BIOGRAFIA
( n. 1702 - m. 1773) - Re di Sardegna 1730 - 1773

La restaurazione della monarchia di Savoia, iniziata da Emanuele Filiberto, continuata da Carlo Emanuele I e poi interrotta dalle reggenze, era stata ripresa vigorosamente e quasi compiuta da Vittorio Amedeo II, il cui regno era durato più di mezzo secolo.

Prima di quest'ultimo regno, i possedimenti della Casa di Savoia avevano avuto frontiere interrotte qua e là, non costituite da fiumi o da monti. Fra i territori della monarchia se ne insinuavano parecchi posseduti da altri principi o da stranieri. Il popolo era neghittoso, vizioso, e detestava le armi, anche quando si trattasse della propria difesa; il paese era povero di prodotti naturali, e le industrie vi erano scarse e tutt'altro che floride. Lo Stato insomma era di nuovo in condizioni tali, che, come aveva detto Nicolò Balbo ad Emanuele Filiberto, «si poteva perderlo in ventiquattr'ore».

In quasi due secoli, la volontà e le azioni di cinque sovrani, e specialmente del primo e dell'ultimo di questi cinque, avevano completamente trasformato il Ducato. « La monarchia, scrive il Cibrario, in molti luoghi allargò, in altri restrinse i suoi confini, ed ebbe frontiere unite, munite e difendibili; assorbì i domini stranieri che s'internavano nello Stato; crebbe di popolo industrioso, commerciante, agiato, vago di gloria, ripieno di spiriti militari, e cupido di provare sui campi di battaglia la sua virtù. Lo Stato, ricco d'armi e d'armati, difeso da buone fortezze, ebbe autorità preponderante in Italia ».

Quando salì al trono Carlo Emanuele III, mentre « lo Stato procedeva con l'uniforme e pacato andamento di un ben regolato cronometro », e le riforme di Vittorio Amedeo II venivano mantenute, applicate, la Conte di Torino mutò aspetto, divenne fastosa e piena di brio giovanile. Chiusa la drammatica parentesi della rivendicazione del regno tentata dal padre abdicatario Carlo Emanuele III potè dedicarsi tranquillamente alla sua grande passione per la caccia, mentre il marchese d'Ormea, ministro più che mai prezioso, gli risparmiava tutte le noie del governo, e, mostrandosi ricco di idee e di espedienti, come pieno di devozione per il suo re, rimaneva vero padrone del regno.

Tutto sarebbe continuato così per molto tempo, se nel 1733 l'elezione d'un re di Polonia non avesse dato pretesto ad una nuova guerra tra la Francia e l'Austria.
Augusto di Sassonia era stato assunto al trono di Polonia con evidente violazione dei diritti di Stanislao Leczinski, suocero di Luigi XV, e questo re si era affrettato a farsi propugnatore di tali diritti. Il re di Sardegna comprese subito di non poter rimanere neutrale; ma, fedele alla politica tradizionale della sua Casa, si propose d'intervenire soltanto « a ragion veduta », preoccupandosi soprattutto dei vantaggi che da quella contesa gli potevano derivare. Egli iniziò quindi delle trattative con le due Potenze belligeranti, per sapere da quale parte avrebbe potuto ottenere condizioni migliori. Pur sapendo di potersi fidare ben poco delle promesse francesi, la durezza della Corte di Vienna, che padrona della Lombardia e di Napoli si riteneva la più forte, lo spinse ad allearsi con la Francia. L'alleanza venne conclusa il 24 settembre 1733, col patto ch'egli dovesse essere il generalissimo delle forze alleate, e che non più d'un reggimento francese alla volta dovesse passare per i suoi Stati.

Appena cominciata la guerra, quantunque, cosa prevedibile, vi fosse scarso affiatamento fra il principe italiano e i generali francesi, Carlo Emanuele non mancò (come si era temuto, essendo messa in dubbio la sua lealtà) di scendere in Lombardia con un esercito di quarantamila uomini, ed in breve occupò parecchie città, tra le quali Pavia, Lodi, Cremona, Novara, Tortona. Con la resa di questa città, cadde l'ultimo baluardo della dominazione austriaca in Lombardia, e dopo gli attacchi del 15-16-17-18 dicembre, il 19 con l'assedio al Castello Sforzesco, lo Stato di Milano era ormai interamente sottomesso alla Casa di Savoia.

