Analisi delle cause storiche che hanno portato allo sgretolamento dello Stato unitario.
   (ANNO 1945) -  DA TITO A KOSTUNICA - (ANNO 2000)   

< IL NO DI STALIN A TITO  

< TITO DA SCACCO MATTO ALL'URSS  

ANTECEDENTI - ANNO 1195 - MA TUTTO INIZIO' NEL 395 d.C. > > 

QUANDO LA IUGOSLAVIA
NON  ERA  ANCORA EX

PRIMA PARTE

di FERRUCCIO GATTUSO

Le opinioni sulla Iugoslavia di Tito, sul suo modello sociale e politico, sono sempre state numerose e discordanti. Molto spesso, tali opinioni sono state la conseguenza di considerazioni strategiche, più che ideologiche. Il ruolo che ha svolto il regime titoista negli anni della guerra fredda è stato tale da meritare ad esso un'attenzione particolare da parte dei due blocchi - occidentale e comunista - che si contendevano il mondo. Soprattutto dopo lo scisma tra Unione Sovietica e Iugoslavia del giugno 1948, il regime titoista si è presentato, a seconda del punto di vista dal quale lo si vedeva, come "traditore dell'ortodossia socialista", utile alleato in chiave di contenimento dell'espansionismo sovietico e leader di una "terza via" tra i due blocchi. 
Ovviamente, da ciascuna di queste valutazioni dipendeva la luce sotto la quale gli esperimenti sociali e politici della Iugoslavia venivano presentati alle rispettive pubbliche opinioni. Quel che è indubbio, è il fatto che la Iugoslavia, nei difficilissimi anni della guerra fredda, si è presentata al mondo come un paese di granitica solidità. Dal 1945 al 1980, anno della morte di Josip Broz Tito, dittatore e leader indiscusso del regime, la Repubblica Federale Iugoslava è stata saldamente in mano al potere costituito. In seguito, il processo verso la dissoluzione del paese ha subito una progressiva accelerazione, culminata nelle sanguinose guerre "civili" di questo decennio (1990-2000). 

Da più parti l'esplosione del modello federale iugoslavo è stato visto come la logica conseguenza di un paese che veniva definito una "prigione dei popoli". Secondo questa visione, solamente le "baionette di Tito" avrebbero mantenuto l'unità della repubblica federale. Non è così, o piuttosto non è unicamente così. Il regime titoista, sin dalla sua nascita - e benché fosse un regime liberticida nella più ferrea tradizione dei paesi comunisti dell'Europa orientale - seppe comprendere l'importanza di un fattore fondamentale: la repubblica che andava a nascere nell'immediato dopoguerra si basava su un crogiolo di popolazioni, religioni, razze come in nessuna altra area geografica del continente. Questo mosaico, creato dal fatto che la penisola balcanica era stata nei secoli un crocevia tra Occidente e Oriente, poteva risultare al tempo stesso un elemento di forza o, al contrario, di estrema vulnerabilità.

Tito, personaggio di estremo realismo, comprese da subito come ad ogni popolazione andasse concesso un elevato grado di autonomia. Se le libertà individuali non vennero tenute in alcun conto nella Iugoslavia titoista, quelle sociali e delle minoranze etniche invece godettero di una strategica considerazione. La compresenza di diverse etnie e nazionalità all'interno della Iugoslavia permetteva anche - e non poteva essere, questo, un fattore non considerato da Tito - di lanciare le basi per ipotetici allargamenti dei confini a spese dei paesi vicini. Evidentemente, la lezione della Germania nazista sulla pretestuosa difesa delle minoranze tedesche nei paesi ad essa confinanti aveva lasciato il segno. In altre sedi, inoltre, abbiamo ricordato come il progetto titoista di una Federazione Balcanica - visto da Mosca come fumo negli occhi - mirasse ad egemonizzare l'area, relegando paesi come l'Albania e la Bulgaria in posizione subalterna. 

