LE GUERRE - PERCHE'

Il ricordo dei grandi massacri del Novecento (e precedenti) risveglia la coscienza
dell'umanità. Una riflessione sul male oscuro che devasta il pianeta da millenni

W LA GUERRA! MILIONI DI MORTI

AL SUONO DEL PIFFERAIO MAGICO

 

di MARCO UNIA

Ai giorni nostri una persona dotata di intelletto normale, capace di riflettere sul futuro del pianeta, non può essere che pacifista. Certo, alcuni riterranno necessario combattere per impedire la prevaricazione di un popolo sull'altro, altri saranno per un pacifismo ad oltranza, "senza se e senza ma": ma nessuna si azzarderà a dire che la guerra è bella.
Eppure le cose non sono andate sempre in questo modo, non sempre si è pensato alla guerra come ad un fatto negativo.

E non c'è bisogno di andare tanto indietro nel tempo, non c'è bisogno di tornare al medioevo o all'antica Roma per trovare qualche esempio. Tra i nostri nonni, o bisnonni a seconda delle generazioni, c'è sicuramente qualcuno che è andato a combattere la prima guerra mondiale con entusiasmo e con spirito d'avventura.
Ma, a dimostrazione che il pacifismo è cosa dell'oggi, l'immagine positiva della guerra si conservò nelle coscienze di molti anche dopo la prima guerra mondiale. Nonostante la grande carneficina, nonostante l'assurdità della durata, nonostante le trincee e i gas nervini, nonostante tutto nel primo dopoguerra molti europei videro nella guerra appena terminata un fatto eroico e un momento di gloria della nazione.
Ma come si venne formando quest'immagine positiva della guerra? E, cosa ancor più difficile da capire, come poté conservarsi all'indomani di un conflitto tanto sanguinario e sconvolgente come la prima guerra mondiale?

Prima di tutto, bisogna cercare di capire cosa spinse tanti giovani europei ad arruolarsi come volontari in guerra e che cosa convinse tanti coscritti a combattere con entusiasmo. Perché la prima falsa opinione che ci si deve togliere dalla testa esaminando la questione è che la totalità degli europei sia andata a combattere perché costretta. O, peggio ancora, che abbia combattuto per abitudine secolare ad una passiva obbedienza. O perché semplicemente ignorante, dato che proprio gli intellettuali furono tra i più entusiasti e accaniti sostenitori della guerra, e molti di loro combatterono come volontari.

Per capire questa storia, bisogna allora fare un piccolo passo indietro nel tempo e tornare alle guerre rivoluzionarie dei francesi, alle campagne napoleoniche e alla guerre di liberazione tedesche, perché è in quegli anni che cambia l'immagine della guerra e soprattutto l'immagine del soldato.
Prima della rivoluzione, la carriera militare era infatti roba da aristocratici - per quanto riguardava le alte sfere - e roba da mercenari per quanto riguardava le truppe. I mercenari andavano a combattere per i soldi, senza farsi troppe domande sugli scopi della guerra. La loro motivazione era il guadagno, al massimo qualche saccheggio e qualche violenza, e portare a casa la pelle. A salvare la vita, da una parte e dall'altra degli schieramenti, si prestava abbastanza attenzione, e non c'era modo di coinvolgere in scontri troppo sanguinari questi professionisti della violenza.
Per quanto riguardava la guerra stessa, essa non riscuoteva tanto successo presso la popolazione. La guerra portava carestie, niente guadagni per i poveracci e, se proprio andava male, toccava d'ospitare soldati amici o nemici dentro la propria casa.
Alla guerra, nessuno si sognava d'andare volontario, era una guerra fatta per il re e per la sua cricca, era naturale che fosse lui a combatterla e già era un danno dover pagare tutte quelle imposte per finanziare i mercenari.

