STORIA DELL'INQUISIZIONE

LIBRO II.

Inquisizione e Stato - L 'Inquísizione come mezzo di potenza della Corona - La lotta per il potere fra Domenicani e Gesuiti - La supremazia dell'Inquisizione - Il giuramento di obbedienza dei funzionari civili - L'opposizione dell'alto Clero - Cariche e privilegi - Antitesi di giurisdizione - Ostilità reciproca .

 

INQUISIZIONE E STATO

La forza dell'Inquisizione spagnola era dovuta alla sua grandiosa organizzazione e all'abilità dei suoi capi, di piegare il potere della Corona secondo il loro volere.
L'antica Inquisizione era una istituzione puramente ecclesiastIca che nella Spagna rappresentava non soltanto l'autorità pontificia, ma anche quella regia; questa unione ebbe per risultato una tirannia che può essere confrontata, nella Storia, soltanto col regime vigente in Inghilterra al tempo in cui Enrico VIII era anche Capo della Chiesa.

Quando Ferdinando diede il suo consenso affinchè l'Inquisizione venisse introdotta nella Spagna non intendeva affatto creare un organismo indipendente dalla sua autorità. Infatti, come abbiamo visto, egli pretese da Papa Sisto che gli spettasse il diritto di nominare gli inquisitori. Prova ne sia che Torquemada nel 1485 avvertì gli inquisitori del vecchio regime che essi avrebbero potuto restare in carica provvisoriamente, fino a che egli stesso o il Re avessero sistemato in modo definitivo la loro posizione.
Astrazione fatta dalle questioni spirituali, il Re considerava l'Inquisizione come un mezzo per far valere la propria volontà, tuttavia dal suo vasto epistolario non risulta che egli se ne sia valso come mezzo politico. Quando Torquemada, nel Dicembre del 1484, diede il nuovo ordinamento, dichiarò che ciò avveniva per ordine dei Sovrani. In generale Ferdinando era troppo sicuro di sé stesso per
ritenere necessario di porre in evidenza in ogni occasione i suoi poteri sovrani.
Egli era stato educato con la mentalità del dogma religioso, universalmente riconosciuto, secondo il quale l'eresia era il più grave misfatto, l'eretico doveva essere privato di ogni diritto civile e sarebbe stata un'azione gradita a Dio torturarlo a morte. Ferdinando fu inesorabile ed incitò continuamente gli inquisitori. Ma non minore era la sua ingordigia ed egli pretendeva la sua parte di ogni patrimonio sequestrato, fosse pur minimo; questi sequestri secondo la sua mentalità erano perfettamente legittimi, inquantochè le Leggi Canoniche, considerate come l'espressione della volontà di Dio, gli mettevano la coscienza in pace.

L' 11 Luglio 1486 egli scrisse al suo tesoriere a Saragozza: «Quindici anni fa Janine de Santagel che recentemente venne bruciato al rogo aveva un terreno a Saragozza, ma non aveva pagato il fitto a Garcia Martinez. Secondo le leggi Aragonesi, se qualcuno per quattro anni non paga il fitto, il suo terreno viene sequestrato; veda dunque che il terreno venga immediatamente venduto e che il Martínez ottenga ciò che gli compete ».
Era inevitabile che quando questa potente personalità scomparve, diminuisse, la sorveglianza regia sull'Inquisizione; vista la inettitudine della Regina Juana e l'assenza del giovane Carlo V il Governo della Spagna rimase affidato quasi esclusivamente al Capo Inquisitore Ximenes, perciò il suo sostituto, Adriano, otteneva in breve la carica di Capo Inquisitore dell'Aragona.
Al ritorno di Re Carlo e dopo la morte di Ximenes, Adriano rimase Capo assoluto di tutta l'Inquisizione e con ciò la sua influenza sul Sovrano divenne illimitata. La Suprema, la quale sotto Ferdinando non ebbe molta attività, riprese subito la sua funzione nel giudicare questioni particolari. Così il potere di designazione specialmente del tesoriere divenne competenza della Suprema.
Troviamo infatti che il Ximenes, in una sua lettera ammonisce il Tesoriere di Toledo per non avere ancora reso conto di molti beni confiscati, cosa che doveva fare immediatamente per ordine della Suprema.

A quanto risulta Filippo II non si immischiò mai nella nomina degli inquisitori lasciandone la cura al nuovo Capo Inquisitore, Geronimo Manríquera, ma che tuttavia fosse riconosciuto il diritto di sorveglianza della Corona risulta da una Consulta, nella quale il Capo Inquisitore lamentava la poca idoneità di alcuni incaricati. Il Re rispose con molta cautela perché non ne ricadesse la responsabilità su di lui e chiese la comunicazione dei nomi. Ciò rendeva evidente il suo desiderio di riprendere il rigoroso controllo esercitato sotto Ferdinando, che nei tempi torbidi e nella permanente assenza di Carlo si era indebolito.
Filippo, del resto, fu un sovrano debole e di carattere indeciso, ma in un caso diede prova di un rigore ancor maggiore di quello di Ferdinando e precisamente quando comparve con la sua Corte a Toledo per presenziarvi ad un « auto da fé » tenutosi nel 1513. Egli desiderava assistere alla condanna di Juan Coten accusato di simpatizzare per la Religione Luterana; egli aggravò la pena facendolo condannare all'ergastolo e a cento scudisciate. Il Tribunale si rivolse alla Suprema per averne il parere e questa approvò l'aggravio della sentenza, ma il giorno dopo l'« auto da fé » fu comunicato al condannato che la Suprema gli aveva pietosamente condonato le scudisciate.

