BILANCIO DEL NOVECENTO
 Attraverso le opere dei grandi scrittori la memoria di guerre sanguinose e drammatici problemi ancora irrisolti


IL XX SECOLO,
CENT'ANNI
DI INQUIETUDINE


di IGOR PRINCIPE

Fra pochi mesi, il ventesimo secolo diventerà un capitolo chiuso e verrà consegnato al tribunale della Storia, unica sede deputata ad emettere un giudizio su quanto di buono e di cattivo abbia scandito il succedersi degli ultimi cento anni. Tuttavia, il verdetto non giungerà in tempi brevi; Indro Montanelli, a dispetto del suo amore per la Storia, ha affermato di non avere molta fiducia in questa corte di giustizia sui generis, perché ancora non gli ha detto "se Cesare fu più grande come statista o come avventuriero". Su queste premesse, per avere una risposta a quanto ci siamo chiesti poco sopra potremmo dover attendere un paio di millenni. 

Quindi abbiamo pensato di contribuire a rendere più celere questo fantomatico iter giudiziario, e - come si dice in gergo tecnico - abbiamo chiesto l'assunzione di prove testimoniali. Cioè, abbiamo chiesto alla "corte" di sentire la viva voce di coloro che hanno raccontato le diverse epoche del Novecento, fissandone i caratteri più importanti: gli scrittori. 

Tuttavia, di fronte alle numerose testimonianze che ci vengono offerte dalle loro opere, per non intasare "l'aula giudiziaria" e sortire effetti contrari al nostro proposito di celerità, siamo stati costretti a una selezione. Non solo i principali, però, sono stati ammessi al "processo", ma anche coloro ai quali le antologie letterarie dedicano poche o punte righe: tra tutti, gli umoristi, fondamentali quanto i romanzieri "ordinari" per tracciare il disegno, con la matita della letteratura, della storia novecento. Il XX secolo giunge nel pieno di un'epoca di pace che ha avuto inizio nel 1871, con la fine della guerra franco-prussiana, e che finirà nel 1914 con lo scoppio della prima guerra mondiale.
L'Europa vive intensamente la cosiddetta bell'Epoque, una parentesi di felicità e di spensieratezza dovuta al protrarsi della pace tra le Nazioni e a quella "rivoluzione scientifica" che, soprattutto nel campo della fisica e della psicologia, ha mostrato all'umanità nuovi orizzonti e ha dato un'accelerata improvvisa al suo progresso. Si affermano nomi quali Max Planck, teorico dei quanti di luce; Albert Einstein; Sigmund Freud.

Insomma, ogni aspetto del vivere umano viene sottoposto ad un'analisi scientifica che confuta le precedenti idee positivistiche, alle quali viene contestato di aver voluto ricondurre la realtà a immutabili leggi fisiche e di aver così degradato il valore della volontà umana, della libertà, dell'azione. Questa libertà ritrovata è fonte di un entusiasmo che, tuttavia, mistifica un senso di smarrimento, come se - perdute le certezze positivistiche - fossero venuti meno gli appigli cui aggrapparsi per non cadere nel vuoto. Interpreti dello smarrimento sono gli scrittori: tra tutti, Pirandello in Italia, Thomas Mann in Europa. Quest'ultimo è la personalità che più di tutte esprime quella decadenza di inizio secolo che si nasconde dietro i lustrini della bell'Epoque. Nato nell'anseatica Lubecca, lo scrittore cresce in un ambiente fortemente borghese, il cui valore principale è quel prestigio sociale che nasce dal lavoro e dalla rettitudine. Nel 1901, a soli ventisei anni, dà alle stampe un vero capolavoro: I Buddenbrook, il romanzo, tra i suoi, che più si concentra sui fatti e meno sulla riflessione filosofica. 