Il castello (vedi immagine afianco) si era poi arreso il 2 gennaio 1734 a Carlo Emanuele, che già però aveva preso possesso della città come sovrano «ordinandovi una buona amministrazione composta dei più autorevoli uomini del paese e tutta basata sulle leggi già preesistenti ».

In quella campagna furono riportate dai franco ispano-sardi due considerevoli vittorie: una con la battaglia di Parma (29 giugno 1734), vinta dal francese Coigny contro il tedesco Mercy, mentre Carlo Emanuele aveva dovuto correre a Torino presso la moglie gravemente ammalata; l'altra con la battaglia di Guastalla...

... vinta dal re di Sardegna in persona contro il generale austriaco Kónigseg il 19 settembre 1734.

Queste due vittorie diedero luogo a lunghe trattative di pace che ebbero conclusione a Vienna il 18 settembre 1738, e per le quali, invece del ducato di Milano che gli era stato promesso e che aveva conquistato, il re di Sardegna ottenne la cessione delle province di Novara e di Tortona, e dei feudi imperiali delle Langhe. Venne pure negato al re di Sardegna il possesso di Parma per effetto dell'opposizione di Elisabetta Farnese, regina di Spagna.

Così Milano e Parma rimasero ai Tedeschi, i quali, a beneficio degli Spagnoli, perdettero il regno di Napoli.
" Anche questa volta nè il valor militare, né la ragion dei trattati, nè i diritti della vittoria valsero ad acquistare a Casa Savoia il Milanese; la bandiera di Savoia, che per tre anni stette inalberata sulle torri di Milano, fu di nuovo cambiata col vessillo austriaco; e ciò per la mancata fede di un Borbone. Tuttavia Carlo Emanuele III, raggiunse il principale, intento per cui aveva mosse le armi: l'equilibrio italiano da duecento anni rotto fu restaurato, e la prossimità dell'Austria cessò dall'essere paurosa e prepotente sugli altri; il Piemonte, cresciuto di due ricche province, quantunque l'acquisto di Parma e Piacenza rinforzasse l'imperatore di Lombardia, divenne allora la prima potenza militare italiana, e si sentì padrone delle sorti future della penisola» (Canuti).

Scoppiata poi nel 1742 la guerra per la successione austriaca (Maria Teresa), Carlo Emanuele si alleò con l'Austria contro i Borboni e i loro aderenti. Erano fra questi la Repubblica di Genova e il Ducato di Modena. Il re di Sardegna invase subito il Modenese e l'occupò; indi accorse in Savoia e ne cacciò gli Spagnoli che si erano impadroniti del paese. Rivalicate le Alpi, sconfisse i nemici a Camposanto, e volò in soccorso di Cuneo assediata. Ma dal nemico, più forte, dopo ostinato e glorioso combattimento fu sconfitto quasi sotto le mura della città, alla Madonna dell'Olmo, non senza gravissime perdite dalla parte dei vincitori. I Franco-Spagnoli presero Tortona e Bobbio, cacciarono i Sardi da Bassignana, assediarono Alessandria, occuparono Asti, Valenza e Casale. Carlo Emanuele III, male aiutato dall'Austria, stretto dagli eserciti delle tre Corti borboniche, vedendo impossibile impedire che i nemici assediassero Torino, seppe resistere alle insidiose proposte della Francia, e con valorose schiere di Piemontesi cacciare gli Spagnoli da Asti e da Alessandria, trasportando la guerra fuori dal Piemonte.

La serie di quei gloriosi fatti d'armi si chiuse con la famosa battaglia dell'Assietta (19 luglio 1747), nella quale pochi Piemontesi, protetti da una debole trincea, vinsero e costrinsero a ritirarsi cinquanta battaglioni francesi, che persero seimila uomini e tutta l'artiglieria, due generali e quattrocentocinquanta ufficiali.
Il 16 ottobre 1748, venne finalmente firmata la pace di Aquisgrana, e il re di Sardegna vi ebbe confermate le cessioni stipulate nel precedente trattato di Worms (il Vigevanasco, l'alto Novarese, l'oltre Po pavese con Bobbio), ma non Piacenza, nè il marchesato di Finale, ugualmente promessigli. Aggiungeremo qui che nel 1745 Carlo Emanuele III aveva mandato milizie proprie in Corsica, ad aiutare i Corsi insorti contro Genova. Ma dopo la pace del 1748, gl'insorti si videro abbandonati dal re di Sardegna, e quanti si erano compromessi politicamente, facendo assegnamento sulla protezione di lui, rimasero sacrificati.