Il diritto di nomina ed il licenziamento del Capo Inquisitore, a cui i Sovrani non rinunciarono mai, contribuiva molto ad aumentare il potere reale, se non proprio a rafforzare la sicurezza del Re. Ma dopo la morte di Ferdinando, quando Adriano fu eletto Papa, sembra che egli volesse far apparire che questo privilegio era legato solo alla persona di Ferdinando e di conseguenza sarebbe ritornato alla competenza del Pontefice.
Il 12 Febbraio 1512 egli scriveva a Re Carlo che era necessario cercare un successore per la carica di Capo Inquisitore. Però dopo lunghe riflessioni egli decise per il Generale dell'Ordine dei Domenicani e senza attendere il consenso del Re procedette alla sua nomina.
È naturale che il Re non avesse sufficiente potere per revocare una nomina fatta dallo stesso Pontefice, tuttavia il Sovrano disponeva di molti mezzi per provocare le dimissioni spontanee. Se le dimissioni di Alfonso Suarez de Fuentelsas fossero provocate da simili influenze o meno non ci è dato di sapere, ma il caso del Cardinal Manríque, successore di Adriano, dimostra in modo o in un altro era sempre possibile al Sovrano di allontanare quelli che non erano nelle sue grazie.

Manrique, come Vescovo di Badajoz, dopo la morte di Isabella aveva parteggiato con tanto fervore per Filippo che Ferdinando aveva ordinato il suo arresto. Egli fuggì nella Fiandra, mettendosi al servizio di Carlo, col quale poi ritornò in Spagna e divenne più tardi Principe Arcivescovo di Sevilla.
Nel 1619 il successore del Capo Inquisitore Sandovol fu Fra' Luis de Allaga, un Domenicano, confessore del Cardinale Lermaz, il quale nel 1608 lo aveva ceduto al Re, sul quale questi esercitò una enorme influenza, sebbene avesse una dubbia fama, poiché secondo l'opinione generale era stato lui nel 1614 a pubblicare, sotto il pseu
donimo di Avellanda, la continuazione falsificata di Don Quixotte, lavoro che, per il tono burlone e sconveniente, non si addiceva ad un autore ecclesiastico. Sebbene egli dovesse il suo patrimonio a Lerma tuttavia prese parte nel 1618 al movimento a favore del nipote del Cardinale che ebbe per risultato la rovina completa di Lerma.

Durante il regno di Filippo i veri dominatori della Spagna divennero Fuceda e Aliaga i quali però amministrarono tanto malamente, ponendo in tutti gli uffici le loro creature e vendendo per lucro la Giustizia, che ebbero una gran parte nella rovina economica del Paese. Quando Filippo occupò il trono, la sua prima attività fu quella di licenziare tutti quelli che sotto il suo predecessore avevano ricoperto cariche autorevoli. Egli ebbe un compito facile con i funzíonari civili, ma l'incarico del Papa rendeva il Capo Inquisitore indipendente dalla volontà del Re. Tuttavia Filippo finì con lo scrivergli che entro ventiquattr'ore desse le sue dimissioni ritirandosi nel Convento Domenicano di Huete. Il Capo Inquisitore obbedì, ma non volle rinunciare al Vescovado di Samora e pretese in compenso della sua rinuncia la conservazione dei suoi proventi ecclesiastici. L'unico modo di ottenere da Papa Gregorio XV la sua rimozione era quello di fargli noto che il Capo Inquisitore aveva mantenuto una relazione amorosa, nonché i rimproveri di Filippo III che sosteneva che il Capo Inquisitore avrebbe esercitato su di lui una influenza malefica fino alla morte.

Papa Gregorio ascoltò benevolmente le lagnanze e sembra che lo stesso Aliaga riconoscesse l'insostenibilità della propria posizione, perché infine dette le sue dimissioni.
André Pachno, nominato suo successore nel 1622, venne tollerato in carica sino alla sua morte avvenuta nel 1626.
Gli succedette il domenicano fra' Antonio de Sotomayor, il quale era « in partibus » Principe Arcivescovo di Damasco e confessore del Re.
Quando occupò la carica aveva già 77 anni e la sua senilità era molto visibile. Ben presto fu anche lui invitato a dare le dimissioni, ciò che fece solamente in seguito a forti pressioni e molto malvolentieri.
Fu seguito nella carica di Capo Inquisitore da Pascual d'Aragona, Principe di Cordova, figlio del Více Re di Napoli. Egli ottenne pure la dignità di Principe Arcivescovo di Toledo nel 1666, ma non per questo volle rinunciare alla carica di Capo Inquisitore; tuttavia Maria Anna d'Austria, Regina Reggente, ve lo costrinse per nominare il proprio confessore Juan Evorardte Nithardt, un gesuita tedesco.

Il Nithardt nel 1668 si vantò di essere già da ventiquattro anni il consigliere spirituale della Regina e di vivere permanentemente presso di lei. Di conseguenza egli aveva diretto lo sviluppo spirituale della Regina fin dalla di lei infanzia e siccome Anna era debole, il Níthardt le divenne indispensabile. La nomina di quest'ultimo a Capo Inquisitore suscitò le più vive disapprovazioní, che nemmeno il rispetto per la Regina poteva soffocare. Furono presentate proteste ed intercorsero lunghe discussioni, ma ogni opposizíone fu vana, poiché il 15 ottobre del 1666, il Nithardt ottenne la sua nomina a Capo Inquisitore e divenne ben presto l'effettivo padrone e dominatore del Reame.

Il generale malcontento fu attizzato anche dall'invidia dei Domenicana, i quali odiavano i Gesuiti. Accusarono dunque il Nithardt dinanzi al Santo Uffizio di porre in ogni carica i suoi « Calificadores » gesuiti e di essersi fatto fissare una pensione annua di sessantamila ducati. La Spagna aveva in quei tempi il suo pseudo eroe nella persona del secondogenito di Don Juan d'Austria, la cui madre era una certa Calderona. Egli godeva di gran stima tra la popolazione per aver stroncata la ribellione di Napoli con la conquista di Barcellona. Fra lui ed il Nithardt sorse nel 1652 una grande ostilità, che degenerò presto in un ardente odio. Per allontanarlo dal Paese il Nithardt gli diede l'incarico di condurre la spedizione nella Fiandra, ma Don Juan non obbedì, riparando nella Catalogna, donde scrisse una lettera alla Regina, nella quale dichiarava che soltanto la bassa scellerataggine di Nithardt che attentava alla sua vita lo aveva scacciato dal Paese e che egli non si era imbarcato per la Fiandra, per poter liberare la sua Regina da quella belva che si mostrava tanto indegna di ricoprire l'alta carica che gli avevano affidato.
Il contenuto di questa lettera e di un'altra simile fu divulgato largamente e l'odio generale contro il Níthardt ebbe un nuovo stimolo, mentre Don Juan veniva contrapposto all'odiato straniero come l'eroe nazionale che continuava le sue espansioni di odio contro di lui. Arrivarono enormi quantità di lettere dalle città rappresentate nella « Cortes » che imploravano la Regina di allontanare il Níthardt, ma essa rimase irremovibile.