Poi arrivò la rivoluzione francese e tutto , quasi senza preavviso, cambiò. Anzitutto, cominciarono ad esserci dei volontari, della gente che né pagata né costretta andava a combattere la guerra in giro per l'Europa. E non si trattava di barboni o poveracci, ma di cittadini - il "citoyen" di Napoleone - e spesso erano gente colta e benestante. Quasi sempre erano gli stessi borghesi che avevano sostenuto la rivoluzione, che avevano scacciato il re e che adesso si sentivano in dovere di difendere la loro creatura dagli attacchi delle monarchie europee e di portare anche all'estero i loro ideali di giustizia e uguaglianza. La rivoluzione era in pericolo e loro combattevano per difenderla.
L'immagine della guerra era cambiata perché era cambiato il suo scopo. I volontari non facevano più la guerra per conto di altri - dei re o dei signori - ma per sé stessi, per difendere le istituzioni che avevano creato.

E credevano in quello che facevano, condividevano le idee per cui combattevano e ritenevano che le nuove istituzioni democratiche fossero un bene per il popolo tutto.
Ma non solo cambia l'immagine della guerra, ma anche quella del soldato. Qui non si trattava più di un rozzo violento mercenario, attaccato solo ai soldi e senza la minima dignità. Di questi, la gente aveva sdegno per non dire schifo: "niente cani, prostitute o soldati" si leggeva una volta nei locali pubblici francesi. Invece il volontario era un cittadino, un tipo per bene, anzi, uno decisamente ricco, colto, rispettato dalla società. Non era uno di quegli aristocratici che si sentivano legittimati a comandare solo perché ricchi e non era neppure un barbone male in arnese costretto a combattere.
L'immagine del soldato trasse enorme giovamento da queste nuove forze che entravano volontariamente nell'esercito. Da allora in poi i soldati iniziarono ad essere più rispettati e guardati con occhio diverso. La professione delle armi da fatto disonorevole iniziò a diventare onorata. Tra tutti, nessuno seppe sfruttare questa situazione meglio di Napoleone. Il Generale aprì le porte dell'esercito alla borghesia, aumentò gli stipendi, rese possibili gli avanzamenti di carriera fino ai massimi gradi senza preclusioni di classe: un borghese poteva diventare generale per i propri meriti acquisiti in battaglia e guadagnare bene con la sua professione.

Ma se tanto cambiò in Francia, quasi altrettanto avvenne in Germania, che nei primi dell'Ottocento era una sua rivale. Anche qui, fu importante l'azione dei soldati volontari, alcuni dei quali erano anche poeti e scrittori. In Germania, la figura del soldato si legò a quella del liberatore della nazione dall'oppressione francese. Poeti come Korner e scrittori come Arndt furono volontari nelle guerre di liberazione ed esaltarono la guerra come espressione della volontà del popolo tedesco. Con le loro poesie e i loro scritti esaltavano lo spirito patriottico, accendevano il nazionalismo, incitavano i giovani a combattere una guerra di popolo e per il popolo. A differenza della Francia, la Germania combatteva però più per un re che per il popolo, dato che all'epoca regnava la monarchia e questo re dovette fare i salti mortali per conciliare il nazionalismo popolare con il rispetto della sua funzione. Insomma, si diceva che la guerra era fatta dal popolo per il popolo, ma doveva anche comparire da qualche parte la figura del monarca: ed infatti egli mise il proprio nome e il proprio sigillo su qualsiasi cosa - monumento o targa - che commemorasse la guerra e le battaglie sostenute per la liberazione.

Eppure, per quanto il re si sforzasse, le guerre tedesche erano vissute come battaglie di popolo e per lungo tempo la convivenza tra nazionalismo e monarchia fu davvero difficile. L'idea che fossero una manifestazione popolare era rafforzata dal cameratismo che si esprimeva nella guerra e al tempo stesso il cameratismo era un elemento decisivo per vincere la guerra. I soldati che volontariamente andavano in guerra - ma anche le reclute che sentivano di combattere per il proprio popolo - si sentivano uniti l'uno all'altro da un particolare vincolo di fedeltà. La guerra rendeva tutti uguali o comunque tutti finivano per aver bisogno dei propri compagni per sopravvivere. Questo cameratismo si sviluppò già con la rivoluzione francese, tant'è vero che nella Marsigliese che fu coniata in quegli anni si parla dei "figli delle patria": di fronte alla madre nazione tutti i figli soldato sono eguali.

