BIOGRAFIA
(n. 1798 - m- 1849) - Re di Sardegna 1831 -1849

Con Carlo Alberto, salì al trono di Sardegna il ramo dei Savoia-Carignano che successe al ramo primogenito della Dinastia Sabauda.
I Savoia-Carignano avevano avuto per capostipite, come vedemmo, il principe Tomaso, secondogenito del duca Carlo Emanuele I, nato il 21 dicembre 1596, morto il 22 gennaio 1656.
Quando si trattò del matrimonio di questo Savoia con la principessa Maria di Borbone, contessa di Soissons, il padre lo creò marchese di Busca, ma questo titolo non piacque alla Corte di Francia. Allora Carlo Emanuele diede a suo figlio il titolo di principe di Carignano, che fu giudicato accettabile e degno di essere portato dalla figlia di Carlo di Borbone, conte di Soissons e di Dreux.

Di Tomaso di Carignano noi avemmo occasione di occuparci diffusamente, in alcune delle precedenti biografie. Lo vedemmo valorosissimo capitano nelle guerre di Carlo Emanuele I ed in quelle di Fiandra contro i Francesi, e accennammo alla grave guerra civile che suscitò poi in Piemonte, insieme col fratello cardinale Maurizio, contro la reggenza di Madama Reale. Risolto il dissidio per la successione di Savoia, egli si coprì di gloria con lo scacciare gli Spagnoli dal Piemonte e col combattere in Francia come luogotenente generale di Luigi XIV.

Ebbe cinque figli, il primo dei quali, Emanuele Filiberto (1628-1709), fu sordomuto ma intelligentissimo, tanto da riuscire dotto in scienze e lettere ed anche valoroso soldato.
Degno fratello di questo principe fu Eugenio Maurizio (1633-1673), primo conte di Soissons, che dalla carriera ecclesiastica passò a quella delle armi, nella quale molto si distinse, combattendo egli pure per Luigi XIV nei Paesi Bassi. Figlio di questo Eugenio Maurizio e di Olimpia Mancini, fu il celebre Principe Eugenio, al quale dedicammo uno speciale cenno biografico.

Primogenito di Emanuele Filiberto di Carignano fu Vittorio Amedeo (1690-1741), famoso per la vita dissoluta che condusse in Francia e in Piemonte. Questo Vittorio Amedeo sposò una figlia naturale di Vittorio Amedeo II, Vittoria Francesca, nata dalla contessa di Verrua e legittimata. Degli otto figli ch'egli ebbe, il continuatore della linea Savoia -Carignano fu Luigi Vittorio, che, molto amato da Carlo Emanuele III, manifestò eccellenti qualità militari, raggiunse alti gradi nell'esercito, e sposò (1740) Cristina Enrichetta d'Assia Rheinfels-Rottenburg (sorella della regina Polissena, terza moglie di Carlo Emanuele), dalla quale ebbe, nove figli, il primogenito dei quali, Vittorio Amedeo, continuò a sua volta la linea dei Carignano, lasciando un unico figlio: Carlo Emanuele (1770-1800), che dopo aver militato con valore dal 1793 al 1796, sposò Maria Cristina Albertina di Sassonia-Curlandia e si acquistò fama di uomo liberale, quindi degenere dalle tradizioni aristocratiche e assolutistiche fino ad allora seguite dai Savoia.

Figlio di questo Carlo Emanuele fu il principe Carlo Alberto, nato in Torino il 2 ottobre 1798, e destinato ad avere una parte tanto importante nella storia d'Italia.

Dopo avere accennato agli antenati di questo principe e prima di parlare dei fatti della sua vita, sarà opportuno un rapido sguardo all'ambiente in cui egli nacque.
Le idee liberali risvegliate dalla guerra d'America avevano messa in agitazione tutta la gioventù dell'epoca, e Carlo Emanuele di Carignano, educato in un collegio francese, ne era uscito imbevuto di quelle idee, tanto da scandalizzare la più vecchia aristocrazia piemontese.
Questa aristocrazia provò poi una specie di sbigottimento, quando, sposata Albertina di Curlandia, Carlo Emanuele, stabilitosi con la moglie in Torino, nel palazzo di Carignano, vi portò un soffio di vita nuova, fatta di fasto e d'allegria, di eleganza e di spensieratezza. I ricevimenti, le feste da ballo, i grandi pranzi, si susseguirono senza tregua, in quella residenza principesca, e all'alta società torinese, eccettuati i parrucconi, non tardarono a piacere quella libertà e quella cordialità con cui la giovane principessa, cresciuta lontana dall'etichetta e dalle soggezioni di qualsiasi Corte, amava accogliere i suoi invitati.

In quel periodo soleva frequentare il palazzo Carignano anche Carlo Felice, figlio del re, quantunque lo irritasse (come egli lasciò scritto in certe sue lettere) il modo di vestire della principessa, sempre alquanto bizzarro. Il fascino di Albertina vinse a poco a poco anche i più restii, che d'altronde si sentivano soffocare nella pesante atmosfera della Corte, dove incombeva la paura dei rivoluzionari francesi, lombardi e piemontesi, mentre nessuno era capace di far qualcosa per evitare la burrasca che si sentiva imminente. E intorno al principe e alla principessa di Carignano che non escludevano dai loro ricevimenti chi manifestasse tendenze liberali, s'introdussero anche degli abili agenti francesi, incaricati di far proseliti alla causa della rivoluzione. Così, quando Carlo Emanuele IV dovette rassegnarsi ad andarsene da Torino con tutta la sua famiglia, i Carignano, riconosciuti come amici dei rivoluzionari, rimasero indisturbati nel loro palazzo.

E più tardi, allorché Torino si costituì in Repubblica democratica, essi non esitarono ad aderire al nuovo regime. Carlo Emanuele si arruolò nella Guardia nazionale come un cittadino qualunque, rinunciando ai propri eventuali diritti alla corona sabauda e privandosi, per donarli patriotticamente alla Repubblica, dei propri gioielli, non escluso il collare dell'Annunziata.
Sua moglie, divenuta la cittadina Albertina, e più di lui infatuata per le novità repubblicane, andò in giro per Torino, tenendo in braccio il piccolo Carlo Alberto nato da un paio di mesi, a guardar ballare nelle piazze intorno agli alberi della libertà « piantati, osserva uno storico, da quei medesimi francesi che il 2 settembre 1792 avevano fatto, a Parigi, così feroce strazio della principessa Maria Teresa di Lamballe, zia del marito di Albertina ».

