BIOGRAFIA
( n. 1726 - m. 1796) - Re di Sardegna 1773 - 1796

A diciannove anni, Vittorio Amedeo partecipò col padre alla guerra del 1745,
e da allora cominciò ad a
mare le armi, che furono la vera passione della sua vita.
Nel 1750 sposò Maria Antonia, figlia di Ferdinando II re di Spagna; e nel 1773, all'età di quarantasette anni, successe al padre sul trono. Nella vita coniugale, Vittorio Amedeo III fu irreprensibile, secondo l'esempio paterno; ma solo in questo egli assomigliò a Carlo Emanuele III, che spesso aveva avuto motivo di rimproverarlo per la leggerezza del carattere, la grande inclinazione alla prodigalità, la scarsa conoscenza degli uomini, per cui soleva tenersi intorno delle persone mediocri, ma scaltre, che sfruttavano le sue debolezze.

Malgrado i suoi difetti, essendo di indole buona, dotato di ingegno vivace, animato dalle migliori intenzioni, e prestante nella persona, molto colto, parlatore affascinante, egli era stato già da principe ereditario, molto ammirato e molto amato dai sudditi, che avevano fondato su di lui grandi speranze. Nessun altro principe ereditario aveva fatto meglio presagire di sè, ed anche gli stranieri avevano visto in lui un futuro sovrano certamente destinato a grandi e belle imprese.

Ma appena egli fu re, le illusioni che si erano nutrite sul conto suo cominciarono a svanire. La salma del padre era stata da poco tumulata a Superga, quando il nuovo sovrano cominciò ad allontanare da sè i ministri migliori, i consiglieri più fidi e più autorevoli, quali il famoso conte Bobino (uomo d'altissimo valore che per quarant'anni consecutivi aveva reso eminenti servizi allo Stato) ed il conte Lascaris, ministro degli Esteri molto apprezzato da tutte le Corti d'Europa, per sostituirli con uomini meno che mediocri, come il conte Chiaravina ed il marchese d'Aibueblanche. Quest'ultimo, dopo aver fatto pessima prova come inviato diplomatico presso l'Elettore di Sassonia, era stato richiamato a Torino, dove con un po' di scaltrezza si era guadagnata la fiducia del principe ereditario.

Vittorio Amedeo III commise questi gravissimi errori soprattutto perchè, pure essendo intelligente come già s'è detto, era tratto dalla presunzione e dalla vanità a preferire di circondarsi di adulatori inetti e servili, piuttosto che di consiglieri dignitosi e sereni e veramente utili allo Stato.

Appena assunto il potere, egli iniziò una totale e radicale trasformazione dell'esercito, profondendovi somme enormi per renderlo simile a quello prussiano. Ma queste riforme militari furono così poco meditate, che alcuni anni dopo si impose la necessità di rimaneggiare ogni cosa, tendendo a quegli scopi ben definiti a cui avrebbero dovuto esser diretti i mutamenti realizzati con una deplorevole leggerezza.
La predilezione per la milizia non impedì a questo re di occuparsi con alacrità anche delle più varie faccende d'interesse pubblico.

E infatti durante il suo regno vennero costruite le dighe all'Arve e al Rodano in Savoia; nel 1782 furono edificate le terme di Aix, furono gettati i ponti di Rumilly e tutti quelli della strada da Cuneo a Nizza per il colle di Tenda. Nel 1773 vennero istituiti in Torino gli Edili, incaricati di dirigere gli abbellimenti della città, dove sorsero importanti edifici nuovi, e dove, nel 1782, venne estesa per la durata di tutto l'anno la pubblica illuminazione, che, introdotta già fin dal 1727, era però limitata alla stagione invernale.
Inoltre, Vittorio Amedeo III costituì in Regia Accademia la Società delle Scienze, fondò l'Accademia di pittura e di scultura, la Società per l'incremento dell'agricoltura, vietò la tumulazione nelle chiese, ordinando la costruzione dei cimiteri.

