BIOGRAFIA
(n. 1759 - m. 1824) - Re di Sardegna 1802-1821 - dal 1815 anche del Piemonte)

sua moglie MARIA TERESA D' AUSTRIA-ESTE
(n. 1773 - m. 1831)

 

Fino al 1814, la storia del Piemonte è storia francese.
Il giornale Il Repubblicano Piemontese, uscito per la prima volta il 10 dicembre 1796, aveva annunciato:
"La monarchia sarda si è dileguata alla semplice impressione della giustizia e della forza della Repubblica Francese".
Da allora, salvo la breve parentesi dell'occupazione austro - russa del 1799-1800, il Piemonte fu, prima virtualmente, poi di fatto, un dipartimento della Francia, e tale restò, sotto il Consolato e sotto l'Impero, fino al 1814.

A Vittorio Emanuele I, successo al fratello Carlo Emanuele IV quando questi rinunciò al trono, rimase soltanto la Sardegna. Di quest'isola egli smorzò alquanto gli entusiasmi monarchici col gravarla di tasse d'ogni genere; ma cercò anche di migliorarne le condizioni, promuovendovi la coltivazione degli ulivi e sperimentandovi, però con scarsi risultati, quella del cotone.

Certo, dei tre figli di Vittorio Amedeo III che si successero sul trono, il più idoneo a regnare fu questo duca d'Aosta, nato a Torino il 24 luglio 1759, che dal padre aveva ereditata una grande passione per le cose militari, e che aveva avuto occasione di mettersi abbastanza in vista, sebbene con poca fortuna, come comandante delle truppe del fratello nelle campagne contro i Francesi.
I primi anni di regno di Vittorio Emanuele I furono penosi soprattutto per le estreme strettezze finanziarie in cui era caduta la Casa di Savoia e per i litigi e le contestazioni che ne derivavano. « Non ho nessuna rendita sicura - scriveva il nuovo sovrano al fratello Carlo Felice - Il re Carlo Emanuele IV vuole inoltre trattenersi la metà, spettantegli come re, di modo che io finirò per essere un re morente di fame davanti ad un medico largamente pasciuto (Carlo Emanuele IV pretendeva dal fratello suo successore una pensione di duecentomila lire e parecchi lauti assegni al suo medico e ad altri personaggi) Pazienza se potessi ricuperare i miei Stati! Sono pronto a tutto sopportare personalmente, ma la mia povertà esteriore è talmente visibile, che ho dichiarato di non voler ricevere nessun omaggio e di non voler tenere Corte, ma di continuare a chiamarmi marchese di Rivoli, perchè un re che non ha l'esteriorità della pompa regale fa ridere e sembra un Don Chisciotte » .

Nello stesso tempo, anche le borse dei parenti e degli amici si chiudevano a quel sovrano ramingo; e, perfino, i duchi del Chiablese, zio e sorella di Vittorio Emanuele I, non sperando affatto che gli Stati della Casa di Savoia potessero essere ricuperati, avevano voluto da lui la liquidazione di tutti i loro averi e diritti, in modo tale da potersene giovare dovunque, fuori dal Piemonte, dove dichiaravano di non voler più rimettere piede. « Sono carico di gente - scriveva in un'altra lettera Vittorio Emanuele - più di quanta ne aveva mio fratello. Egli mi ha addossato quasi tutti i suoi, e debbo dar loro sedicimila lire al mese, ed ottomila ai Chiablese. Egli si è tenuta per scorta molta argenteria; deve avere con sè ventotto candelieri, sedici zuppiere, tutta la batteria di cucina, vasellami, insomma otto casse di argenteria, ed io non ho un candeliere, nè batteria di cucina, ed appena ho qualche piatto che possedevo già. Egli mi ha tuttavia mandato una toeletta, non avendone più mia moglie per averle vendute in Piemonte, e dei merletti..; Egli si è tenuto anche metà dei sussidi arretrati di Inghilterra, dei quali a me non rimane che la metà, per le spese ufficiali, e tali sussidi tra due mesi saranno finiti; così io e la mia Corte vivremo, come il camaleonte, di aria, se non mi arriverà qualche cosa ».

