Un Paese che da oltre cent'anni è alla ricerca di una identità
L'ITALIA
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UNA NAZIONE CHE NON C é?

di FRANCO GIANOLA

L'Italia è un paese senza identità? E' una Nazione o una forzata unione di regioni (notevolmente diverse fra loro per cultura e psicologia) creata dall'ambizione dei Savoia e di Vittorio Emanuele II in particolare? 

Molti lettori, riflettendo su questo tema, hanno chiesto alla nostra rivista un'opinione per avere qualche elemento utile a sciogliere i due interrogativi. Sono domande da un milione di dollari, come si usa dire nel linguaggio corrente. Non si contano i seminari, gli articoli, i libri, le accurate e documentate analisi storiche che hanno tentato di dare una risposta definitiva in direzione positiva o negativa. Non mi pare che i nostri pur bravissimi storici siano riusciti finora a chiarirsi ed a chiarirci le idee. Anche se ricerche e riflessioni alla fine portano a pensare che l'Italia sia un patchwork antropologico. 

Per dare ai lettori un'idea della situazione riprendo in sintesi le note su un convegno storico, estremamente indicativo e chiarificatore, fatto a Milano nel novembre del 1996. Il tema era "Le interpretazioni della Repubblica" ed è stato svolto nell'aula Pio XI dell'Università Cattolica: un convegno utile per fare il punto su origini e cause del disastro Italia. Le grandi firme della storiografia nazionale hanno percorso, analizzato e commentato le peripezie del Paese dal 1946 al 1996. 

Dalle relazioni è emerso il ritratto di un'Italia dalla lunga adolescenza, immatura, ancora alla ricerca di un'identità. Figlia di una classe politica per la quale si può sempre ritenere valida la definizione di "dominante", si ritrova ad essere una non-nazione popolata da una massa di cittadini per la gran parte insicuri, disorientati, carenti di senso critico e quindi incapaci di analizzare e giudicare politicamente. Uno stato mentale, questo, che fatalmente conduce alla dipendenza, al rassicurante conformismo, alla filosofia del "io spero che me la cavo". Ma quali sono gli elementi che permettono di definire "nazione" la comunità residente in una determinata area geografica?

Ernesto Galli della Loggia (università di Perugia) considerava ancora accettabili i punti stabiliti oltre un secolo fa dal politico e giurista Pasquale Stanislao Mancini: "E' costituita da una società naturale di uomini, da unità di territorio, di origini, di costume e di lingua, conformata a comunanza di vita e coscienza sociale. Se mai c'è stato un serio e reale tentativo di cominciare a modellare, alla fine delle guerre risorgimentali, la nazione Italia, è vero che un ventennio di dittatura fascista ha bloccato la maturazione di una società già di per se complessa per la profonda diversità culturale delle sue componenti. Tuttavia il trauma che blocca drammaticamente la crescita psicologica del Paese è rappresentato dal trattato, imposto dagli Alleati (Francia, Stati Uniti e Inghilterra) con il quale viene conclusa l'assurda guerra che Mussolini ha combattuto accanto alla Germania nazista. Della Loggia lo mette in evidenza all'inizio della sua relazione: Il trattato di pace è la ratifica, insieme concreta e simbolica, della gravissima perdita di sovranità che l'Italia subisce in conseguenza della guerra voluta e perduta dal fascismo. 

Dirà Alcide De Gasperi - e le sue parole sono tanto più significative perché dette a porte chiuse - davanti ad alcuni collaboratori: 'Si tratta di un vero e proprio diktat, nella sostanza l'Italia torna alle condizione di prima del Risorgimento: le sue frontiere restano completamente aperte; i suoi territori nazionali le vengono strappati, le clausole economiche sono gravissime'.

 Nel trattato di pace del 1947 - continuava della Loggia - si ratifica che l'Italia è divenuta ormai e definitivamente un piccolo Paese (sia pur con una importante posizione geografica). Veniva cioè colpita al cuore l'immagine dello Stato e della nazione italiana che le classi dirigenti avevano sempre avuto dal Risorgimento in poi: un Paese, un'identità dal grande passato storico che doveva mirare a un non meno grande avvenire�.

Ha certo valore puramente aneddotico, ma comunque assai significativo della riduzione della sfera della sovranità nazionale italiana il fatto che nel 1944 nei palazzi apostolici cominci a circolare un progetto di estensione territoriale dello Stato della Città del Vaticano; che si parli di un allargamento alla vicina Villa Pamphili, di uno sbocco al mare a Civitavecchia.

