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RIVOLUZIONE FRANCESE

i 4 anni "roventi" in breve


  Piazza della Rivoluzione - "madame Guillotin" all'opera - Disegno di Monnet

ALLA FINE DEL 1700 sugli Stati del Vecchio Continente regnano ancora monarchie autoritarie. Ovunque il popolo e la borghesia diventano sempre più insofferenti.
E improvvisamente il primo minaccioso segno�


LA RIVOLUZIONE FRANCESE:
TEMPESTA SULL'EUROPA

Piogge torrenziali, inondazioni, bombardamenti a tappeto di grandine e siccità biblica sono i detonatori che fanno scoppiare quel cocktail esplosivo annotato nel gran libro della storia con il nome di Rivoluzione francese.
Fra il 1787 e 1788 sembra abbattersi sulla Francia di Luigi XVI - il molle re salito al trono nel 1774 - l'ira di Dio. E' il prologo che apre il dramma storico del 1789. Il raccolto del secondo semestre dell'87 è pessimo, quello dell'88 disastroso.
Alla metà dell'89 i prezzi dei cereali hanno una brusca impennata, il pane - già poco - diventa merce preziosa, proletari e contadini sono alla fame. La lunga miccia della miseria è completamente bruciata.

 Il 14 luglio il popolo di Parigi dà l'assalto alla Bastiglia, 

...la storica prigione simbolo di un potere parassitario che ha divorato e scialato le ricchezze del Paese.
Dietro questa rivolta non ci sono partiti, almeno nel senso moderno della parola. C'è soltanto il Terzo Stato - i primi due sono costituiti dal Clero e dalla Nobiltà - nel quale si muove quel magma sociale ribollente di idee e di aspirazioni che è la Borghesia.
L'aggancio fra borghesia e popolo viene reso quasi automatico dalla forte spinta esercitata dall'ansia di una grande riforma che travaglia i due ceti vessati da un'autocrazia capace soltanto di conservare e coltivare i propri privilegi feudali, ma del tutto inetta al governo del Paese, all'elaborazione di una politica economica in linea con i tempi della rivoluzione industriale che altrove, come in Inghilterra, sta già facendo i primi passi.
Le due forze sociali sono accomunate da un urgente bisogno di libertà, di esprimere tutto il loro potenziale produttivo soffocato dal sistema degli ordini e dalla monarchia. Ma borghesia e popolo sono mossi da motivazioni diverse pur se destinate a convergere nel momento cruciale.

La prima (il cui tessuto è formato dagli avvocati ed altri professionisti, dai piccoli e grandi imprenditori, dai commercianti, dai neo-industriali titolari di aziende tessili ed edili, da funzionari di vario tipo e grado, dagli intellettuali come Montesquieu che teorizza lo Stato liberale e Rousseau, sostenitore dell'egalitarismo) punta alla gestione del potere per rendere la macchina della Stato più funzionale alla propria attività che ha già imboccato la strada dell'imprenditoria premoderna; il secondo chiede soltanto, al momento, di essere sottratto alla fame, al flagello di tasse e decime che deve pagare al re, al nobile che vanta ancora diritti medievali, al clero.
Nella categoria popolare rientra anche il forte gruppo del proletariato urbano costruito dai contadini fuggiti verso la città dove l'industria tessile e quella edile assicurano un'entrata misera ma certa, non esposta all'inclemenza della natura che può spazzare via un raccolto da un momento all'altro.
Se ad inasprire la rabbia delle masse sono la miseria, l'altra mortalità infantile, le disumane situazioni abitative, dalla parte della borghesia c'è la frustrazione dell'isolamento, dell'ostracismo alla quale viene condannata dalla monarchia che sbarra l'accesso ai grandi impieghi, alle alte cariche dello Stato; nel 1781 viene addirittura promulgato l'edito dei "quattro quarti" che permette soltanto ai nobili incontestabili - ossia doc, con i regolamentari quattro quarti di nobiltà - di entrare nell'esercito come ufficiali, senza l'obbligo di fare la trafila della carriera dal basso.

Le due grandi forze produttive del Paese sono dunque intrappolate. Il contadino, anche se piccolo proprietario, viene privato dal suo "signore" di buona parte degli introiti: è costretto a sborsare balzelli sotto forma di danaro o di prodotto. Ogni fase della vita contadina comporta quella che oggi si chiama tangente: sulla vendemmia, la vendita del terreno, il raccolto annuo, la mietitura.
La figura del signore incombe ossessiva. Spesso compare nei poderi per una partita di caccia con il suo codazzo di cortigianelli, gli zoccoli dei cavalli devastano i pascoli e i campi di grano maturo. Sul misero reddito del contadino gravano anche le decime dovute al clero, le quali assorbono un ventesimo di tutti i raccolti.
In questa situazione, che paralizza le possibilità di sviluppo del Paese, l'idea della Grande Riforma prende sempre più corpo. Il cervello della borghesia costituito dai philosophes che animano il "secolo dei lumi", dai magistrati, dagli avvocati, dai giornalisti, infonde nell'opinione pubblica una visione della Francia libera e liberale, affrancata dal sistema feudale, dallo sfruttamento da parte della nobiltà e del clero proprietari di tre quarti del suolo francese.
In contrapposizione al Terzo Stato - col quale tuttavia stabilirà ambigue e passeggere alleanze - si forma la coalizione della nobiltà per rivendicare la partecipazione, ma in chiave conservatrice, alla direzione dello Stato dalla quale è stata praticamene estromessa ai tempi di Luigi XIV, monarca assoluto nel senso stretto della definizione.