Nonostante tutto questo, la fede repubblicana dei principi di Carignano sembrò sospetta ai repubblicani francesi, ai quali facevano anche gola i molti beni posseduti da Carlo Emanuele; sicché quando le sorti della Repubblica parvero vacillare, la coppia principesca venne portata in ostaggio a Chaillot, dove visse nella casa di un certo Villement, addetto alla polizia e incaricato di sorvegliarla.
Carlo Emanuele vi morì di paralisi, il 16 agosto, lasciando Carlo Alberto, che non aveva ancora due anni, e una bambina, Maria Elisabetta, di quattro mesi appena.

Rimasta vedova, la madre di Carlo Alberto, che non avrebbe saputo starsene lontana dalla politica, non volle lasciare Parigi, dove, assistita dal conte Alessandro di Saluzzo, suo lontano parente, riuscì poi, sotto il Consolato e l'Impero, a rivendicare una parte dei beni del figlio e a conquistarsi la simpatia di Napoleone. Questi si prese a cuore la sorte del giovane Carlo Alberto, lo autorizzò ad adottare uno stemma speciale, come conte di Carignano, e lo nominò luogotenente del 6° reggimento di dragoni francesi. Si disse allora che Napoleone era generoso col figlio perché si era invaghito della madre, alla quale voleva far sposare un principe della propria Casa.
Questo può essere vero, ma sta il fatto che la principessa di Carignano, piuttosto che con un Napoleonide, preferì rimaritarsi con un oscuro visconte Thibaud de Montléart, semplice uditore al Consiglio di Stato, brutto, piccolo, claudicante, figlio di una dama francese che era stata alla Corte sabauda di Torino.

Carlo Alberto, mentre sua madre rimaritata viaggiava per l'Europa con missioni politiche, si vide sbalestrato qua e là. Finì poi con l'esser messo in una pensione, tenuta, presso Ginevra, da un certo professore Vaucher, protestante, entusiasta di Giangiacomo Rousseau. Così egli crebbe abbandonato a sé stesso, con la mente piena di fantasticherie e il cuore gonfio di rammarichi, senza poter nutrire affetto per la madre, né simpatia per alcuno, diventando per forza di cose, sempre più scettico, mentre si preparava alla vita « senza un indirizzo morale e mentale che fosse ben determinato».

Le condizioni speciali dei Carignano e l'esilio dei Savoia avevano impedito al re di Sardegna di chiamare presso di sè il giovane principe, unico rampollo della famiglia; ma Vittorio Emanuele I ci pensava, e il suo desiderio doveva essere condiviso dalla principessa Albertina, che certo avrebbe visto con piacere il figlio al posto che gli spettava. La Restaurazione, finalmente, permise di regolarizzare la condizione singolarissima del principe di Carignano, che poté finalmente esser condotto a Torino, per occupare nella famiglia del Re di Sardegna il posto a cui aveva diritto.

Pure essendo erede presuntivo della corona, poiché il re e suo fratello Carlo Felice non avevano prole maschia, egli dovette sentirsi alquanto a disagio, a Corte, dove non poteva esser ben visto a cagione della sua educazione liberale e del grado che aveva avuto nell'esercito napoleonico.
« Solo per il vantaggio di vedere perpetuata la dinastia e quindi delusa l'Austria nell'intima brama di goder le spoglie della Casa di Savoia, nota Italo Raulich, Carlo Alberto venne ammesso a far parte della famiglia reale, che però non poteva dissimulare una certa alterigia verso di lui, per il torto ch'egli aveva di esser nato da un padre il quale, a vergogna e scandalo de' suoi parenti, aveva osato stingersi di liberalismo. Il giovane si trovò così, in quell'arcigna Corte di Torino, a dover diffidare di tutti, e benchè capace di tenerezza e d'affetto, crebbe freddo, taciturno, sospettoso».

Nominato « gran mastro » d'artiglieria, Carlo Alberto si diede con passione allo studio, delle scienze militari. Nel 1817 sposò Maria Teresa, figlia di Ferdinando III, granduca di Toscana, dalla quale ebbe, nel 1820, il primo figlio, che fu Vittorio Emanuele duca di Savoia, il futuro Re d'Italia.

« Carlo Alberto, riassume un altro storico, era spettatore di tutti gli errori a cui ministri appassionati e ignoranti traevano il re Vittorio Emanuele I, il quale nel lungo esilio era rimasto estraneo al progresso che le idee politiche e sociali avevano fatto in quel tempo. Il giovane principe, ammaestrato dalle glorie e dalle sventure di Napoleone, educato alle grandi riforme derivate dalla Rivoluzione francese, non poteva, senza un senso di dolore che talora prorompeva in disapprovazione, vedere i governanti del Piemonte sforzarsi di rialzare l'antico edificio anteriore al 1798, ripudiando quei principi di progresso che ormai avevano ricevuto dal consenso delle nazioni civili una sanzione solenne. Questa opposizione che il giovane principe faceva al governo assoluto di quel tempo, e il sapersi come egli fosse stato più di una volta consigliere al re di una costituzione, e desideroso di una guerra contro d'Austria per costringerla a sgombrare dalla terra italiana, gli procurarono ben presto le simpatie dei liberali, non solo del Piemonte, ma di tutte le province italiane, che in lui vagheggiavano il futuro redentore d'Italia. Così sorse la funesta illusione dei Carbonari, i quali dal franco e liberale linguaggio di Carlo Alberto traevano motivo di credere ch'egli si fosse affratellato alla loro società. Dalla quale illusione provennero poi quelle false accuse di tradimento che amareggiarono la vita di questo principe magnanimo ed infelice ».