Carlo Emanuele III, non uso a precipitare le proprie risoluzioni, aveva lungamente indugiato prima di decidersi ad intervenire nella guerra a fianco dell'Austria. Conformandosi come il padre alla tradizionale politica della sua dinastia, e trovandosi in mezzo alle due formidabili potenze rivali, Austria e Francia, egli aveva in linea di massima quella di accostarsi preferibilmente alla parte più debole e di assicurarsi compensi per i propri soccorsi, ritenendo inutile (data la delicatissima posizione geografica della Savoia, sempre esposta al pericolo di diventare teatro di guerra fra le due Potenze rivali) aggiungere le proprie forze a quelle della più forte. Da ciò l'accusa di mutabilità nella politica della Casa di Savoia. Ma è facile capire che quella mutabilità era una condizione di esistenza. E che il vero interesse dello Stato fosse l'unica regola ispiratrice della politica dei principi Sabaudi, fu dimostrato una volta di più da Carlo Emanuele III, quando, alleandosi con Maria Teresa, si riservò (esempio unico nella storia della diplomazia) la facoltà di staccarsi da lei e di passare, sembrandogli necessario, dalla parte dei nemici dell'impero.

Durante la lunga e gloriosa pace che seguì il trattato di Aquisgrana, Carlo Emanuele III, facendo tesoro dei consigli di quell'abile diplomatico che era il conte Bogino, come prima aveva fatto di quelli del marchese d'Ormea, si rivelò un eccellente uomo di governo. Rifornì l'erario e ridusse le imposte; fece scavare canali d'irrigazione, aprire strade, migliorare i porti di Nizza e di Villafranca; fece completare il catasto, iniziato da suo padre; provvide a far riparare e completare la linea di fortezze destinata ad impedire il passaggio ai Francesi; fondò in Torino una scuola di artiglieria e una di mineralogia, e favorì in ogni modo gli studi, le arti liberali, le istituzioni religiose. Per queste ultime, ebbe a collaboratrice la seconda moglie, Polissena d'Ascia.

La sua politica interna mirò costantemente a concentrare tutto nell'autorità reale, facendo scomparire in ogni ordine tutte le disuguaglianze civili, e così giovò anche alle classi popolari, redimendole da certe oppressioni ancora medioevali. Però si deve anche dire che egli soppresse le antiche libertà convenzionali della Valle d'Aosta i cui abitanti vennero a trovarsi in condizioni assolutamente uguali a quelle degli altri sudditi. E si deve aggiungere, in tema di provvedimenti restrittivi, che durante il regno di Carlo Emanuele III la libertà di stampa fu rigorosamente limitata. Il Denina, il Bodoni, il Berthollet, il Lagrange, l'Alfieri e parecchi altri scrittori piemontesi di grande valore dovettero andare a cercare altrove la libertà di pubblicare integralmente le opere loro, senza subire censure.

Nondimeno, la fondazione della Stamperia Reale, alcuni trattati di commercio molto importanti, le numerose opere pubbliche a cui abbiamo già accennato, la legislazione monetaria, l'apertura di scuole di veterinaria e d'ostetricia, la costruzione del Teatro Regio di Torino, dell'Arsenale, della Casa di correzione e di parecchi ospedali, fanno assegnare a Carlo Emanuele III un posto ben meritato fra i principi italiani più notevolmente e più utilmente riformatori del secolo XVIII. Egli promosse anche le bonifiche intorno a Novara, a Mortara, ad Alessandria e nel Vercellese, e molto volle fosse fatto anche per la Sardegna, dove fondò le Università di Cagliari e di Sassari, e dove fece ripristinare la lingua italiana, sopraffatta durante la dominazione spagnola.

