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GRECIA - STORIA

LE NAVI DI OMERO


di Orazio Ferrara


Navi a remi sul Nilo. Bassorilievo tomba del Ti, V dinastia. Sekkara 2500 a.C.

(vedi anche "Gli avventurieri del mare")

Le navi e le tecniche di navigazione della marineria della Grecia arcaica, soprattutto di quella micenea, della seconda metà del II millennio avanti Cristo sono sostanzialmente quelle descritte, con dovizia di particolari nei poemi omerici, in particolare nell'Odissea. Ciò è dovuto essenzialmente al fatto che per secoli quella marineria, erede della cicladica e minoica, non subisce alcuno radicale cambiamento per assoluta mancanza di grandi innovazioni tecniche. Quest'ultime verranno dopo Omero e porteranno a quel formidabile strumento bellico che sarà la triere, o latinamente trireme, nave che sconvolgerà gli equilibri marittimi nel Mediterraneo, un po' com'era accaduto a suo tempo nella tattica militare terrestre quando era apparso il carro da guerra.

Altro motivo, non secondario, di questa sostanziale coincidenza è che Omero o chi per esso, tralasciamo qui di entrare nell'annosa e complessa "questione omerica", pur vivendo nel secolo VIII A.C., compone due poemi epici sulla base di una lunghissima tradizione orale, che tramanda così, in modo abbastanza fedele, non pochi aspetti di vita dei secoli precedenti.
Se le imponenti rovine di Troia e di Micene confermano la veridicità del mondo cantato dal poeta, così le rappresentazioni vascolari, i modellini e le pitture parietali confermano, anche con scoperte recentissime, che le descrizioni omeriche si avvicinano, con buona approssimazione, a quella che dovrà essere effettivamente la realtà marinaresca della Grecia arcaica.

Nell'indicare le navi di quel tempo Omero cita con frequenza due epiteti: orthòkrairos= dalle corna erette e kòilos= concava. Questi epiteti rendono subito, in modo plastico, il profilo che presentano gli scafi a chi li guardi navigare da lontano: delle ricurve corna di toro. La sagoma ricorda, a grandi linee, quella delle navi dei Popoli del mare, che, nell'ultimo quarto del II millennio, imperversano nel Mediterraneo orientale e che, in uno dei tanti raids, si scontrano nel delta del Nilo con la flotta egiziana.

Nave egizia seconda metà II millennio. XVIII dinastia (Museo egizio, Torino)

La vittoria di quest'ultima è il motivo per cui il faraone del tempo fa immortalare nella pietra l'immagine delle navi nemiche.


Nave da guerra Fenicia


La stretta rassomiglianza tra le navi micenee e quella dei popoli del mare evidenzierebbe l'esistenza di una medesima tecnica cantieristica nel Mediterraneo orientale, almeno per il gruppo indo-europeo, al quale appartengono ambedue i popoli. Il profilo a forma di corna di toro, oltre ad essere una necessità costruttiva, potrebbe anche essere dovuta ad influenze magico-religiose, considerando la sacralità del simbolismo del toro presso tutte le popolazioni di ceppo indo-europeo. Non a caso pitture vascolari greche del periodo geometrico mostrano navi da guerra, recanti sulla prua l'insegna di due corna taurine.

Fin dai primi tempi ritroviamo la tradizionale suddivisione tra nave da guerra e nave mercantile, come testimoniano la coeva iconografia greca e il ritrovamento del relitto di Capo Chelidonia nella Turchia sud-occidentale, relitto che si riferisce ad una nave esclusivamente da carico del sec. .XIII o XII A.C.. La tecnica cantieristica, primitiva e raffinata allo stesso tempo, tende empiricamente a rapporti tra larghezza e lunghezza dello scafo, che si avvicinano di molto a quegli standards oggigiorno considerati ottimali dal punto di vista nautico per le navi antiche: 1 a 8 e 1 a 10 per le navi da guerra, da cui il classico profilo lungo; 1 a 3 e 1 a 4 per le navi mercantili, da qui il profilo tondeggiante. L'archetipo di nave lunga o tonda, a seconda della funzionalità richiesta, persisterà nei cantieri navali del Mediterraneo fin oltre il Medioevo.

La propulsione della nave da guerra della Grecia arcaica è principalmente affidata alla forza dei rematori, che usufruiscono però anche dell'ausilio di una vela quadra, viceversa è essenzialmente velica la propulsione della nave da carico, che, nei casi necessari di calma di vento o di manovre in porto, ricorre ai pochi rematori imbarcati.