Si deve d'altronde osservare che Carlo Alberto, prima come principe reggente e poi come re di Sardegna, fu un personaggio mutevole e complicato, la cui psicologia certamente eccezionale poté più tardi essere interpretata in molti modi diversi. Noi ci limiteremo ad accennare oggettivamente e sinteticamente, secondo il carattere che questo biografia vuole avere, ai principali fatti della vita di questo personaggio, senz'alcun preconcetto favorevole o contrario, ricorrendo volentieri a citazioni piuttosto ampie di qualcuno degli autori che a parer nostro ne scrissero con maggiore imparzialità e con maggiore autorevolezza.

« L' atto di abdicazione di Vittorio Emanuele I - scrive il Predari, autorevole anche per relativa vicinanza di tempo - mentre sconcertò il partito a cui Carlo Alberto più si accostava, e che tendeva ad ottenere per mezzo stesso del re la libertà e l'indipendenza desiderate, rese più intraprendente l'altro partito che avrebbe voluto avere tutto ciò senza ed anche contro il re. Crebbe intanto il sommovimento a tal punto che il municipio torinese, temendo, e forse anche esagerando a sé stesso gli effetti di una violenta insurrezione popolare, mandò una deputazione a Carlo Alberto reggente, perché gli dimostrasse l'assoluta necessità dell'immediata promulgazione della Costituzione, e della guerra contro l'Austria.
« Carlo Alberto tentò inutilmente di persuadere quella civica deputazione, e coloro che ne appoggiavano la domanda, che sarebbe stato vano e pericoloso il far concessioni che oltrepassassero i suoi poteri di reggente. Ma tali argomentazioni non riuscirono a persuadere alcuno di quei deputati, ai quali pareva già di sentir tuonare il cannone dalla cittadella e di avere davanti agli occhi i pugnali dei Carbonari. Le istanze dei capi civici smossero a poco a poco la resistenza dei capi militari che attorniavano il reggente... Vittorio Emanuele aveva preferito l'abdicazione allo spargimento del sangue cittadino; Carlo Alberto, che teneva il sommo potere in nome altrui, doveva forse contro sì nobile esempio riempire di stragi la capitale?

"Quindi, in tali estremi frangenti, cedendo alla suprema necessità delle cose, egli dichiarò di non avere facoltà di toccare le leggi fondamentali dello Stato; soggiunse che era necessario aspettare perciò gli ordini del nuovo re, e che tutto ciò ch' egli, come semplice reggente, avrebbe potuto fare nel senso dell' opinione pubblica, sarebbe stato nullo; che frattanto, se tutte le autorità presenti credevano necessario di condiscendere alle domande degl'insorti per evitare maggiori disastri, egli avrebbe permesso che si pubblicasse la Costituzione di Spagna, purché tutte le autorità suddette unanimemente consentissero a sottoscrivere la seguente dichiarazione
"Noi sottoscritti, interpellati da S. A. R. il principe reggente, dichiariamo che le circostanze attuali sono così gravi, e che il pericolo é così imminente, da farci pensare che per la salute pubblica e per la necessità delle cose sia indispensabile di promulgare la Costituzione spagnola con le modifiche che S. M. il Re la Rappresentanza nazionale giudicheranno convenienti".

Questa dichiarazione fu sottoscritta il 13 marzo 1821 da tutte le autorità civili e militari, e, dopo la firma di essa, Carlo Alberto promulgò la Costituzione, con un proclama nel quale affermava di promulgarla « nella fiducia che S. M. il Re, mosso dalle stesse considerazioni, sarà per rivestire questa deliberazione della sua sovrana approvazione ». Ed anch'egli giurò fedeltà alla Costituzione, ma aggiungendo queste parole: «Giuro altresì d'essere fedele al Re Carlo Felice ».

Ma, da Modena, Carlo Felice non solo rifiutò la sua sanzione alla Costituzione, ma protestò violentemente contro ogni atto della reggenza. E Carlo Alberto « attribuendo la sdegnosa pertinacia del Re nel rifiutare la Costituzione, più che all'animo suo alle arti di chi a Modena lo circondava e lo ingannava con false relazioni circa il vero stato del regno, scrisse e riscrisse al Re stesso per meglio illuminarlo ».

Carlo Felice, tuttavia, rimase inflessibile; con una lettera imperiosa, intimò a Carlo Alberto di recarsi a Novara, dove il generale La Tour gli avrebbe comunicati i suoi ordini. Carlo Alberto, che «credeva non potere, senza farsi spergiuro, resistere ai comandi di un re cui aveva giurata fedeltà », obbedì. A Novara trovò l'ordine di proseguire senza interruzione fino a Modena, dove era chiamato a render ragione di quanto aveva fatto, ed obbedì ancora, «forse anche persuaso, osserva giustamente uno storico del nostro Risorgimento, che una diversa condotta avrebbe soltanto aggravate le condizioni del paese, tanto più considerando che province intere, come Savoia e Nizza, rimanevano fedeli all'assolutismo, che Genova era agitata, ma non decisa a sostenere una lotta d'accordo con i Carbonari del Piemonte; e che nel Piemonte stesso la costituzione era stata voluta da una parte dell'esercito e da una minoranza borghese non già dalla grande maggioranza del popolo ».

Giunto a Modena, Carlo Alberto non fu nemmeno ricevuto dall' inesorabile Carlo Felice, che gli ordinò di recarsi con la moglie Maria Teresa e col figlioletto Vittorio Emanuele (che aveva allora poco più di un anno) a Firenze, presso il granduca di Toscana, suo suocero.
Frattanto, gl'insorti piemontesi, assaliti dalle milizie regie e da quelle austriache presso Novara, erano stati sconfitti.

La rivoluzione finì, seguìta dalla terribile reazione a cui già accennammo parlando di Carlo Felice. Questi rientrò in Torino da vincitore, come dicemmo, e Carlo Alberto rimase con la sua famiglia a Firenze, nella villa di Poggio Imperiale. « Il duca di Modena e l'imperatore d'Austria, nota un biografo, sollecitavano il Re di Sardegna perché privasse il principe di Carignano del diritto di succedergli nel regno, abolendo la legge salica. E forse avrebbero ottenuto il loro intento, se Luigi XVIII re di Francia non vi si fosse opposto per provvedere alla sicurezza del suo regno, la quale sarebbe stata minacciata, quando il Piemonte e la Savoia fossero venuti in dipendenza dell'Austria. In questa opposizione si unì al re di Francia anche l'imperatore di Russia, il quale non poteva vedere di buon occhio un ulteriore accrescimento della potenza austriaca. Anzi, per questi gelosi pensieri, la Francia e la Russia chiesero che al più presto passibile sgombrassero gli eserciti austriaci occupanti il Regno di Napoli e il Piemonte. E vollero che la legge di successione fosse mantenuta qual'era negli Stati Sardi, eccetto il caso che il principe di Carignano risultasse veramente reo di fellonia, cioé partecipe di una congiura tendente a porre sul suo capo la corona di Casa Savoia, sottraendola al legittimo re Carlo Felice».