Con l'espulsione dal Cominform del 28 giugno 1948, la Iugoslavia entrava in una nuova - e inaudita, per quegli anni di estrema ortodossia comunista - dimensione politica. Il paese che più si sentiva vicino all'esempio sovietico era costretto a svincolarsi dall'abbraccio mortale stalinista. Nacque così una "piccola Unione Sovietica" dove persisteva vivido l'esempio e il culto per la Grande Madre Socialista, ma allo stesso tempo il desiderio di indipendenza spingeva a realizzare un personale percorso politico. Se nel 1948 le accuse di "eresia" da parte di Mosca potevano sembrare pretestuose, negli anni seguenti effettivamente il regime titoista si lanciò in una particolare "via iugoslava" al socialismo.

Non bisogna dimenticare, inoltre, che la Iugoslavia era l'unico paese comunista dell'Est a non essere stato "liberato" dall'Armata Rossa, ma solo grazie alle proprie forze. Fu così che, accanto all'adozione di misure rigorosamente ortodosse si accompagnarono quelle che un sempre più nemico PCUS giudicava autentici "deviazionismi" dal marxismo-leninismo. Il passo che avrebbe portato la dirigenza iugoslava ad essere definita da Mosca "la cricca fascista di Tito" era ormai breve. La Iugoslavia che adottava disciplinatamente la formula del Piano Quinquennale ed affidava allo stato la completa gestione economica era lo stesso paese che cercava di adattare i principi marxisti alla propria realtà sociale e che si sarebbe affidata al principio dell'autogestione. Il paese che si vantava di poter raggiungere il traguardo socialista prima dell'URSS, era lo stesso che progressivamente si apriva alle contaminazioni con l'Occidente, per non dire ai suoi finanziamenti. Per la realtà iugoslava, infatti, seguire alla lettera le direttive dogmatiche imposte da Stalin avrebbero equivalso al suicidio economico e politico. Stalin chiedeva un satellite giudizioso, una figura come Tito non poteva e non voleva darglielo. 
Uno dei grandi punti di scontro fu indubbiamente la mancata collettivizzazione delle terre e la "guerra ai contadini", che in URSS aveva causato l'olocausto di milioni di persone e aveva portato il paese allo stremo. In Iugoslavia la popolazione contadina costituiva l'ossatura sociale e, in più, aveva partecipato molto più che la classe operaia alla liberazione del paese dai nazifascisti.

L'80% della popolazione allo scoppio della guerra viveva nelle campagne, mentre la classe operaia si limitava a circa 700.000 persone. La dirigenza titoista non poteva in alcun modo procedere a misure persecutorie nei confronti dei contadini, pena la sua stessa esistenza. Lo spirito di autonomia presente negli iugoslavi, infine, era anche legato ad un preciso retaggio storico: sul territorio iugoslavo conviveva una moltitudine di popoli che avevano subito innumerevoli influssi culturali. Se risultava arduo "omologare" queste spinte spiritualmente centrifughe al regime di Belgrado, diventava quasi impossibile piegare questa multiformità al rigido monolitismo sovietico. La Iugoslavia che entrava negli anni Cinquanta andava quindi formandosi autonomamente, e Tito si stagliava come una figura carismatica nel panorama politico mondiale. Tanto più che era sopravvissuto non solo alla sfida con l'onnipotente Stalin ma, come si dice, aveva atteso sulla riva del fiume il passaggio del suo cadavere.

 Stalin moriva nel 1953 e gli anni a venire avrebbero indotto la stessa Unione Sovietica ad avvicinarsi con rispetto al Maresciallo, ben saldo sul suo trono belgradese. Una delle prime critiche "ideologiche" rivolte all'Unione Sovietica si riferiva addirittura al sistema economico-politico. In URSS, sosteneva Belgrado, vigeva una forma di capitalismo di stato esercitato da una classe burocratica parassita che manteneva in condizioni di vassallaggio le classi operaia (quella che doveva costituire, per il marxismo-leninismo, l"avanguardia del proletariato") e contadina (quello che ne era rimasto...). 
Il 26 giungo 1950 una legge affidava agli operai la gestione di tutti i processi economici nelle imprese. Era l'autogestione, che costituì un modello di studio nel panorama marxista. Nei luoghi di produzione - questo era il principio fondamentale - venivano eletti consigli di operai i quali svolgevano compiti amministrativi, organizzativi ed economici.