Come si vede, gli aiuti finanziari delI'Inghilterra, della Russia e dell'Austria non bastavano neppure per l'indispensabile; e la mancanza di credito a cui era giunta la Casa di Savoia era tale, che non si trovava nemmeno chi facesse ipoteche sull'isola di Sardegna.
Intanto Bonaparte, dopo avere annesso definitivamente il Piemonte alla Francia, accogliendo una proposta dell'imperatore di Russia si dichiarava propenso a creare uno Stato per il re Sabaudo, al quale offriva il Senese, il Grossetano e magari anche il principato di Lucca, a patto ch'egli rinunciasse per sè e per i suoi successori agli antichi Stati di Savoia e Piemonte. Ma Vittorio Emanuele I, che non perdette mai la speranza di riavere questi Stati, non volle accettare quell'offerta, e preferì aspettare ancora, continuando a vivere miseramente in esilio.

Frattanto la Russia e l'Inghilterra concertavano un trattato d'alleanza, secondo il quale, fra l'altro, era prevista la restituzione al re di Sardegna dei suoi domini d'un tempo, accresciuti almeno del Genovesato, per formare, ai piedi delle Alpi, fino al mare, uno Stato capace di difendersi bene e di frenare la Francia, però col patto (certamente poco gradito a Vittorio Emanuele I) che il re vi governasse sulla base di una saggia costituzione. Così, mentre duravano le miserie da cui era afflitto il sovrano esule con la sua famiglia, la Russia e l'Inghilterra gettavano le vere basi della futura successiva grandezza della Casa di Savoia.

Ma tutti i progetti che si andavano facendo dovettero subire un lungo differimento in conseguenza delle vittorie riportate in Germania da Napoleone, che non tardò a voler bandita anche la Corte borbonico-austriaca di Napoli; ragione per cui Vittorio Emanuele I, che si era recato in questa città per combinare il matrimonio di suo fratello Carlo Felice con la figlia del re Ferdinando, Maria Cristina, dovette rassegnarsi a veder rimandata ogni cosa. I reali di Napoli si ritirarono in Sicilia, e il re di Sardegna, rifiutata Malta, offertagli dall'Inghilterra, e rifiutata Corfù, offertagli dalla Russia, si rifugiò nuovamente nella fida ma non preferita Sardegna, ancora pensando di continuo agli Stati aviti di terraferma, alla vecchia Savoia, al vecchio Piemonte.

Per questo egli non acconsentì mai a riconoscere Napoleone imperatore, nemmeno quando il riconoscimento gli fu consigliato dalla Russia, per timore che un tale atto potesse essere interpretato come un'implicita rinuncia a quegli Stati dei quali sognava incessantemente di ridiventare sovrano.

Tramontato finalmente nel 1814 l'astro napoleonico, le Potenze coalizzate, padrone di Parigi e della persona dell'Imperatore, non tardarono a mandare in Sardegna un vascello inglese, con l'invito a Vittorio Emanuele I di ritornare in Piemonte per ristabilirvisi come re.

Vittorio, che per tanti anni non aveva avuto alcun desiderio più vivo di quello della propria restaurazione, e che, fantasticando intorno a questa sua idea fissa, si vantava (e forse non aveva torto) di essere l'unico monarca che avesse avuto il coraggio di resistere a Napoleone, non si fece ripetere l'invito, e il 2 maggio salpò da Cagliari per Genova, dove sbarcò il 9, festosamente accolto dal locale Governo provvisorio.