Questo mito dell'uguaglianza in guerra affascinò moltissimo gli intellettuali e in particolare quelli che sostennero la necessità della prima guerra mondiale. Nessuno più degli intellettuali avvertì quel senso di solitudine, di atomizzazione della società che fu un tratto caratteristico della società moderna dell'Ottocento e del Novecento (e che continua a tutt'oggi). Essi osservavano il mutare delle società in cui vivevano, il progressivo sfaldarsi delle comunità tradizionali, l'imporsi di una mentalità individualistica e cercarono qualche rimedio che potesse riavvicinare l'uomo all'uomo. Paradossalmente la guerra, in cui gli uomini si combattono, sembrò loro una soluzione. Nell'esercito, nei piccoli reparti uniti dalla fraternità di fronte al comune nemico sembrava esserci la risposta alla solitudine, il rimedio contro l'egoismo dilagante. Così, anche i più sensibili, e anche quelli che più amavano il loro prossimo, videro nel conflitto un'occasione per riscattare sé stessi e la società. Anche sé stessi, perché mai come allora- cioè nei primi del novecento- gli intellettuali si sentirono distanti dalla società, senza un preciso ruolo da assolvere, senza uno scopo.

Così intellettuali democratici come uno Jahier - italianissimo nonostante il nome - diedero il proprio avvallo alla guerra e sentirono di realizzare in guerra la solidarietà che era loro mancata nella vita reale. In guerra, e soprattutto nella prima guerra mondiale, tutti erano fratelli, tutti dipendevano l'uno dall'altro, o almeno così si voleva credere, per continuare a combattere e per trovare un senso a questa sanguinosa esperienza.
Ma non fu soltanto il cameratismo a spingere gli uomini alla guerra, né solo il nazionalismo, che pure tanta parte ebbe sia nelle guerre dell'Ottocento che in quelle del Novecento. Il fenomeno del volontariato di guerra e della nuova immagine della guerra sarebbe incomprensibile senza il riferimento al sentimento dello straordinario.

Nell'Ottocento lo stile di vita borghese era stava ormai diventando dominante e la società di massa, con i suoi grandi numeri e il suo anonimato era ormai alle porte. I giovani, specie quelli benestanti pur senza essere aristocratici, i borghesi insomma, iniziavano ad avvertire il peso della pressione sociale sullo loro teste e nella loro vita. Lo stile di vita borghese dell'epoca, così attento all'etichetta, all'apparire, alla rispettabilità, alle convenzioni - quello stile di cui troviamo un magnifica descrizione nell'Età dell'innocenza di Scorsese - era per molti di essi un pesante fardello da portare. E la guerra, le guerre, fornirono a molti di essi l'opportunità di evadere da quegli schemi di vita così rigidi e ad un tempo così ordinari. La guerra permetteva loro di uscire fuori dall'ordinario tran tran borghese, di provare emozioni forti, di vivere una vita eccezionale e di fare tutto questo godendo dell'approvazione della società.
La guerra era una trasgressione autorizzata, una sospensioni delle leggi ordinarie, una "festa" come la chiamerà qualcuno, come un carnevale in cui l'ordine fisso del mondo viene ribaltato e messo sottosopra. In nome della nazione e delle sue fortune i giovani potevano travestirsi da soldati e andare a dimostrare a tutti la forza e la potenza del proprio paese. E se si pensa a quanto il romanticismo facesse sentire i suoi effetti, se si pensa alla sua esaltazione delle passioni, al suo culto della nazione, si può facilmente intendere di quanti significati si impregnasse la guerra.

Questo sentimento di straordinarietà era rafforzato anche dall'azione della Chiesa, che benediva i soldati in partenza per le battaglie e li rendeva sacri agli occhi delle comunità d'appartenenza. Ma da sola la benedizione della Chiesa non sarebbe servita a nulla, troppo spesso si era parlato di crociate e si era invocato il Dio degli eserciti.


"Dio è con te" (
Cristo veglia su un soldato tedesco...)