Nota il Cibrario che questo re «...italianizzò e riformò la Sardegna, e vi fece rifiorire gli studi, caduti tanto in basso, sotto il dominio spagnolo, che non vi era in tutta Cagliari che un solo esemplare del Digesto. Se la Sardegna da spagnola tornò italiana, se il flebotomo non continua ad essere il più dotto uomo del villaggio, se il saper scrivere non vi è più un titolo onorifico come altrove quello di dottore, il merito è della Casa di Savoia, come è suo merito se vi è qualche strada, se vi esiste qualche industria, qualche commercio, se c'è qualche possibilità d'aumentarli, purchè i naturali, uomini d'acuto ingegno e capaci, vincano la nativa ed altera indolenza ».

Carlo Emanuele III era stato creduto dal padre un giovane poco intelligente, fiacco e svogliato; ma il padre stesso aveva poi dovuto persuadersi ch'egli era assai diverso da come l'aveva visto secondo quella pregiusizievole antipatia che aveva sempre avuta per lui. Carlo Emanuele, infatti, « fu sempre molto laborioso, applicatissimo agli affari, mattiniero, sobrio, rigoroso nell'osservanza dei cerimoniali che contribuivano con la loro pompa a far sentire a tutti la sua dignità di re ».

71 enne Carlo Emanuele III morì quasi improvvisamente il 20 febbraio 1773, e fu poi sepolto con grande solennità nella Basilica di Superga.
Aveva avuto tre mogli: la prima, Anna Cristina, era morta nel 1723, mentre il padre era ancora principe ereditario, senza lasciargli prole; la seconda, Polissena d'Assia-Rheinfel's-Rottenburg era morta nel 1735, lasciandogli due figli : VITTORIO AMEDEO (poi suo successore) ed Emanuele Filiberto, e tre figlie, Eleonora, Maria Felicita e Maria Luigia; la terza moglie Elisabetta Teresa, figlia di Leopoldo Giuseppe duca di Lorena e cognata dell'imperatrice Maria Teresa, era morta nel 1741, dopo averlo reso padre del principe Benedetto Maurizio.
Vedovo per la terza volta a soli quarant'anni, Carlo Emanuele non aveva più voluto ammogliarsi e aveva continuato a condurre vita castigatissima. « Terminò ai suoi giorni, scrive infatti il Litta, quella progenie di spuri con cui gli antenati suoi avevano arricchito ogni generazione ».

Dei suoi undici figli, oltre a Vittorio Amedeo che gli successe sul trono, ricorderemo Benedetto Maurizio, duca del Chiablese, che si distinse agli ordini del fratello re, nella campagna che si svolse nel Nizzardo contro gli eserciti della Francia rivoluzionaria. Tutti gli altri morirono giovani.


Carlo Emanuele III, pure « avendo sortito una mente e un ingegno che non emergevano punto dalla mediocrità »,
meritò di essere considerato in Italia e all'estero, per i suoi atti e le sue opere, come un gran re di un piccolo popolo.
Scrive il Predari : « È dalla rigidezza e scabrezza dei modi che gli usava il padre, che l'animo suo, invigorendosi con gli anni, contrasse la forza e la saldezza onde andò il suo carattere distinto; è dalle minute e al tempo stesso dalle profonde lezioni paterne, che la sua mente, avvalorata dall'esercizio, derivò l'abitudine a studiare, conoscere, vigilare tutte le operazioni di governo, le grandi come le minori. Dalla perfetta cognizione di tutti gli interni anche più piccoli motori della macchina sociale ed amministrativa, potè Carlo Emanuele acquistare la capacità, che fu poi sì grande in lui, dei governarla con mano sicura e con quella metodica esattezza la quale, se non crea la grandezza dei popoli, ne produce ed alimenta pur sempre il benessere e la felicità ».