Don Juan d'Austria intanto organizzava una squadra di cavalleria, di circa centocinquanta uomini, per la difesa della propria persona e con questa scorta si avviò attraverso Saragozza a Barcellona. Intanto la « Cortes » ordinava alla popolazione di ostacolare la sua marcia, che però divenne un viaggio trionfale. La Nobiltà ed il popolo si radunavano per festeggiarlo e nella Spagna vi parteciparono persino i Tribunali dell'Inquisizione, mentre gli studenti portavano per le vie effigi di Gesuiti che poi bruciavano davanti alle sedi dell'Ordine, costringendo i rettori ad assistere allo spettacolo.

Quando l'Eroe giunse con il suo piccolo esercito in prossimità di Madrid, il Nithardt invitò la Nobiltà a schierarsi contro di lui con i loro uomini, ma il Consiglio di Reggenza vietò questo passo. Don Juan non aveva fretta; il 9 febbraio giunse a Junquera a circa dieci miglia da Madrid. Si temeva che il popolo si ribellasse e finisse col linciare i ministri ritenuti responsabili delle sue sofferenze, perciò fu soppressa ogni resistenza; il Nithardt persuase il Nunzio Papale di parlare con Don Juan e di chiedergli tempo per altre trattative. Ma il Nunzio ritornò con un messaggio che esigeva l'immediato allontanamento di Níthardt dalla Spagna. Anche il Consiglio della Corona si riunì e fece la medesima richiesta. Il giorno seguente scoppiò la rivolta in tutta la città. La plebaglia circondò il Palazzo a Junto Gobierno vi affisse un bando di espulsione immediata dei Nithardt; la Regina, per ricompensarlo, gli offerse la carica di Ambasciatore in Germania o in Italia, a sua scelta. L'Arcivescovo di Toledo ed il Conte Pennerando vennero incaricati di fare la relativa comunicazione al Nithardt, chi li ascoltò senza rivelare la benché minima commozioni, mettendosi a loro disposizioni.
L'Arcivescovo ed il Principe Maqueda vennero a prenderlo con due carrozze. Nithardt prese posto in una delle due, ma non portò con sè altro che il suo breviario. Durante il tragitto ben tre volte la plebe infuriata tentò di aggredirlo, ma alla visione del Crocifisso che il Cardinali per precauzione aveva portato con sé, arretrò lasciando libero il passaggio.
Il giorno seguente Níthardt si recò a San Agustín, a circa dieci miglia dalla Capitale, e vi rimasi a lungo nella vana speranza di essere richiamato.

Don Juan si ritirò dopo essersi accordato con le autorità che il Nithardt si sarebbe immediatamente dimesso da tutte le sue cariche e che non sarebbe mai più ritornato nella Spagna. Il Nithardt dunque si recò a Roma, dove però non poté presentare le sue credenziali, ne occupare la carica di Ambasciatore. La Regina tentò di ottenergli con astuzia il Cappello Cardinalizio, promesso dal Papa alla Spagna, ma siccome una lettera del Nithardt in cui si lamentava della Santa Sede, era capitata tra le mani del Nunzio, le astute mosse della Regine ebbero per risultato un severo ordine, che imponeva al Nithardt di rinunciare immediatamente alla carica di Capo Inquisitore, a favore di Valaodre.

Quando San Roman, ambasciatore, gli consegnò quest'ordine, il Gesuita svenne e non riprese conoscenza per alcune ore. Il Papa donò il Cappello Cardinalizio a Portocarrero, Canonico di Toledo, e quando la Regina ne venne a conoscenza cadde ammalata per tre giorni. Oliva, Generale gesuita, visto che Nithardt, che già detestava per la sua superbia, era stato privato di tutte le cariche, gli ordinò di lasciare immediatamente Roma e di ritirarsi in un convento.

Filippo V portò con sé lo spirito gallico ed il rispetto della sovranità, ma entrambi non erano conciliabili con la mentalità pretensíosa della Curia e con la posizione pressoché indipendente della Inquisizione. Con i Borboni si iniziava una nuova era nei rapporti tra la Corona ed il Santo Uffizio. Ma alla prima occasione in cui vennero a misurarsi le forze, l'esitazione di Filippo in seguito alle influenze esercitate dai suoi consiglieri, confessori, e da sua moglie rese molto problematica la sua vittoria. Nel 1711 egli scelse alla carica di Capo Inquisitore il Cardinale Giudice, un napoletano poco coscienzioso, ma ambiziosissimo.
Il riconoscimento dell'Arciduca Carlo a Re della Spagna avvenuto nel 1709 ebbe per conseguenza la sospensione dei rapporti diplomatici fra Roma e Madrid, provocati da Papa Clemente XI. Filippo congedò il Nunzio, fece chiudere la Nunziatura e vietò l'inoltro di denaro a Roma.
A questo punto cominciò quell'inimicizia che, con più o meno accanimento, durò quasi un secolo e mezzo. Il Consiglio di Stato incaricò di trattare con la Santa Sede il Procuratore di Stato Melchor Rafael de Macanas, uomo imbevuto di incondizionato rispetto verso i diritti sovrani, il quale perciò era odiato dalla Curia.
Nel frattempo scoppiò una rivolta a Corte. Maria Luisa di Savoia, moglie di Filippo morì l' 11 febbraio del 1714. La Principessa Des Ussines, la quale aveva accompagnato la Regina in Spagna e godeva di molta autorità in quella Corte, si incaricò di trovare una moglie per Filippo, per poterla tenere ancora sotto la sua influenza. Giulio Alberoni, un astuto avventuriero Italiano, vi figurava come Ambasciatore del Principe di Parma. Egli riuscì a persuadere la Principessa Des Ussines che Elisabetta Farnese sarebbe stata la Regina più adatta per la Spagna e così il matrimonio venne contratto.
Elisabetta arrivò il 10 dicembre del 1714 a Pampeluna e vi trovò già l'Alberoni, venuto ad incontrarla per renderla edotta della situazione della Corte di Spagna. Questi avvertimenti ebbero il loro frutto, in quanto che la giovane e superba dama, quando la Principessa Des Ussines giunse per salutarla le ordinò di abbandonare immediatamente il Paese.