Comunque è da precisare che in Omero la suddivisione tra i due tipi di nave non è poi cosi rigida, in particolare per la nave più diffusa quella a venti rematori, dieci per lato, che viene utilizzata indifferentemente per il trasporto di merci e passeggeri e la guerra da corsa
Per ambedue i tipi di nave il timone è costituito da due grossi remi poppieri. Questo timone è di difficilissima manovrabilità e richiede una perizia tutta particolare, acquisita con lunghi anni d'esperienza. Non a caso in molti poemi antichi, e quindi non solo in Omero, vengono citati timonieri particolarmente esperti, volendone così tramandare il nome ad imperitura memoria.
L'attrezzatura velica della nave del tempo omerico è poi di una semplicità estrema. Un'unica grande vela quadra di tela per lo più bianca, legata con numerosi lacci taurini alla lunga asta dell'antenna, che a sua volta, mediante legacci sempre di cuoio, è fissata alla parte terminale dell'albero della nave. Quest'ultimo, viene mantenuto fermo, oltre che dal suo piede posto nell'apposito incastro, da due grosse funi, (sàrte o sàrtie) che si dipartono rispettivamente da prua e da poppa. Infine le corde (scotte) che, legate agli angoli inferiori della vela, servono a distenderla al vento. Le scotte sono due, quella di destra e di sinistra, che con moderno linguaggio marinaresco sono intese rispettivamente "poggia" e "orza" . il materiale usato per le sàrtie e le scotte è costituito da budella taurine intrecciate ritorte.

L'intera attrezzatura velica è completamente smontabile, essa viene tolta ogni qualvolta lo scafo è tirato in secco, il che avviene frequentemente, oppure quando, per bonaccia di vento, si ricorre alla sola
forza dei rematori, infine quando infuria una tempesta. Nei casi in cui l'attrezzatura deve essere montata si procede incastrando il piede dell'albero nell'apposito alloggio, posto sulla trave di chiglia, in mezzeria o leggermente decentrato a prua, e non ricavato nella trave stessa come sostengono alcuni studiosi in quanto così si sarebbe fatalmente compromessa la resistenza di una fondamentale struttura alle sollecitazioni del moto ondoso. E' presumibile l'utilizzo di una trave trasversale a quella di chiglia come lasciano supporre alcuni versi omerici. L'albero è poi stabilizzato dalle due sàrtie già descritte.
La manovra di drizzare l'albero e spiegare la velatura avviene in tempi rapidissimi e rientra nella quotidianità delle navi del tempo. Malgrado ciò si verifica, con una certa frequenza, che un vento impetuoso spezzi l'albero. Qualche volta l'incidente ha conseguenze gravissime, come nell'episodio descritto da Omero in cui una improvvisa tempesta, sorprendendo la nave di Odisseo svelle di netto l'albero, rovinando in coperta, travolge ed uccide, con una ferita mortale al capo, il timoniere.

L'intera struttura dello scafo poggia su un'unica trave di chiglia, a cui erano collegate coste e tavole. Il tutto giuntato, secondo alcuni studiosi, soltanto con il sistema della cucitura, rinforzato forse con corde che inanellavano strettamente l'intero scafo. Questa tesi è sostenuta da autorevoli esperti di marineria antica, che portano a sostegno gli stessi versi di Omero, quando nell'Iliade descrive le pessime condizioni delle navi greche, perché le intemperie e il sole avevano allentato tutte le corde.
La pratica della cucitura, arcaicissima riscontrandosi già ai primordi della civiltà egiziana, sarebbe poi confermata, secondo gli stessi esperti, dal relitto di Capo Chelidonia, anche se altri studiosi, non meno autorevoli, sono d parere contrario.

Personalmente riteniamo che già nella cantieristica di quel tempo il sistema di cucitura coesistesse con quello ad incastri e cavicchi di legno (i chiodi erano di là da venire). Un'esplicita conferma sono i versi omerici descrittivi della tecnica di costruzione di una zattera.
In ambedue i casi lo scafo richiede una buona impermeabilizzazione, che si ottiene ricorrendo alla pece, a sostanze cerose e resinose, quest'ultime ricavate forse dall'incisione di alberi di pino. L'interno dello scafo è tutto catramato e questo spiega la ricorrente espressione di "nave nera", mentre esternamente è catramata soltanto la parte immersa nell'acqua, le fiancate al di sopra della linea di galleggiamento sono di un vivace colore rosso a base di sostanze cerose o resinose. La prora è invece dipinta di colore azzurro sempre a base di cera. Deve forse riferirsi a questa eventuale utilizzazione la scorta di cera menzionata per la nave di Odisseo.