Questo principe fu specialmente soldato, per vocazione e per predilezione, e molti studi, molte cure e molte spese dedicò per quasi tutta la durata del suo regno, come s'è già detto, all'esercito, alle fortificazioni è alla marina. « Considerando l'estensione del piccolo Stato, osserva il già citato Predari, desta meraviglia il dispendio che Carlo Emanuele potè sostenere per l'esercito e le fortificazioni senza far pesare con nuove imposte i suoi sudditi. Anzi, dopo la pace di Aquisgrana, egli le andò sempre diminuendo, in modo tale che, nel 1763, essendo stato in grado di sopprimere l'ultima delle imposte straordinarie di guerra, potè, dopo firmato il decreto di soppressione, esclamare: "Questo è il più bel giorno della mia vita!"
Le grandi spese sostenute da questo principe si spiegano con le grandi e sapienti economie introdotte in tutti i rami della sua amministrazione, e con le nuove ed ampie sorgenti di ricchezza dischiuse alla rendita pubblica grazie all'agricoltura, all'industria, al commercio, ch'egli seppe far mirabilmente prosperare, nonostante i molti pregiudizi economici che mantenevano rovinosi monopoli ».

Lo stesso Predari, che lasciò della storia di questo regno un'ottima sintesi, dalla quale risulta specialmente efficace il ritratto morale di Carlo Emanuele III,accenna anche ad altre interessanti particolarità del carattere e delle azioni di questo re:
« Cresciuto soldato nella scuola e ancor più sui campi di battaglia, Carlo Emanuele, quanto forte aveva l'intelletto negli studi rigidi e severi della politica e della pubblica economia, altrettanto aveva l'animo alieno al sentimento ed all'amore degli studi eleganti e gentili delle lettere e delle arti belle... Solo nella milizia riconosceva il privilegio del genio e dell'ingegno, giacchè, mentre le cariche più elevate non si davano che alla nobiltà, egli promosse ai sommi gradi della gerarchia militare il merito, ancorchè di origine umile e borghese. Basti citare il Papacino de Antoni, che da semplice cannoniere diventò luogotenente generale e comandante dell'artiglieria.
" La predilezione del re per tutta ciò che riguardava la guerra produsse che solo i militari ebbero favori, privilegi e grazie da lui. Tutti i più insigni e lucrosi impieghi erano per i soldati. Da ciò derivò che tutta la gioventù si dava alla carriera militare, trascurando totalmente ogni altro studio ed ogni cultura. "Ad un signore non occorre diventar dottore", soleva dire Carlo Emanuele III, e il vezzo di non erudirsi divenne generale fra i nobili... Solo degli studi storici il re non sconosceva il merito e l'importanza, ma considerandoli come strumento necessario alla sua fama, della quale era molto sollecito. Onorò qualche insigne storico, fra i quali il Muratori, ed allagò qualche lavoro di storia del suo tempo, ma per il solo scopo di illustrare i suoi fatti militari... Le lettere amene, e particolarmente la poesia, aveva egli in tanta considerazione, che dileggiava i poeti, chiamandoli facitori di mezze righe. Ciò nondimeno, grazie ai consigli e agli incitamenti del Rogino, uomo che alla sapienza civile accoppiava molta intelligenza ed altrettanto amore per ogni ramo di studi, e che considerava la letteratura e l'arte potentissimi elementi e strumenti di prosperità sociale, Carlo Emanuele III decretò parecchi miglioramenti negli studi universitari, e provvide ad alcune istituzioni culturali ».

Di queste istituzioni, le abbiamo citate alcune , pur senza nominarle tutte.
«La laboriosità di questa principe - dice ancora il Predari - si sostenne fino agli estremi della sua vita, giacchè persino alla vigilia della morte egli segnava ordini e patenti, quantunque tra una lettera e l'altra nella lettura, più volte inclinava il capo sonnolento sul petto. Fu principe di somma probità; inflessibile nella giustizia, ottimo padre de' suoi sudditi nel governo dei loro interessi: economici e civili; perfettamente soldato, importò in tutta la sua amministrazione l'esattezza, il rigore della disciplina militare; gelosissimo della dignità regia e dei poteri della sovranità, volle sempre, anche nelle forme pompose del suo vestire, che tutti lo sapessero re; l'ossequio versodi lui cominciava dal sangue reale, nemmeno i suoi figli potevano comparire dinanzi a lui se non avevano l'abito decoroso di gran signore.
"Egli che non dava mai confidenza a chicchessia, non ai sudditi, non ai ministri, e neppure ai figli, biasimava l'aristocrazia democratica di Giuseppe II. Egli che stava sempre raccolto nel suo palazzo, e che compariva in pubblico quasi sempre a cavallo, disapprovava soprattutto i viaggi che Giuseppe II faceva in incognito, dicendo che i principi, a somiglianza delle statue, non hanno a discendere mai dal piedestallo, perchè delle statue vedute da vicino si scorgono facilmente i difetti.