I consigli regolavano tutto: i rapporti di lavoro, la quantità di merce da produrre, il suo prezzo, l'approvazione dei bilanci. Il consiglio era a sua volta controllato dai sindacati e, inutile dirlo, dal partito. Dalle fabbriche il principio dell'autogestione si allargò ad ogni attività. Nonostante il controllo sui consigli, il principio era obbiettivamente ardito: lo stato (autentico moloch-culto dell'ideologia comunista) abdicava a molti poteri. Questo sarebbe avvenuto anche nei confronti delle repubbliche che formavano la federazione: Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina e Montenegro. L'autogestione in campo federale decentrava una considerevole fetta di potere, lasciando comunque al governo federale di Belgrado i tre ministeri-chiave degli Esteri, Interni e Difesa. Il fine di questo processo di autogestione era chiaro: in contrapposizione con il "delirio burocratico e centralizzatore" sovietico, la Iugoslavia mirava alla grande utopia del comunismo, la dissoluzione dello stato nella perfetta società socialista. 

Nel decennio seguente, nonostante i piani quinquennali 1957-61 e 1961-1965, l'economia iugoslava andò lentamente ma inesorabilmente improntandosi ad un sistema di mercato, nel quale il punto di partenza del processo economico era lasciato alla domanda del consumo, dalla quale sarebbe nato il volume della produzione. Le entità autogestite operavano quindi in una condizione di competitività fra loro e al loro interno si sviluppava una differenziazione salariale, mentre l'intervento di prelievo del governo federale per sostenere le aree meno sviluppate del paese sembrava la classica "palla al piede".

Cominciarono quindi ad emergere spinte autonomiste da parte dei quadri dirigenti delle imprese e dalle stesse aree economiche più o meno sviluppate. Da sempre il nord-ovest sloveno era molto più sviluppato del sud serbo-montenegrino, e con questi cambiamenti le differenze si acuirono. Chi si oppose alla decentralizzazione (non erano pochi quelli all'interno del partito) come il famigerato Alexandar Rankovic, capo della polizia segreta, vice presidente federale e membro del Comitato Centrale, vennero emarginati dalla vita politica con la conseguente e tradizionale espulsione dal partito. Le suddette riforme pro-mercato portarono comunque ad un innalzamento del tenore di vita generale. Contemporaneamente, la stessa figura del partito unico andava trasformandosi. Con l'esautorazione di Rankovic - considerato un delfino di Tito, e non poteva esser altrimenti poiché gli era stata affidata la direzione del temutissimo apparato poliziesco - cambiava lo scenario politico iugoslavo. 

Nell'aprile 1958, al VII congresso del PC, veniva approvato un programma rivoluzionario che mutava il rapporto stesso tra il partito e la società. Il partito non doveva "identificarsi, per mezzo dell'apparato statale, con quel potere che spetta invece alla classe operaia e alle masse lavoratrici". Il partito comunista abbandonava, perlomeno a livello teorico (e si sa quanto le enunciazioni teoriche contino nell'universo comunista) il ruolo di guida coercitiva della società verso il socialismo. Il partito - ora definito Lega dei comunisti - doveva fungere da esempio e non da cane da guardia della Rivoluzione, fungere cioè da "sostegno ideologico". Produttori, collettivi di lavoro e la comune, cioè la comunità autonoma politico-territoriale, erano considerate indipendenti dalle maglie del partito.

Fu così che, progressivamente la società iugoslava cominciò a dirigersi verso qualcosa di completamente nuovo rispetto ai paesi del cosiddetto "socialismo reale". La nuova Costituzione del 1963 sancì ufficialmente la "via iugoslava", con un ulteriore e maggiore decentramento dei poteri in favore delle repubbliche. All'Assemblea Federale si aggiunsero quattro Camere (amministrazione, cultura, economia e la sanità pubblica). In questa Costituzione si gettavano i presupposti per un nuovo atteggiamento in politica estera: il non-allineamento. La politica di non-allineamento era il logico punto di arrivo dopo la rottura dei rapporti con l'URSS. Ideologicamente rigoroso, il regime titoista non poteva, e non voleva, sicuramente rinnegare sé stesso e passare armi e bagagli nel blocco occidentale. Europa libera e Stati Uniti rimanevano paesi "borghesi e imperialisti, nemici del socialismo", con i quali si poteva trattare ma che rimanevano obbiettivamente avversari ideologici. Per la sua stessa sopravvivenza, la Iugoslavia si trovò costretta ad alcuni importanti mutamenti in politica estera: l'abbandono dei comunisti greci fu solo il primo passo che dimostrò al mondo che la Iugoslavia intendeva perseguire solo i più stretti interessi nazionali. Come sempre, la nuova politica prese l'avvio solo dopo una rigorosa formulazione teorica: gli iugoslavi negavano la teoria di Stalin sull'inevitabilità dello scontro tra i blocchi.