Le navi da guerra di quel tempo non hanno un unico ponte di copertura, bensì due piccoli ponti, uno a prua l'altro a poppa. I rematori stanno nel mezzo e si trovano allo scoperto, anche se occorre precisare che alcuni scafi, raffigurati nei dipinti di Tera, sono attrezzati con una primitiva tettoia, che ripara la parte remiera dal sole e dall'intemperie. E' probabile che questa leggera tettoia smontabile sia utilizzata anche al tempo di Omero. Sulla disposizione dei rematori non vi sono dubbi in quanto è immediatamente intuibile la loro dislocazione sui banchi, a differenza dell'enigma dei vogatori di una trireme, vero e proprio rompicapo forse definitivamente risolto dalle intuitive ipotesi del Morrison.
Esiste però un piccolo problema relativo ai banchi di voga di una nave omerica. Infatti dalle rappresentazioni pittoriche e dalle descrizioni dello stesso Omero non si riesce a comprendere se si tratti di un unico banco per ogni coppia di vogatori affiancati oppure ciascun rematore usufruisce di un singolo banchetto, in modo che ci sia una piccola corsia (non più larga probabilmente di un metro), che attraversa longitudinalmente il fondo dello scafo, come lasciano supporre esplicitamente alcuni versi. Noi propendiamo per quest'ultima ipotesi.
Un modellino votivo siracusano però di epoca molto più tarda presenta simili banchetti di voga.

Nell'Iliade e nell'Odissea la nave preferita dai guerrieri-marinai greci e senza dubbio quella a venti rematori, più il timoniere e il capitano, ciò è dovuto forse alla sua estrema versatilità operativa nell'essere, allo stesso tempo, affidabile sia per la guerra da corsa, che prevede rapidi sbarchi e altrettanti rapidi imbarchi dopo le razzie, sia per il trasporto di persone e merci rare in tempi relativamente brevi.
Una nave a venti remi è quella utilizzata da Agamennone per rimandare Criseide al padre, così a venti è la nave di Telemaco per andare da Itaca a pilo e quella dei Proci, che vogliono tendergli un agguato sul mare. All'esistenza nello stesso periodo di navi con un numero maggiore di rematori rimandano le pitture di Thera e lo stesso Omero. Nel cosiddetto catalogo delle navi, riportato dal II libro dell'Iliade, le navi dei territori di Metone, Taumacia, Melibea e Olizone sono a cinquanta vogatori, (25 per lato) deve trattarsi certamente dei primissimi tipi del famoso pentecontero, la nave da guerra greca che successivamente dominerà incontrastata i mari fino all'avvento delle triremi. Con questo tipo di nave i greci procederanno alla colonizzazione del Mediterraneo occidentale.

Anche i Feaci, secondo Omero i migliori marinai del tempo, possiedono navi a cinquanta remi, una di esse riporterà Odisseo ad Itaca. Anzi, nel caso specifico, i versi del cantore sono talmente precisi che, citando il numero dei marinai dell'equipaggio, lo fa ascendere a cinquantadue, effettivamente si riferisce all'equipaggio completo di timoniere e di capitano, comunque la nave a cinquanta remi resta appannaggio, come nel caso dei Feaci, di poche popolazioni all'avanguardia nella marineria della Grecia arcaica.
Le tavole dell'archivio del palazzo reale di Pilo, d'età tardomicenea e quindi tra le più antiche testimonianze scritte sull'attività marinara nel Mediterraneo, riportano, per quel periodo, anche navi a trenta remi (15 per lato).
Comunque la stragrande maggioranza delle navi, giunte ai lidi troiani, sono scafi a venti remi, questa ipotesi ridurrebbe ad una cifra accettabile il numero dei Greci all'assedio della città, circa 20.000 uomini. Cifra pur sempre alta per un esercito della seconda metà del II millennio A.C., ma che troverebbe una spiegazione razionale trattandosi di un esercito di coalizione. I più potenti eserciti del tempo, egiziano e hittita, hanno grosso modo anche loro circa 20.000 effettivi ciascuno.

A conclusione di questo capitolo, per una migliore comprensione della figura di Omero, ancora oggi insuperato cantore delle cose di mare, riportiamo le suggestive pagine scritte sul grande poeta greco dall'insigne studioso Ettore Romagnoli.