I grandi aristocratici, infiltrandosi nell'alto apparato della cosa pubblica, bloccano ogni timido tentativo di Luigi XVI (che politicamente era meno maldestro di quanto storicamente gli venga imputato, fatto eccezione per la sua patologica incapacità di prendere una decisione) di tappare le grandi falle del sistema concedendo qualche riforma.
Mentre Terzo Stato e nobiltà assediano il re per mettere fine all'assolutismo, sia pur per opposte ragioni, per ottenere profondi cambiamenti istituzionali (il Terzo Stato esige il raddoppio della propria rappresentanza in Parlamento), la crisi economica assume dimensioni sempre più vaste. Alla sottoproduzione agricola si aggiunge quella industriale. Un accordo commerciale con l'Inghilterra ha diminuito i diritti di entrata dei prodotti d'Oltre Manica in Francia. La fragile industria del Paese, soprattutto quella tessile, risente gravemente dello scontro concorrenziale: nei primi mesi dell'89 Abeville registra 12.000 disoccupati, Lione sfiora i 20.000. tutti gli intendenti di Francia segnalano, dalle loro zone, un massiccio aumento del numero di mendicanti e di sbandati che vanno alla disperata ricerca di una possibilità di sopravvivenza.

E' a questo punto che la Francia, 25 milioni di abitanti, identifica nel Terzo Stato il partito nazionale, sente la propria voce nelle migliaia di pubblicazioni fatte circolare in ogni città e in ogni provincia da questa grande forza politica che non ha una vera e propria organizzazione, ma ha un cervello rappresentato da un Comitato di trenta membri.
La visione liberal-nazionale del "partito" attrae fortemente anche il basso clero (quello privo di rendite fondiarie, che vive con una misera congrua) e diversi nobili, vuoi quelli illuminati, capaci di capire i tempi, vuoi quelli che si adeguano al "nuovo corso" per conquistarvi una fetta più o meno consistente di influenza: nel gruppo aristocratico appaiono dei nomi illustri come quello del generale La Fayette, uno degli eroi della rivoluzione americana, del duca de La Rochefoucauld, aspro critico della corruzione di corte, e di suo cugino Charles Liancourt, un liberale filantropo noto per i suoi studi sull'agronomia, del duca D'Aiguillon, grande proprietario terriero.
Quando esplode il 14 luglio e si pongono le premesse per la nascita della nuova Francia, il partito nazionale diventa la guida naturale di un mutamento - che avrà un corso profondamente travagliato - il quale prende forma solenne in un decreto, approvato nell'agosto dell'89: "L'Assemblea nazionale abolisce interamente il regime feudale". A questo documento ne segue un altro, il 26 agosto: la "Dichiarazione dei diritti dell'uomo", pietre miliare della storia della Francia ma anche d'Europa: "Gli uomini nascono e vivono liberi e uguali nei diritti". E il re viene privato della sovranità poiché d'ora in poi questa sarà esercitata dalla Nazione Francese. Come d'ora in poi ci sarà libertà di parola, di opinione e di stampa, le leggi non potranno avere valore retroattivo, ogni cittadino avrà diritto di accedere ai pubblici impieghi, la proprietà privata sarà garantita.

I fondamentali principi della grande riforma sono incisi nella storia, sanciscono la nascita di una Francia giusta, di una Francia felix. Ma traducendo in realtà questi principi, articolandoli in regolamenti e decreti, la borghesia li tradisce subito. E non c'è da stupirsi: regolarmente accade nella storia che quando un gruppo sociale d'élite conquista il potere (ricorrendo all'appoggio del popolo, immancabile massa d'urto in qualsiasi tipo di rivoluzione, per scalzare gli avversari) dopo la vittoria stabilisca leggi, morale ed etica in rapporto ai propri interessi.
Infatti la borghesia pre-capitalista francese, già pochi giorni dopo la presa della Bastiglia, aveva fatto una premessa precisa attraverso le parole dell'abate Emmanuel-Joseph Sieyez, politico e scrittore di taglio conservatore: "Il Comitato incaricato dell'elaborazione della Costituzione deve fissare una differenza fra cittadini attivi e passivi. I cittadini attivi sono i veri azionisti della grande impresa sociale: essi devono formare quella nazione che è fonte di ogni potere pubblico".

Così con il decreto del 22 dicembre 1789, l'Assemblea Costituente chiarisce che il cittadino attivo avente diritto di voto è ogni francese che abbia raggiunto il 25� anno di età, viva in un dato cantone da non meno di un anno, non sia a servizio in qualità di servo domestico, e paghi un'imposta diretta pari al valore di tre giornate lavorative (in totale tre lire). A conti fatti risultano avere diritto di voto poco più di quattro milioni di cittadini sui ventisei milioni circa che al momento abitano la Francia. Viene inoltre approvata una legge che vieta gli scioperi e le associazioni di persone appartenenti alla stessa professione.
Come si vede, ai contadini e agli operai viene tolta la possibilità di partecipare alla gestione del potere, alla elaborazione delle leggi. Beffa finale alla "Dichiarazione dei diritti dell'uomo" è la norma, la quale stabilisce che per aver diritto di essere eletto deputato è obbligatorio avere un tot di beni immobili e pagare inoltre un'imposta diretta annuale di un marco (le marc d'argent corrisponde a circa cinquanta lire).
Dai risultati dell'attività legislativa la posizione della borghesia appare chiara: si vede una forte tendenza a difendere la pienezza del conquistato potere da qualsiasi attentato proveniente dall'alto o dal basso; un'azione instancabile e sistematica diretta ad epurare lo Stato dai resti del vecchio regime; una diffidenza verso la Corte - che ancora lavora "pro domo sua" con i residui poteri che le restano - ma in particolar modo nei confronti dei faubourgs Saint-Antoine e Saint-Marcel perché gli operai di Parigi danno maggiori preoccupazioni di quelli meno reattivi - della provincia.