L'accoglienza che gli fece il popolo il 20 maggio, quando egli entrò in Torino, fu calorosissima. L'odio che si era accumulato in dodici anni contro la dominazione francese e la burbanzosa signoria soldatesca di Napoleone e dei suoi emissari era tale, infatti, da rendere doppiamente gradito ai Piemontesi il ritorno dell'antica famiglia regnante. Ma, del resto in perfetta buona fede, Vittorio Emanuele I equivocò sul significato dell'entusiasmo popolare. Pensò che il popolo, acclamandolo, accettasse con gioia il ritorno all'assolutismo, « come se la bufera della rivoluzione e il vento napoleonico non avessero agitato che la superfice delle cose, lasciandole sostanzialmente immutate ».

E i suoi ministri, uomini onesti rimastigli fedeli nella sventura, ma intorpiditi in un'assoluta incomprensione dello spirito dei tempi, credettero, anch'essi in buona fede, d'interpretare la volontà della nazione ripristinando senz'altro la monarchia esattamente quale era stata fino al 1798, ristabilendo conventi e decime, foro ecclesiastico ed inquisizione, censura della stampa e tortura, predominio, in ogni cosa, della nobiltà e dei Gesuiti. Errore grossolano e funesto, nel quale (sarebbe ingiusto non dirlo) caddero quasi tutti i governi ristabiliti ; errore che già conteneva i germi delle rivoluzioni che scoppiarono nel 1821, nel 1830, nel 1848.

Durante l'improvvisa e quasi miracolosa riapparizione napoleonica dei Cento giorni, l'esercito piemontese rapidamente riorganizzato ebbe occasione di distinguersi, a fianco degli Austriaci, sotto Grenoble, e i Congressi di Parigi e di Vienna ne compensarono Vittorio Emanuele I permettendogli di annettersi anche il Genovesato, secondo quanto era stato stabilito tra l'Inghilterra e la Russia fin dal 1805.

Nei suoi sette anni di regno in Piemonte, Vittorio Emanuele I si dimostrò nemico di qualsiasi riforma liberale, ed ossequiente all'Austria. Ma in realtà, di questa potenza, la quale, con la scusa del ritorno di Napoleone, prolungò più di quanto avrebbe dovuto la presenza delle sue truppe in Piemonte, egli non ebbe nè gran rispetto nè timore eccessivo. Fu invece veramente e profondamente avverso, per una sua antica e radicata convinzione, a qualsiasi riforma, a qualsiasi concessione costituzionale. D'altronde, come lui, i suoi più fidi ministri (tra i quali il Vallesa) ed altri uomini anche tali da poter essere giudicati abbastanza liberali in quei tempi, solevano dire che un paese appena uscito dalla dominazione straniera e non ancora totalmente libero dalla rivoluzione e dalle sette, le quali, dopo la caduta di Napoleone, fiorivano più che mai, il principio monarchico doveva accentuare la sua forza, non certo rinunciarvi, fors'anche solo in minima parte.

Vittorio Emanuele I e i suoi ministri, non comprendendo che una moderata costituzione, data a tempo, avrebbe evitato gravi guai e tenuti lontani i tentativi rivoluzionari, dimostrarono allora la stessa cecità di cui aveva dato prova Vittorio Amedeo III nel 1793, al primo propagarsi delle idee nuove derivate dalla Rivoluzione francese. Così, mentre egli, coadiuvato dai ministri, pur mantenendo in tutto il loro rigore le antiche istituzioni si adoperava con encomiabile zelo a dare un migliore indirizzo all'amministrazione dello Stato, con opportuni mutamenti nel campo della Giustizia ed in quello dell'Istruzione pubblica (istituì infatti nell'Università di Torino le cattedre di fisica, di paleografia, di critica diplomatica e di economia politica), i tempi
progredivano con una velocità che neppure sospettava.