E' la saga di una tipica famiglia della borghesia tedesca dell'ottocento, e proprio in quel secolo si svolgono le vicende narrate. Tuttavia, è un testo fondamentale per comprendere la parabola discendente di una classe sociale, lo smarrimento che ne consegue e che accompagna la società europea nel XX secolo. La borghesia, tesa al profitto e al successo, nascosta dietro una rettitudine fatta più di convenzioni che di sentimenti, ha dimenticato i valori insiti nella trascendenza; valori che, per un cristiano quale Mann, non si identificano che in Dio. Con una lenta e inesorabile sequenza, tutti i componenti della famiglia Buddenbrook vengono meno, dal nonno Johann al piccolo Hanno. I lutti e le tragedie di cui Mann racconta sono la metafora della decadenza dell'uomo, sempre più spaesato e solo, confuso di fronte a un mondo che accelera i suoi ritmi di vita e, con essi, i mutamenti sociali.

Un mondo in cui il conflitto tra l'idea borghese e liberale e l'idea socialista si fa sempre più aspro ma non fornisce risposte, lasciando gli uomini in balia delle loro incertezze. Giunti nel Novecento tenuti per mano da Thomas Mann, possiamo spostarci in Italia per parlare di Luigi Pirandello. Il quale ci obbliga ad anticipare il tema dell'umorismo, che egli identifica non solo nella capacità di far ridere - o sorridere - chi legge, ma in una sorta di regola che governa la vita di tutti i giorni. L'umorismo - che lo scrittore siciliano chiama anche "il sentimento del contrario" - consiste nel vanificare tutte le illusioni cui l'uomo può abbandonarsi mettendo in luce proprio il loro contrario, e cioè la realtà: l'uomo, insomma, non può conoscere compiutamente se stesso, il mondo, gli altri. Il disagio e lo smarrimento di inizio secolo sono documentati in quello che è considerato il romanzo più famoso di Pirandello, Il fu Mattia Pascal (1904): un'opera priva di riferimenti storici e temporali ma tuttavia, a quei tempi, di indiscutibile attualità. La vicenda bizzarra e spesso divertente in cui s'imbatte Mattia Pascal è quella della perdita della propria identità. Egli ha cercato, invano, una vita alternativa alla quotidianità della famiglia, alla ristrettezza delle convenzioni borghesi, alla prigione del lavoro e dell'ambiente sociale. Il risultato è doppiamente drammatico: libero dalle catene che lo imprigionavano, Mattia realizza che la vita sta proprio in quelle catene, perché vivere senza convenzioni significa essere morto.

Lo scrittore siciliano, nell'epilogo del romanzo, aggiunge a questa amara constatazione una pillola di umorismo: "Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché esse sono vere. All'opposto di quelle dell'arte che, per parer vere, hanno bisogno di esser verosimili. E allora, verosimili, non sono più assurdità". Un meccanismo ormai automatico porta ad associare, al nome di Pirandello, quello di Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz). Anch'egli, infatti, concentra il suo sguardo sull'illusione dell'individuo che crede di esercitare la propria libertà di scelta e di soddisfare i propri bisogni. Ma, differentemente dal suo collega siciliano, Svevo usa la lente della psicologia. Triestino, egli vive in prima persona il diffondersi delle teorie freudiane, che da Vienna raggiungono velocemente asburgica cittadina giuliana, dove egli risiede e lavora. Svevo, è noto, è l'inventore del romanzo analitico, cioè quello che relega in secondo piano la rappresentazione oggettiva dei fatti per calarsi in una dimensione interiore inafferrabile e inquieta, che permette di capire il peso degli avvenimenti storici solo attraverso il riflesso degli stessi nella coscienza dei suoi protagonisti. Il più famoso dei quali è Zeno Cosini, nel celeberrimo La coscienza di Zeno. Il libro è un lungo viaggio nella psiche del protagonista, che incarna l'ideale dell'uomo "inetto", termine con il quale Svevo individua l'uomo solo, alienato, nevrotico che vive in quella società moderna in crisi di valori e di miti dell'ideologia borghese. Insomma, un quadro analogo a quello dipinto da Mann e Pirandello. Ma in una pagina del romanzo, Svevo, differentemente da questi ultimi, si lascia andare, per bocca di Zeno, ad una considerazione tristemente profetica: "La vita attuale è inquinata alle radici. L'uomo s'è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l'aria, ha impedito il libero spazio.

Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V'è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e spazio? Solamente al pensarci soffoco!". I toni così catastrofici - ma nella sostanza azzeccatissimi - possono spiegarsi se guardiamo alla data del romanzo: 1923. Da cinque anni, quindi, si è chiusa la prima guerra mondiale, e non è illogico pensare che il pessimismo di Svevo si basi sull'esperienza degli orrori di un conflitto che ha decimato intere generazioni e ha rivelato nuovi volti della crudeltà dell'uomo sino ad allora inesplorati. Sulla prima guerra mondiale è stato scritto molto, considerati l'impatto e le proporzioni dell'evento: abituati a guerre fatte di battaglie che si concludevano in poche ore a colpi di moschetto, i soldati si trovano invece a dover sostenere assedii di giorni e giorni, al termine dei quali vengono conquistati solo pochi metri. 

La loro vita scorre lungo gli angusti canali delle trincee, ed è nelle mani di armi micidiali quali le mitragliette, le bombe a mano, i carri armati, frutto di un progresso industriale che non ha risparmiato il lato peggiore degli esseri umani. La Grande Guerra, insomma, è uno tragico spettacolo, che entra nelle pagine dei libri. Soprattutto in quelle di Ernest Hemingway, che ne Il sole sorge ancora (1926) e in Addio alle armi (1929) racconta le vicende accadute sul fronte carsico, dove egli si trova in veste di arruolato della Croce Rossa e dove viene ferito da un mortaio austriaco, cosa che gli varrà una Medaglia al Valore dalle autorità italiane.

Hemingway (VEDI BIOGRAFIA)  nei suoi libri, rivela il suo background giornalistico: egli è soprattutto un cronista, e racconta ciò che vede. E' inevitabile, quindi, che la guerra ritorni anche in altri suoi romanzi, tra i quali Per chi suona la campana. Ma non anticipiamo, e soffermiamoci ancora sul conflitto del '15-18 per parlare di un altro Ernst: questi è tedesco, e di cognome fa Junger. Nel 1920 scrive Nelle tempeste d'acciaio, un libro che esalta la battaglia come esperienza interiore e la guerra come rigenerazione per una società imprigionata nei lacci dell'ipocrisia borghese che soffoca l'istinto più genuino dell'uomo. Come il futurista Marinetti, Junger può a prima vista sembrare un enfatico, un esaltato che, come scrisse Borges dello stesso Marinetti - "Ha mille trovate ma nessuna idea". Eppure, come ha scritto Claudio Magris, "...ciò che riscatta Junger dallo stereotipato culto bellico è la cristallina precisione stilistica con la quale egli ritrae il caos della battaglia, il coraggio e la violenza, i gesti di chi riceve o dà la morte, che la sua penna fissa nell'eternità del loro istante assoluto". 

Se Junger considera il lato positivo della guerra, non fa altrettanto il suo connazionale Eric Maria Remarque, autore di All'Ovest niente di nuovo (1929), libro simbolo del conflitto e primo manifesto di pace di questo secolo. Il racconto, nato dalla esperienze belliche personali dell'autore, ha per protagonisti un gruppo di studenti tedeschi che dapprima aderiscono alla propaganda militarista, ma in seguito, davanti all'orrore bellico che li conduce alla morte, comprendono l'inganno di cui sono state vittime. In una bellissima pagina, l'io narrante, il soldato Paul Baumer, esprime lo stato d'animo di chi, in trincea, ricorda un mondo passato: "Ma qui in trincea quel mondo si è perduto. Il ricordo non sorge più; noi siamo morti, ed esso ci appare lontano all'orizzonte come un fantasma, come un enigmatico riflesso, che ci tormenta e che temiamo e che amiamo senza speranza (...).

E se anche ce lo restituissero, questo paesaggio della nostra gioventù, non sapremmo più bene che farne. Le delicate e misteriose energie, che da esso si trasfondono in noi, non possono rinascere". La pace che segue al 1918 è una pace finta. Sentimenti di alta frustrazione innervosiscono non solo i vinti, quali i tedeschi, ma anche i vincitori. E' il caso dell'Italia, in cui - a seguito delle controversie diplomatiche sull'assegnazione dell'Istria della Dalmazia, che si conclusero nel '24 con l'annessione della prima all'Italia e della seconda alla Jugoslavia - si sente la vittoria come se fosse "mutilata". Ma l'intero mondo civile, cioè l'Europa e l'America, non ha recuperato ordine e stabilità, e lo smarrimento sociale non cessa di esistere. 