A questo punto è necessario rivedere la situazione dei "partiti".
Facciamo riferimento allo storico russo Evgheni Tarle, autore di una delle migliori opere scritte sulla rivoluzione francese (La classe operaia nella rivoluzione francese pubblicato a Roma nel 1960 dagli Editori Riuniti):
Innanzitutto, quali correnti politiche possono distinguersi in Francia in quegli anni, cioè dall'inizio del maggio 1789, quando si riunirono i rappresentanti del popolo, al settembre 1791, quando l'Assemblea Costituente si sciolse? Si parla della borghesia e della democrazia come di due singole correnti nel campo dei vincitori. Le due indicazioni fanno riferimento a: 1) la corrente conservatrice in senso sociale manifestatasi quasi immediatamente dopo la caduta del vecchio regime, corrente che intendeva rafforzare il dominio assoluto e completo della borghesia e difenderlo da attentati sia dall'alto sia dal basso; 2) la corrente democratica che voleva una piena, coerente realizzazione di tutte le logiche esigenze derivanti dalla dichiarazione dei diritti e l'acquisizione da parte delle masse popolari di tutti i diritti che la borghesia manteneva nelle proprie mani. Oltre a queste due correnti, i cui esponenti appartenevano alla borghesia, ve ne una terza, quella aristocratica, come allora si soleva chiamare, o quella contro rivoluzionaria, come venne chiamata più tardi, perché non tutti i suoi militanti erano aristocratici".

Sempre in riferimento alla formazione dei gruppi politici che si formano nella complessa dialettica post-rivoluzionaria per difendere lo spirito del "Manifesto" o per negarlo al fine di tornare alla restaurazione dell'ancien regime, Furet et Richet (La rivoluzione francese, Laterza, 1986) precisano che "le parole di cui ci serviamo non hanno avuto sempre lo stesso significato. Repubblicano è un termine che s'incontra in moltissimi testi dell'inizio della Costituente, ma quasi sempre esso designa la fedeltà al contenuto politico della rivoluzione - sovranità popolare invece di sovranità monarchica - più che la preferenza per una determinata forma di governo. Prima della fuga del re furono pochi che, come il giornalista Robert, si proclamarono fautori della repubblica. Democratici, così i nemici del nuovo corso definivano nel 1789 tutti coloro che contrapponevano la Costituzione all'arbitrio. Tuttavia il termine a poco a poco si precisa e il suo significato sociale si accentua: l'ostilità al marco d'argento mostra che si tratta soprattutto dei gruppi intellettuali della media borghesia che, nonostante le proprie capacità, sono ineleggibili per mancanza di beni di fortuna.
"Il malcontento fu profondo soprattutto a Parigi quando nel maggio del 1791 furono soppressi i distretti. L'abitudine all'auto gestione non poteva trovare alcun incentivo nelle nuove sezioni subordinate a una municipalità di notabili. Ma ad esse non tarderanno a sostituirsi i Club popolari e le Società fraterne."

La più importante - secondo i due storici francesi - fu la Società dei diritti dell'uomo e del cittadino, fondata verso il mese d'aprile nel convento dei Cordiglieri (definizione data ai frati francescani che poi indicherà anche gli appartenenti a questa società, n.d.r.). Fra i suoi iscritti vi erano Marat, Danton, Legendre e Santerre e la sua composizione essenzialmente piccolo borghese ne fece un organismo meno deliberativo e più attivo del club dei giacobini (la nuova Società rappresentava l'evoluzione, in direzione radicale, del giacobinismo, n.d.r.).
Parallelamente si formarono numerose società popolari che nel maggio del 1791 si federarono in un Comitato Centrale. Veri e propri centri di educazione politica, esse tennero vivo nelle masse un clima di sospettosa vigilanza cui nessuno sfuggiva. Non bisognava però considerarle alla stregua di organizzazioni operaie, o di quei poli di rivendicazioni sociali sanculotte che diventeranno successivamente.

Nella lotta politica - dura e senza esclusione di colpi al punto di giungere alla tragedia quando la Guardia Nazionale, il braccio armato che difende la Nuova Francia, spara contro la massa di popolo che manifesta il proprio disaccordo politico - c'è la presenza forte e attiva della Società degli Aristocratici, presenza ovvia dato che ogni rivoluzione provoca tentativi di controrivoluzione da parte dell'élite che ha perso il potere.
Gli aderenti a questa società cercano di fomentare il malcontento del popolo con ogni mezzo, improvvisandosi difensori delle plebi "ingannate" dalla borghesia.
Nel Piccolo dizionario dei grandi uomini e dei grandi fatti riguardanti la rivoluzione, edito dalla Société d'aristocrates, sotto la parola Peuple si trova un testo demagogico che inizia con una citazione di Voltaire: "Lavorate, morite, chiamate la morte, morirete nel concime, questo è l'unico bene che vi rimane". E nel seguito: "Voltaire indubbiamente aveva previsto la rivoluzione e nel lutto e ne prevedeva i terribili e spaventosi risultati. Come tremerebbe questo popolo ingannato se potesse capire che la rivoluzione di cui esso è stato uno strumento diverrà a sua volta lo strumento della sua rovina! Purtroppo i suoi occhi si apriranno troppo tardi. E non ci sarà più tempo, non ci sarà più rimedio".
La formazione di gruppi per la difesa dei diritti delle varie componenti sociali avviene anche nelle colonie della Francia, soprattutto a Santo Domingo dove vi sono due grandi forze contrapposte: colonizzatori e colonizzati. Questi ultimi sono gli uomini di coloro liberi, fra i quali molti mulatti, e gli schiavi.
La contrapposizione dà vita a due Società: il Club Massiac, al quale fanno capo tutti i grandi proprietari di piantagioni e di schiavi, e la Società degli amici dei negri che si batte per la concessione dei diritti politici a negri e mulatti, attraverso la fiammeggiante oratoria di Robespierre, uno dei fondatori.
A Parigi infuria la violenza delle parole, ma a Santo Domingo c'è il sangue: Vincent Ogé, che guida la protesta dei mulatti e organizza una campagna di petizioni, nel 1791 viene condannato al crudele supplizio della ruota e giustiziato davanti a una folla terrorizzata di negri e schiavi.
Quest'episodio porta l'Assemblea allo scontro. In un suo lucido e appassionato discorso, Robespierre dimostra il rischio di questo razzismo insensato: esso può portare i mulatti fra le braccia degli schiavi e quindi alla formazione di una pericolosa "force de frappe" che metterebbe in forse il potere dei colonizzatori.