La coesistenza pacifica tra sistemi differenti era non solo possibile, ma si trattava dell'unica strada che potesse salvare il mondo dall'auto-distruzione. Nell'illuminante "Conversazioni con Stalin", Milovan Gilas (stretto collaboratore di Tito che abbraccerà una posizione eccessivamente liberale e finirà incarcerato per ordine del suo vecchio compagno) aveva scritto con quale naturalezza, sul finire della guerra, il dittatore sovietico considerasse automatico, dopo qualche anno di pace, lanciare il blocco orientale nel definitivo scontro con l'Ovest. Ora, la Iugoslavia comunista di Tito si chiamava fuori dalla logica di questa "necessità storica", e chiamava con sé un considerevole numero di paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Ovviamente, non era un disinteressato e utopico amore per la pace a muovere il regime titoista. Il non-allineamento si basava su un principio che lasciava mani libere a Belgrado: l'uguaglianza tra stati e la non inerenza negli affari interni. Il rispetto delle sovranità nazionali, inteso alla belgradese, significava che l'Occidente non avrebbe potuto stimolare la Iugoslavia sul rispetto dei diritti umani e della libertà di espressione interni. Un esempio attuale di questo atteggiamento è, ad esempio, quello della Cina, disponibile nello scambio commerciale, intransigente in quello culturale e politico. 

Al di là dei proclami ideologici, la realtà fu che i rapporti con l'Occidente migliorarono considerevolmente, mentre quelli con l'URSS restarono improntati ad una persistente diffidenza. Oltre a ciò, la cornice delle Nazioni Unite offriva uno spazio strategico alla Iugoslavia. All'interno dell'ONU erano presenti molti paesi sensibili alla politica di Belgrado. La diplomazia iugoslava riuscì così a creare un'associazione di stati, per lo più prelevati dal Terzo Mondo coloniale, che costituisse una sorta di "gruppo di pressione". Come conseguenza di questa politica, si ebbero i numerosi viaggi di Tito, e la nascita di alleanze strategiche, come quella con l'egiziano Nasser. Le Conferenze di Belgrado (1961) e del Cairo (1964) furono operazioni di prestigio per la Iugoslavia, che contemporaneamente nell'Europa dell'Est si avvicinava alla Romania per allentare le maglie dell'URSS sui paesi satelliti. I rapporti con Mosca restarono freddissimi, soprattutto dopo il soffocamento dei moti in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968. L'Est restava a sovranità limitata. I primi scricchiolii si percepirono con le difficoltà sorte in Iugoslavia a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Quando il monolitismo sovietico cominciava ad accusare i primi colpi, paradossalmente anche la Iugoslavia, che avrebbe dovuto approfittare di questa debolezza, subì un processo di crisi economica e sociale. Il mercato aveva portato indubbi vantaggi al paese, ma la politica di competitività e di decentralizzazione aveva smosso le acque. Forse troppo. Le domande di autonomia dal basso negli ultimi anni sessanta erano in continuo aumento, e l'economia di mercato che aveva trionfato con l'abolizione nel 1965 del principio di pianificazione centralizzata aveva portato una liberalizzazione del commercio con l'estero, ma anche un profitto distribuito in modo diseguale. Inoltre, erano in aumento disoccupazione ed emigrazione, così come deficit e inflazione del dinaro.

