UNA CITTA' COMUNALE - ROVIGO anno 1100-1200

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IL COMUNE MEDIOEVALE

I) L'istituzione comunale sorge in Italia nell'XI sec., laddove gruppi di cittadini o di abitanti del contado si danno degli ordinamenti giuridico-politici autonomi, sottratti al controllo della feudalità laica e/o ecclesiastica.

II) Nelle campagne vi possono essere Comuni signorili, nati dall'associazione di piccoli feudatari, e Comuni rurali, sorti dall'iniziativa solidale di agricoltori emancipatisi dai vincoli del servaggio. Tuttavia, i Comuni più importanti sono quelli urbani. Nelle città erano infatti confluiti molti feudatari piccoli proprietari e molti servi della gleba (a quest'ultimi si prometteva la possibilità di esercitare un mestiere liberamente scelto, di fare lasciti ereditari, ecc.): associandosi con la precedente popolazione cittadina (borghesi, artigiani, professionisti), essi crearono delle associazioni di popolo (Corporazioni o Arti) e di nobili (Consorterie), che costituirono la base economica per fare delle rivendicazioni di carattere politico.

III) Origine del Comune. Il Comune è un organismo statale (città-stato) in cui si attuano forme di autogoverno politico: esso ha un ordinamento repubblicano, in quanto la fonte del potere risiede nell'assemblea popolare. L'esercizio dell'autogoverno è collegiale e soggetto a pubblici controlli. All'origine della formazione del Comune sta un atto associativo di natura privata, giurata e volontaria, costituito per tutelare, inizialmente, solo gli interessi e diritti di ciascuno dei singoli associati. Col tempo l'associazione, mirando a estendersi, forzatamente, a tutti gli abitanti della città o borgo, cominciò ad esercitare funzioni pubbliche. Il patto comune e giurato di solito veniva fissato in Carte o Statuti che avevano carattere obbligante per tutti i contraenti e costituivano il fondamento giuridico-politico (costituzionale) del Comune, che stabilivano cioè i limiti entro cui i poteri della sovranità potevano essere esercitati. Questo soprattutto nell'Italia centro-settentrionale, dove l'autorità dell'Impero germanico era più formale che reale. Nell'Italia meridionale (normanna) e nei paesi europei, ove le monarchie erano già abbastanza forti, la rinascita della vita cittadina non portò a forme di autogoverno politico, ma solo a forme di emancipazione economica, di sviluppo amministrativo e di affermazione di taluni diritti civili.

IV) L'autogoverno comunale. Nella società feudale il governo signorile trovava la sua fonte nell'atto d'investitura da parte del sovrano: l'autorità si giustificava solo se veniva riconosciuta dall'alto. Viceversa, nella società comunale l'autorità procede per investitura popolare, in quanto il popolo è chiamato a raccolta in assemblee periodiche. Fino all'XI sec. tali assemblee erano convocate per compiti puramente amministrativi e consultivi dal vescovo-conte o dal signore del contado. Nel Comune invece l'assemblea esercita poteri legislativi, deliberativi, elettivi (elegge i supremi magistrati del potere esecutivo) e controlla l'esercizio dei poteri e l'amministrazione civile. Vi è quindi una sorta di democrazia politica, anche se col termine "popolo" va inteso solo il ceto dei notabili, cioè quei cittadini più in vista nella vita civile e politica, per censo o ruolo sociale: i nobili (magnati), cioè i piccoli feudatari che avevano contribuito a fondare il Comune; il popolo grasso (grande borghesia, industriale o commerciale, organizzata nelle Arti Maggiori), che a poco a poco si sostituirà ai nobili nel governo della città. Il popolo minuto (media e piccola borghesia, artigiani, organizzati nelle Arti Medie e Minori), insieme alla plebe-operai salariati, aspirava a partecipare al governo della città.

V) L'assemblea popolare e l'evoluzione del potere esecutivo. Si tende a suddividere la formazione e sviluppo dell'assemblea popolare in due grandi periodi:

a) Periodo Consolare (sec. XI-XII) in cui il governo è esercitato dai Consoli (da 2 a 20) che durano in carica un anno e hanno il potere esecutivo, cioè il comando delle forze di terra e di mare, per assicurare l'ordine pubblico e la sicurezza della città da minacce esterne: in questo periodo il gruppo dominante è di origine aristocratica; dal Consiglio Minore (detto Senato o Consiglio di Credenza), composto dai capi delle famiglie più importanti, preposto agli affari ordinari della vita pubblica: esso assiste i Consoli e ne controlla l'operato; dal Parlamento (Arengo), cioè l'Assemblea di tutti i notabili e borghesi, che elegge i magistrati e tratta gli affari di maggiore importanza. Poiché è troppo numeroso, il Parlamento si riunisce poche volte e in sua assenza funziona il Consiglio Maggiore, composto dai soli cittadini aventi i pieni diritti politici. Questo Consiglio esercita sia il potere costituente, in quanto emana lo Statuto cittadino, sia il potere legislativo, in quanto emana tutta la legislazione ordinaria. Delibera anche sui problemi più impegnativi e urgenti, decide della pace e della guerra, cura le relazioni con gli altri Stati, controlla l'amministrazione generale mediante apposite magistrature. Elegge i Consoli, i Podestà, i Dogi, i Capitani del popolo, tutti i supremi magistrati.