Per cercarne le ragioni, o semplicemente testimoniarlo, gli scrittori si affidano ancora una volta alla psicologia. Nascono grandi romanzi: tra tutti l'Ulisse di JAMES JOYCE  (uscito a Parigi nel 1922, ma vietato per ragioni moralistiche, fino al '33, nei paesi anglosassoni) e La ricerca del tempo perduto di MARCEL PROUST (ultimato nel '27) pietre miliari della letteratura di questo secolo. Privo quest'ultimo di riferimenti a una precisa realtà esterna, estremamente circoscritto il primo (che narra della vicende di Stephen Dedalus e di Lepold Bloom dal 16 al 17 giugno del 1914): i due testi, insomma, si "limitano" a scandagliare l'animo umano.

Per tornare a leggere la Storia con la letteratura bisogna guardare agli americani Francis Scott Fitzgerald e John Steinbeck, all'inglese George Orwell e all'immarcescibile Hemingway. A cavallo delle due guerre, si sa, nascono fascismo e nazismo; ma non va dimenticato del crack di Wall Street nel 1929 e della guerra civile che insanguina la Spagna dal 1936 al 1939. Per comprendere cosa è stata l'America prima e dopo quel terribile Giovedì 24 ottobre, al termine del quale milioni di americani si sono trovati nella miseria più cupa, Scott Fitzgerald e Steinbeck sono fondamentali. Se proviamo a immaginare il crack di Wall Street come l'intervallo di un dramma in due atti, accade quanto segue. Fitzgerald diventa la voce del primo, in cui va in scena la vita dei roaring twenties, i ruggenti anni Venti; il libro che più li rappresenta è anche il suo più famoso, Il grande Gatsby: la storia di un uomo che sogna - e per breve tempo realizza - la più grande delle vite, fatta di donne, soldi e fama, tutto incorniciato in una New York dominata dai gangster ma non per questo priva di fascino. 

Il secondo atto, invece, è affidato alle parole di John Steinbeck, cronista della povertà e della miseria che si accanisce in particolare sulle classi più deboli, riunite nella figura di Tom Joad e della sua famiglia, protagonisti di quel lungo e drammatico viaggio dall'Est alla California raccontato nelle pagine di Furore (1939). Se l'America piange, l'Europa non ride. Scosso dai totalitarismi nazi-fascisti, il Vecchio Contintente assapora un antipasto del secondo conflitto mondiale con la guerra civile in Spagna. Quello che doveva essere il problema interno di un Paese diventa un'accesa questione internazionale che mobilita volontari da ogni dove, persino dagli Stati Uniti. Si delineano, quindi, due fronti: antifascisti e comunisti con le forze governative; fascisti e nazisti con i ribelli di Franco. Tra i primi combatte GEORGE ORWELL, che da questa sua esperienza farà nascere Omaggio alla Catalogna (1938), un drammatico disegno della lotta all'interno delle file repubblicane e della spregiudicata condotta della parte comunista, determinata a tutto pur di vincere. Da qui prendono le mosse gli altri due libri più noti di Orwell, La fattoria degli animali e 1984. Ma non anticipiamo, e rimaniamo in Spagna per tornare a parlare di Hemingway, che vive il conflitto come corrispondente dell'agenzia N.A.N.A., legata a sessanta quotidiani americani. Al termine del conflitto, il giornalista HEMINGWAY torna scrittore e dà alle stampe Per chi suona la campana (1940), cioè l'avventura del volontario americano Robert Jordan, il cui obbiettivo è quello di far saltare un ponte, secondo le strategie architettate dalle milizie repubblicane. Ma da questo unico evento prende vita un meraviglioso affresco degli idealismi che spingono molti giovani democratici ad andare lontano per lottare in quello che credono.