La Corte di Vittorio Amedeo III tendeva a somigliare in tutto a quella del re di Francia col quale la Casa di Savoia era strettamente imparentata. Due figlie di Vittorio Amedeo, Maria Giuseppina e Teresa Maria, nate rispettivamente nel 1753 e nel 1756, erano passate nella Casa di Francia: la prima come moglie di Luigi Stanislao Saverio di Borbone, conte di Provenza, che fu poi Luigi XVIII; la seconda come moglie di Carlo Filippo di Borbone, conte d'Artois, destinato ad essere, col nome di Carlo X, l'ultimo re di Francia della dinastia borbonica. Inoltre, Carlo Emanuele, figlio del re di Sardegna, aveva sposato Clotilde di Francia, sorella di Luigi XVI e dei conti di Provenza e d'Artois. Alla Corte di Francia viveva anche una Savoia-Carignano, Maria Teresa, moglie del principe di Lamballe, che fu vittima della Rivoluzione.

Mentre i tempi erano torbidi e pieni di oscure minacce, a Torino come a Parigi la nobiltà folleggiava, sfoggiando un lusso sfrenato. In un solo anno, per uso delle principesse Maria e Teresa, furono comprati più di 1400 metri di nastri. Le spese per i musicanti di Corte ammontavano annualmente a circa venticinquemila lire, somma enorme in quei tempi. Nelle scuderie c'erano seicento cavalli, per i quali si spendevano quasi trecentomila lire. Le cacce costavano, ogni anno, quasi settantamila lire...

Frattanto, nobiltà e governanti insistevano negli antichi loro abusi, senza neppur pensare di far male e di prepararsi giorni d'espiazione. La giustizia penale continuava ad essere rigorosissima e a distribuire pene corporali e frequenti sentenze capitali.

La leggerezza con cui dalla nobiltà veniva considerata la situazione, mentre dovunque si manifestavano fermenti rivoluzionari, era incredibile. Il regime antiquato, feudale, fermamente contrario a tutte le nuove idee, che caratterizzava il regno di Vittorio Amedeo III, provocava acerbe e minacciose satire che circolavano manoscritte per tutto lo Stato; tumulti annonari si ripetevano continuamente in Sardegna, dove le scarse risorse erano dal governo piemontese sacrificate a vantaggio di pochi prepotenti signori, spesso malversatori; in Piemonte si ebbero gravi disordini popolari causati dal rincaro del pane, mentre l'assoluta devozione alla Casa regnante vi andava diventando una semplice illusione del re e dei suoi amici; in Savoia, l'aristocrazia, propensa a darsi alla Francia o a Ginevra, manifestava apertamente le proprie tendenze, contro le quali non giovavano le più severe condanne.

Ma quando gli avvenimenti precipitarono, e il turbine della rivoluzione imperversò anche negli Stati Sabaudi, sollevando i contadini, i borghesi, e a Torino, a Vercelli ed altrove anche i soldati, contro la nobiltà, Vittorio Amedeo III si dimostrò inferiore alle difficili congiunture in cui si trovò per debolezza di carattere e per assoluta mancanza di quella elasticità politica che tanto aveva giovato ai suoi predecessori. Impaurito dalla drammaticità degli avvenimenti, e colpito anche personalmente come congiunto del re di Francia sacrificato dalla Rivoluzione, invitò tutti gli Stati italiani a formare contro la Francia una lega allo scopo di « preservare i rispettivi territori dalla corruzione e dalle insidie degli emissari francesi, di comunicarsi reciprocamente le notizie ricevute e i provvedimenti presi, e di aiutarsi l'un l'altro nel caso che qualche esplosione in uno o nell'altro dei rispettivi domini rendesse necessarie somministrazioni d'uomini o di denaro ».