Filippo, noto adoratore delle donne, si trovò ben presto dominato dalla sua energica moglie ed Alberoní divenne un ministro onnipotente. Gíndice che aveva consegnato al Re l'umiliante messaggio della Santa Sede, sebbene Filippo lo avesse espulso dal Regno, stava sempre in agguato alla frontiera ed il Re si umiliò innanzi a lui a tal segno da firmare il documento del ripristinamento e gli chiese scusa per essersi lasciato fuorviare dai cattivi consiglieri.
L'Alberoni ed il Gíndice erano di pochi scrupoli ed ambiziosissimi e perciò non poterono a lungo andare d'accordo, ma l'Alberoni, che era il favorito della Regina, riuscì in breve a minare l'autorità del Gindíce. Quest'ultimo che era anche educatore del giovane Principe Luis fu privato dalla sua carica ed il 15 luglio del 1776 venne espulso dal Palazzo Reale e di lì a poco dovette abbandonare la Spagna. Egli si recò a Roma e pose all'ingresso del suo palazzo lo Stemma reale spagnolo.
Tuttavia le sue dimissioni non dovevano tardare molto, perché già nel 1717 il Tribunale di Barcellona riconosceva l'annuncio della Suprema, secondo il quale il Papa avrebbe finalmente accettate le dimissioni ripetutamente presentate dal Cardinal Gindice, nominando come suo successore Padre Dottor Joseph Molines.
Anche Alberoni era riuscito ad ottenere il Cappello Cardinalizio, da molto tempo ambito, ma la sua vittoria fu di breve durata. Il confessore del Re, Padre Robinet, fu sostituito da un altro Gesuita, Padre Daubenton, che intrigava tanto segretamente e con tale successo contro l'Alberoni che questi seppe la sua caduta soltanto da un Decreto Reale, col quale gli veniva intimato di allontanarsi entro otto giorni da Madrid e di abbandonare entro tre settimane la Spagna.

Non risultano ulteriori ingerenze reali nelle questioni dell'Inquisizione, fino al 1761, quando Papa Clemente XIII' ritenne opportuno disapprovare il Catechismo di Messengui, che a quanto pare negava la supremazia del Papa sui Re. La discussione, svoltasi a Roma, su questo argomento interessò tutta l'Europa e la messa all'indice del libro venne considerata come una provocazione contro i Regnanti. Carlos III seguiva con particolare interesse il dibattimento, principalmente perché anche suo figlio era stato educato con quei principi.
Carlos III non ebbe altra occasione di esercitare i
suoi diritti di sovranità, ma non fu così con Carlos IV. Il suo primo incaricato a Capo Inquisitore, Manuel Abady la Sferra, Vescovo di Astroga, che occupò il suo ufficio nel 1793 poté conservarlo solo per breve tempo, poiché già dopo un anno veniva invitato a rassegnare le dimissioni. Nemmeno il suo successore, Francisco Antonio de Lorenzana, Principe Arcivescovo di Toledo, il quale entrò in carica nel settembre del 1794 fu più fortunato, sebbene le sue forzate dimissioni fossero decorosamente velate dall'incarico di trovare a Papa Pio VI un asilo a Maiorca. Fu seguito nella carica di Capo Inquisitore da Ramon José de Arce y Reynoso Arcivescovo di Saragozza, il quale diede le sue dimissioni il 22 marzo 1808, quattro giorni dopo la detronizzazione di Carlos, alla rivolta dei servi ad Aranjuez, probabilmente per non essere coinvolto nell'odio che si manifestava contro il suo favorito Godoy.

Nel corso della breve rinascita dell'Inquisizione, questa aveva troppo bisogno dell'appoggio del potere Reale per provocare divergenze di vedute che avrebbero provocato l'applicazione dei diritti sovrani.
Il rapporto della Suprema alla Corona fu originariamente identico a quello degli altri Consigli Reali. Il potere reale si manifestò maggiormente quando Filippo III, nel 1614, ordinò alla Suprema di riservare un seggio in soprannumero al suo confessore, frà Alliaga, che doveva avere la precedenza gerarchica e ricevere un onorario di quindici ducati. Nello stesso tempo il Re pattuì che tale seggio dovesse restare sempre riservato ai confessori reali, qualora essi appartenessero all'Ordine dei Domenicani. La Suprema, pur accettando di buona grazia l'Alliaga, fu contrariata dalle altre condizioni e quando Serma pretese decisamente che il desiderio del Re fosse messo a verbale, il consenso fu dato non senza un'espressione di generale malcontento.

Filippo IV dopo la sua ascesa al Trono ordinò che il Consiglio desse posto al suo confessore, il Domenicano Sotomayor, ciò che la Suprema fece dopo una vana opposizione. La clausola prese carattere stabile quando, sotto la Restaurazione, l'Inquisizione venne riorganizzata e nel 1815 fu nominato Cristobal de Bencomo, confessore di Ferdinando VII mentre Filippo V diede ordine che un seggio venisse sempre riservato da un padre Gesuita. Quest'ultimo ordine fu naturalmente abrogato con l'espulsione dei Gesuiti, ma nel 1718 Carlos III' dispose che a quel seggio dovessero avvicendarsi componenti dei vari ordini, senza preferenze. Anche questo fu accettato di malagrazia, ma il malcontento scoppiò quando ad Olivarez piacque di proporre al seggio riservato a nomina reale, suo nipote, un giovane ecclesiastico, secondogenito del Principe Cardona.
La Suprema non voleva nemmeno saperne, perché il giovanotto non aveva compiuto ancora i trent'anni ed il limite di età degli Inquisitori era di quaranta. Il contrasto prese tali proporzioni che la stessa Principessa Cardona scrisse a suo figlio di ritirare la domanda, ma il Re non cedette ed il giovane ecclesiastico venne così nominato e nell'anno seguente fece la sua apparizione anche al Consiglio Reale. Questo fatto caratterizza il sistema di governo di Olivarez.