«Tuttavia, mentre circondava il trono e la Corte di una etichetta eccessivamente cerimoniosa, splendida, sfarzosa e quasi rituale, accoglieva ricorsi da tutti, e da tutti ascoltava lagnanze. Esaminava e provvedeva egli stesso, con pronta e giusta giustizia, perfino contro gli stessi suoi più bravi ministri. Di questi fatti ridondano le pagine dei suoi biografi. Religiosissimo ed anche molto osservante delle pratiche di chiesa, non tollerò le equivoche devozioni, stimandole più atte ad alimentare la superstizione che le virtù religiose; ma malgrado ciò, andava sempre ripetendo che il clero e i frati dovessero rimanere fuori dalla Corte. Le sue gelosie contro le preponderanze clericali fecero sì che nessun ecclesiastico fu mai da lui impiegato in affari economici, politici, civili. Vigile, intraprendente, applicatissimo agli affari, sobrio, dormiva poco e vedeva sempre l'alba. E tranne qualche giorno di caccia in autunno, nulla lo distraeva.

"Ma il paese governato dal suo re, come un bimbo lo è dal tutore, non godeva alcuna libertà, poichè ovunque la sua regia autorità interveniva. "Dappertutto, scriveva l'Alfieri, appariva il nome del re; censura rigida, inflessibile nella stampa interna, nella introduzione dei libri stranieri; quanto si era facili e larghi coi libri solo perchè condannati dall'Inquisizione Romana, altrettanto si era stretti per quelli che potessero aprire qualche spiraglio alla libertà di pensiero, e molto più se contrari all'assoluta autorità del sovrano..." Feste, teatri, balli, sorvegliati, governati da un rigore minuzioso, pettegolo; quasi ad ogni atto della vita privata si inframmetteval'arbitrio governativo; la polizia invadente dei più intimi sacrari della società, e dove era, come nelle province, abbandonata ai comandanti militari, causa di soprusi e soverchierie, quasi sempre impunite perchè troppi lontani dagli sguardi del re.
«Con tutto ciò il paese viveva contento della pochissima o nessuna libertà che gli era concessa, per un vero e profondo amor patrio che lo faceva persuaso essere cosa utile e necessaria al bene della patria tutto ciò che era voluto dal re, al quale sentiva doversi la propria indipendenza, la interna sicurezza e la considerazione procacciata all'estero. Questi i frutti, conclude il Predari, che le opere sue aveva Carlo Emanuele III prodotti al Piemonte. All'Italia, oltre all'avere organizzato un esercito forte, abituato al vincere, procacciò con le due guerre vinte, questi due importanti risultati politici: con la prima demolì l'eccessivo predominio austriaco, con la seconda, impedì una maggiore predominanza borbonica, pericolosa non solo per i principi italiani, ma anche per l'equilibrio europeo ».

Un altro storico dei Savoia, il Pio, desume da memorie del tempo interessanti notizie sulla vita nel Piemonte e specialmente a Torino durante il lungo regno di Carlo Emanuele III:
«Dominava allora in Piemonte, come nel rimanente d'Italia, il ridicolo costume dei cicisbei (cavalieri serventi) meno osservato però, e meno svenevole, perchè ormai l'aristocrazia era militare e poco inclinata a quelle svenevolezze. Nel vestire si seguiva la moda di Francia. I nobili, i funzionari dello Stato, i dottori e i banchieri portavano la spada; l'uso n'era vietato agli altri cittadini. I costumi erano generalmente corretti nel popolo e nella borghesia, ma piuttosto liberi nella nobiltà, onesti nella corte, dove il re Carlo Emanuele e i suoi figli davano esempio di continenza.
Parecchie case tenevano conversazione, fra le quali erano rinomate per brio e frequenza quella del marchese di Priè, prodigo dissipatore che, caricatosi di debiti, ebbe sequestrati i beni, e dovè fuggire a Venezia, e quella di madama Martin, bella e spiritosa signora".