Ma tale proposta, presentata dal ministro Napione, fautore fin dal 1780 di un analogo-progetto di federazione, naufragò per effetto dell'ostinazione con cui i Signori italiani persistevano nei loro antichi sistemi, ed anche per gl'intrighi dell'Austria, che mirava a diventar padrona della lega, qualora questa si fosse formata. Tuttavia, nel 1792 il Piemonte dovette prendere le armi perchè fu aggredito dalla Francia, che, in nome del principio di nazionalità e di sovranità popolare, invase la Savoia, abitata da genti prettamente francesi, ed il Nizzardo, su cui essa, considerandolo zona di confine, sosteneva antiche pretese.

L' esercito piemontese, composto di buoni soldati, ma guidato da ufficiali inetti, fu in breve costretto, benchè avesse una notevole superiorità numerica, a ritirarsi di qua dalle Alpi; e le due province, dopo un plebiscito favorevole, furono annesse alla Francia.

La fortuna del Piemonte nel passato era derivata principalmente dalla possibilità materiale e ideale di destreggiarsi fra le due classiche nemiche, la Francia e l'Austria, mettendo il proprio esercito a disposizione dei migliore offerente e tendendo sempre alla realizzazione dell'antico sogno di annettersi il Milanese. Ma ora il destino toglieva al re Sabaudo la possibilità dell'alternativa e lo obbligava ad allearsi con l'Austria, poichè se avesse agito diversamente, anche acquistando territori in Italia (l'Assemblea Legislativa infatti gli offriva la Lombardia) avrebbe in certo qual modo firmata la propria abdicazione con l'aprire i suoi Stati ai principi rivoluzionari di costituzione, di uguaglianza, di repubblica.

Ma alleandosi con l'Austria, per forza, egli veniva ugualmente a danneggiarsi, poichè in caso di vittoria avrebbe dovuto dare all'alleata delle terre italiane, in compenso di quelle riprese o conquistate in Francia, e così avrebbe nuovamente spostato verso occidente il centro di gravità della monarchia, che ormai era divenuta italiana. « Così il Piemonte, preso tra i due vortici, combatte per abitudine col solito valore - nota uno storico - ma con una specie di cecità mentale che disperde i suoi colpi non diretti ad uno scopo ben chiarito, ed è sfruttato, anzichè aiutato, dal potente imperatore Francesco II, che sembra mirare non già a difenderlo, ma a renderselo vassallo ».

Dopo la tregua imposta dalla stagione invernale, la guerra s'intensificò improvvisamente, nel 1793, poichè la decapitazione di Luigi XVI e l'espansione conquistatrice della Repubblica francese sollevarono contro di essa tutta l'Europa monarchica. Parma, Napoli e la Toscana si decisero allora a mandare in aiuto al Piemonte e all'Austria qualche migliaio d'uomini, tra sbirri e doganieri. Il Piemonte entrò nella prima coalizione, senza sciogliersi dall' alleanza particolare con l'Austria, ricevendo dall'Inghilterra una sovvenzione di 200.000 lire all'anno per poter continuare la lotta.

Concorde col generale movimento europeo, anche Vittorio Amedeo III prese l'offensiva, col suo esercito, tentando di liberare contemporaneamente la Savoia e Nizza, per congiungersi poi con i ribelli di Lione, di Marsiglia e di Tolone. Ma l'eccessiva divisione delle forze, le rivalità fra i generali, la malafede dell'Austria e il fanatismo eroico delle milizie repubblicane fecero fallire questo piano.

Nel 1794, la Francia prese l'offensiva anche ai confini del Piemonte. L'idea, tradizionale nella politica francese, di battere l'Austria in Italia era resa più suggestiva dal miraggio di conquistare la Lombardia, di chiudere la penisola all'Inghilterra, di detronizzare il Papa in Roma, e di rinsanguare, a spese della ricca Italia Settentrionale, le esauste finanze della Repubblica, e spingeva la Convenzione ad insistere nell'offensiva per vincere ad ogni costo.