Tutti questi aspetti portavano ad una tensione continua tra le forze per la decentralizzazione (le più ricche, del nord, come la croata Zagabria) e quelle per un maggiore centralismo (ovviamente il sud, con la serba Belgrado in prima linea). Dal nord venivano accuse sempre più circostanziate al regime degli istituti bancari federali, accusati di accumulare i profitti prodotti dall'autogestione e dividerli in modo iniquo, nonché di frenare l'economia. Dalla richiesta di autonomia economica a quella di autonomia politica il passo fu consequenziale. Le repubbliche più ricche cominciarono a chiedere più spazio di manovra. Si ripresenta a questo punto il problema delle nazionalità. Alla base del macello cui oggi assistiamo al di là dell'Adriatico sta l'antico nodo. Un problema che, come dimostra la storia di quest'area balcanica, probabilmente non potrà trovare alcuna soluzione definitiva. Questo perché un fatto ovvio appare agli occhi dell'osservatore più superficiale: la Iugoslavia fu uno Stato, mai una Nazione. 

Il regno dei serbi, croati e sloveni sancito dalla Costituzione del 28 giugno 1921 era un insieme etnico talmente difficile da governare che portò al colpo di stato del re Alessandro del 1929. La Iugoslavia nacque in un certo senso "a tavolino", dai sogni rivoluzionari fatti da intellettuali del XIX secolo, invaghiti dalla prospettiva di unificare in uno Stato tutti gli slavi del sud. Fu quindi una concezione panslavista a ipotizzare la nascita di una Iugoslavia, "sorella" predestinata della Santa Madre Russia. A ciò, vanno aggiunte le dominazioni straniere, francese, tedesca, austro-ungarica e turca che "plasmarono" le varie popolazioni presenti nella penisola balcanica. Soprattutto l'impero austro-ungarico, che nel 1867 era divenuto una doppia monarchia, temeva le spinte che miravano alla creazione di una Iugoslavia indipendente.

Pochi anni prima la corona degli Asburgo aveva dovuto perdere l'Italia, e non intendeva ripetersi nella penisola balcanica. Il primo passo era quello di impedire la minima autonomia alla Serbia. A cavallo tra il XIX e il XX secolo Vienna realizzerà una politica di intervento nei Balcani, approfittando del declino dell'Impero ottomano e della pesante sconfitta dell'Impero russo nel 1905 contro il Giappone. Non stupirà quindi che da qui scoccherà, nel 1914, la scintilla della Prima guerra mondiale. Nel corso della Grande Guerra le due principali popolazioni iugoslave, i serbi e i croati, combatterono su fronti opposti. I primi con gli Alleati, i secondi, con gli Sloveni, nelle file degli Imperi centrali. Ciò nonostante il 1� dicembre 1918 nasceva il "regno dei serbi, croati e sloveni", sotto la dinastia Karageorgevic. Eppure, il problema delle nazionalità rimaneva sostanzialmente insoluto. Nella Iugoslavia a cavallo tra le due guerre mondiali si parlavano tre lingue slave - serbo-croato, sloveno, macedone - e tre non slave - tedesco, albanese e ungherese - parlate da quasi mezzo milione di persone. Inoltre erano presenti minoranze turche, italiane, slovacche. Le religioni presenti nell'area balcanica erano due, cristiana e islamica. La religione cristiana era divisa tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa. In più, il serbo-croato poteva essere scritto in cirillico (serbi) o alfabeto latino (croati). Nel regno iugoslavo ognuna di queste varianti si sovrapponeva, creando innumerevoli combinazioni etniche e culturali.

Per finire, ogni etnia era rappresentata da un partito, il cui scopo era difendere gli interessi della propria comunità. Il sistema partitico nasceva quindi come conseguenza del sistema delle nazionalità. Naturalmente l'instabilità governativa era una costante della vita politica nel "regno dei serbi, croati e sloveni". Fino al colpo di stato, inevitabile, del 6 gennaio 1929. Il regno veniva diviso in nove Banovine (territori divisi in base al corso dei fiumi, con sprezzo dei confini etnici e storici) e assumeva il nome di Iugoslavia. 