La formula giusta per esaltare i cuori era la miscela di cristianesimo popolare e di nazionalismo, proprio quello che si realizzò in Germania con le guerre di liberazione. Per i volontari tedeschi "la fede nazionale e la fede cristiana divennero una cosa sola". La Germania era per loro una nazione santa e la loro guerra era una guerra santa. Erano certi che la loro patria - ancora da costruire-rappresentasse l'incarnazione di Dio nel mondo. Il filosofo tedesco Hegel, che visse in quel periodo, era convinto che per ogni epoca storica vi fosse un popolo destinato ad incarnare lo Spirito assoluto e che nell'Ottocento quel compito spettasse di diritto alla Germania. La Germania era una sorta di popolo eletto, qualcuno disse "la nuova Israele", altri preferirono rifarsi alla Grecia del V secolo. Chi andava alla guerra era convinto di adempiere ad una missione sacra, di realizzare il suo destino e quello della sua nazione.

L'esaltazione della guerra e la sua giustificazione coinvolgeva i vivi ma anche i morti. Dopo la Rivoluzione e soprattutto dopo le guerre di liberazione tedesche, i morti in battaglia divennero dei martiri che avevano sacrificato la loro vita per la patria. Unione perfetta di nazionalismo e cristianesimo, il caduto in battaglia era un martire delle nazione e dunque era destinato ad una nuova vita. Su questo punto ebbe più fortuna la religiosità popolare della fede ufficiale: la Chiesa non si lasciava coinvolgere in questo processo di equiparazione, ma la gente spontaneamente univa le sofferenze dei soldati con quelle dei martiri e dello stesso Cristo. Iniziarono così a sorgere dei monumenti ai caduti di guerra e delle tombe che ricordassero questi eroi che avevano contribuito alla difesa della nazione. Le tombe, i cimiteri e i monumenti erano dei templi della religione civica, dove si commemorava la nascita della patria per opera dei suoi soldati. Al posto delle chiese, monumenti ai soldati che ricordassero anche alle generazioni future le loro sofferenze e fossero d'esempio per la patria.
La nazione, cioè le istituzioni che la reggevano, si impossessò di questo culto dei caduti e rese pubblica la loro morte, mettendola a suo servizio. La nazione si autorappresentava attraverso i simboli, e uno dei simboli più importanti divenne il soldato morto per la patria.

Ora qualcuno obbietterà che i grandi generali e le loro imprese furono da sempre commemorati e ricordati con archi di trionfo, colonne, statue e quant'altro: e chi faccia tale ragionamento ha senz'altro ragione. Eppure una piccola novità sul piano formale si trasformò in questo caso in un cambiamento sostanziale: a partire dalla Rivoluzione si iniziò a celebrare anche la morte del soldato comune. Non più la tomba del generale e dell'eroe, ma la tomba e il monumento per tutti i caduti, perché combattendo per la nazione si è tutti uguali e si ha uguale dignità. Nel 1796 Cambry presentò un rapporto sulle sepolture e il suo progetto prevedeva che al centro del cimitero vi fosse una piramide in cui fossero raccolte le ceneri dei grandi di Francia e di tutti quelli che avevano
sacrificato la loro vita per la rivoluzione e per la patria. La morte in guerra realizzava quell'uguaglianza di status che era l'ambizione stesso del moto rivoluzionario. Si iniziava a morire da eroi e le generazioni successive videro in questi soldati degli esempi da seguire e delle persone che avevano realizzato la loro missione. Tra l'altro essi non morivano, perché rinascevano nella nazione che avevano contribuito a creare.

Nazionalismo, cameratismo, eroismo, rinascita, missione sacra, avventura, libertà: il mito della guerra, che si era venuto lentamente e frammentariamente componendo a partire dalla fine del 1700 era pronto per essere raccolto dalla "generazione del 1914" . Con la prima guerra mondiale, il mito raggiunse la sua apoteosi e il culto dei caduti dominò a lungo nel primo dopoguerra, influenzando la politica e le coscienze.
Tutto ciò che era stato detto e pensato e fatto in passato per celebrare la guerra fu messo a servizio della propaganda bellica; ma non bisogna dimenticare che anche molti nuovi elementi giunsero in quegli anni ad accrescere la popolarità della guerra.
Di nuovo c'era ad esempio la coscienza di sé della gioventù, che si era formata sul finire del secolo con lo sviluppo della modernità. L'essere giovani aveva acquisito un senso nuovo per le generazioni degli inizi del novecento, che si sentivano diverse e distanti dai loro padri e dai loro nonni come mai in passato. I giovani identificavano sé stessi con la modernità e con tutto ciò che era espressione della modernità: tecnologie e novità d'ogni sorta.