b) Periodo Podestarile (sec. XIII). Intorno alla metà del sec. XII il governo collegiale dei Consoli è sostituito dal potere unico esercitato dal Podestà, che è in genere forestiero, incaricato per un anno. La sua istituzione riflette l'esigenza della borghesia di allargare i propri poteri nei confronti del ceto aristocratico. Sarà infatti dalle continue discordie tra i partiti (aristocratico e borghese) che emergerà la necessità di un governo imparziale. Quindi, anche se l'organo di governo non è più collegiale come quello dei Consoli, la base democratica della vita cittadina si è estesa.

VI) Verso la metà del XIII sec. il potere esecutivo evolve verso l'istituzione del Capitano del popolo. L'alta e media borghesia, insieme al popolo minuto, organizza proprie compagnie di armati, in città e nel contado, e ne affida la direzione al Capitano del popolo, che esercita anche funzioni giudiziarie e di polizia in difesa degli interessi popolari. Il Consiglio delle Arti (Priori, Anziani), cioè gli esponenti delle corporazioni artigiane, e il Consiglio del popolo (composto sempre di elementi piccolo-borghesi) assiste il Capitano del popolo. In un primo momento coesistevano due Comuni, uno (popolare) nell'altro (aristocratico), ma col prevalere del popolo grasso i due Comuni si fonderanno nel nuovo Comune democratico-borghese. Non tutti i Comuni seguiranno questo schema (a Venezia p.es. l'unico ceto dirigente fu quello mercantile-marinaro, che non ebbe mai bisogno di lottare contro l'aristocrazia terriera. La lotta politica perciò si svolse qui tra potenti gruppi di famiglie all'interno di una classe omogenea. La struttura oligarchica della repubblica veneta si manterrà inalterata sino alla fine del '700).

VII) Le Corporazioni (o Arti). Erano associazioni di mestiere di carattere padronale, sorte verso la metà del XII sec., che univano in un solo corpo gli artigiani di un medesimo ramo industriale, con esclusione dei salariati (solo in casi di grande attività venivano assunti operai salariati). Le più importanti Arti erano quelle Tessili, ma anche quelle dei mercanti, banchieri, professionisti (medici, avvocati...).. Esse tutelavano gli interessi di tutta l'Arte, regolando la produzione e il commercio in modo da adeguarli al consumo, fissando i prezzi, i salari, le ore di lavoro, la qualità dei prodotti, impedendo la concorrenza e cercando anche d'influire sulla vita politica. Chiunque voleva esercitare un'arte-mestiere doveva iscriversi alla relativa Corporazione, prima come apprendista-garzone, che lavorava gratis o con un minimo compenso, per imparare l'arte; poi diventava socio-compagno, e assisteva il padrone dell'azienda, partecipando agli utili; infine poteva anche diventare maestro, cioè padrone di un'azienda.

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L'esperienza comunale dei secoli XI-XIII fallì in Italia non perché fu inaugurata dalla borghesia, ma perché, dopo esserlo stato, fu dalla borghesia ostacolata nel suo naturale sviluppo democratico.

La borghesia creò le città, ma poi le ampliò e le fortificò pensando soprattutto a salvaguardare i propri interessi. Fu giusta la lotta contro il potere nobiliare ed ecclesiastico, viziato dal privilegio e dall'abuso costante del potere, ma fu ingiusta la repressione dei ceti medio-piccoli.

Il passaggio dal Comune alla Signoria (o Principato) fu causato proprio dall'incapacità della borghesia di essere democratica. Non che non fosse necessario allargare i confini (nonché l'esperienza politica) del Comune, coinvolgendo i Comuni minori; è che tale ampliamento doveva avvenire nel rispetto dell'autonomia locale e non -come poi avvenne- fagocitando le realtà sociali ed economiche minori.

Lo stesso rispetto dell'identità locale sarebbe dovuto avvenire durante il passaggio dagli Stati divisi tra loro all'unità nazionale, alla fine dell'Ottocento. Questo perché ogniqualvolta si afferma l'esigenza di un governo superiore, più vasto e complesso, occorre salvaguardare, in modo particolare, le necessità della sfera locale, gli interessi dei ceti più deboli, altrimenti l'accentramento si trasformerà in una dittatura dei ceti più forti.