Il 15 maggio l'Assemblea concede i diritti politici agli uomini di colore "nati da madre e da padre liberi". Restano esclusi dalla dignità gli schiavi. Nemmeno Robespierre spende una parola per loro. Chiede soltanto l'abolizione del termine che la indica, non l'abolizione dell'istituzione.
Durante il correre dei mesi la frattura tra partito borghese e partito democratico si allarga. Con la consueta veemenza, Marat denuncia l'incoerenza della borghesia che protegge le proprie ricchezze e i propri privilegi e nella sostanza tradisce i principi del "Manifesto dei diritti dell'uomo". Gli attacchi di Marat non sono più solitari.
"L'agitazione popolare e le misure sempre più restrittive della maggioranza nei confronti dei mezzi di espressione pubblica", scrivono Furet et Richet, "allarmano gli uomini politici di tendenza democratica� Robespierre protesta contro i decreti del 18 e del 22 maggio 1791 che vietano ai club e alle sezioni di pubblicare ordinanze e presentare petizioni. Madame Roland attacca la classe dei ricchi".
E la lotta di Marat contro la legge Le Chapellier non riguarda tanto il suo contenuto sociale quanto il suo intento di impedire ai cittadini "di occuparsi insieme della cosa pubblica". Per tutti questi democratici la salvezza della rivoluzione poggia sulla salvaguardia prioritaria dell'alleanza fra borghesia e popolo".
Di fronte al duro attacco, la maggioranza parlamentare ha assunto un atteggiamento involutivo. La borghesia ha paura di perdere le posizioni conquistate e pensa a una revisione della nuova Costituzione per consolidare il proprio potere e restituire al re quelle facoltà che possono essere in sintonia con gli interessi della neo-razza padrona.

Per questo il 17 maggio, Adrien Du Port ha reso pubbliche le direttive del gruppo con le seguenti parole: "La rivoluzione è finita. Dobbiamo consolidarla e proteggerla lottando contro gli eccessi. Dobbiamo porre dei limiti all'eguaglianza e alla libertà e stabilizzare l'opinione pubblica. Il Governo dev'essere forte, solido e stabile".
Lo spirito della dichiarazione denuncia una netta, scoperta virata a destra. La filosofia politica del Terzo Stato è morta, nasce un partito tory che presenta gli aspetti più retrivi del conservatorismo.
Nel giugno del 1791 Luigi XVI, che in una lettera del 1789 al re di Spagna Carlo IV ha lamentato "tutti gli atti contrari all'autorità regia estortimi con la forza del 15 luglio di quest'anno", tenta di sottrarsi alle pressioni incessanti (che gli vengono dall'una o dall'altra parte) fuggendo a Varennes con famiglia e corte. E' una fuga organizzata male e il piano fallisce. L'immagine del re - che tutti i gruppi politici e il popolo stesso avevano eletto a simbolo dell'unità nazionale - riceve un duro colpo, scatena l'ira dei parigini, fa insorgere la paura di un complotto controrivoluzionario, organizzato dalla stesso re in combutta con i forti gruppi di aristocratici emigrati all'estero dopo il fatidico 15 luglio del '89. Luigi XVI viene ricondotto a Parigi. Il rientro nella capitale avviene fra due ali di folla chiusa in un mutismo minaccioso. Tutti hanno il cappello in testa.

La fuga di Varennes peggiora la situazione politica, provoca l'aumento delle tensioni. La destra rifiuta di riconoscere la richiesta sospensione di un re inviolabile, invoca l'intervento straniero per liberare la Francia dal caos e si ritira dall'Assemblea: sono 293 i deputati che se ne vanno. Un'altra spaccatura avviene in seno al gruppo giacobino dal quale si staccano i moderati.
Si forma così un nuovo partito, quello dei Foglianti, che prende il nome del convento nel quale si radunano i suoi seguaci. In questa fase estremamente critica - che prelude alla liquidazione della monarchia e al tragico periodo del Terrore - gioca un ruolo di primo piano anche il gruppo dei Girondini, che fa capo ai deputati del dipartimenti della Gironda ed a un uomo politico di grande prestigio, Jacques Pierre Brissot, radicale e antimonarchico.
Sono proprio i girondini, che con i loro infuocati interventi all'Assemblea costringono Luigi XVI a firmare la dichiarazione di guerra contro la coalizione austro-prussiana (20 aprile 1792).
Il motivo è plausibile: soprattutto in questi due Stati, fortemente preoccupati di una possibile esportazione della rivoluzione nel proprio territorio, hanno trovato rifugio i gruppi di nobili fuggiti dalla Francia; essi, sostengono i Girondini, costituiscono un pericolo, possono preparare un attacco controrivoluzionario con l'aiuto della Germania e dell'Austria.
Ma perché Luigi XVI si lascia strappare la firma senza opporre eccessiva resistenza?