Il 1939 è annus horribilis: chiuse le ostilità in terra iberica, se ne aprono altre la cui drammaticità ben conosciamo. Il conflitto è un'inesauribile fonte letteraria; tuttavia, costretti a dover selezionare per obbedire alla brevità, riteniamo che i libri più rappresentativi degli orrori della seconda guerra mondiale siano quelli che riguardano la tragedia dell'Olocausto. Due tra tutti: il Diario, di ANNA FRANCK e Se questo è un uomo, di PRIMO LEVI. Si tratta di testi tra i più letti di tutta la letteratura mondiale, e a ragione. In essi, la cronaca di vita quotidiana diventa letteratura. Anna, una bambina di tredici anni, tiene un diario nel quale riversa, con l'occhio dell'innocenza, l'esistenza della sua famiglia e quella dei Van Daan, ebrei che cercano scampo dalle SS in un rifugio ricavato da una soffitta di Amsterdam. Dalla prima all'ultima pagina è un crescendo di tensione, che si snoda dall'incredulità della bambina di fronte alle discriminazioni delle leggi razziali al terrore della fine, che lei tenta di esorcizzare nella pagina finale, datata 1� giugno '44. Anna non accenna a eventi bellici o a fatti esterni, ma fa una disamina interiore, lamentando di non riuscire a correggere i propri difetti per migliorarsi. Ma si tratta di una vana speranza: "...cerco un mezzo per diventare come vorrei essere e come potrei essere se... se non ci fossero altri uomini al mondo". 

La speranza, tragica, vive anche nelle pagine di Primo Levi, che sono la testimonianza più viva e sconvolgente di quanto accadde nel principale dei campi di sterminio nazisti, Auschwitz: "La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è una proprietà della sostanza umana. Gli uomini liberi danno a questo scopo molti nomi, e sulla sua natura molto pensano e discutono: ma per noi la questione è più semplice. Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera, di altro non ci curiamo".

Come Primo Levi per Auschwitz, c'è uno scrittore che ha raccontato l'inferno delle privazioni e degli stenti cui sono stati sottoposti gli ospiti dei gulag, cioè i campi di concentramento nei quali venivano rinchiusi i dissidenti dal regime comunista al potere nell'U.R.S.S. e nei Paesi satelliti. Il suo nome è Aleksandr Solgenizyn, l'autore di opere monumentali quali Arcipelago gulag, Padiglione cancro, Il primo cerchio. Tuttavia, l'opera che per prima mette a nudo questa terribile realtà è Una giornata di Ivan Denisovic (1962), un breve racconto sulle ventiquattro ore all'interno del gulag di uno sperduto villaggio nel Kazakhstan. Ivan Denisovic altro non è che l'alter ego di Solgenitsin, che dal 1945 al 1956 sconta una pena di dieci anni di lavori forzati per opposizione politica. Ma non solo l'esperienza personale ha ispirato libri sul totalitarismo comunista.

E, a questo punto, torniamo a parlare di George ORWELL, che reduce dalla Spagna scrive La fattoria degli animali (1943) e 1984 ('47), di cui abbiamo accennato prima. Il più penetrante, anche per la vena satirica, è il primo: una feroce allusione allo stalinismo, in cui i protagonisti sono un gruppo di animali di una fattoria che si ribellano al giogo dei padroni uomini. Conquistata la libertà, si instaura un regime democratico, che invece si rivela una dittatura di un gruppo di pochi capeggiati dal maiale Napoleon. In breve tempo si sviluppa il culto della personalità del capo, che è sempre più la rappresentazione satirica di Stalin. La sconfitta definitiva dell'utopia ugualitaria giunge quando un giorno l'oligarchia suina si presenta ai suoi sudditi su due zampe anziché su quattro, prova che tra loro e gli uomini di prima non c'è più differenza.