* * *

Il Comune è stata una risposta borghese, e quindi sbagliata, alle contraddizioni antagonistiche del feudalesimo.

Così come la Signoria è stata un'altra risposta borghese - questa volta dei ceti medio-alti - alle contraddizioni antagonistiche del Comune.

Poi è venuto il Principato e infine lo Stato. Con lo Stato si è avuto il massimo dell'illusione borghese: l'equidistanza, la neutralità, l'interclassismo...

La differenza tra il Comune e lo Stato sta unicamente nella diversa "forza" della borghesia, la quale forza, a sua volta, è dipesa dalla diversa struttura dei mezzi produttivi.

Oggi è assurdo voler tornare al primato del Comune -quale ente locale-, in contrapposizione agli interessi dello Stato: la grande borghesia, che per commerciare ha bisogno di un territorio non solo nazionale ma internazionale, non permetterà mai a queste illusioni della piccola-borghesia di concretizzarsi.

Il Comune potrà avere un primato in sede amministrativa, ma non l'avrà mai in sede politica, a meno che con una guerra di vaste proporzioni non venga distrutta la compagine statale.

Oggi l'alternativa allo Stato capitalistico, che ha ingrandito a dismisura le contraddizioni antagonistiche che caratterizzavano, in piccolo, l'esperienza comunale, non può essere né un ritorno al Comune, né la realizzazione di un ente più grande dello stesso Stato (p.es. il comando imperiale di un dittatore, come si è verificato nel periodo nazi-fascista).

Un ritorno al Comune farebbe della nazione una facile preda degli Stati limitrofi o degli Stati che, in questo momento, dominano la scena mondiale, a livello economico, politico e militare.

Viceversa, la creazione di un ente superiore, di una struttura sovranazionale non farebbe che acutizzare le contraddizioni del capitalismo, anche se in un primo momento si avrebbe l'illusione di un loro superamento. Il problema, in realtà, è quello di uscire da questa spirale perversa.

L'alternativa al capitalismo è il socialismo democratico. Come questo socialismo vada realizzato, soprattutto dopo il fallimento del socialismo amministrato, è cosa tutta da verificare.

Alcuni princìpi si potrebbero però si potrebbero considerare irrinunciabili:

1. primato del valore d'uso sul valore di scambio;
2. primato dell'autoconsumo sul mercato;
3. primato dell'autogestione sulla separazione del produttore dai mezzi produttivi;
4. primato del lavoro agricolo su quello industriale e commerciale;
5. tutela assoluta dell'integrità della natura;
6. primato della democrazia diretta su quella delegata;
7. primato delle autonomie locali sugli organi centrali;
8. difesa militare e poliziesca affidata al popolo e non a reparti specializzati;
9. unità di lavoro intellettuale e manuale;
10. uguaglianza dei sessi nel rispetto delle diversità;
11. unità delle scienze nel rispetto delle specificità;
12. libertà di coscienza, di pensiero, di religione, di espressione artistica..., nel rispetto della libertà altrui.

LA LOTTA DELL'IMPERO CONTRO I COMUNI

FEDERICO BARBAROSSA (1152-1190)

I) Dopo la lotta per le investiture, le posizioni della Chiesa si erano consolidate, ma il declino dell'Impero permise anche lo sviluppo, soprattutto in Italia, di nuovi organismi politici autonomi: i Comuni, dove veniva emergendo una nuova classe sociale: la borghesia.

II) Con la morte dell'imperatore francone Enrico V (1125), che aveva firmato il Concordato di Worms, si aprì in Germania una lotta dinastica, durata circa 30 anni, fra i sostenitori della Casa di Baviera (guelfi) e quelli della Casa di Svevia (ghibellini): questo impedì agli imperatori d'intervenire efficacemente nelle vicende italiane. Il compromesso fu raggiunto quando le due grandi famiglie decisero di affidare a quella di Baviera il controllo di quasi tutta la Germania settentrionale, mentre quella sveva avrebbe ottenuto, con Federico Barbarossa, la corona imperiale.

III) L'imperatore, attraverso una serie di legami feudali, poteva esercitare il suo dominio in Germania, Italia, Borgogna, Boemia e altre regioni minori. A tale scopo però aveva prima bisogno d'essere incoronato "sovrano dell'Occidente cristiano" a Roma. La "riconquista" dell'Italia diventava così inevitabile. E l'occasione si presentò quando il suo intervento venne richiesto da più parti: 1) dal papato, contro il Comune di Roma, che rivendicava una maggiore democrazia politica, e contro i Normanni, che gli negavano la possibilità di influenzare politicamente il Sud; 2) dalle piccole città lombarde (Como, Lodi,,,), in lotta contro Milano, la quale mirava a estendersi sempre di più, come molte altre grosse città (Firenze, Pisa...).