Nasce la Repubblica
e i seguaci della monarchia tentano di abbatterla
con improvvisati eserciti comandati da nobili rammolliti

SPADE DI CARTONE
CONTRO IL FERRO DELLA LIBERTà'

Come abbiamo visto, sono proprio i Girondini che con i loro infuocati interventi all'Assemblea costringono Luigi XVI a firmare la dichiarazione di guerra contro la coalizione austro-prussiana (20 aprile 1792). Il motivo è plausibile: in questi due Stati, fortemente preoccupati di una possibile esportazione della rivoluzione nel proprio territorio, hanno trovato rifugio i gruppi di nobili fuggiti dalla Francia: essi, sostengono i Girondini, costituiscono un pericolo, possono preparare un attacco controrivoluzionario con l'aiuto della Germania e dell'Austria.
Ma perché il re si lascia strappare la firma senza opporre eccessiva resistenza? Anche lui ha il suo motivo plausibile: spera che la Francia venga invasa, che la canaglia venga spazzata via e si pongano così le premesse della Restaurazione.

La dichiarazione di guerra coincide con una pesante crisi economica. I contadini rifiutano di consegnare il grano ai bassissimi prezzi imposti, rincarano le derrate coloniali a causa della rivolta degli schiavi di Santo Domingo. Il carovita provoca gravi disordini: nel corso di una sommossa ad Etampes la folla lincia il sindaco dopo aver chiesto invano l'imposizione del calmiere.
Nei faubourgs (sobborghi) di Parigi, la popolazione costringe i droghieri a diminuire il prezzo dello zucchero. Poco dopo le lavandaie dei Gobelins invadono le botteghe e le saccheggiano.
Da questa catena di disordini, di proteste, di violenti attacchi critici a un sistema che ha tradito i suoi presupposti e non ha dato giustizia al popolo, nasce un nuovo "partito". Per la prima volta prende forma un movimento popolare autonomo che non pone soltanto il problema delle rivendicazioni economiche, ma anche quello della fondazione di una reale democrazia politica. E' un movimento proletario? Furet e Richet lo negano.

"Compagnons, artigiani e piccoli bottegai si mescolano agli operai, spinti non dalla rivendicazione salariale, bensì dalla necessità del calmiere, dall'odio contro gli accaparratori e dalla sfiducia verso i borghesi sospetti di connivenza col nemico. Il loro nome di sanculotti non deriva dal fatto che portino i pantaloni, a quel tempo ancora rarissimi, ma dal loro disprezzo per le brache e le calze di seta dei ricchi, gentiluomini o borghesi che siano. La sanculotterie conquista le società fraterne aperte ai cittadini passivi e si esalta nelle grandi feste patriottiche. Il 15 aprile Parigi manifesta il nome della libertà".
Finalmente la Francia ha il partito del popolo. Che sia proletario o no ha poca importanza, considerato che le schematizzazioni vengono sempre violate dai fatti reali. L'importanza di questo gruppo sta nella sua forza d'urto, nella sua capacità di determinare gli eventi storici che seguiranno. Alla sanculotterie si deve la nascita della Francia democratica e repubblicana.

Mentre fischia il vento rosso della rivoluzione e madame Guillotin lavora a far giustizia - e qualche volta ingiustizia, come accade quando in un popolo troppo vessato esplode una rabbia secolare - dalla pericolante goletta della monarchia francese fugge una massa di nobili topi col seguito di cortigiani e cortigianelli, di mogli poco inclini alla monogamia, di amanti esperte nei giochi d'alcova e negli intrighi politici, di politicanti miopi che non riescono ad affondare lo sguardo nel futuro. Non mancano, ovviamente, i generali e gli ufficiali di sua maestà Luigi XVI, spade di cartone, salvo qualche eccezione, gente rammollita negli ozi della reggia di Versailles o nelle guarnigioni da operetta, teatro di grandi manovre gastronomiche ed erotiche.
Questa comunità di tiranni grandi e piccoli, di ossequienti e inetti parassiti, sarà il "cervello" della controrivoluzione. Un cervello nutrito dagli arzigogoli filosofico-sociali di alcuni scrittori e pensatori dell'epoca autori di analisi e teorizzazioni politiche non proprio geniali e qualche volta al limite delle spasso� Ecco qualche sintesi delle loro idee.

Sénac de Meilhan, referendario presso il consiglio del re: è tutta una questione di cicli storici, la democrazia genera la demagogia, la monarchia dà origine alla tirannia, questa alla rivoluzione ma alla rivoluzione seguirà la controrivoluzione e quindi il ritorno della monarchia.
Il gesuita abate Barruel, editore, prima della rivoluzione, de Le journal ecclésiastique, sostiene con fermezza che la grande ribellione è stata mandata da Dio per punire la Francia corrotta dall'illuminismo, dai filosofi che hanno fatto del popolo il proprio zimbello; e corona il suo pensiero proclamando solennemente che il re è il rappresentante di Dio in terra e quindi è giudice supremo.
Edmond Burke, politico e scrittore inglese, autore delle Riflessioni sulla rivoluzione di Francia, considera la democrazia la legge del numero e in quanto tale da respingere� se la costituzione di un regno è un problema aritmetico allora è vero che 80 milioni di persone hanno diritto di prevalere su 200mila, ma la volontà della massa e gli interessi della massa sono di rado la stessa cosa.

Sulla base di queste teorie, ma soprattutto tesi alla riconquista dei privilegi e delle ricchezze perdute, i nobili emigrati mendicano presso le monarchie europee più compiacenti i fondi per attrezzare di mezzi le armate che dovranno abbattere la giovane Repubblica francese. Chiedono anche un intervento militare contro i rivoluzionari ma sia Giuseppe II (fratello della regina di Francia Maria Antonietta), imperatore d'Austria e Ungheria, sia Carlo IV, re di Spagna, sia Vittorio Amedeo III, re di Sardegna, non hanno alcuna intenzione di farsi trascinare in una guerra che, almeno per il momento, considerano del tutto inutile.