« Il teatro Regio era frequentato dalla corte e dall'alta società; in carnevale vi si rappresentavano opere in musica, nelle quali cantavano i migliori artisti d'Italia, accompagnati da ottima orchestra. Al teatro Carignano si dava commedia italiana e francese, e opera buffa.
« Torino aveva regolari le vie e le piazze, come oggi si vede. Una galleria univa il palazzo reale al palazzo Madama. Non vi era ancora il bel ponte sul Po, e il fiume si varcava sopra un ponte di legno.

Quattro porte davano accesso alla città contornata da quattordici bastioni fortificati; la porta Palatina era una delle quattro porte...

.... la sua popolazione ascendeva a circa settantasei mila abitanti. La piazza Castello, centro d'ogni ritrovo, era rumorosa per ciarlatani, cavadenti ed astrologi, che vi risiedevano tutto il giorno; e in essa la vigilia di S. Giovanni dopo la chiusura delle botteghe si faceva festa in piena allegria dando fuoco ai falò, pranzando, giocando fino al mattino, e si concludeva con le celebrazioni e le funzioni religiose del santo.


« Già le vie erano illuminate alla notte per cura del municipio, e nel 1751 fu stabilito regolarmente il servizio delle pompe contro gli incendi. Il Consiglio municipale era composto di due classi di decurioni, la prima: scelta fra i nobili, la seconda fra i cittadini del ceto medio; e due erano i sindaci, uno per classe, nominati dal consiglio stesso. Questo aveva l'amministrazione delle rendite cittadine, e il diritto di esporre al re personalmente le sue domande.
Le città di provincia conservavano una propria fisionomia: la nobiltà locale
continuava a risedervi e non si riversava nella capitale con quella premura che venne poi. Nei paesinii poi si viveva isolati e quasi fuori del mondo. Gli uffici postali si restringevano alle città, alle fortezze, ai borghi situati sulle grandi strade.
In Torino verso il 1750 si stampava un giornaletto, che usciva due volte la settimana, pubblicando i fatti militari, le notizie ufficiali della corte, le promozioni nell'esercito e negli impieghi. Già si cominciava a frequentare i caffè come luoghi di riunione, sebbene lontani fossero dall'ampiezza ed eleganza che raggiunsero in seguito.

Il Dutens, viaggiatore francese, delineava in quel tempo questo ritratto dei Piemontesi:
« Sono dotati di piacevoli qualità, la nobiltà è cortese, affabile e valorosa; ama molto i forestieri, tranne quelli Francesi, contro cui nutre una antipatia istintiva; è curiosa ed accorta nell'indovinare i segreti e l'indole degli stranieri. Passando il tempo nel conversare, ogni piccola novità è accolta con premura, e non siifinisce dal parlarne, se non quando non rimane veramente più nulla a dire. Se giunge qualche personaggio notevole, lo si cerca, lo si invita, lo fanno parlare, e la sera nelle conversazioni si racconta e si ripete tutto quanto si è saputo, in tre giorni quel personaggio è più conosciuto a Torino che non lo sarebbe stato in tre mesi a Parigi e Londra. Il borghese è un buon uomo, cui non manca punto l'accortezza, anzi egli è sagacissimo per giungere al suo intento, è dolce, socievole, laborioso. Bellissime sono le Torinesi, il più bel sangue di Europa, ma non così ben fatte come le Inglesi. Sono vivaci, spiritose, buone, se ne togli i piccoli pettegolezzi propri del sesso, più o meno secondo i gradi di galanteria che regna nei diversi paesi. Quantunque la Corte sia austera, le dame e le signore dell'alta borghesia non se la passano senza l'amico, o l'amante, che le accompagna dappertutto. Non vi è differenza se non in questo: nei primi anni del matrimonio, cioè fino alla nascita del primogenito, i parenti scelgono il cavaliere servente di qualità da non lasciar temer nulla; in seguito non ci si bada più. Le donne in generale sono propense alla galanteria, talune per natura, altre per moda o per non parere dimenticate. Tuttavia di queste relazioni alcune rimangono innocenti, ma sono rare ».