Alla fine della seconda guerra mondiale si verifica un fenomeno che potremmo chiamare frammentazione della storia, e cioè una capillare diversificazione delle esperienze da Paese a Paese. L'unico destino che accomunava il mondo fino al 1945 si frammenta, appunto, in tanti microdestini che interessano ogni singola nazione. gli unici due eventi che coinvolgono l'umanità intera sono la Guerra Fredda e la contestazione giovanile degli anni '60-'70. A differenza della Guerra Fredda - priva, in verità, di romanzi che ne interpretino lo spirito, ad esclusione delle spy story di John Le Carrè - per la contestazione, siamo in grado di attingere a scampoli di letteratura che ne esprimano i sentimenti, in particolare leggendo quanto è stato prodotto dalla Beat Generation e dai suoi alfieri: Jack Kerouack, Gregory Corso, Allen Ginsberg, William Burroghs. Ai quale si aggiunge il folgorante Il giovane Holden di Jerome D. Salinger (1951), la storia di un adolescente americano intrappolato nel conformismo dei floridi anni '50, dal quale tenta la fuga alla ricerca di un angolo di autenticità. Tuttavia, dobbiamo precisare che si tratta di un tipico quadro americano, che stimola voglia di libertà anche in Europa ma che, almeno in Italia, viene da subito politicizzata con la lettura, da parte dei contestatori, di altri testi, non certo letterari: il Libretto delle guardie rosse di Mao Tse-tung, al Manifesto del Partito Comunista, all'Uomo a una dimensione di Herbert Marcuse. Insomma, per comprendere la Storia della seconda metà di questo secolo attraverso le storie raccontate nei romanzi, dobbiamo necessariamente stringere il nostro campo di indagine e concentrarci sul nostro Paese, per evitare di incappare in un labirinto di opere che non porterebbe a nulla. Il dopoguerra italiano è drammatico: c'è una nazione da ricostruire, politicamente e materialmente.

Sul versante politico, è intenso lo scontro tra la Dc e il Fronte popolare, costituito da comunisti e socialisti. L'atmosfera di quegli anni e della battaglia elettorale del 18 aprile 1948 impregna le pagine dei libri di Giovanni Guareschi, del quale parleremo al momento di affrontare il tema dell'umorismo. Sul versante della vita di tutti i giorni, invece, si registra il dramma di un Paese spaccato tra il nord, dove il livello di sviluppo ha appena cominciato quella crescita che sfocerà nel boom economico degli anni '60, e il sud, nel quale analfabetismo e miseria nera colpiscono ancora numerose famiglie. Fondamentale per capire quest'ultimo aspetto è il libro di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli (1945), che riporta le esperienze dell'autore nel suo confino in Basilicata ad opera del tribunale fascista. Malgrado Levi racconti di vicende ambientate in tempo di guerra, il testo ha una modernità che lo adatta perfettamente anche agli anni successivi: ""Noi non siamo cristiani - essi dicono - Cristo si è fermato a Eboli". Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo (...) Cristo è sceso nell'Inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarne nell'eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso". La povertà del sud viene comunque risollevata grazie a quel "miracolo economico" che, negli anni '60, porta l'Italia ad un livello di benessere mai conosciuto prima.

Pure, rimangono angoli di drammatica miseria, sconvolgenti se si pensa che colpivano una città quale Roma, che nei mitici Sessanta diventa la città della dolce vita, del cinema, delle belle donne. Testimonedi questi margini di miseria è il friulano Pier Paolo Pasolini, che subito dopo la guerra vive per qualche tempo in una borgata periferica della capitale e che da ciò trae la materia per scrivere Ragazzi di vita ('55) e Una vita violenta ('59). I due romanzi sono lo spaccato di un microcosmo di anarchia, di voglia di cambiare in meglio la propria vita, ma anche di conformismo (spesso è sottolineato l'orgoglio di mostrare agli amici il vestito buono della Domenica). Un microcosmo, rivelando scomode realtà - romane, ma facilmente rintracciabili anche a Milano e Torino, poli d'attrazione per l'immigrazione dal sud al nord - stempera gli entusiasmi intorno al nuovo benessere italiano. Dopo Pasolini è difficile trovare scrittori che diano una visione sociale a tutto campo. Soprattutto, è difficile trovare grandi romanzi calati nella realtà contemporanea. Ciò non significa che non vi siano libri degni di essere letti: pensiamo a nomi quali Umberto Eco in Italia, Philip Roth in America. Così come non significa che non vi siano scrittori che raccontino la realtà contemporanea: gli irlandesi (Seamus Deane, Frank Mc Court, Joseph O' Connor), che hanno narrato lo stato d'animo di una nazione coinvolta da trent'anni in una vera guerra; i balcanici (prima Ivo Andric, poi Pedrag Matvejevic), senza i quali non si capirebbe nulla di quanto accade in questo istante a pochi chilometri da noi. 