Adunatosi nell'autunno del 1822 il Congresso della Santa Alleanza, in Verona, Carlo Alberto giudicò opportuno inviare al Congresso stesso un memoriale giustificativo della propria condotta di fronte alla rivoluzione piemontese delI' anno antecedente.
« Ma le Potenze - riassume un altro biografo - vollero da lui una prova certa del suo ravvedimento; ed egli dovette lasciare la moglie e i due figli (poiché nel frattempo, il 15 novembre 1822 in Firenze, gli era nato il secondogenito, Ferdinando) ed imbarcarsi per Marsiglia di dove passò, granatiere volontario nel corpo francese di spedizione che il duca di Angouléme conduceva in Spagna a combattere contro i costituzionali spagnoli, nelle file dei quali militavano numerosissimi i profughi piemontesi, lombardi, emiliani e napoletani del 1821. Così la posizione di Carlo Alberto era nettamente stabilita, di fronte al principio rivoluzionario, contro il quale muoveva armata mano"
« Scettico, sfiduciato, da diversi sentimenti combattuto, Carlo Alberto diede prova in Spagna di quel coraggio disperato che é proprio di chi tutto risica, sapendo di non avere gran che da perdere e tutto da guadagnare. Il 23 agosto 1823 alla presa del Trocadero, davanti a Cadice, si meritò le spalline di ufficiale dei granatieri; e, finita la guerra, tornò in Francia dove, fermatosi un poco a Parigi, gli piovvero addosso encomi ed onorificenze dal restaurato re di Spagna, dal re Luigi XVIII, dal conte d'Artois, che fu poi Carlo X.
Dalla corte di Francia fu interceduto per lui presso il re Carlo Felice, che lo riammise in Piemonte, nell'avito castello dei Carignano, a Racconigi, con la famiglia; lo nominò maggior generale nell'esercito, e lo riconobbe per erede. La conciliazione col re fu definitivamente suggellata in un convegno seguìto nell'estate del 1825 in Genova con l'Imperatore d'Austria e con Carlo Felice ».

"Morto Carlo Felice nel 1831, il regno di Carlo Alberto ebbe inizio con grandi feste e fra grandi speranze. I Piemontesi si aspettavano dal nuovo sovrano grandi novità ed anche uno statuto costituzionale. « Ma, sia che l'animo suo a ciò non fosse disposto, sia che non gli paresse forte abbastanza il Piemonte per sfidare gli sdegni e le vendette dell'Austria, le cose rimasero nel primordi del suo regno, quali erano state lasciate da Carlo Felice. Gli accusati dell'ultima congiura furono rimessi in libertà, ma i condannati del ventuno rimasero nelle carceri e nell'esilio; fu creato un consiglio di Stato, ma i consiglieri e le materie da discutersi erano ad arbitrio del re, il voto era puramente consultivo ».

Carlo Alberto nominò ministro guardasigilli il conte Barbaroux, uomo integerrimo ed assai dotto, che nella Giustizia del regno introdusse opportune riforme, soprattutto abolendo certe pene corporali e comunque eccessive, mentre una Commissione speciale veniva incaricata di preparare il nuovo Codice civile e il nuovo Codice penale, «informati a criteri di civiltà progressiva». (Questi codici vennero poi promulgati solennemente, il primo il 20 giugno 1837, il secondo il 26 ottobre 1839).

Ma il nuovo re si occupò in modo particolare dell'esercito, che riformò ed aumentò, secondo i consigli del Villamarina, ministro della guerra. Gli effetti dei miglioramenti risultarono superiori alle previsioni quando, nel 1839, tutte le milizie del regno di Sardegna vennero adunate al campo d'istruzione di Cirié, dove i commissari francesi ed austriaci, inviati dai loro governi, ebbero modo di formarsi di quell'esercito, e specialmente della sua artiglieria, un ottimo concetto.

Frattanto, la vecchia Corte piemontese aveva verso il nuovo re un contegno sospettoso, e gli era nascostamente contraria. Tuttavia, vedendolo irresoluto ed assai propenso alle pratiche religiose, non disperava di dominarlo. « Clericali e sanfedisti si studiavano di renderlo nemicp dei liberali, devoto all'Austria ed al papa. I ministri Della Torre, d'Escaréne, Pralormo, erano partigiani dell'Austria; il conte Bombelles austriaco, e monsignor Tiberio Pacca spadroneggiavano nella Corte ».

Era allora in circolazione, in Piemonte ed anche negli altri Stati italiani, la famosa lettera di Giuseppe Mazzini intitolata "A Carlo Alberto di Savoia, un italiano". Il grande apostolo aveva concepito e propugnava l'idea dell'Italia unita sotto lo scettro costituzionale del re di Sardegna. La lettera diceva a Carlo Alberto « S'io vi credessi un re volgare, d'anima inetta o tiranna non v'indirizzerei la parola dell'uomo libero... La natura creandovi al trono vi ha creato anche ad alti concetti ed a forti pensieri, e l'Italia sa che voi avete di regio più che la porpora... Vi fu un momento - continuava Mazzini - in cui le madri maledissero il vostro nome e le migliaia vi salutarono traditore, perché voi avevate divorata la speranza e seminato il terrore... Terrore, sire!... Ma il vostro cuore lo ha già rinnegato, la é carriera di delitto e di sangue; né voi vorrete farvi il tormentatore dei vostri sudditi. Dio vi ha posto al sommo grado della scala sociale, vi ha cacciato al vertice della tirannide. I milioni stanno d'intorno a voi, invocandovi padre, liberatore. E voi?! darete ferri?... porrete il carnefice accanto al trono?... ricaccerete l'umanità nel passato?... GIi italiani vogliono libertà, indipendenza ed unione... La Corona d'Italia non aspetta che l'uomo abbastanza ardito per concepire il pensiero di cingerla... Ponetevi alla testa della nazione e scrivete sulla vostra bandiera: "Unione, Libertà, Indipendenza"; proclamate la santità del pensiero; dichiaratevi vindice, interprete dei diritti popolari, rigeneratore di tutta Italia! Liberate l'Italia dai barbari! Edificate l'avvenire... Incominciate un' era da voi!... Siate il Napoleone della Libertà italiana... Prendete quella Corona, essa é vostra, purchè vogliate ».