Nel 1599 Filippo III aveva dato il consenso a diversi postulati della « Cortes » di Barcellona; uno di questi regolava il numero delle persone al servizio dell'Inquisizione, mentre l'altro pretendeva che tutti i dipendenti ad eccezione degli inquisitori fossero di origine catalana. Il Re accondiscese e scrisse alla Suprema di sottoporre queste pretese al Consiglio. Ma la Suprema non diede seguito a questo, finché Filippo, nel 1603, rinnovò la sua ingiunzione; ma anche questo secondo avvertimento ebbe la stessa sorte del primo. D'altronde non é men vero che Filippo IV° asseriva che Filippo III avrebbe dato il consenso a queste richieste soltanto per tranquillizzare i Catalani, mentre in segreto avrebbe egli stesso chiesto al Papa di non approvarli.

Un altro cambiamento che grandemente contribuì ad aumentare l'indipendenza dell'Inquisizione era la facoltà di disporre senza limiti del proprio patrimonio. Come abbiamo visto, sotto Ferdinando i beni sequestrati degli eretici spettavano alla Corona e le spese amministrative e le retribuzioni dei dipendenti dell'Inquisizione dovevano essere liquidate dalla stessa Corona.
La questione dell'amministrazione patrimoniale giunse ad una sistemazione definitiva soltanto dopo alterne vicende. Persino Ferdinando, che sorvegliava attentamente l'attività dei tesorieri, riconobbe la necessità di istituire la carica di un amministratore centrale per i beni sequestrati e nulla di più naturale che questa carica fosse ricoperta da un membro della Suprema. Quando nel 1513 il Vescovo Mercader divenne Capo Inquisitore dell'Aragona, il Re pretese un resoconto da tutti i tesorieri ed esattori.

Quando Re Carlo, nel 1520, abbandonò la Spagna, diede analoghe disposizioni al Capo Inquisitore Adriano, che, a quanto pare però trovò resistenza da parte della Suprema, la quale dubitava che egli avesse avuto tale incarico, poiché il Re si trovò più tardi costretto a ripetere la raccomandazione da Bruxelles. Quando Carlo ritornò si occupò personalmente del controllo patrimoniale, mentre dopo il suo matrimonio con Isabella di Portogallo, dopo le sue frequenti assenze, autorizzò la Regina ad espletare tali funzioni.
Tuttavia, nonostante le molte formalità, questa sorveglianza della Corona divenne nominale. Infatti il Cardinale Manrique nel 1537 dichiarava che senza il consenso reale non sarebbe stato possibile aumentare gli onorari degli Inquisitori, ma invece, quando la Corona tentò di immischiarvisi i suoi desideri non furono presi in considerazione. Tutto ciò condusse poco alla volta alla completa indipendenza patrimoniale dell'Inquisizione. Quando Filippo III salì al Trono, la Tesoreria era pressoché vuota ed egli perciò ordinò

 

Per sentenza dell'Abbadessa Francoise de Lerme, la monaca Dolores, trovata in possesso d'una Bibbia Luterana, era stata condannata al digiuno perpetuo. Lacerata dai crampi della fame, è vicina a morte. Il sacerdote legge le preghiere in « articulo mortis » e le impartisce la benedizione del Cielo.

 

all'Inquisizione di liquidargli immediatamente una somma di danaro dai suoi fondi.
Sotto il regno di Filippo IV la tendenza a rendersi indipendenti finanziariamente da ogni ingerenza reale aumentò sempre più. Tuttavia la Corona trovandosi continuamente a corto di mezzi, continuò ad avanzare delle pretese che dovevano essere soddisfatte. Con l'andare del tempo queste pretese divennero sistematici contributi annui, che però la Suprema non si faceva premura di liquidare, tanto che risulta da una lettera del 1662 che essa era in arretrato di un anno.
Era ovvio che la Corona non potesse accettare questo appoggio finanziario, senza perdere in parte la sua supremazia e quindi a poco a poco l'Inquisizione si considerò a parità del Sovrano. Infatti nel 1725 l'Inquisizione espresse la sua preoccupazione che l'alleanza con l'Austria contro Inghilterra, Francia e Prussia, avrebbe avuto per conseguenza che l'Inquisizione spagnola sarebbe stata costretta al rimborso delle confische, flagello che pare avvenisse nel 1727, poiché quando in una riunione della Suprema venne illustrato il grande impoverimento dell'Inquisizione, ciò venne attribuito al fatto che il Re si era appropriato dei patrimoni confiscati sebbene avesse garantito di non farlo.

Ma col lento miglioramento della situazione finanziarla della Nazione, la Corona dovette restituire questi proventi, poiché risulta dagli scritti del 1768 che l'Inquisizione era rientrata in possesso dei patrimoni confiscati, cedutile dalla magnanimità del suo Sovrano.
I penitenti che ottennero il decreto di grazia non subirono la confisca dei beni, ma vennero condannati ad una ammenda, nella misura stabilita dagli inquisitori. Queste ammende però non erano lievi, poiché ammontarono per lo più ad un terzo ed anche alla metà dei rispettivi patrimoni.
Allìinizio queste ammende furono inflitte sotto forma di obolo per appoggiare i Regnanti nella loro opera di devozione consistente nelle guerre contro i Mori, ma già nel 1464 il Torquemada aveva modificato il procedimento, determinando che questi contributi dovessero essere versati a persona fidata che li avrebbe tenuti a disposizione del Re o di qualche istituzione religiosa.

Sebbene come abbiamo visto l'indipendenza dell'Inquisizione dipendesse più o meno dalle disposizioni e dalle necessità del Sovrano, tuttavia vi furono momenti in cui parve che essa dovesse liberarsi da ogni controllo, dominando da sola il Paese. Se Ferdinando non avesse avuto la saggezza di riservarsi il diritto di assunzione e licenziamento degli inquisitori, sarebbe potuto avvenire con molta facilità, dato il temperamento del popolo spagnolo, tutto preso da una esaltazione di odio contro gli eretici, che non si potesse più contare nemmeno nella tradizionale devozione degli Spagnoli verso il Sovrano e che essi arrivassero a rovesciare il Trono di un Re sospetto di eresia.