Vediamo ora, nel particolare, come si articola la diaspora degli emigranti, come si disloca e come prepara piani e azioni controrivoluzionari.
Il primo transfuga è il conte d'Artois, fratello di Luigi XVI: abbandona Versailles fra il 16 e il 17 luglio 1789 con la sua piccola corte, accompagnato dal principe di Condé, il duca di Borbone, il duca di Enghien, vari conti e feudatari del regno. Le fughe avvengono a bordo delle lussuose carrozze spesso cariche di danaro. Il duca di Mirepoix, uno dei grandi della Linguadoca, arriva a Roma con cinquecentomila lire in oro e argento.
Nel giro di poco tempo la schiera viene ingrossata dai deputati filomonarchici dell'assemblea costituente (che non erano riusciti a far passare il progetto di costituzione all'inglese, che prevedeva un regime monarchico affiancato da una Camera Alta e una Camera Bassa),da vescovi, sacerdoti e magistrati e, come dicevamo, ufficiali dell'armata reale di ogni grado e rango sia di fanteria, cavalleria e marina. Non mancano i ricchi borghesi. Gli studi storici valutano questa emorragia in circa centocinquantamila unità.
In un primo tempo il conte d'Artois, genero del re di Sardegna, stabilisce la sua piccola corte a Torino dopo aver strappato uno scontento permesso a Vittorio Amedeo III che teme ritorsioni da parte della Francia repubblicana.Appena installato nella capitale piemontese d'Artois comincia a tessere la trama della rivincita costituende un Comitato controrivoluzionario del quale chiama a far parte il principe di Condé, il duca di Borbone, un gruppo di nobili, l'abate Marie, precettore dei principi, il marchese de la Rouzière deputato all'assemblea nazionale, il vescovo d'Arras monsignor Conzié.

Al gruppo si unisce più tardi Charles Calonne, ex controllore delle finanze di Luigi XVI, super conservatore già espatriato in Inghilterra nel 1787.
Visto il rifiuto di Giuseppe II e di Carlo IV di organizzare spedizioni militari contro la Francia, Calonne consiglia la costituzione di un corpo militare organizzando gli ufficiali e i soldati (il numero di questi ultimi è in verità irrilevante). Mentre si tenta di mettere in atto questa proposta (esiste già, per altro, la legione nera formata in Svizzera dal visconte Boniface Mirabeau, fratello e ovviamente avversario del conte Mirabeau, deputato della sinistra) il Comitato controrivoluzionario lavora per raggiungere due obiettivi: la liberazione del re e della sua famiglia, la rivolta armata nelle province francesi meno contaminate dall'ideologia rivoluzionaria.
I vari piani elaborati per la liberazione della famiglia reale non sono capolavori di acume. Falliscono nel ridicolo e nel sangue uno dietro l'altro. Il primo è quello combinato con il conte di Provenza, che non ha abbandonato Parigi e dal marchese di Favras. E' Favras stesso che deve penetrare nelle Tuilleries e rubare alla Repubblica i Reali, ma il nobile signore viene tradito addirittura dai complici: il 18 febbraio del 1790 finisce sulla forca.

Clamorosa la conclusione dell'ultimo progetto, costruito all'insegna dell'imprevidenza e dell'improvvisazione, che vede il re e i suoi familiari bloccati nelle carrozze a Varennes, stretti fra due ali di folla: è il 22 giugno del 1791. Il fallimento di questo piano compromette definitivamente l'immagine del re, inasprisce la psicosi del tradimento della Rivoluzione, rende rovente la situazione politica. Il 21 gennaio del '93 Luigi XVI sale sul patibolo: l'Assemblea ha votato la sua condanna a morte con 387 voti contro 334.
I piani controrivoluzionari non hanno esito migliore anche se riescono a provocare più di qualche insurrezione nelle zone dove ci sono particolari situazioni come le discordie religiose. Un esempio ripreso da La controrivoluzione di Jacques Godechot, edito da Mursia:
"In Linguadoca c'era un elemento favorevole: l'opposizione fra protestanti e cattolici. I protestanti avevano appoggiato con accanimento ed entusiasmo la Rivoluzione; molti cattolici si erano schierati contro la Rivoluzione ma più per rivalsa contro i protestanti che per profonda convinzione. Un avvocato di N�mes, Froment, arrivò a Torino nell'aprile del 1790 e convinse i principi che si poteva sfruttare l'opposizione fra cattolici e protestanti per provocare in Linguadoca un'insurrezione contro la Rivoluzione. Gli furono conferiti dagli aristocratici i pieni poteri e tornò a N�mes. I disordini cominciarono da quel momento. I cattolici insorsero contro i protestanti ma infine questa insurrezione finì per mettere lo scompiglio fra i cattolici, ritorcendosi contro di loro fino al massacro".
Dal 1790 in poi le insurrezione o pseudo insurrezioni si susseguono con una certa frequenza. Il 10 maggio 1790, i cattolici di Monauban scatenano un attacco contro i protestanti: anche in questo caso vengono battuti ma le conseguenze non sono pesanti come quelle subite in Linguadoca. A Tolosa insorge la legione della Guardia Nazionale, che ha sede nello stesso quartiere dove si trova il Parlamento, della quale fanno parte molti ricchi borghesi: è una rivolta stroncata sul nascere e si ferma ad una pubblica manifestazione di sentimenti controrivoluzionari.

Il modesto risultato di queste operazioni non rende prudenti i nobili delle diverse regioni. Smania reazionaria, scarsa capacità organizzativo-militare, carenza quasi totale di fiuto politico e psicologico costituiscono un cocktail autolesionistico. Le pressioni che vengono dall'esule corte di Torino peggiorano la situazione.