Nel 1939, l'entrata in guerra a fianco dei nazifascisti dopo un breve periodo di neutralità, indusse il paese alla guerra civile e all'invasione tedesca. Anche in questo caso, la maggioranza dei croati si schierò con la Germania, mentre quella serba imbracciò le armi contro l'invasore.
(VEDI  I SERBI  SPRONATI DA CHURCHILL CONTRO HITLER)
"Noi sappiamo che i cuori di tutti i serbi battono per la libertà e l'indipendenza del loro paese. Se la Iugoslavia dovesse piegarsi al destino...la sua rovina sarà certa ed irreparabile" (Churchill). - Per il  New York Times  "l'esplosione di fierezza nazionale jugoslava è come un lampo che illuminano le tenebre che ci sono sull'Europa nazista".


Nelle guerre civili scoppiate all'inizio degli anni Novanta nell'ex-Iugoslavia un ruolo tutt'altro che secondario lo hanno giocato i richiami emotivi agli eventi della Seconda guerra mondiale. Seppellite per più di cinquant'anni incomprensioni e reciproche brutalità, queste sono riaffiorate con eguale se non maggiore brutalità allo scoccare della fine di questo "secolo breve", per mano di personaggi che hanno saputo soffiare su ceneri apparentemente estinte. D'incanto, nazionalismi di ogni colore (basti pensare a quello "bruno" del croato Tudjman o a quello di tradizione comunista del serbo Milosevic) sono risorti come arabe fenici dal silenzio creato da mezzo secolo di "anestesia" titoista. Per questo motivo non è irrilevante ricordare in breve la situazione al momento dell'invasione nazifascista della Iugoslavia. Nei territori del nord che non furono direttamente annessi al Reich e all'Italia gli invasori diedero vita ad un governo-fantoccio denominato Nezavisna drzava Hrvtske (Stato indipendente croato) nel quale prese il potere assoluto il movimento ustascia nella persona di Ante Pavelic.

Lo stato croato comprendeva, oltre alla Croazia, la Bosnia-Erzegovina e la Sirmia, in pratica quella "Croazia storica" che affondava nella memoria di un lontano passato (il regno del re Tomislav, 910-928). Nella primavera del 1941 il regime di Pavelic emanò misure che fecero subito comprendere le sue intenzioni: pena di morte retroattiva per attività contro lo stato, divieto dell'uso dell'alfabeto cirillico, eliminazione delle scuole ortodosse, proibizione nei confronti di ebrei e serbi di rivestire cariche pubbliche e amministrative. E' curioso notare come il nuovo stato, benché si definisse "croato e cattolico", non prese misure restrittive nei confronti dei mussulmani, peraltro utili alleati nel colpire ortodossi e ebrei. La resistenza iugoslava si organizzò invece in due principali fazioni, che facevano capo alle due organizzazioni sopravvissute all'invasione: il partito comunista e i militari del vecchio esercito reale. Da essi nacquero, rispettivamente, il movimento definito semplicemente "partigiano", in mano a Tito, e quello dei "cetnici", comandato dal generale Draza Mihailovic. I cetnici, prevalentemente serbi, riconobbero immediatamente il governo monarchico esiliato a Londra. Fino al 1944 questa fazione giocò un ruolo dominante nell'opposizione ai nazifascisti, avvalendosi di un rapporto preferenziale con gli Alleati, soprattutto la Gran Bretagna. Nell'ultimo anno di guerra, però, per una serie di motivi fu Tito a raccogliere la stima e la considerazione degli angloamericani. Imprevedibilmente, anche l'anticomunista di ferro Winston Churchill, premier britannico, decise di puntare le sue carte sul "rosso" Tito.