Vittorio Amedeo III, ridotto agli estremi, dovette firmare il trattato di Valenciennes, col quale riconobbe ufficialmente le richieste dell'Austria, obbligandosi a restituirle, se vittorioso, i territori delle province di Novara e di Alessandria. Ma intanto la vittoria sorrideva agli eserciti repubblicani. Il piano di guerra ideato dal giovane comandante dell'artiglieria Napoleone Bonaparte procurò in breve ai Francesi (che valicavano monti e violavano terre neutrali, come Genova) il possesso di tutta la cresta alpina fino al Colle di Tenda, che fu occupato, come il Piccolo San Bernardo e il Moncenisio, e gli Austro-piemontesi furono respinti alla difesa degli sbocchi.

Il pericolo veniva aggravato dalle cospirazioni interne, le quali, benchè sventate a tempo, confermavano che anche nel fedele Piemonte esisteva un'audace minoranza di giacobini, pronta ad aiutare il nemico. Fin dal 1793 si erano infatti costituiti tre clubs (al più acceso dei quali appartenevano anche uomini come lo storico Carlo Botta) che si proponevano di far scoppiare nel regno di Vittorio Amedeo III una rivoluzione che certamente sarebbe stata aiutata dalla Francia. I congiurati, scoperti, vennero arrestati, giudicati sommariamente e condannati a gravi pene. Quattordici di essi furono giustiziati.

Ad ogni modo le condizioni del Piemonte erano critiche più che mai, quando improvvisamente la caduta di Robespierre e l'inevitabile contraccolpo che ne seguì, tolsero all'esercito francese lo stratega, accusato di terrorismo, e ne mutilarono la vittoria. Quindi, per tutto il resto dell'anno, la guerra subì un ristagno, durante il quale non si ebbero che dei combattimenti senza risultati apprezzabili.

Nel 1795, la coalizione europea si sciolse. Irritato per avere avuto scarsa parte nella terza divisione della Polonia, il re di Prussia Federico Guglielmo III si pacificò con la Francia, e poco dopo la Spagna seguì il suo esempio. Il Piemonte, troppo rigido per accettare le proposte di pace separata che gli venivano fatte dalla Convenzione, rimase in armi, ma senza fortuna. Infatti, il dissidio fra il generale Colli, comandante dei Piemontesi, e il generalissimo austriaco Devins, aggiuntosi alle già note cause di debolezza, diede modo ai Francesi, comandati dallo Schérer, di compiere la conquista della Riviera di Ponente, a danno di Genova, che non c'entrava affatto. Nel frattempo, la rivoluzione muoveva la Corsica e penetrava anche in Sardegna, suscitandovi un'accanita guerra civile fra giacobini e retrogradi.

Nel 1796, la guerra già vittoriosa per i Francesi guidati dal generale Bonaparte, prese un ritmo più celere. Secondo il piano geniale di Lazzaro Carnot, che nel Direttorio fungeva da ministro della Guerra, l'Austria rimasta ormai unico Stato continentale in lizza contro la Francia, doveva essere attaccata contemporaneamente da tre eserciti, i quali, con un grandioso movimento convergente, muovendo dal nord verso il Danubio, e dal sud attraverso la Lombardia e su per il Tirolo, si sarebbero riuniti a Vienna. Contro i settantamila uomini del Colli e dell'austriaco Beaulieu, il generale Bonaparte aveva ai suoi ordini quei quarantamila uomini sommariamente vestiti, mal nutriti, mal pagati, privi d'artiglieria, di cui tutti gli storici narrarono gli eroismi generati dal fanatismo per la libertà, e dagli imperiosi bisogni materiali, e disponeva di quella forza formidabile che era il suo genio.