Carlo Alberto (dice un biografo imparziale) non ascoltò la voce di Mazzini, la voce del patriottismo italianoe, per allora, risposa con l'editto 25 ottobre 1831 incaricando il conte Benedetto Andreys di Cimiè, consigliere di Stato, di continuare le procedure tanto contro i militari quanto contro i borghesi imputati di tentativi contro il bene delle istituzioni. Si perseguitavano perfino i preti a profitto dei gesuiti; era sorvegliato Vincenzo Gioberti; si stabiliva una censura così stretta e ridicola che la famosa congregazione dell'Indice poteva parere a suo confronto un istituto molto liberale. E' vero che nel 1832 Carlo Alberto istituiva la Pinacoteca Reale, fondava nel 1833 l'Accademia Albertina; ma nello stesso tempo, con regio editto 4 agosto 1833 stabiliva che la cognizione dei delitti militari o come tali dalla legge considerati ancorché commessi da persone non addette alla milizia doveva appartenere esclusivamente ai Consigli di guerra. "Editti di Carlo Alberto firmati dai ministri Caccia, Pensa, Barbaroux, d'Escaréne, comminavano - scrive Mazzini - a chi non denunciasse i possessori dei numeri del giornale la Giovine Italia, due anni di prigione e l'ammenda, promettendosi ai delatori metà della somma e il segreto".

Questa era la risposta categorica di Carlo Alberto all'appello italianissimo rivoltogli da Mazzini; ed una Commissione Criminale speciale veniva istituita per giudicare le cospirazioni procedenti dalla Giovine Italia. Essendosi poi scoperto che nel tentativo del febbraio 1831 erano compromessi alcuni militari delle guardie, l'intero corpo veniva senz'altro disciolto; ed ordinavasi ogni cosa alla più reazionaria inquisizione ».

Verità, queste, purtroppo innegabili, sulle quali alcuni storici recenti preferirono sorvolare, dimenticando volutamente che nella storia l'eloquenza dei fatti rimane indelebile, anche se negata o trascurata.

«La scoperta - riassume Italo Raulich - di alcuni opuscoli della "Giovine Italia" nella caserma d'artiglieria a Genova fece temere d'improvviso al governo sardo una grave sedizione, sicché ricominciò subito, con gli arresti di tutti i sospetti, la repressione più fiera (1833). Il Piemonte giacque così per qualche tempo sotto il regime del terrore e dell'arbitrio militare e poliziesco, sia nei processi che nelle sentenze. Parecchi soldati, tra cui l'ufficiale Efisio Tola di Sassari, furono moschettati, perché rei di aver diffuso gli scritti della "Giovine Italia" nell'esercito; Andrea Vochieri di Alessandria, ritenuto uno dei capi, fu pure condannato a morte, perché, nonostante le promesse d'impunità, non volle denunziare i suoi complici. Per crudeltà di vendetta e per ordine del conte generale Galateri, governatore di Alessandria e tristo servo di tirannide, il condannato, nell'andare alla morte, fu fatio passare sotto le finestre di casa sua. Jacopo Ruffini di Genova, giovane medico e uno dei più devoti amici di Mazzini, si svenò in carcere con un chiodo, per timore forse che un giorno le grandi torture gli togliessero la forza di resistere alle insidie inquisitorie dei giudici. Per fortuna, i suoi due fratelli Agostino e Giovanni poterono con la fuga sottrarsi in tempo alla morte, sicché l'arte ebbe poi da Giovanni, esule in Inghilterra, quelle due gemme letterarie che sono il "Dottor Antonio" e il "Lorenzo Benoni". E ritirarsi in terra straniera dovette allora anche Vincenzo Gioberti, il quale, accusato di aver detto a qualcuno "in Francia si farà la repubblica e i fuorusciti la porteranno a noi", fu prima chiuso in carcere per qualche mese, e poi senza processo condannato all'esilio».

Seguì, nel 1834, la spedizione mazziniana di Savoia, che diede luogo ad una nuova feroce reazione, e ancora per dieci anni continuò in Piemonte il regime dispotico, con Carlo Alberto dominato dai partigiani dell'Austria e dai clericali, nemici d'ogni libertà. I miglioramenti realizzati nel regno durante questo periodo furono pochi e di scarsa importanza. È giusto, nondimeno, notare che una grande probità regnò nelle pubbliche amministrazioni, che l'erario prosperò ed acquistò credito, che l'industria e il commercio si rinvigorirono, che le belle arti e le scienze furono protette e favorite. Mentre le riforme giudiziarie, alle quali abbiamo accennato, lasciarono sussistere gravi lacune e non poche ingiustizie".

Agli anni 1839 e 1840 - nota il biografo già citato - vanno assegnate le prime manifestazioni di Carlo Alberto fatte ad intimi sui propri reconditi sentimenti anti-austriaci; e nel 1841 proseguono le riforme procedurali giudiziarie; nel luglio si ha da lui (preceduto in questo nel 1839 dal Borbone di Napoli e nel 1840 dall' Austria nel Lombardo-Veneto) la prima concessione ferroviaria per una linea da Genova al Lago Maggiore, d'onde per la Svizzera fino ad Ostenda, per unire il Mediterraneo al mare del Nord e togliere al porto austriaco di Trieste il transito della Valigia delle Indie; con tronchi da Alessandria a Torino e da Alessandria ad Arona. Vagheggiava anche Carlo Alberto una ferrovia da Arona al Lago di Costanza per la val di Blenio per il Lucomagno e la valle del Reno.