I cetnici furono protagonisti di discriminazioni nei confronti di croati e mussulmani, arrivando fino ai massacri. Nei confronti dei mussulmani, poi, c'era un preciso disegno di eliminazione delle tracce della dominazione turca nella regione. I partigiani di Tito, d'altro canto, si dimostrarono subito nemici in egual misura dell'invasore tedesco come dei cetnici. Come dichiarò lo stesso Gilas, alcuni tentativi di tregua vennero compiuti con i tedeschi in chiave anti-cetnica; allo stesso tempo, nei primi mesi di guerra, furono anche tentati approcci tra partigiani e cetnici. Il croato Tito e il serbo Mihailovic si incontrarono due volte nel 1941, ma realizzarono quanto incompatibili fossero le rispettive visioni del futuro della Iugoslavia. Tito sapeva bene che, per creare una nuova Iugoslavia comunista, l'eliminazione dei monarchici era una conditio sine qua non. Anche da parte dei partigiani titini le efferatezze non mancarono, quindi. Basti ricordare uno degli ultimi massacri della guerra, nel maggio del 1945, ad opera dei titoisti. Decine di migliaia di prigionieri in mano ai tedeschi - guardie bianche slovene, cetnici montenegrini e partigiani croati anti-comunisti - furono consegnati dagli inglesi ai comunisti di Tito. 
Gli sloveni vennero concentrati a Kocevje, nel sud della Slovenia. Circa 30.000 persone vennero fucilate e gettate in un precipizio nei pressi della cittadina. Per comprendere le divisioni di oggi nell'ex-Iugoslavia è anche utile comprendere quanto il partito unico comunista si sedimentò nelle diverse nazionalità. La propaganda, e i sinceri sforzi del regime titoista, puntavano a proporre il partito come un legame tra le nazionalità. Attraverso il partito e lo stato federale, sempre nel rispetto delle diverse etnie, Tito cercava comunque di ammorbidire le rispettive differenze e diffidenze. Nel 1946 il PC aveva 141.600 iscritti, due anni dopo la stima era salita a 340,000.

Negli eroici anni di consolidamento del potere e di mobilitazione nazionale del nuovo stato il PC guadagnava iscrizioni e consensi, ma il suo radicamento nella società variava notevolmente a seconda delle repubbliche e delle categorie sociali. Nel 1945 il PC in Serbia contava 55.000 iscritti, la cui stragrande maggioranza (47.000) erano serbi.; in Bosnia-Erzegovina i membri di partito erano circa 29.000 di cui 19,000 serbi e solo 3.000 croati; in Croazia il PC contava circa 40.000 iscritti, la cui grande maggioranza era formata da contadini; in Macedonia e Montenegro le iscrizioni erano nettamente inferiori. Infine, nella Slovenia industrializzata le adesioni erano considerevolmente inferiori. Il PC trovò in questa repubblica seri problemi di insediamento. Ancora nel 1947, i membri del partito erano poco più di 6.000, la cui grande maggioranza era composta da operai. Il comunista iugoslavo tipico era quindi, nella media, con maggiore probabilità un serbo, o un croato e sloveno delle città operaie. Assoluta apatia nei confronti del reclutamento comunista veniva registrata nella regione del Kosovo. 

Giunti a questo punto possiamo trarre le prime conclusioni. Le riforme messe in atto dopo la fine del secondo piano quinquennale (1965) portarono in Iugoslavia profondi mutamenti sociali. Il paese cominciò ad assumere alcuni tratti "occidentali", sia in positivo che in negativo. La società andava, anche se con rilevante lentezza, aprendosi. Tale apertura portava con sé però le normali contraddizioni di una realtà maggiormente competitiva. Le tensioni sociali, unite alle rivendicazioni economiche di alcune regioni più ricche, costituirono un leit-motiv costante nella Iugoslavia degli anni Settanta. In questo decennio il paese fu attraversato da altri "sommovimenti" come la crisi croata del 1971 e le conseguenze della nuova costituzione del 1974, che aumentava ulteriormente alcune autonomie repubblicane. Il decennio seguente si sarebbe aperto con la morte di Tito, il 4 maggio 1980. Il paese perdeva l'uomo che aveva saputo tenerlo in pugno, anche se duramente, per trentacinque anni. 
Il fenomeno dei nazionalismi cominciò a svilupparsi, e ad emergere a tratti come i fiumi carsici che attraversavano il paese. Il crollo del comunismo nel 1989 avrebbe fatto il resto. La cappa titoista si sarebbe dissolta, ma il sangue avrebbe ricominciato a scorrere.

(1 - continua)


(Nella prossima puntata: la crisi croata del 1971, gli effetti della nuova costituzione del 1974, il risorgere dei nazionalismi, l'ascesa di Milosevic, la Croazia di Tujdman, la guerra nella ex-Iugoslavia 1991/95, l'ultima ferita: il Kosovo)