L' offensiva francese cominciò l'11 aprile, ed il 27 il Piemonte chiese la pace. In quindici giorni, Bonaparte aveva completamente attuato il suo piano audace e sapiente. Nonostante l'inferiorità numerica del suo esercito, egli riportò le vittorie famose di Montenotte, di Millesimo, di Dego, di Mondovì, e con quest'ultima obbligò Vittorio Amedeo a domandare la pace per conto proprio. Spaventando i plenipotenziari con lo spettro di un'inevitabile rivoluzione interna, li costrinse ad accettare le dure condizioni del trattato di Cherasco (27 aprile 1796) in conseguenza del quale il Piemonte rinunciò a Nizza e alla Savoia, diede in mano ai Francesi gli sbocchi interni delle Alpi e le fortezze di Cuneo, Tortona e Ceva, e dovette concedere libero passo alle truppe francesi per la guerra contro l'Austria, che continuava.

Questa pace, non solo non salvava lo Stato, ma contribuiva alla sua rovina, poichè apriva più che mai il paese ai principi sovvertitori della Rivoluzione, portati dalle guarnigioni francesi e diffusi dai giacobini indigeni che il Re aveva dovuto graziare. Vittorio Amedeo III non aveva saputo imitare il suo avo Vittorio Amedeo II, che nel 1706, con lo Stato quasi totalmente occupato dal nemico, con l'erario esausto, aveva continuato con superba ostinazione la guerra fino al giungere degli aiuti austriaci, coi quali poi aveva finito col vincere.

Nota il Predari : « Nessun giudice migliore del generale Bonaparte per giudicare, all'inizio della guerra in Piemonte, le rispettive condizioni delle parti avversarie; ed è ben noto come il gran condottiero avesse a dire che, ove il re di Sardegna gli avesse tenuto fermo solo quindici giorni, egli sarebbe stato costretto a rivalicare i monti e a ritornarsene là da dove era venuto. Anche in quel frangente non mancarono l'animo e il buon volere di Vittorio Amedeo III, disposto a mettersi allo sbaraglio di qualunque fortuna quando il miglior bene del paese lo avesse richiesto; ma mancò la mente sua, non mai all'altezza dei grandi avvenimenti e dei nuovi interessi che andavano sorgendo; e soprattutto nocque la funesta deferenza ai consigli di uomini inetti di cui il Re si era sempre circondato.
« Due anni prima di questi deplorabili errori politici, un altro ne aveva commesso Vittorio Amedeo, pure gravissimo, ma che fortunatamente non aveva avuto conseguenze per le successive vicende della guerra : intendiamo dire del trattato di Valenciennes (1794), in forza del quale egli si era obbligato con l'Austria a disfare, per così dire, tutta quanta la gloriosa opera de' suoi antenati, pattuendo che tutte le conquiste che si facessero dalle congiunte armi austro-sarde sulla Francia, fossero divise in due parti uguali, ma che la parte che sarebbe toccata all'Imperatore si avesse a commutare nella restituzione che a lui farebbe il Re di una parte proporzionata di quelle province che erano state prima smembrate dal Milanese ».

Ora le condizioni del Piemonte erano tristissime, ma non disperate, anche perchè quelle dei Francesi non erano molto migliori. Ad ogni modo, il più forte degli Stati italiani era innegabilmente in balìa della Francia, alla quale, perciò, era aperta la penisola.
Vittorio Amedeo III, colpito da apoplessia, morì il 16 ottobre di quell'anno,

«lasciando, come scrisse Carlo Botta, un regno servo che aveva ricevuto libero, un erario povero che aveva ereditato ricchissimo, un esercito vinto che gli era stato tramandato vittorioso ».

Lasciò inoltre dei figli poco adatti a regnare: Carlo Emanuele, destinato a succedergli; Vittorio Emanuele, duca d'Aosta; Carlo Felice, duca di Genova; Maurizio, duca di Monferrato, e Placido Giuseppe, conte di Moriana.