« I sentimenti anti-austriaci del re, non impedivano una nuova alleanza di famiglia con casa d'Austria; e nella primavera del 1842 il suo primogenito, Vittorio Emanuele, sposava in Torino la cugina, Maria Adelaide, -figlia dell'arciduca Ranieri, vice-re del Lombardo-Veneto, e di Maria Elisabetta, sorella di Carlo Alberto. In quest'occasione il re sardo si decideva a dare finalmente un'amnistia per i fatti del 1821 dopo ventun anni, ma col suo sistema di ibis redibis non la concedeva intera, esplicava in un editto del 5 aprile 1842 tutta una serie di limitazioni e di restrizioni; i compromessi e condannati del 1833, del 1834, Mazzini, Garibaldi, i Ruffiani, tutti gli altri ne erano esclusi; quasi a dimostrare la sua assoluta avversione per i patrioti, che in Italia e fuori andavano crescendo e molti dei quali non sapevano persuadersi che il sempre reticente linguaggio di Carlo Alberto, la sua esteriore severità, la sua faccia costantemente pallida non nascondessero il meditato piano di soddisfare, al buon momento, a spese dell'Austria dai patriotti odiata - il vecchio sogno dei principi di Casa Savoia, la conquista dell'agognata Lombardia.
Gli apologisti di Carlo Alberto dicono che a questo fine egli preparava l'esercito piemontese, ma uno storico non sospetto, Vittorio Bersezio, dice che il re « amava solo le parate, gli sfilamenti e si perdette in pedanterie, invece che curarsi dei difetti, ed avere considerazioni di guerra ».

Non si può negare, tuttavia, che Carlo Alberto continuasse, a sbalzi, a rivelarsi contrario all'Austria e sognatore dell'indipendenza italiana, alla quale aspiravano allora più che mai le menti più elette, nel Piemonte come in tutta la penisola. È di allora uno scritto di lui, così concepito:
«Ad onta del piccolo, anzi piccolissimo, partito austriaco o retrogrado, io sono fermamente risoluto di procedere oltre nella via del progresso, in tutto ciò che può avere per scopo la felicità del popolo e l'incremento del nostro spirito nazionale... Se si volesse eliminare dal nostro paese lo spirito anti-austriaco, bisognerebbe cominciare dal cacciare me stesso ».

Intanto si andavano realizzando in Piemonte altri non trascurabili miglioramenti nel campo legislativo ed in quello della cultura, e Torino veniva notevolmente abbellita. In questa città si tenne nel 1840 un memorabile Congresso dei Dotti italiani. Negli anni successivi, mentre in tutti gli Stati italiani ingigantiva il sentimento patriottico e si moltiplicavano i tentativi dei patrioti, continuarono le manifestazioni d'italianità di Carlo Alberto, ma seguite spesso da contraddizioni, da pentimenti, da indietreggiamenti per i quali i patrioti adottarono per il re di Sardegna l'espressivo soprannome di "Re Tentenna", derivato da una satira in versi divenuta rapidamente popolare.

(vedi qui in originale l'intera singolare satira "Re tentenna" > > > )

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Finalmente, nell' ottobre del 1847, Cardo Alberto fu trascinato dall'esempio del nuovo papa Pio IX e del granduca di Toscana a cedere al crescente fermento popolare e accordare larghe e liberali riforme. Fu sanzionato il codice di procedura penale con la difesa orale e la pubblicità delle discussioni; vennero soppresse le giurisdizioni eccezionali; fu abolito ogni privilegio di foro civile, anche per il regio patrimonio; fu creata una Corte di cassazione per l'unità della giurisprudenza in tutto il regno; furono migliorati i regolamenti di polizia, gli ordinamenti municipale e provinciale, le norme del contenzioso amministrativo; vennero stabiliti i registri di stato civile indipendenti dalle autorità ecclesiastiche; mitigati i rigori della censura sulla stampa.

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documento n. 1802, presente solo nel CD per l'enorme numero di Kb )

« Questi decreti, che distruggevano antichissimi abusi, furono accolti con gioia indicibile, non solo in Piemonte, ma in tutte le province d'Italia, quasi presaghe che a tutte loro sarebbero un giorno estesi quei benefici di progresso civile. Feste e tripudi inenarrabili seguirono a Torino nella sera del trentuno ottobre, giorno della pubblicazione delle acclamate riforme, e in quella del 3 novembre, vigilia del giorno onomastico del sovrano.

I manifesti di quel giorno e alcune immagini del tempo in STORIA ANNO 1848 > > >

Carlo Alberto, aggirandosi per le ampie e affollate vie della sua capitale, senza guardie, e con i soli suoi figli al fianco, poté vedere e comprendere quanto tesoro di affetto vi era per lui in seno al popolo piemontese.

Partendo nel giorno seguente per Genova, Carlo Alberto passò sotto una volta formata da più di duemila bandiere, coperto da un nembo di fiori, fra gli applausi e le grida festose di una moltitudine immensa. Il suo viaggio fu un vero trionfo.

«Infine il Re coronava l'opera delle riforme con la formazione di uno Statuto fondamentale, promesso ai popoli del regno con regio decreto dell'8 febbraio 1848, e basato sulle più sicure garanzie di libertà : responsabilità dei ministri; potere legislativo esercitato collettivamente dal re e da due Camere, la prima a nomina regia, ila seconda elettiva; libertà della stampa; inviolabilittà della libertà personale; milizia civica; inamovibilità dei giudici ».

Lo Statuto era stato promulgato in Piemonte da pochi giorni, quando a Parigi la rivoluzione iniziatasi il 22 febbraio rovesciò il trono di Luigi Filippo. Poco dopo scoppiarono le altre rivoluzioni di Vienna, di Berlino, di Venezia, di Modena, di Milano (Cinque Giornate). Il 23 marzo venne pubblicato il seguente proclama di Carlo Alberto alle popolazioni della Lombardia e della Venezia:

« I destini d'Italia si maturano: sorti felici arridono agli intrepidi difensori di conculcati diritti. Per amore di stirpe, per intelligenza di tempi, per comunanza di voti, Noi ci associamo primi a quell'unanime ammirazione che vi tributa l'Italia. Popoli della Lombardia e della Venezia, le nostre armi, che già si concentravano sulla vostra frontiera quando voi anticipaste la liberazione della gloriosa Milano, vengono ora a porgervi nelle ulteriori prove quell'aiuto che il fratello aspetta dal fratello, dall'amico l'amico. Seconderemo i vostri giusti desideri, fidando nell'aiuto di quel Dio ch'é visibilmente con noi, di quel Dio che ha dato all'Italia Pio IX, di quel Dio che con sì meravigliosi impulsi pose l'Italia in grado di fare da sé. E per meglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione italiana, vogliamo che le nostre truppe, entrando sul territorio della Lombardia e della Venezia, portino lo scudo di Savoia sovrapposto alla bandiera tricolore italiana ».