Tuttavia, la frammentazione cui abbiamo accennato in precedenza si è intensificata, e per comporla in un disegno organico occorrerebbe un altro articolo. Ecco perché riteniamo che, davanti al tribunale della Storia, siano sufficienti le testimonianze di chi abbiamo citato, pur consapevoli della lacunosità del nostro elenco, privo di così tanti nomi che, a farne un altro elenco, ci si accorgerebbe della sua incompletezza. Ma l'analisi delle testimonianze che abbiamo raccolto depone a favore di un giudizio decisamente negativo su quanto accaduto negli ultimi cento anni di storia. Il Novecento, in sintesi, altro non è che un secolo da dimenticare: guerre, dittature, massacri, disastri ecologici e nucleari, e nessuna possibilità di sconfiggere quelle sacche di miseria che tutt'oggi affliggono gran parte del pianeta. E' doveroso, a questo punto, considerare anche chi ha avuto il coraggio di esorcizzare la difficoltà di vivere con sane dosi di umorismo. L'ha fatto l'inglese Pelham Grenville Wodehouse, che nei suoi numerosissimi libri - quasi tutti incentrati sulla figura del maggiordomo Jeeves - ha portato a livelli sublimi l'understatement britannico, creando situazioni paradossali e divertentissime. E l'ha fatto anche l'italiano Pitigrilli, il cui vero nome è Dino Segre, attore di una vita rocambolesca: figlio di ebrei, si presume sia stato una spia dell'Ovra, la polizia segreta fascista; in seguito, diventa fervente cattolico. I suoi romanzi, negli anni Venti, destano scandalo per l'erotismo che esprimono. Ma soprattutto provocano il riso, ben diverso da quello di Wodehouse, basato su situazioni comiche. L'umorismo di Pitigrilli punge, fa male, proprio perché dice amare verità: "Si nasce incendiari, e si finisce pompieri"; "Chi è tanto minchione da desiderare un amore eterno se lo meriterebbe per castigo"; "Tutte le donne sono puttane, tranne nostra madre e nostra sorella; tutti gli uomini sono ladri, tranne nostro padre e l'uomo con cui stiamo parlando".

Infine, come abbiamo già accennato, c'è Giovannino Guareschi, il creatore di Don Camillo e Peppone, cioè delle due figure che incarnano l'Italia politica del 1948. Le storie di Guareschi sono tutte ambientate nel suo ambiente originario: la bassa padana, dove i bambini vengono allevati a culatello, lambrusco e dottrina di partito, democristiano o comunista. Le sua prosa, tuttavia, stempera il clima infuocato attraverso l'uso di un sottile umorismo con il quale condisce di profonda umanità i due grandi nemici-amici Don Camillo e Peppone, non biggotamente cristiano il primo, non integralmente comunista il secondo. Guareschi, insomma, rivela la vera natura dell'italiano, mai disposto a sposare ciecamente una causa sino a sacrificare, per essa, il rapporto umano. Anche se, in quegli anni, lo scontro politico e umano fu tale da portare proprio lo stesso scrittore a coniare il famoso slogan elettorale: "In cabina Dio ti vede, Stalin no".

di IGOR PRINCIPE


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Storia contemporanea
, di Rosario Villari - Laterza editori
Storia della letteratura italiana
, di Ricci-Salinari - Laterza editori
Utopia e disincanto
, di Claudio Magris - Garzanti editore
Il fu Mattia Pascal
, di Luigi Pirandello - Edizione Mondadori
La coscienza di Zeno
, di Italo Svevo - Dall'Oglio editore
Niente di nuovo sul fronte occidentale
, di Eric Maria Remarque - Edizione Mondadori
Il diario di Anna Frank
- Edizione Mondadori
Se questo è un nuomo
, di Primo Levi - Edizione Einaudi
Cristo si è fermato a Eboli
, di Carlo Levi - Edizione Einaudi

Ringrazio per l'articolo
il direttore di
 


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