Alcune delle più vivaci correnti di pensiero dell'epoca esaltavano la gioventù ed erano guidate da giovani: si pensi ai futuristi di Marinetti e agli espressionisti tedeschi. La gioventù si immedesimava nella modernità e la modernità era la nuova velocità delle macchine e del mondo. Tutto ciò che cambiava, tutto ciò che correva apparteneva ai giovani e nulla poteva rappresentare meglio il cambiamento della guerra, con le sue macchine e i suoi stravolgimenti. Marinetti ebbe il coraggio d'esaltare la mitragliatrice nei suoi poemetti sulla guerra di Libia, perché la mitragliatrice era la macchina bellica della nuova era: la famigerata mitragliatrice che falcidiò a migliaia gli uomini nelle trincee della prima guerra mondiale.
Per i futuristi e per tanti giovani non solo italiani che da essi vennero influenzati, la guerra divenne "la solo igiene del mondo", l'unico modo per spazzare via tutto ciò che di vecchio, di ipocrita, di paludato vi era nella società. La guerra serviva ad uno scopo, al rinnovamento individuale e della nazione. I futuristi sostenevano che quest'esplosione di violenza avrebbe creato un uomo nuovo, vivo, avventuroso, sempre disposto al cambiamento, l'esatto opposto del compiaciuto e tranquillo uomo borghese ansioso solo di tranquillità e benessere.

L'uomo nuovo che si ipotizzava potesse sorgere con e dalla guerra era poi soprattutto un uomo virile. La virilità fu l'ideale più seguito dai giovani della generazione del 1914. Essere virili significava essere coraggiosi, forti, capaci di dominare le proprie passioni, diventare cioè come quegli eroi della grecità che si studiavano sulla pagine dei libri di scuola. Accanto al mito del moderno conviveva il mito di una Grecia di perfezione e bellezza ed ambedue le mitologie fornivano simboli che alimentavano la passione per il conflitto. Un ragazzo poteva facilmente scorgere nella guerra, nella lotta, il terreno dove misurare la propria virilità e dar prova del suo coraggio. La guerra era il luogo dove dar prova di sé, era la cerimonia d'iniziazione, era "la grande occasione" che non ci si doveva lasciare sfuggire.

Ma la guerra di massa, la guerra tecnologica non era il banco di prova di nessun eroismo e di nessun coraggio, tranne rare eccezioni. La prima guerra mondiale fu un conflitto anonimo di carne da macello, di uomini fantocci mandati a morire di fronte al fuoco di una mitragliatrice, fu una guerra dove vita o morte erano determinate dallo scoppio più o meno vicino di un proiettile d'artiglieria. Per questo, dopo pochi mesi dall'avvio, la realtà della guerra venne occultata e la propaganda dispiegò la sua potenza ingannatrice. La guerra venne presentata per tutti gli anni del conflitto come sfida tra uomini e come luogo dove regnava la cavalleria e il coraggio, mentre chi era al fronte non sperimentava altro che non senso e assurdo a volte fino ad impazzirne. Ma prima che la guerra scoppiasse, i ragazzi della generazione del 1914 videro il conflitto come la palestra ideale dove finalmente poter sfogare le loro energie e le loro forze e dove rigenerare sé stessi e la nazione.
L'idea che si dovesse rigenerare la nazione oltre che lo spirito dell'individuo ebbe un peso notevole nel suscitare l'entusiasmo verso il conflitto di molti giovani europei. Chi era conservatore ed era spaventato dalla crescita dei partiti di sinistra e dal movimento operaio, riteneva utile il conflitto per porre fine a queste tendenze sovversive dell'ordine costituito.