"Nonostante il fallimento dei tentativi di N�mes,Tolosa e Montauban", nota Godechot, "ai quali se ne possono aggiungere altri di minore importanza, i controrivoluzionari si adoperarono per organizzare una federazione a immagine delle federazioni rivoluzionarie che si erano sviluppate dalla fine del 1789. Questa federazione venne convocata a Jalès, nell'Ardèche. Vi si recarono più di ventimila uomini e costituirono un campo militare, diretto da un comitato di nobili che redasse un manifesto. Il manifesto, opera di Charles de Polignac e di Laurent de Palarin, dichiarava che riteneva nulla tutta l'opera dell'Assemblea Nazionale, colpevoli di lesa maestà tutti i membri di questa Assemblea e mostruosa la Costituzione che essa era intenta a stendere. Ma le cose non procedettero oltre e il campo militare, in cui si era concretizzata l'opera del gruppo, fu disperso dalle Guardie Nazionali rivoluzionarie".

Mentre le varie iniziative controrivoluzionarie cadono come birilli, il conte d'Artois continua a coltivare i suoi sogni di rivincita. Egli è sicuro che sia possibile provocare in Francia quella che egli ama chiamare l'esplosione generale: il piano è pronto ed è fissato per il 15 dicembre del 1790. Già agli inizi di questo mese d'Artois e la sua corte si tengono pronti a partire per Lione, designata capitale della rivolta anti-repubblicana.
Luigi XVI, messo al corrente del progetto, si oppone alla sua realizzazione - dimostrando maggior intelligenza politica del fratello - e scrive al re di Sardegna di impedire al conte ogni movimento anche ricorrendo alla forza. La partenza viene rinviata ma non viene annullata la data dell'insurrezione.
Insurrezione che fallisce in fase embrionale. Pochi giorni prima del 15 dicembre, a Lione viene scoperto il piano per la sollevazione della città. Fra le carte delle persone arrestate viene trovata la prova del grande complotto che deve innescare la rivolta di tutte le città del sud-est. L'avventura si conclude con centinaia di arresti e il massacro di tutti i realisti che si riescono a trovare. Conseguenza: indignazione del re di Sardegna e netta rottura dei rapporti con d'Artois che è costretto a partire per un secondo esilio.
Il fratello di Luigi XVI sceglie come nuova sede la Svizzera, dove già si trova Mirabeau-Tonneau (il soprannome gli è stato appioppato a causa della ragguardevole pinguedine) con la sua legione nera. La preferenza tuttavia non è gradita: i Cantoni considerano questa accolita di principi e cortigiani troppo rissosa e la espelle senza indugio.
Prima di stabilire la nuova sede della corte d'Artois gioca un'altra carta e dopo molte insistenze ottiene un colloquio con Leopoldo II, salito al trono dopo la morte del fratello Giuseppe II. Gli chiede di mobilitare il suo esercito contro la Francia.

L'imperatore germanico, poco incline a cacciarsi nei pasticci, rifiuta. A suo parere un'azione di questo genere esporrebbe la famiglia reale a seri pericoli. Il conte non è d'accordo e finisce per mettersi in urto anche con questo sovrano. Riesce tuttavia ad ottenere il permesso di stabilirsi a Coblenza, promettendo di rinunciare ai suoi propositi bellicosi.
Ma poco dopo l'arrivo della corte nella città renana (15 giugno 1791) giunge la notizia dell'arresto di Luigi XVI a Varennes e della sua successiva sospensione. L'episodio fa il gioco del conte d'Artois. Forte dell'indignazione e della preoccupazione che il fatto provoca nelle corti e nella grande borghesia europee, rinnova le sue pressioni su Leopoldo II. Questi, obtorto collo, si decide ad inviare una circolare ai sovrani di Prussia, d'Inghilterra, di Spagna, di Sardegna e all'imperatrice di tutte le Russie (10 luglio 1791) nella quale chiede di accordarsi con lui per un'azione comune contro la Francia rivoluzionaria.
E' una richiesta dal tono tiepido - e d'altronde le monarchie europee preferiscono starsene ancora alla finestra per valutare il potenziale di pericolosità dell'incendio francese - che porta soltanto a un incontro con Federico Guglielmo, re di Prussia, al quale riesce a partecipare anche il conte d'Artois assieme al suo consigliere Calonne.

Dal piccolo summit di Pillnitz (Sassonia) esce un documento molto cauto modellato dall'intelligenza diplomatica dell'imperatore germanico, il quale mantiene le sue posizioni prudenti anche se queste non sono condivise dalla sorella Maria Antonietta. Dice la dichiarazione di Pillnitz:
"Sua Maestà l'imperatore e Sua Maestà il re di Prussia, avendo ascoltato i desideri e le osservazioni di Monsieur e del Signor conte d'Artois, dichiarano congiuntamente di considerare la situazione in cui si trova attualmente il re di Francia come oggetto di comune interesse per tutti i sovrani d'Europa".
Ovviamente la corte di Coblenza e quella del Baden, dove si è arroccato l'ultrareazionario principe di Condé, danno al documento una lettura di comodo. Per i nobili emigrati viene considerato una vera e propria dichiarazione di guerra a breve termine e alla guerra si preparano.
Condé, più uomo d'azione che di intrigo, possiede già un suo esercito, ma d'Artois deve dare ancora forma militare all'accozzaglia di uomini ricca di bellicosità ma priva degli strumenti del mestiere. I mezzi per costituire un'armata non sono molti e - come si leggerà in alcune lettere di Calonne - i principi sono costretti a mettere in vendita i loro gioielli e ad elemosinare sussidi (le dispendiose abitudini delle corti principesche hanno ridotto al lumicino le scorte di danaro).

