il Paese cominciò a rifarsi a poco a poco dei danni materiali subiti attraverso tante difficoltà e tante tempeste.

Egli morì il 9 gennaio 1878, e l'Italia tutta tributò una vera apoteosi al monarca che aveva desiderata e meritata specialmente la gloria d'impersonare le aspirazioni della Nazione e di essere chiamato il primo soldato dell'indipendenza nazionale. Molto fu scritto del carattere singolare ed attraente di questo re che godette, in vita ed anche dopo morte, di una grandissima popolarità, e noi ci asterremo dal ripetere i giudizi, gli elogi, gli aneddoti, i particolari più o, meno veritieri di vita privata, che ogni italiano ha certamente occasione di leggere in mille altri libri.

Dovremmo invece accennare qui, secondo il metodo seguìto nelle biografie dei predecessori, ai figli di Vittorio Emanuele II, ma lo faremo nei successivi cenni biografici.

 

* L'ITALIA NELL'ANNO 1861 ( Primo Regno d'Italia - Con annessione Regno 2 Sicilie )
* NELL'ANNO 1866 ( dopo la conquista del Veneto )

* NELL'ANNO 1870 (l'entrata a Roma )