Nell'animo dei cittadini sempre più desiderosi di novità e d'istituzioni liberali, era ormai nata l'aspirazione all'indipendenza di tutta la penisola italiana, e la Massoneria e la Carboneria non cessavano di congiurare, attirando nelle loro file molti figli di ragguardevoli famiglie, quasi tutti ufficiali, come, per citarne alcuni, Carlo di San Marzano, Santorre di Santarosa, Vittorio Ferrero, Giacinto di Collegno, ecc., e spingendo i loro tentacoli perfino nella Reggia, intorno all'esile figura dell'erede del trono, mentre Vittorio Emanuele I, felice per l'avvenuto ricupero del regno, afflitto soltanto perchè non aveva figli maschi, cercava a modo suo di far bene, e, diffidando solo dell'Austria, non si accorgeva della mina rivoluzionaria che gli si andava preparando sotto ai piedi.

L'11 marzo 1821, quando la rivoluzione, dopo esser scoppiata a Napoli, scoppiò anche a Torino, per opera di giovani ardenti e generosi, in maggioranza ufficiali dell'esercito, egli ne fu tanto sconcertato da decidersi senz'altro ad abdicare, dopo aver dato prova della bontà dell'animo suo coll'ordinare che non si spargesse sangue.

Nominò reggente il principe Carlo Alberto di Carignano, che, compromesso coi rivoluzionari, si trovò immediatamente in una condizione difficilissima, fra le proprie aspirazioni liberali e lo spettro del legittimismo.

Dalla moglie Maria Teresa d'Austria, Vittorio Emanuele I ebbe quattro figlie Maria Teresa, Beatrice Maria, Maria Anna e Maria Cristina, che furono rispettivamente mogli di Carlo Ludovico duca di Lucca, di Francesco IV duca di Modena, di Ferdinando III d'Albsburgo e di Ferdinando II di Napoli.

Dopo avere abdicato, egli si trasferì a Nizza; ma poi si mise a girovagare da Nizza a Modena, da Modena a Lucca, da Lucca a Moncalieri, resistendo alle sollecitazioni di molti, tra i quali anche lo stesso principe Carlo Alberto, che specialmente nei primi mesi l'avevano pregato di revocare l'abdicazione e di riprendere la corona.

Egli ebbe un grande merito, per il quale la Casa di Savoia non sparì, come tante altre, dal novero delle famiglie regnanti. Anche fra le avversità più dure, anche nelle condizioni più estreme, non dubitò mai un momento che la sua Casa avesse a rimanere priva degli Stati aviti, e nell'esilio non cessò mai di fare, con fede ostinata, tutto il possibile per assicurarsi il ritorno su quel trono da cui più tardi scese spontaneamente, convinti ormai che i principi della sua Casa avrebbero saputo conservarselo.

MARIA TERESA D' AUSTRIA-ESTE
MOGLIE DI VITTORIO EMANUELE I
(n. 1773 - m. 1831)

 

Maria Teresa Giuseppina d'Absburgo, moglie di Vittorio Emanuele I, era figlia dell'arciduca Ferdinando Carlo di Lorena (fratello dell'imperatore d'Austria Giuseppe II, e governatore di Lombardia) e di Beatrice ultima discendente degli Estensi e dei Cybo, ed era quindi erede del ducato di Modena e dei principati di Massa e Carrara.

La giovane sovrana, che portava il nome della sua grande ava imperatrice di Austria, alla quale si dice assomigliasse molto, fisicamente e moralmente, era nata a Milano il 1 novembre 1773. Era dunque stata fidanzata a soli sedici anni al duca d'Aosta Vittorio Emanuele, che l'aveva sposata il 23 aprile 1789.

La cerimonia nuziale aveva avuto luogo in Novara; e si vuole che per la sua grazia, il suo spirito e la sua bellezza, la principessa absburgica si fosse subito conquistato il cuore dello sposo, trasformando in matrimonio d'amore un matrimonio combinato per ragioni esclusivamente politiche.
La bellezza di Maria Teresa era una bellezza severa e dignitosa, che rivelava ad un tempo un animo mite ed un carattere forte. Queste furono appunto le qualità che distinsero colei che fu l'ultima regina del ramo originario della Casa di Savoia. Ma ella ebbe la sventura di non essere compresa nè in famiglia, nè dai sudditi, cosicchè, soprattutto per causa dei tempi in cui visse e degli avvenimenti nei quali fu coinvolta, finì con l' essere una delle donne più sventurate della sua stirpe e di quella Sabauda.