IV) Il programma politico di Federico I era il seguente: 1) ristabilire la sua autorità sulle città italiane, annullando la loro autonomia politica e quelle prerogative del potere sovrano (regalìe) di cui esse si erano arbitrariamente impossessate (ad es. amministrare la giustizia, stipulare trattati politici, esigere imposte e dazi, battere moneta, tenere degli eserciti, ecc.); 2) estendere il suo dominio nell'Italia meridionale, cacciando i Normanni; 3) riaffermare la supremazia dell'Impero sulla Chiesa.

V) Le discese del Barbarossa in Italia furono sei:

1) Durante la prima distrusse varie piccole città, mentre a Roma dovette affrontare una rivoluzione democratica capeggiata dal monaco Arnaldo da Brescia (Repubblica Romana). La Chiesa pretese, in cambio dell'incoronazione imperiale, la cattura e l'esecuzione capitale del monaco. Cosa che, quando avvenne, scatenò nella città dei tumulti antimperiali così forti che costrinsero l'imperatore a tornare in Germania. Intanto tra il papato e i Normanni si stipulò un accordo a Benevento, in base al quale il papa otteneva il riconoscimento della sua sovranità feudale sul regno e ne dava l'investitura al sovrano normanno.

2) Nella seconda discesa, l'imperatore, in una Dieta a Roncaglia, impose a tutti i Comuni di accogliere tra le loro mura i suoi rappresentanti (messi o podestà) per l'esercizio dei diritti imperiali, nel senso che i più importanti poteri comunali potevano essere esercitati solo col consenso del delegato imperiale (Costitutio de regalibus). La rivolta dei Comuni fu generale. Per tutta risposta Crema e Milano vennero distrutte. Tuttavia, quando il Barbarossa cercò di estendere anche al campo ecclesiastico il tentativo di riprendersi tutti i suoi poteri, il papato reagì scomunicandolo. Nel frattempo molti Comuni dell'Italia settentrionale si erano organizzati in due Leghe antimperiali (veronese e lombarda), ottenendo l'appoggio del papato. Visto ciò, l'imperatore preferì ritirarsi in Germania.

3-4) La terza discesa si risolse in un nulla di fatto. Nella quarta, l'imperatore decise di evitare le città lombarde e di muovere direttamente verso Roma, al fine d'insediarvi un antipapa. Una grave pestilenza scoppiata nel suo esercito lo obbligò a tornare in Germania.

5-6) Le ultime due discese furono caratterizzate da vari trattati di pace. A ciò l'imperatore fu costretto dopo la totale sconfitta militare subìta a Legnano (1176). Con la Pace di Costanza (1183), i Comuni ottennero il riconoscimento dei loro diritti di giurisdizione, autogoverno, difesa e coalizione, accettando, a loro volta, di dichiararsi formalmente dipendenti dall'Impero e di vincolarsi ad alcuni obblighi fiscali. Nella sesta discesa, che fu la più importante, il Barbarossa, malgrado l'opposizione del papato, riuscì a far sposare il figlio Enrico VI con Costanza d'Altavilla, ultima erede legittima del regno Normanno di Napoli e Sicilia. Alla morte del Barbarossa (avvenuta durante la terza crociata), Enrico VI riunirà sotto la sua corona anche l'Italia meridionale. Egli tuttavia morirà a soli 32 anni, lasciando il trono di Germania e Sicilia al figlio di 3 anni, il futuro Federico II.

VI) Conclusione

1) L'unico successo dell'Impero fu la conquista pacifica del regno Normanno, anche se nei confronti del pur breve dominio di Enrico VI, le popolazioni meridionali furono piuttosto ostili, a causa del suo autoritarismo e fiscalismo.

2) Il papato eliminò completamente il diritto di conferma imperiale all'elezione del pontefice e si riconciliò col Comune di Roma, fissando in 2/3 il numero di voti necessari per eleggere il papa. Dovette tuttavia rassegnarsi, almeno per un certo periodo di tempo, al fatto di non poter contrastare l'Impero nell'Italia meridionale.

3) Indubbiamente, con la Pace di Costanza i veri trionfatori furono i Comuni dell'Italia settentrionale. Il periodo successivo a questa pace fu decisivo allo sviluppo della civiltà comunale italiana. I maggiori centri urbani divennero Milano, Firenze, Genova e Venezia. L'Italia si avviava a diventare un Paese molto forte economicamente. Tuttavia, la forza politica dimostrata nella lotta contro l'Impero rischiava d'indebolirsi notevolmente se le città più grosse, invece di competere fra loro in guerre commerciali per il dominio dei mercati esteri, non si fossero coalizzate per determinare la formazione di una monarchia nazionale, come già stava avvenendo in Francia e Inghilterra.

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