« Carlo Alberto - commenta giustamente Italo Raulich - benché vagheggiasse di cacciar l'Austria dall' Italia, sapeva a quale grave rischio mettesse il regno, portando il suo piccolo esercito a misurarsi con un così potente impero, quando, senza tener conto della Francia in rivoluzione, la Russia, perfino con minacce, era contraria alla politica bellicosa del Piemonte, e l'Inghilterra dissuadeva apertamente dalla lotta. Ma il fervore d'armi che, alla notizia dell'insurrezione milanese, avevano indotto immediatamente Torino, Genova e le altre città del regno a chiedere a gran voce la guerra, e l'irrequieta brama di cogliere, alfine, la tanto aspettata occasione di gettarsi sull'Austria erano stati più forti dei consigli di prudenza e dei timori della diplomazia».

Non ripeteremo qui una narrazione particolareggiata della prima guerra del Risorgimento italiano (vedi in proposito le pagine in "Riassunti Storia d'Italia" ) . Ci limiteremo a riassumere, col Predari:
«Da ogni parte della penisola giungevano gli Italiani per combattere la guerra sacra contro l'Austria; ma erano bande volontarie, senza ordine, senza disciplina, senza perizia; vi andavano pure milizie ordinate di Toscani, di Pontifici e di Napoletani. Gli Austriaci riparavano dietro il Mincio, tra le fortezze di Peschiera, Mantova, Verona e Legnago. L'esercito nazionale, benedetto da Pio IX, che anche profferiva a Roma la sua mediazione, basata sul patto che tutte le truppe austriache abbandonassero gli Stati italiani, si copriva di gloria a Goito (8 aprile e 29 maggio), a Pastrengo (30 aprirle), a Peschiera (30 maggio), a Rivoli (10 giugno), a Governolo (18 Iuglio), dove i Piemontesi rinnovarono le prove del loro antica valore tradizionale.

"Carlo Alberto, che dimostrava per ogni suo personale interesse e per la propria vita uno stoico disprezzo, andava a piantarsi dove maggiore era il grandinare delle artiglierie austriache; le palle e le bombe atterravano, squarciavano a dritta e a manca chi gli stava vicino, le schegge sibilavano per l'aria, lo spruzzavano di terra; ed egli sereno, quasi che si trovasse ad una cerimonia, osservava, consultava, disponeva, avendo nel coraggio e nell' imperturbabilità emuli i suoi figli ».

Ma presto cominciarono i rovesci. L'Austria era troppo forte per non poter vincere, alla fine, quella guerra. Ed infatti il maresciallo Radetzky, avuti rinforzi considerevoli, assalì Vicenza, dove le milizie venete e romane si difesero valorosamente (10 giugno); indi, fatte occupare, salvo Venezia, le altre città del Veneto, investì i Piemontesi, che in linea troppo lunga e sottile si stendevano da settentrione di Verona sin nelle paludi del Mantovano, e dopo parecchi combattimenti (in alcuni dei quali i Piemontesi furono vincitori) li sconfisse a Custoza (25 luglio).

Cominciò una ritirata difficilissima. Carlo Alberto, chiamato dai Milanesi, accorse alla capitale lombarda, trascurando le ragioni militari, che lo consigliavano a piegare sulla fortificata Piacenza. A Milano fu vinto di nuovo (4 agosto). Allora fu costretto a negoziare coi nemici, che gli consentirano di ritirarsi oltre il Ticino. Indi fu stipulato dal generale Salasco l'armistizio col quale le cose vennero rimesse nelle condizioni di prima della guerra (9 agosto 1848).

"Carlo Alberto per Vigevano ed Alessandria tornò a Torino, oppresso da un dolore che si vedeva e tormentato dall'infinita schiera di progettisti politici, militari, competenti e incompetenti, che tutti volevano dare i loro consigli, aggiungendo, la maggioranza, eccitamenti a continuare la guerra, come se si potesse continuarla senza danari, senza munizioni, con l'esercito stanco e demoralizzato, e col paese diviso dai partiti ».

"La guerra fu ripresa nel marzo del 1849 quasi dal solo esercito piemontese che, a furia di sacrifici e con una leva fra i 20 e i 40 anni, aveva raggiunto il numero di 90 000 combattenti. A capo di quell'esercito, per una spontanea rinunzia del sovrano e per l'insufficienza dei suoi generali, fu messo il polacco Czarnowsky che si era distinto nelle guerre per l'indipendenza del suo paese, e fu un nuovo errore, non conoscendo quel generale né il linguaggio né i costumi de' suoi soldati ed essendogli affatto ignoto il teatro della guerra. A capo dello Stato Maggiore era il generale Lamarmora, e i due principi reali erano a capo di due delle sette divisioni onde si componeva l'esercito combattente. Il grosso di questo esercito, appena sceso in campo, fu scaglionato lungo il Ticino da Oleggio alla Cava e con maggiore compattezza verso la strada fra Novara e Milano.

« Il disegno del comandante supremo - riassume un altro storico del Risorgimento - era di marciare direttamente sulla metropoli lombarda e di coprire, voltando fronte, il Piemonte nel caso che il nemico avesse tentato di invaderlo. Ma il vecchio ed abile suo competitore maresciallo Radetzkv, che vantava oltre 100.000 uomini bene agguerriti e generali praticissimi, non gli diede il tempo di attuare quel disegno. Egli pensò di riunire le sue forze presso Pavia e di lì entrare subito nel Piemonte, per una immediata e decisiva battaglia; e all'alba del 20 marzo aveva già conquistata quella posizione, oltrepassando il fiume senza incontrare alcuna seria resistenza.