 Il momento storico è pesantissimo. Gli italiani sono dominati da sentimenti contrastanti che vanno dal qualunquismo (ed è a quell'epoca che nel cielo della politica passa come una meteora il Puq, partito dell'uomo qualunque) alla speranza, alla convinzione di poter ricominciare un secondo risorgimento. Inizia una faticosa marcia verso il futuro, nel tentativo di mettersi all'altezza degli altri Paesi, di diventare nazione come la Francia, la Germania, l'Inghilterra, gli Stati Uniti e altri. Non sono pochi gli italiani che sperano nella realizzazione dei presupposti che hanno dato forza vincente alla guerra di Liberazione. Ma è una speranza travolta da una situazione internazionale (la divisione del mondo in due blocchi, quello comunista che fa capo all'Urss e quello democratico guidato dagli Usa) che coinvolge un'Italia ancora sconvolta dalla dittatura e dalla guerra e perciò ancor più terrorizzata dal clima di tensione esistente sul pianeta.

 Nella lotta di resistenza e liberazione - ricordava Francesco Barbagallo (università di Napoli) - le diverse forze sociali e politiche antifasciste rilanceranno i concetti e i valori della patria e della nazione, coniugandoli strettamente con la democrazia e con le trasformazioni sociali; e anche con la necessità di una ridefinizione della collettività nazionale intorno al principio di responsabilità individuale e collettiva. Ma contrasti, fratture e limiti insuperati hanno impedito che si consolidasse lo spessore unitario della struttura nazionale italiana. La nostra storia nazionale resta fragile e segnata da rotture di difficile ricomposizione: Stato/Chiesa, Nord/Sud, elites/masse, particolarismo individualistico/civismo solidaristico, fascismo/antifascismo, comunismo/anticomunismo". Sono dicotomie che mosaicizzano l'Italia, ne fanno un caleidoscopio che si alterna tra continue fratture e ricomposizioni, favoriscono una classe politica che governa autocraticamente in nome di un popolo indottrinato con il famoso metodo del "visto da destra, visto da sinistra". Gli italiani infatti, non ancora capaci di giudizio autonomo e sicuro, vengono catturati dai partiti di massa e vi si identificano: nasceva così l'italiano-democratico cristiano, l'italiano-socialista, l'italiano-comunista. Simona Colarizi (università La Sapienza di Roma) definiva il fenomeno usando la formula democrazia dei partiti e ricordava che, già dal primo dopoguerra, le organizzazione ideologiche mettono sotto tutela i cittadini. L'identità si sviluppa dunque dentro il partito che fa da ponte con le istituzioni: la carta d'identità di italiano non si ritira allo sportello dello Stato ma a quello del partito.

Nel discorso sull'identità s'innestava anche Silvio Lanaro (università di Padova) rammentando che lo sviluppo della democrazia viene frenato anche da un sistema scolastico che non istruisce modernamente il cittadino e da un localismo esasperato e corruttore. Dalla data del convegno che abbiano ricordato in sintesi sono passati circa tre anni. 

Siamo ormai nel Duemila, l'elettorato, ossia il cittadino italiano, è ancora diviso in gruppi, sottogruppi, movimenti, ridicoli rimasugli di partiti a caccia di cariche che hanno come motore l'obiettivo del potere fine a se stesso ma non il recupero del Paese ad un'amministrazione funzionale, intelligente, realistica, attenta all'interesse delle famiglie Rossi ed Esposito, alla sicurezza del loro futuro e del futuro dei loro figli. Per la verità l'elettorato tenta di reagire a questo stato di cose ma viene regolarmente respinto con perdite dalla classe politica che arriva addirittura a capovolgere il voto espresso dalla popolazione quando chiede una chiara legge bipolarista e una funzionale organizzazione federalista dello Stato (pur senza pretendere insensate separazioni fra Nord e Sud). 

Dopo queste sconfitte l'elettore, lo abbiamo visto, è salito sull'Aventino, indignato e amareggiato, sentendosi schernito, amareggiato, schiacciato dalla dittatura di un sistema, di un costume sorretto, in un modo o nell'altro, dalla quasi totalità dei partiti e dei movimenti. 

Ma serve salire sull'Aventino? Abbiamo visto che è un atteggiamento ad alto rischio. L'ultima salita è costata all'Italia vent'anni di fascismo e quel che ne è seguito. Non è credibile che l'evento di allora possa ripetersi con le stesse modalità. 

Ma è certo che se gli italiani non si affrettano a maturare e conseguentemente ad imparare ad usare la scheda elettorale non votando di pancia ma di cervello, sulla strada della nascente e gracile liberal-democrazia italiana si potrebbe verificare una "caduta massi". 

Che potrebbe ritardare notevolmente l'evoluzione del Paese e il suo inserimento definitivo nella cultura politica e sociale europea.

Ringrazio per l'articolo
concessomi gratuitamente
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