I regnanti difesero l'Inquisizione da ogni genere di controllo e la esonerarono dalla responsabilità verso tribunali civili ed ecclesiastico. Essa divenne di conseguenza sovrana sul proprio terreno d'azione, ebbe un potere assoluto e diritto di intromettersi nelle questioni di numerosi tribunali civili. Questa indipendenza é unica nel suo genere, nella Storia.
Sotto il regno dell'inetto Carlos II il governo dei suoi deboli ministri, l'ambizione di dominio dell'Inquisizione aumentò ancora ed essa riuscì a scansare con abili mosse il forte movimento delineatosi
contro di essa nel 1696, alla « Junta Magna ». Però con l'avvento al potere della Casa di Borbone essa fu costretta a riconoscere la propria sottomissione al potere reale, nelle questioni temporali, benché Elisabetta Farnese avesse parlato nell'interesse del Capo Inquisitore Gindice.
Come avremo occasione di vedere in seguito, sotto il Regno della Casa Borbone, apportatrice di idee galliche, che comportavano l'incondizionato potere dei Sovrani, venne effettivamente riconosciuta la inferiorità dell'Inquisizione, inquantoché venne ristretta la sua competenza giuridica e la sua influenza diminuì notevolmente.

LA SUPREMAZIA DELL'INQUISIZIONE


Quando l'Inquisizione osò mettersi a parità coi Sovrani, essa doveva affermare necessariamente la sua supremazia sulle altre corporazioni dello Stato. Essa poté conquistare la Spagna con la teoria zelantemente enunciata dalla Chiesa nel Medio Evo, secondo la quale il primo dovere del potere civile era quello di conservare la purezza della Fede e di estirpare con ogni mezzo l'eresia e gli eretici.
Abbiamo già accennato che l'Inquisizione, alla sua costituzione, esigeva un giuramento di obbedienza da ogni funzionario civile e quando un nuovo inquisitore entrava in funzione, portava con se delle lettere reali che ingiungevano, a tutti i funzionari, cominciando dal Vice-Re di porgere ogni aiuto al nuovo inquisitore, non opponendosi alle sue sentenze di arresto, sotto pena di una ammenda di cinquemila fiorini d'oro per i renitenti.
Questo veniva reso pubblico dal Vice-Re, a suon di corno, per tutta la città. Non era una pura formalità, perché quando Barrientos, Cavaliere di Santiago, osò affermare che non era necessario appoggiare il personale di Inquisizione nell'eseguire gli arresti, gli fu inflitta la scomunica e gli ordinarono di presentare le scuse al Capo Inquisitore.
Effettivamente il Cavaliere promise di comparire all'auto da fé, come penitente, per ascoltare la messa in ginocchio, con la candela accesa tra le mani.
E come se ciò non bastasse poco tempo dopo in ogni città dove risiedeva l'Inquisizione si pretese un voto dai funzionari, secondo il quale essi promettevano di fare opera di proselitismo per la Religione Cattolica, di perseguitare tutti gli eretici ed i loro simpatizzanti, deferendoli all'Inquisizione; inoltre di non dare impieghi a tali persone, né di accoglierli nelle loro case; di eseguire coscienziosa
mente ogni sentenza pronunciata dall'Inquisizione, di rimanere figli fedeli di Dio, della Chiesa Romana e dell'Inquisizione.

Ma nemmeno con questo si accontentarono e per imprimere maggiormente la disciplina, in ogni auto da fé, al quale presenziavano d'obbligo notabilità e popolo, nonché all'annuale lettura dell'Editto di Fide, alla quali doveva pure presenziare tutta la popolazione, uno dei cancellieri dell'Inquisizione, tenendo in alto il Crocifisso rivolgeva al pubblico li seguenti parole
- "Alzate le mani, affinché tutti vedano il vostro giuramento su Dio, sulla Santa Vergine, su questo Crocifisso, sul Santo Vangelo e sull'Inquisizione di difendere la Santa Religione Cattolica, la Santa Inquisizione, tutti i suoi membri ed incaricati: di denunciare ogni eretico ed i loro protettori e difensori nonché ogni nemico del Santo Uffizio; di non nasconderli, di non aiutarli, ma di deferirli all'Inquisizione! E quelli chi non agiranno così, siano colpiti dal Signore come spergiuri e miscredenti. Rispondete tutti con « Amen ».

Quando ad un auto da fé presenziava anche il Sovrano questo giuramento generale non era sufficiente ed il Sovrano doveva fare un giuramento separato. Così nel 1559 a Valladolid il Capo Inquisitore Valdés fece giurare la regina Juana, mentre nel 1632, il Capo Inquisitore Zapata si portò sotto la finestra, dove sedeva Filippo IV e tenendo tra le mani il libro da messa ed il Crocifisso gli fece giurare su essi che, vita natural duranti, avrebbe difesa e protetta la santa Religioni Cattolica ed aiutata l'Inquisizione. Questo giuramento venne poi letto ad alta voce al popolo e con ciò tutta la Nazione fu obbligata in un vincolo solenne, all'incondizionata obbedienza ed al riconoscimento di tutti i diritti dell'Inquisizione.

Il carattere di pura formalità delle attività dei funzionari civili, in tutte le questioni riguardanti l'Inquisizione, viene ampiamente illustrato dal seguente avvenimento: sotto Filippo V in un auto da fé, tenutosi a Barcellona nel 1715, l'accusato fu condannato per bigamia, a cento scudisciate. Era già stato informato il giustiziere di tenersi pronto, quando il Marchese Castil-Rodrigo, Vice-Re, vietò l'esecuzione della pena. Seguirono lunghi discussioni ed infine
il Marchese dovetti cedere e la sentenza venne eseguita. La Corte Marziale comunicò il fatto alla Suprema, la quale a nome del Re espresse i ringraziamenti al Vice-Re per la sua obbedienza.

Un altro mezzo estremamente efficace dell'Inquisizione era la facoltà incondizionata di arrestare. Quando un inquisitore voleva soddisfare il proprio sentimento di vendetta, nei confronti di qualche nemico, bastava che dichiarasse che aveva offeso la Religione per farlo imprigionare immediatamente. Nessuno si curava poi del seguito della questione. La macchia dell'arresto rimaneva in eterno, non soltanto sull'arrestato, ma anche su tutti i suoi discendenti. Appunto per questo la facoltà di poter liberamente arrestare era un'arma terribile nelle mani degli inquisitori, che spiega il terrore che essi suscitavano in ogni persona.