"Una fatalità pesava evidentemente sull'esercito avversario: il generalissimo piemontese aveva dato un opportuno ordine al generale Ramorino, quello stesso che aveva diretta nel 1834 la disgraziata invasione mazziniana della Savoia; ma il Ramorino, invece di portarsi con tutte le sue truppe alla Cava, per impedire il passaggio del Ticino, era rimasto sulla riva destra del Po, con 8000 animosi lombardi, e aveva mandati là pochi battaglioni, che all'avanzarsi degli Austriaci dovettero battere in ritirata.

« Un errore più grave dall'esercito piemontese fu commesso a Magenta. Czarnowsky e Carlo Alberto, con una mossa non meno abile di quella del Radetzky, erano entrati a Magenta, senza incontrare nemici; ma invece di penetrar subito in Lombardia - dove la popolazione avrebbe intralciate le mosse degli Austriaci, mentre il Veneto li avrebbe molestati con le insurrezioni alle spalle - fronteggiarono il nemico, e con tardo movimento concentrarono le loro forze fra Mortara e Vigevano. Vi giunsero disgraziatamente quando già il generale austriaco D'Aspre, attaccando la divisione Durando, l'aveva messa in rotta, e si era accampato nella stessa città di Mortara, nonostante il valore spiegato dai nostri alla Sforzesca.

E venne la sconfina di Novara, che decise le sorti della guerra e del Principe sabaudo. Concentrando le maggiori forze piemontesi sotto quella città, non si badò a provvedere in modo pratico al vettovagliamento, e la mancanza di questo contribuì a diffondere il malumore fra le truppe già sconfortate dalle perdite patite a Mortara. Né valsero a risollevare gli animi le prime fortune arrise il 23 marzo alla Bicocca, due volte perduta e due volte ripresa, e dove il Duca di Genova, respingendo gli Austriaci, ebbe due suoi cavalli uccisi. Quella sera, attaccate violentemente dalle truppe fresche del Radetzky, le truppe piemontesi stanche e malnutrite furono sbandate, mentre alla pioggia dei proiettili delle aritiglierie austriache si aggiungevano copiose le prime piogge primaverili. Invano il Re, pallido e fremebondo, si era lanciato, dove era maggiore il pericolo invano aveva invocato la morte ».

A sera Carlo Alberto entrò in Novara, dove si affollavano i soldati in disordine, e dai ripari della città mirò a lungo il campo di battaglia. Indi ritiratosi, e udita la risposta che il nemico aveva fatto alla domanda di un armistizio, giudicò inaccettabili le condizioni, e convocò i generali. Fattosi ripetere che la continuazione della guerra era impossibile, con calma si rivolse agli astanti, e disse loro:

« Ho sempre fatto ogni possibile sforzo, da diciott'anni a questa parte, per il vantaggio dei popoli; m'é doloroso veder fallite le mie speranze, non tanto per me, quanto per la patria. Non ho potuto trovar la morte sul campo di battaglia, come ardentemente desideravo. Forse la mia persona é ora il solo ostacolo ad ottenere dal nemico un'equa convenzione. Divenuta impossibile la continuazione della guerra, io abdico la corona in favore di mio figlio Vittorio Emanuele, nella speranza che il nuovo re possa ottenere più onorevoli patti, e procurare al paese una pace vantaggiosa ».

Poche ore dopo aver trasmessa la corona al figlio Vittorio Emanuele, il re sventurato partì alla volta di Nizza in una piccola vettura e con un solo domestico, dopo aver scritto una lettera di addio alla consorte, che stava a Torino. Viaggiò, col nome di conte di Barge, attraverso la Francia e la Spagna, e riparò infine ad Oporto, in Portogallo, dove si stabilì nella villetta di Entre Quintas, seminascosta tra il verde, davanti all'Oceano. Era affranto e ammalato, e una lenta consunzione che durò quattro dolorosissimi mesi, lo condusse al suo ultimo giorno, che fu il 28 luglio di quell'infausto 1849.

« Serenamente guardò in viso la morte (così narra un biografo); sentendosi mancare, disse con filosofica rassegnazione che sentiva di scomparire a tempo dalla scena del mondo; volle i sacramenti della Chiesa; domandò perdono delle offese che avesse potuto arrecare, e protestò che di buon grado perdonava quelle a lui fatte. Morì tranquillo e sereno ». Il suo corpo venne trasportato a Torino, dove fu tumulato nella basilica di Superga.

Oltre a Vittorio Emanuele, che gli successe, Carlo Alberto ebbe dalla moglie Maria Teresa d'Austria l'altro figlio, Ferdinando, duca di Genova (18221855), che tanto si distinse sui campi di battaglia, come comandante veramente eroico, e che fu padre di Margherita di Savoia regina d'Italia (moglie poi del figlio di Vittorio Emanule, Umberto I) . Carlo Alberto ebbe anche una figlia, Maria Cristina, che però visse soltanto un anno.

Del carattere di questo sfortunato sovrano, così scrisse il Cilbrario, che per molto tempo lo conobbe da vicino : « Intrepido come un eroe sul campo di battaglia, non ebbe ugual coraggio nelle contenzioni civili, forse per soverchia diffidenza di sé medesimo, perché non aveva avuto negli anni giovanili alcuna pratica di cose di Stato. Un ministro che facesse vigoroso contrasto ad un suo desiderio era sicuro di vederlo cedere e ritirarsi, ma solo a tempo; poiché timido, irresoluto, tentennante in sul principio, egli tornava a meditare il suo proposito, e quando era persuaso che questo fosse buono; induriva la sua volontà, la quale, se non diveniva sempre più risoluta, si faceva peraltro ostinata, e finiva col vincere le resistenze, non con l'autorità ma con la perseveranza e con la ragione... Si può dire che il suo regno fu un sacrificio continuo, un atto d'abnegazione perenne. La doppia qualità che in Carlo Alberto concorse di principe profondamente e sinceramente religioso, e di principe liberale, spiega quel che parve talvolta aver d'arcano la sua condotta... Nutriva un immenso amore della gloria, un'assidua, gelosissima cura dei morali interessi, un nobile disprezzo dei materiali; il suo privato vantaggio pospose costantemente al bene pubblico».