Scoppiata la Rivoluzione francese, Vittorio Amedeo III, come vedemmo, chiese aiuti all'Austria, e ottomila Austriaci entrarono in Piemonte per dargli man forte. Tutti i principi Sabaudi, fuorchè quello ereditario, mossero contro il nemico, alla testa dell'esercito, e Maria Teresa, già madre di una bambina, dovette temere per la vita dello sposo e di alcuni suoi congiunti.

Più tardi, mentre gli eventi precipitavano sempre più, ella si dimostrò in tutto degna del suo animoso marito, che, unico tra i principi della sua famiglia al momento della rinuncia al trono da parte di Carlo Emanuele IV, e tra le catastrofi delle rivoluzioni e delle guerre, oppose contegno virile alla debolezza ed allo smarrimento generali.

Anche nell'esilio, quando il Re e la Regina erano più affranti, Maria Teresa, rassegnata, non abbattuta, seppe dare coraggiosi suggerimenti e seguire quelli che le venivano diretti.
Quantunque già madre di quattro creature, non esitò mai a seguire il marito ne' suoi viaggi a scopo politico e nelle sue spedizioni, ogni qual volta a ciò fosse spinta dal suo dovere di sposa e di principessa. Così ella si trovò al fianco di Vittorio Emanuele nel triste periodo dell'occupazione austro-russa del Piemonte, lo dissuase dallo spingersi fino a Torino e lo fece fermare a Vercelli, dove egli si trattenne fingendo di starvi non già come Reggente (secondo il titolo datogli da Carlo Emanuele IV), ma come semplice privato, venuto ad occuparsi dei beni del proprio antico appannaggio della Badia di Lucedio, mentre gli Austriaci spadroneggiavano. Di questa finzione la giovane duchessa d'Aosta sentì tutta l'offesa e tutta l'umiliazione. « Infine noi siamo spettatori di ciò che avviene (scriveva ella in quei giorni al cognato Carlo Felice), e lo conto per la prima anticamera del nostro purgatorio, perchè il mio amor proprio ne soffre l'impossibile ».

E dieci mesi dopo, ella scrisse ancora allo stesso : « Noi siamo ancora qui come Griselda in casa sua servendo la nuova padrona, e questa idea mi è soprattutto presente nei balli, dove vi sono sempre degli austriaci che, quantunque cortesi, m'imbarazzano oltre ogni dire ».

In quel tempo infatti Vittorio Emanuele teneva a Vercelli una specie di corte, mentre viveva assai meschinamente, quasi alla giornata, ed era tanto mal visto dai generali austriaci che uno di questi, il generale Zach, parlando un giorno di lui, ebbe a dire : «Sarebbe stato meglio che non fosse venuto qui; e se ci darà disturbi, ci penseremo noi!».
Ritornata in Sardegna, Maria Teresa dovette subire il maggior dolore che possa toccare ad una donna. L'unico suo figlioletto maschio, Carlo Emanuele, morì di vaiolo a tre anni, il 9 agosto 1799.

Seguì il periodo randagio della vita di Vittorio Emanuele I e della sua famiglia, e poi si successero, monotoni ed assai tristi, gli otto anni di residenza in Sardegna, durante i quali le angustie finanziarie e molti altri guai di ogni genere tormentarono dolorosissimamente la regale famiglia spodestata.
Le maggiori pene di Maria Teresa derivarono in quel tempo dal triste spettacolo che le offrivano la miseria morale, oltre che materiale, dei ministri e dei consiglieri del Re, che sembravano sforzarsi di far naufragare fra mille meschinità tutte le forti risoluzioni, tutti gli abili calcoli ch'ella andava suggerendo per il bene della famiglia.