" Così io mi figuro il poeta dell'Odissea.
Sopra un legno di mercanti e, chi sa, di pirati, di costa in costa, d'isola in isola, percorre tutto il Mediterraneo, che sembra veramente infinito. Disteso a prora, dal primo all'ultimo raggio di sole, mentre le vele gonfie rapiscono a volo il battello, a pari dei gabbiani, contempla, con le avide pupille del poeta, le infinite parvenze del cielo e del mare. A notte, giacendo a poppo, come Ulisse nel battello dei Feaci, avvolto in una ruvida coltre, fissa le stelle roteanti attorno all'Orsa, unica immune dai lavacri d'Oceano, sin che giunge a sopirlo il sonno datore d'oblio. E nelle interminabili bonacce, tocca la sua lira e canta ai marinai. Canta le gesta degli eroi.
.... Ed ecco il battello giunge in vista delle spiagge di Troia. I nocchieri greci approdano ai lidi sacri, dove un tumulo ricorda l'eroismo e la sventura di Aiace. Il poeta scende meditabondo sulla via deserta, venera la tomba eroica. Levando gli occhi, vede disegnarsi sul cielo la fatale collina dove un giorno sorgeva Troia. Muove, a lenti passi, verso la città fatale. Verso di lui scende, travolgendo i suoi flutti vorticosi, lo Scamandro, gonfio come non vide mai i fiumi della patria. Gli sembra quasi avverso, minaccioso, e che lo respinga al mare. Un impeto d'orgoglio patrio solleva i gorghi della sua anima contro l'impeto del fiume straniero. Nella sua fantasia è nata, alla vita dei secoli, la lotta tra Achille e lo Scamandro....
E torna al naviglio e al mare. Il battello approda a una città florida e popolosa. Si scende nell'agora che protende le sue lastre di marmo sino entro le onde del mare, si espongono le mercanzie, s'intrecciano i traffici.
.... E dopo una settimana di venti contrari, ecco sul far della sera levarsi la brezza di terra. Partire, di nuovo partire ! Di nuovo errare sulle onde. Il poeta saluta gli ospiti, e si riprende la corsa per i mari noti e per
gli ignoti, in cerca della fortuna e forse della morte.

La fantasmagoria continua. Dinanzi agli occhi del poeta passano scene e scene meravigliose. Nuovi mari senza confine, bonacce interminabili, burrasche sterminatrici, scogliere immani e ai loro fianchi orride caverne, dalle quali sbucano spesso fauci di orridi mostri. Ma talvolta, ridendo sul mare una bianca bonaccia, la barca poteva entrare in un'altra grotta mirabile, e una fantastica irradiazione azzurra avvolgea tutto, rendeva le cose pervie e imbevute e raggianti asse stesse di luce soprannaturale. E sulle pareti emergenti e sulle sommerse e sul fondo un mobile corruscare di piropi, di smeraldi, di zaffiri, di crisoliti, componeva e scomponeva senza tregua le trame incandescenti di una sinfonia luminosa. Questa era la casa di una fata, la reggia di una Dea. Ma di un tratto tutte le luci e tutti i colori si spegnevano. La caverna era buia. La mano protesa ad afferrare le gemme prodigiose non stringeva che viscide alghe. Ed ecco uno, due, cinque, dieci tentacoli sferzano il braccio incauto, l avvinghiano, trascinano l'imprudente, con forza irresistibile, nei regni della morte. Scilla, la terribile Scilla. Che fare ? Fuggire. Meglio uno dei cari compagni che tutti !

E la fantasmagoria continuava. Qui sulla vetta di un'alpe inaccessibile, un vorticar di fumo, un lampeggiar di fiamme, un tempestare di bombiti orrendi. E pietre immense erano scagliate dalla cima giù per le balze sino a sfiorare i fianchi del battello. Anche di qui fuggire. E calava la notte negra, senza stelle. Aperte le vele a un alito di vento, i nocchieri si abbandonavano al dèmone. E il dèmone li spinge miracolosamente, di notte, per una gola angusta, entro un difficile porto. Il battello approda a una spiaggia declive e rimane lì fisso, senza bisogno d'ancora, fasciato da un buio impenetrabile.
Ma all'alba, dopo l'inquieto sonno, quale paesaggio d'incanto s'illuminava ai loro occhi ! Entro una luce purissima, boschi profondi, orti, giardini, dove tutti i fiori e tutti i frutti, questi appena turgescenti, quelli maturi, altri quasi disfatti, imbevevano l'aria di aromi inebrianti come liquori. Erano gli orti elisi ? No. Era la patria di gente felice; e fra loro i nocchieri passavano alcuni giorni di sogno. E il poeta beveva, beveva con tutti i sensi la fantasmagoria prodigiosa. Tutte le parvenze del mondo esterno, ingolfandosi impetuose per i suoi cinque sensi, colpivano, ferivano prodigiosamente la sua anima profonda . ed essa rispondeva all'urto con la parola. Ogni immagine sonora, luminosa, olfattiva, tattile, trovava il subito riflesso nell'armonioso vocabolo, che, nato dal prodigio, prodigiosamente, rievocava le immagini, risuscitava nel cervello degli uditori le visioni meravigliose.
Sono corsi più di trenta secoli. E l'opera magica non ha perduto ancor nulla della sua efficacia"
.

Orazio Ferrara

Bibliografia
I Signori del mare, di Orazio Ferrara,
Appunti per una storia delle antiche marinerie, Sarno, Centro Studi I Dioscuri, 1998)

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