La guerra avrebbe unito contro il comune nemico l'intero popolo e avrebbe posto termine alle lotte di classe. In Italia Corradini sostenne che il contrasto non doveva essere tra classi ricche e classi povere, ma tra nazioni imperialiste e nazioni proletarie e che perciò era necessario proiettare verso l'esterno la propria aggressività, contro i nemici comuni. Altri sostennero che la guerra era necessaria perché avrebbe portato la democrazia: alla fine del conflitto il popolo avrebbe acquisito coscienza della propria forza e avrebbe costruito una società migliore e aperta a tutti. Altri, come gli anarchici, videro nella guerra un'occasione per fare la rivoluzione e porre fine allo Stato liberale. Tutti, da qualsiasi schieramento provenissero, criticavano le istituzioni vigenti, che sentivano come inadeguate, e tutti avevano un idea della guerra come sovvertitrice del mondo. Su come sarebbero cambiate le cose ognuno aveva una speranza e un'idea diversa, ma tutti concordavano nel vedere nella guerra la grande occasione di svolta alla vita della nazione. Il bagno nel sangue avrebbe ridato vita all'esangue stato borghese di fine ottocento.

Tuttavia la prima guerra mondiale mise a dura prova l'entusiasmo di chi era partito e dei famigliari e degli amici che lo avevano salutato con l'ammirazione negli occhi. Appena arrivati al fronte questi ragazzi scoprirono con sorpresa che il nemico rispondeva al fuoco e nel giro di pochi mesi chi era sopravvissuto si rese conto che sarebbe stata una guerra lunga e logorante.

A guerra iniziata l'opinione pubblica cominciò ad avere dei tentennamenti e divenne necessario rafforzare l'immagine positiva della guerra, perché era necessario far combattere i soldati, convincerne altri a partire senza fare storie e tener buone le famiglie che aspettavano nelle retrovie.
Con tutti quei morti che si accumulavano nelle trincee, con la vittoria che per tutti i contendenti diventava un miraggio, l'immagine della guerra e con essa quella della nazione che l'aveva voluta rischiava di andare in pezzi: bisogna fare qualcosa per ravvivare il mito.

Così ebbe inizio la vera e propria falsificazione della guerra, la trasformazione della cruda realtà in un mito carico di simbologie e di richiami. Se prima tutto ciò era avvenuto in parte spontaneamente e in parte con precisa intenzione mistificatoria, ora la volontarietà dell'inganno si fece più marcata.
Ad esempio, nel novembre del 1914 i gli alti gradi dell'esercito tedesco lavorarono parecchio di fantasia nel ricostruire gli eventi della battaglia di Langemarck. Secondo loro i giovani volontari tedeschi erano andati all'attacco delle trincee nemiche e le avevano conquistate cantando "Deutschland über alles". Non era possibile immaginare nulla di più patriottico: i giovani volontari che pieni di coraggio compiono la loro missione eroica, realizzano sé stessi come avevano sognato, sconfiggono il nemico cantando a pieni polmoni l'inno della patria. Bello, ma falso.
Anzitutto, la battaglia non era stata combattuta a Langemarck ma lì vicino, in un posto che però non aveva quel bel suono tedesco. Poi, nessuno aveva conquistato un bel niente, perché si sa che con il sistema delle trincee conquisti una linea e te ne trovi subito un'altra a pochi metri; e ragionevolmente nessuno aveva cantato inni patriottici, un po' per non farsi sparare addosso nella nebbia e un po' perché quando si va all'attacco con il cuore in gola non è che il fiato esca così bene.
Eppure questa battaglia entrò nella mitologia popolare come l'episodio esemplare del coraggio e dello spirito di sacrificio della gioventù tedesca, divenne la conferma di quei sogni che si erano sognati prima dell'inizio del conflitto. E questo mito durò a lungo anche dopo la guerra, perché ancora nel 1932 si tenevano discorsi in cui si ricordavano i giovani caduti e li si presentava come modello per la gioventù tedesca, nella speranza che lo spirito dei morti potesse riaccendere quel coraggio che era andato perduto nel dopoguerra.

I caduti in guerra e soprattutto i giovani erano presentati come martiri della nazione e questo era un modo perfetto per distrarre l'attenzione dalla realtà della carneficina. L'idea del martire era già stata usata in passato, ma mai come nella prima guerra mondiale il soldato venne paragonato a Cristo: entrambi compivano la loro Passione in terra per poi risorgere in cielo. Dato che si ragionava sempre a cose fatte, gli stessi famigliari finirono per aggrapparsi a questi miti e per trasmetterli nella società: i genitori che perdevano un figlio preferivano pensarlo come eroe destinato alla risurrezione che come un poveraccio usato come carne da macello da qualche generale idiota. La propaganda lavoro davvero di fino su questo tema, il Cristo che prende tra le sue braccia il soldato caduto o il Cristo in visita alla tomba del soldato divenne un immagine ricorrente nelle cartoline di guerra da e per il fronte: soldati e parenti rafforzavano vicendevolmente il mito del sacrificio e della risurrezione.