Dopo tanti anni d'esilio, anche in lei cominciava a svanire la speranza della restaurazione, e ad ogni modo doveva pensare che la corona non sarebbe rimasta al ramo originario della Dinastia, quando si vide nuovamente madre. Ma le nacque (19 giugno 1812), un'altra bambina, anzichè l'erede intensamente desiderato, e questa fu per lei una nuova delusione amarissima.
Pare, nondimeno, assolutamente falsa l'affermazione di alcuni storici, secondo la quale ella non avrebbe voluto che l'eredità sabauda spassasse al ramo di Carignano, e si sarebbe adoperata per farla passare invece al proprio fratello Francesco IV, duca di Modena, che aveva sposata la sua primogenita Beatrice.
Ed è pure accertato ch'ella non fu, come si volle da qualcuno, un'irriducibile austriacante, e che anzi, secondo documenti inconfutabili non ebbe mai, per la Casa d'Austria, nè propensioni, nè debolezze.

Quando, dopo il crollo della potenza napoleonica, Vittorio Emanuele I ritornò acclamato a Torino, Maria Teresa rimase per alcuni mesi a Cagliari come Reggente. Il suo ingresso in Torino ebbe luogo il 23 settembre 1815, e anche per lei le accoglienze della popolazione furono assai festose.

Quando, più tardi, si delineò irresistibile il movimento per l'indipendenza italiana, Maria Teresa, per la sua origine austriaca, si vide bersaglio di molti sospetti e di molti odi, e lo stesso Carlo Alberto (al quale, com'è provato da lettere convincenti, ella non era affatto avversa) le si mostrò diffidente ed ostile, forse subendo l'influenza dei suoi amici liberali, cagionandole un nuovo dolore profondamente sentito, come pure risulta da lettere rimaste negli archivi.

Durante la rivoluzione del 1821, e dopo di essa, il contegno della Regina, la quale, diversamente dal marito, che preferì abdicare, sarebbe stata propensa alla concessione di una moderata costituzione, fu ancora veramente esemplare, superiore a qualsiasi critica settaria.
Nella notte del 13 marzo, ella parti col marito e con le figlie alla volta di Nizza, «serena e lieta - così scrisse poi in una lettera - di essersi assoggettata alla volontà di colui che aveva sempre rispettato ed amato ».

Infatti è doveroso riconoscere che se qualche volta si era intromessa, con idee proprie, negli affari dello Stato, l'aveva fatto con grande deferenza verso il Re, « e più per amore ed ambizione di madre che per sete di comando ».

Citeremo infine un brano di una lettera (molto utile a illuminare il suo carattere e la verità sui suoi sentimenti) da lei scritta il 25 ottobre 1821 alla cognata Maria Cristina di Borbone, moglie di Carlo Felice, che le era successa sul trono:
« Sento con piacere che il baciamano è stato numeroso assai, e che tutto il pubblico vi abbia dimostrato sincero attaccamento. Vedo che avete fatto esattamente come noi il giorno della mia entrata in Torino, il 23 settembre 1815, che, fra gli applausi continui del pubblico, io mi sentivo morire pensando che dall'osanna si sarebbe passati al crucifige, come fu in effetti; ma non avrei creduto tanto, e mi resta solo la consolazione di non avere rimorsi relativamente alla mia condotta sopra un trono su cui salii versando lagrime, e dal quale discesi senza versarne una sola ».

Lasciato il trono, Maria Teresa rimase « l'anima della famiglia », e molto scrisse a Carlo Alberto per consolarlo del suo forzato esilio, in modo tale da procurarsi dei rimproveri da Carlo Felice. Si occupò d'altronde, più che d'ogni altra cosa, della educazione delle sue figlie Maria Teresa e Maria Anna.
Rimasta vedova nel 1824, ritornò a Genova con Cristina, l'ultima delle sue figliole, ed ivi si chiuse nell'immenso e silenzioso palazzo Tursi, dove morì a 58 anni nella primavera del 1831.