Così infine il Carutti riassume il carattere dei Piemontesi dell'epoca di Carlo Emanuele III:
« Non allegra, nè rumorosa l'indole piemontese a comparazione delle altre province italiane; più silenziosi gli abitanti per certa antipatia contro il vantarsi e il gloriarsi colla propria bocca; circospetti i discorsi e le azioni, per timore dell'autorità pubblica permalosa. Divise le classi, distinte per gradii le classi stesse; ogni cosa ordinata e prevista; ciascuno intento al proprio ufficio; è riputata stranezza e poco perdonato il rendersi singolare per usi ed abitudini nuove od originali; diffida delle temerarie e vaghe idee; ha un desiderio di lenti e stabili miglioramenti; ha un amore profondo al paese, lo crede superiore agli uguali, e poco inferiore ai più grandi; molte virtù private e modeste; non ritrosia ai grandi sacrifici comandati dal governo; crede a due cose sole, al re e alla patria; ed è un credere, direi per istinto, che il paese deve alla Casa regnante la sua indipendenza e gran parte della sua considerazione e sicurezza. Aristocratici gli ordini sociali; ma il reggimento dello Stato, per senno del principe e per esser sorti dal popolo i principali ministri, rifuggono da quegli eccessi che in tutta Europa invece si lamentano ».

Aggiungeremo qualche breve cenno relativo alle tre mogli di Carlo Emanuele III.
La prima, Anna Cristina di Sultzbach (1704-1723), fu, secondo il Litta, unita a Carlo Emanuele allo scopo di evitare qualunque altro vincolo di sangue fra la Casa di Savoia e le potenze, allora (1722) preponderanti in Europa. Si stimava che qualunque altro vincolo avrebbe potuto condurre il principe ad alleanze contrarie agli interessi della dinastia. Non si hanno notizie significative su questa principessa, che, come abbiamo già detto, morì di parto un anno dopo il matrimonio e cinque giorni dopo aver dato alla luce un principe che visse poco più di due anni.

La seconda moglie, Polissena Cristina d'Assia-Rheinfels, nata il 21 settembre 1706, fu sposata a Carlo Emanuele il 2 luglio 1724. « Giovane e bella, scrive uno storico della dinastia, innamorò di sè così vivamente il marito, che per ragione di prudenza e di igiene, il padre Vittorio Amedeo Il dovette prescrivere agli sposi un separato appartamento ». Fu principessa molto ammirata e lodata per la sua grande bontà e per le sue belle virtù. Fondò a Torino la «Compagnia delle puerpere», istituita nel 1732 con la missione di soccorrere le puerpere a domicilio. Morta in Torino il 13 gennaio 1732, fu prima sepolta nella Cattedrale, poi trasferita (1786) nella basilica di Superga.

La terza moglie, Elisabetta Teresa di Lorena, sorella dell'imperatore Francesco I, nata il 15 ottobre 1711, fu congiunta in matrimonio con Carlo Emanuele l'11 ottobre 1737. « Questo matrimonio fu combinato, nota il Predari, perchè giovava a calmare i risentimenti che la repentina guerra del 1733, nella quale Carlo Emanuele si era messo con la Francia, aveva destati cocenti risentimenti alla Corte di Vienna, ed era un valido motivo per le contingenze europee a cui doveva dare origine la morte di Carlo VI. - Il principe Amedeo di Carignano fu, da Parigi, delegato dal re di Sardegna a celebrare gli sponsali in Lunéville, e poi accompagnò la nuova regina in Savoia, dove Carlo Emanuele andò ad accoglierla al ponte di Belvicino".
Ricorda il Carutti che tra i festeggiamenti fatti in Torino "in quell'occasione, il padre Zucchi, olivetano, dopo avere improvvisato a Corte, non si sa con quanto diletto del Re (che si dilettava di poesia) sopra argomenti proposti dal giovane duca di Savoia, cantò nella chiesa del Carmine, con incredibile concorso di gente, accompagnandosi col violino".

La regina Elisabetta, della cui vita non rimassero notevoli ricordi per la sua breve vita di sovrana (4 anni) , morì alla Venaria Reale il 3 luglio 1741, anch'essa in conseguenza d'un parto, nell'età di poco più di ventinove anni.