Dato il numero incredibilmente alto di morti accumulati durante il conflitto, una delle priorità divenne quella di riuscire a trovare una sistemazione per i caduti tale da non generare sconforto nella popolazione e tale da perpetuare il mito del loro sacrificio. Se nelle battaglie precedenti i caduti erano stati abbandonati sui campi di battaglia o semplicemente seppelliti nel più vicino camposanto di una chiesa, con la prima guerra mondiale si iniziarono a costruire appositi cimiteri militari per raccogliere le loro spoglie. Non si trattava di una semplice ragione logistica o determinata dalla quantità dei decessi: in realtà si stavano creando dei templi dove officiare il culto dei caduti. Come un tempo vennero costruite chiese per celebrare Cristo e per praticare il culto cattolico, così ora venivano costruite tombe ai caduti per celebrare la liturgia della religione civica: la preghiera ai caduti e il pellegrinaggio alle loro tombe divennero nel dopoguerra parte integrante della liturgia del nazionalismo.
In quanto templi di una religione , i cimiteri militari avevano alcune caratteristiche particolari, che li distinguevano da quelli civili. Tra queste la più importante in assoluto era l'uniformità delle tombe e delle lapidi. La guerra affratellava gli uomini, li rendeva uguali nel loro comune sacrifico per la nazione e quest'unione doveva manifestarsi anche nei cimiteri. Ogni singolo soldato in quanto sacro e unico doveva essere ricordato con il suo nome, ma ogni differenza di grado e di classe doveva essere annullata di fronte al sacrifico per la patria: per la madre nazione non c'era differenza tra i suoi figli. Oltre ad avere tombe uguali, o un'unica fossa comune e una lapide con i nomi di tutti i caduti, i cimiteri militari avevano alcuni simboli particolari.

In quelli inglesi ad esempio era posta al centro una Croce del Sacrificio e una Pietra della Rimembranza. La grande croce aveva al suo interno una spada, come a significare l'unione tra il combattimento e la risurrezione, mentre la Pietra della rimembranza recava l'iscrizione "il loro nome vive per l'eternità". La pietra della rimembranza nei cimiteri militari inglesi era un grande masso squadrato a forma di altare, qualcosa che richiamava alla mente gli altari del culto cristiano ma anche la solidità e la compattezza della nazione.

I cimiteri di guerra tedeschi non si differenziavano nella sostanza da quelli inglesi, ma avevano alcune loro specificità che vale la pena di esaminare. In primo luogo, i tedeschi erano molto severi in fatto di uniformità, non ci doveva essere la minima differenza tra tombe e per questo preferivano le tombe comuni: queste davano maggiormente l'idea che gli uomini fossero tutti morti per la nazione e che tutti insieme dovessero venire ricordati. Un esempio particolare di cimitero tedesco era il Totenburg, la cosiddetta fortezza dei morti. Questi cimiteri avevano appunto l'aspetto di una fortezza militare costruita con mura massicce che circondavano uno spazio aperto al cui centro c'era una roccia o un altare patriottico, mentre i nomi dei caduti erano iscritti lungo le pareti. Questi cimiteri rappresentavano in forma simbolica il predominio della nazione sull'individuo e avevano un aspetto più aggressivo rispetto ai tradizionali cimiteri di guerra. I tedeschi progettarono poi un'altra forma di cimitero, o meglio, qualcosa che stava a metà tra il cimitero e il monumento ai caduti: l' Heldenhain.
Il bosco degli eroi - heldenhain in tedesco - è un cimitero dei caduti senza tombe, al cui posto sono piantati alberi che simboleggiano i soldati morti in combattimento. Anche in questo particolarissimo cimitero-monumento riemerge il tema della rinascita, ma questa volta sotto forma di religiosità panteistica. Gli alberi sono i caduti, il loro inverno è la morte in battaglia degli eroi, la loro fioritura primaverile è la rinascita dei martiri della nazione. E gli alberi, disposti a semicerchio intorno ad un masso che rappresentava la solidità della nazione, erano spesso querce, albero tipico della Germania, "albero dalle solide radici, simboleggiante l'individuo e la comunità". I parchi degli eroi ebbero molta fortuna in Germania e anche in Italia, dove presero il nome di parchi della rimembranza e iniziarono a diffondersi nei primi anni venti.