Tuttavia, grazie all'aiuto delle diverse monarchie europee, ala fine la forza d'urto controrivoluzionaria diventa realtà: c'è la legione nera di Mirabeau-Tonneau, l'esercito del principe di Condé e quello del conte d'Artois.
A questo punto le due corti francesi attendono la dichiarazione di guerra. Ma i sovrani d'Europa tacciono. L'attesa è logorante anche dal punto di vista economico.
"Dall'inizio dell'inverno 1791-1792" scrive Godechot riferendosi all'esercito di Coblenza "erano stati distribuiti tutti i sussidi ricevuti: si cessò di approvvigionare l'esercito, esso non poté essere interamente provveduto di abiti e si disperse. Si formarono delle bande che vissero alle spalle della gente del paese depredandola, il che provocò numerose proteste e minacce da parte dei principi tedeschi e dell'imperatore. Diversi esuli si suicidarono non avendo di che mangiare. Duecento emigrati, per lo più nobili, furono cacciati dall'esercito per aver rubato o saccheggiato e furono rinchiusi, su richiesta dei principi, nelle prigioni di Coblenza o di altri luoghi".

L'improvvisa morte di Leopoldo II (ha solo quarantacinque anni e qualcuno sospetta che sia stato avvelenato da un sicario della corte francese) sblocca la situazione. E' il 1� marzo 1792 e pochi giorni dopo gli succede sul trono il figlio, Francesco II. Il nuovo imperatore appena ventiquattrenne, ha una visione della situazione internazionale opposta a quella del padre: in una guerra con la Francia vede anche la possibilità di conquiste territoriali. Federico Guglielmo di Prussia ha le stesse mire. Gli oggetti del desiderio sono l'Alsazia e la Lorena. Nella concordanza di idee dei due sovrani matura la guerra. D'Artois e Condé rimettono assieme quello che resta delle loro truppe e preparano la tanto attesa rivincita.
La notizia di questa svolta arriva a Parigi e l'Assemblea Nazionale manda un ultimatum a Francesco II: siano dispersi gli emigrati controrivoluzionari e le loro formazioni militari. Secco rifiuto. E' la guerra!
Il copione però viene capovolto, c'è un colpo di scena: non sono gli austro-prussiani ad aprire le ostilità ma la Repubblica francese che il 20 aprile 1792 scatena il primo attacco in direzione dei Paesi Bassi.
Non è un esordio felice. Alla fine di aprile le colonne repubblicane sono allo sbando e disperse nella regione di Tournai. Immediata la controffensiva del duca di Brunswick, illuminato despota tedesco e abile stratega, comandante in capo degli eserciti austriaco, prussiano e controrivoluzionario.

Comincia la campagna di Francia. Condé, d'Artois e Calonne fanno già i progetti per un futuro che vedono vicinissimo: si mescolano le carte per i giochi del potere restaurato. Brunswick varca il confine francese trascinandosi dietro le truppe dei principi emigrati che ha piazzato alla retroguardia non fidandosi di questi branchi di uomini mal armati e mal coordinati dai loro ufficiali, costantemente afflitti dalla preoccupazione di avere due attendenti a testa. Un confidente scrive da Bruxelles a Maria Antonietta:
"Gli eserciti degli emigrati sono talmente sprovvisti di tutto che appena un quarto di loro può seguire le operazioni. Il duca di Brunswick ne è già notevolmente stanco".
Ma, visto il rovescio del primo attacco francese, il generalissimo tedesco è convinto che questa sarà una guerra-lampo vittoriosa. E' pessimo giudice. Le fortezze di Thionville e Metz sono imprendibili. La conquista di Verdun e di Longwy non cambia la situazione. Le truppe di Brunswick avanzano ma si lasciano alle spalle delle retrovie dove ci sono piazzeforti che resistono ad oltranza. C'è di più. Non esistono, come si erano illusi d'Artois, Condé, Calone e compagni, le torme di buoni popolani che accolgono a braccia aperte i loro signori e liberatori. Anzi: dapprima ci sono chiare manifestazioni di ostilità e infine vere e proprie azioni di guerriglia contro le truppe della retroguardia.
Un altro pessimo segno è il fallimento della missione di Calonne, inviato in Francia - nei territori occupati - per riscuotere le imposte dovute al vecchio regime, imposte preziose per il finanziamento dell'esercito dei principi emigrati: lo stimatissimo sovrintendente alle Finanze torna a Coblenz con quattro soldi.

Quando Brunswick arriva a Valmy, una città della Francia settentrionale (nell'attuale dipartimento della Marna) viene avvertito dagli esploratori che gli stanno venendo incontro le truppe francesi. Il duca non se ne preoccupa troppo: qui si tratta di battersi in campo aperto e lui è sicuro della sua scienza militare. Lo scontro avviene sul pianoro che si trova a poca distanza dall'abitato.
Il generale tedesco si trova impegnato in un duello di imprevista violenza. Le armate del generale Dumouriez e del generale Kellermann sono numericamente preponderanti ed hanno dei cannoni moderni che l'artiglieria ha avuto in dotazione - solita beffa del destino - dopo l'inizio del regno di Luigi XVI.
Per Brunswick è scacco matto. Per i controrivoluzionari è la fine. I principi, cacciati da Francesco II come da richiesta dei vincitori, sono costretti a disperdersi.
Uno degli ultimi tentativi controrivoluzionari di rilievo avviene nell'estate del 1793. Il duca di Provenza, divenuto reggente dopo l'esecuzione del fratello Luigi XVI, si prepara a sbarcare a Tolone appena i monarchi locali lo hanno informano di essere riusciti ad occupare il porto. Il futuro re parte dalla Prussia, dove è riuscito a farsi concedere un rifugio, percorrendo un itinerario che lo porta a passare per l'Italia. Da Livorno conta di imbarcarsi per Tolone. Ma quando il duca, giunto a destinazione, sta per salire a bordo, giunge una notizia. La città, dopo un fulmineo attacco incrociato di fanteria e artiglieria, è stata rioccupata dalle truppe repubblicane. 

Al comando di queste truppe uno sconosciuto e giovanissimo ufficiale al quale la Francia deve la sua salvezza e la futura grandeur. Un certo Napoleone Bonaparte.

Ringrazio per l'articolo
concessomi gratuitamente
dal direttore di

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