Nella gerarchia dello Stato i Vice-Re ed i governatori seguivano immediatamente il Sovrano, come suoi rappresentanti. La degradazione di questi alti gerarchi era uno degli scopi principali degli inquisitori. Nel 1588 suscitò grande indignazione a Lima che gli inquisitori pretendessero maggiori onori che non quelli accordati al Conte Ville Vice-Re del Perù, insistendo tanto nella loro pretesa che finirono per scomunicarlo, perché egli non cedette.
La continua esibizione della supremazia della Inquisizione era umiliante anche per i vescovi i quali ragionavano che mentre il Santo Uffizio era stato introdotto appena quattrocento anni prima nel Paese, essi avevano occupato il seggio vescovile fin da secoli addietro. Ma l'Inquisizione era ben organizzata, mentre i vescovadi erano dispersi ed incapaci di difendersi. Questo continuo dissidio provocò molte scenate scandalose.

La prepotenza dell'Inquisizione arrivò al punto di pretendere persino dei mutamenti nel rito della Messa, fatto che provocò a Cordova un terribile scandalo. Nessuna delle parti voleva cedere e così la funzione dovette essere sospesa. Gli Inquisitori tentarono di infliggere la scomunica al Capitolo, ma il Clero fece un tal baccano, frantumando persino i banchi della chiesa, che gli inquisitori dovettero retrocedere dinanzi all'uragano, borbottando e calandosi il cappuccio sugli occhi.
Il giorno seguente accusarono dinanzi al Re i Canonici, con un atto di accusa che si estendeva per cinquantasei pagine. Ma Filippo a quel tempo aveva ben altri pensieri, per l'allontanamento di Olivarez e per la repressione della rivolta in Catalogna ed in Portogallo.

La posizione dell'Inquisizione cambiò sotto i Borboni ed il fatto notevole é caratterizzato dal seguente avvenimento: ai festeggiamenti dell'Incoronazione di Ferdinando VI a Granada, nel 1747, la Cancelleria notò che l'Arcivescovo stava seduto nella finestra dei suo Palazzo, su una sedia rivestita di seta rossa, mentre gli inquisitori avevano posto alle finestre da loro occupate, dei cuscini. La Cancelleria mandò immediatamente un incaricato nel palazzo per far togliere i cuscini, che facevano pensare ad una particolare distinzione degli inquisitori rispetto all'Arcivescovo. Siccome gli inquisitori con una risposta prepotente si rifiutavano, la Cancelleria sospese immediatamente la Corrida, revocando tutti i festeggiamenti.
La questione fu portata dinanzi al Re e la Suprema presentò una vivace protesta, perché i membri dei Santo Uffizio non fossero privati dei loro privilegi riconosciuti da secoli, adducendo che l'Inquisizione era il Supremo Foro della Giustizia, non soltanto nella Spagna, ma in tutto il mondo e che essa era la custode della vera Fede, la più solida base di ogni reame e di ogni repubblica. Dopo uno scambio di idee svoltosi nel Consiglio della Corona, riunitosi al completo, il Re emise un decreto col quale informava la Spagna che l'Inquisizione non era più quella che era sta a un tempo.
Ciò che era maggiormente urtante nella intangibilità pretesa dalla Inquisizione era il fatto che essa estendeva l'immunità anche ai suoi dipendenti e persino ai suoi servi.

Miguel de Medina, uno dei più eminenti scienziati di quei tempi, dichiarò in una pubblica predica, ingiusta la sentenza pronunciata dalla Inquisizione contro un suo compagno di Ordine, che era stato imprigionato. Egli qualificò l'azione come un peccato mortale, paragonandola a quella commessa contro San Gerolamo e Sant'Agostino, che furono pure vittime della vendetta dei loro confratelli, osando dire anche che il Capo Inquisitore Espinoza sarebbe andato all'Inferno se non si fosse pentito del suo fallo. Gli inquisitori si vergognarono e tentarono di alleggerirsi delle responsabilità giustificandosi con testimonianze.
La predica del frate era un'aperta ribellione al Santo Uffizio e non si riesce a comprendere come l'audacia del Francescano abbia potuto rimanere impunita. Infatti, messo dinanzi al Tribunale di Toledo, fu condannato ad un semplice rimprovero e gli fu vietato di ritornare a Madrid. La sentenza venne approvata anche dalla Suprema. Vedremo, in seguito per quali ragioni un altro frate, Francisco Ortiz, che commise un'analoga offesa non sia stato giudicato con la stessa clemenza.

CARICHE E PRIVILEGI


Prima che la rivoluzione introducesse l'uguaglianza, le differenze di classe erano la base dell'ordine sociale. I maggiori tributi erano pagati dalle classi meno abbienti. La completa esenzione degli ecclesiastici era stata già decretata da Papa Bonifacio VIII e sebbene Filippo V, col Concordato del 1737, abbia ottenuto il diritto di imporre le tasse a coloro che avessero acquistato in seguito degli immobili, l'esazione di questi proventi rimase sempre molto problematica. Questi esempi illustrano l'intricata posizione della questione fiscale in Spagna.

Quando nel 1691 fu votato il « Mediameta » cioè la tassa sugli stipendi semestrali, sorse un'accanita discussione sulle possibilità di applicare questa imposta anche agli inquisitori. Ma la discussione terminò affermativamente e nemmeno la Suprema protestò contro il provvedimento, poiché il provveditore alle imposte Sala de Media Anata, fu sostituito da Gabriel Artiz de Sotomayor il quale era raccomandato dal Capo Inquisitore, Zapata, e quando dopo qualche anno l'Artiz fu nominato Vescovo di Badajoz, lo stesso Capo Inquisitore assunse la carica.
Sotto il Regno dei Borboni anche i dipendenti dell'Inquisizione furono tassati perché la guerra di successione era costata molto danaro. Filippo impose il cinque per cento del loro stipendio, ciò che furono costretti ad accettare. Non vi erano eccezioni di sorta ed i ricorsi furono trasmessi al Consiglio dei proventi erariali. L'unica facilitazione ottenuta dalla Suprema fu di esercitare un controllo sull'applicazione delle imposte.
Verso la fine del secolo XIII' l'Inquisizione cominciò a rinunciare ai suoi diritti di trattamento speciale. Il Santo Uffizio si sottomise di nuovo alle tasse ordinarie e straordinarie ed anche la Suprema
avvertì il Tribunale che non si sarebbe più immischiata nelle questioni fiscali.