Tutti questi cimiteri militari divennero templi della religione nazionale e dopo la guerra furono mete di intensi pellegrinaggi, che spesso erano organizzati e offerti dalle stesse istituzioni per rafforzare il culto della patria. Ma questi cimiteri si trovavano molto spesso nei luoghi della battaglia ed erano perciò dispersi dentro e fuori il territorio nazionale. Nel dopoguerra, quando l'esigenza di giustificare la guerra si fece sentire in maniera ancora più potente, si iniziò ad avvertire la necessità di un tempio nazionale dove poter celebrare e commemorare il culto dei caduti. Fu per questa ragione che in tutte le nazioni belligeranti venne eretta una tomba al Milite Ignoto, anche se i primi a costruirla furono francesi e inglesi.

Più che la costruzione della tomba, fu la liturgia della sepoltura a concentrare su di sé il simbolismo della nazione e dei caduti. Già nella scelta di dedicare la tomba al soldato ignoto era all'opera il mito della guerra combattuta per la nazione, e quell'uguaglianza di status riservata ai martiri della patria. Non si voleva celebrare un singolo gesto eroico e neppure l'eroismo ma la fedele obbedienza di tutti i caduti alla propria nazione: la salma da tumulare venne scelta casualmente all'interno di un gruppo di cadaveri di soldati caduti in battaglia. Chi sceglieva - in Francia fu un invalido di guerra, in Inghilterra un ufficiale - non doveva sapere a chi appartenesse il corpo, perché ciò che contava era anche l'anonimato del morire per la patria. Una volta scelta, la salma veniva trasportata con tutti gli onori in patria e tumulata nel più importante monumento nazionale. Si voleva dare un luogo di culto ai caduti all'interno della nazione e un luogo dove potessero essere celebrate le cerimonie nazionali; al tempo stesso si voleva per l'ennesima volta accordare il sentimento di pietà verso i caduti in battaglia con il sentimento patriottico.
La Francia tumulò il proprio milite sotto l'Arco di Trionfo, massimo simbolo nazionale fatto costruire da Napoleone per celebrare il suo esercito: il sacrificio compiuto in guerra rappresentava un proseguimento della gloriosa storia della nazione francese.
In Inghilterra la salma del milite venne invece sepolta nell'Abbazia di Westminster nello stesso giorno in cui la Francia tumulava il proprio milite. Ma in Inghilterra l'Abbazia non era il luogo adatto dove compiere delle commemorazioni in grande stile, cosa che invece era prevista dalla religione civile. Per questo motivo nello stesso giorno in cui venne sepolto il Milite venne inaugurato il Cenotafio - che in greco significa tomba vuota- che doveva essere il monumento ai caduti presso il quale festeggiare la ricorrenza della vittoria.

Nel 1920 anche l'Italia celebrò il Milite Ignoto e la salma del soldato venne sepolta nel Vittoriano a Roma, costruito per commemorare l'Unità d'Italia, a simboleggiare ancora una volta l'unione tra patria e guerra.
Queste cerimonie, così come l'incessante costruzione di monumenti ai caduti negli anni del dopoguerra riuscirono in quella incredibile trasformazione della realtà che fece di una guerra sanguinaria una vicenda eroica e carica di significati patriottici.

MARCO UNIA

BIBLIOGRAFIA Le Guerre Mondiali, di G. Mosse, Roma-Bari, 2002
La grande Guerra, di Leoni e Zadra, Bologna 1986
La Grande Guerra e la memoria moderna, di P.Fussell, Bologna 2000

 Ringraziamo per l'articolo
(concesso gratuitamente) 
il direttore di
 

WOOLF: "PENSIERI DI PACE DURANTE UN BOMBARDAMENTO A LONDRA"

PENSIERI DI PACE DI GANDHI

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