Nel 1508 Ferdinando aveva abrogato l'ordine che permetteva la libera importazione delle merci, ciononostante dovunque si praticava il contrabbando. Quando Blas Ortis, nel 1540, occupò la sua carica di Capo Inquisitore, la Suprema gli rilasciò un passaporto che lo autorizzava a varcare la frontiera con tre cavalli e con quattro muli da carico. Sebbene fosse concesso agli ufficiali di dogana di chiedere il giuramento che quanto egli portava con sé era di proprietà privata e non mercanzia, tuttavia era ad essi vietato sotto pena di scomunica di procedere alla verifica. In tal modo era molto facile praticare il contrabbando, perché nonostante le lagnanze rimase fermo il divieto di controllare gli oggetti sacri dell'Inquisizione.

Nel 1606 i Diputados dell'Aragona annunciarono all'autorità che, nonostante la loro rigorosa sorveglianza, in esecuzione della legge che vietava la esportazione del frumento, risultava che grandi quantitativi di questa mercanzia venivano esportati verso la Valencia, a danno del Paese, sotto la scorta di reparti armati che erano in possesso di un lasciapassare.
Oltre a molte altre istituzioni per il bene comune, lo Ximenes aveva istituito nel 1512 un granaio cittadino, a Toledo, dove la cittadinanza, nei tempi di scarsità poteva acquistare il proprio fabbisogno a prezzi ridotti. Anche in altre città, come ad esempio a Valencia, erano stati istituiti simili granai, monopolizzando completamente il commercio del grano. Se l'affare si chiudeva in perdita, questa veniva coperta con una tassa speciale detta « pan asegurado », ma i dipendenti dell'Inquisizione godevano di un trattamento speciale a tale riguardo. Essi avevano anche un altro privilegio in comune con l'Arcivescovo e col Vice-Re. Il loro fornaio poteva entrare ogni mattina per primo nel granaio e prelevare un sacco di frumento (trigo fuerta) e, una volta alla settimana, tre quintali e mezzo (trigo candeal) e per questi quantitativi pagava soltanto un modestissimo dazio di consumo.
Questi quantitativi venivano macinati e si preparava il pane per i dipendenti dell'Inquisizione e per i detenuti in un formato speciale. Ciò dimostra che gli uomini dell'Inquisizione, non solo ottenevano il pane gratuito, ma anche un quantitativo eccedente. Già nel 1609 le autorità comunali tentarono di porre fine a questo abuso, ma senza successo. Finalmente nel 1627 si decisero a vietare al fornaio l'ingresso nel granaio: la Suprema, offesa, sporse lagnanza al Re ricordandogli i grandi servizi resi a Dio dal
l'Inquisizione.
Filippo rispose che non avrebbe permesso che fossero menomati gli antichi diritti delle città.

Durante il regno di Luigi XIV le famiglie ugonotte ebbero l'imposizione di alloggiare i suoi soldati, detti Dragonnades, poiché questo si dimostrò un ottimo mezzo di conversione. Le numerose ribellioni dimostrano quanto malvolentieri la borghesia si assoggettasse. Anche la rivolta catalana del 1640 fu causata dagli eccessi dei soldati accantonati, i quali, non avendo sufficiente legname da fuoco, finirono persino a bruciare i banchi delle chiese Rio de Arenas e Montiro. Sempre per lo stesso motivo furono massacrati nel 1705 a Saragozza i soldati francesi al servizio di Filippo V.
Siccome il Governo spagnolo era sempre in arretrato col soldo dei militari, é facile immaginare quale prezioso privilegio era costituito dall'esonero dall'obbligo di alloggiamento. Sin da principio potevasi attendere che l'Inquisizione sarebbe stata esonerata da questo gravame, poiché ciò era già privilegio degli Hidalgos. Il primo riferimento a questo esonero si trova negli scritti del Capo Inquisitore Valdes, il quale, nel 1548, ordinava che su quelle case abitate da inquisitori o dai dipendenti dell'Inquisizione non venissero affissi i cartelli di alloggiamento militare.
La decisione con cui l'Inquisizione combatté per questo suo privilegio è caratterizzata da un avvenimento del 1695. Il Capo Inquisitore di Barcellona comminava una multa di duecento libbre al consigliere comunale, se avesse osato di assegnare un alloggio militare nella casa campestre del portiere dell'Inquisizione, dove non alloggiava nemmeno quest'ultimo, ma un agricoltore.

La guerra di successione provocò nuove esigenze ed il cambiamento della Dinastia anche a questo riguardo fu tutt'altro che vantaggioso per l'Inquisizione. Un decreto reale del 1706 abrogò tutti i privilegi. La Suprema dapprima accettò i cambiamenti, ma nel 1712 ritornò a protestare finché il Re finì col riconoscere nuovamente i privilegi accordati dai suoi predecessori, dichiarando però che nei momenti di carestia non si potevano fare eccezioni per nessuno. Ciò era più una questione finanziaria che non una vessazione poiché fu adottato il procedimento che chiunque avesse pagato il cuertel, cioè contributo di alloggiamento, sarebbe stato esonerato dal fastidiosissimo obbligo di alloggiare soldati.
L'Inquisizione per due secoli si era abituata ad ubbidire o rifiutare l'obbedienzà all'ordine reale, secondo il proprio piacere e di tiranneggiare liberamente con le autorità locali. Infatti essa dichiarava in una sua lettera del 1737, che il suo personale non era tenuto
ad alloggiare soldati, né a mettere a disposizione del Governo bestie da soma. Eccettuato nei casi di estremo bisogno quando non si poteva fare eccezione per alcuno, Filippo aveva risposto che qualora le case della borghesia non fossero sufficienti si poteva valersi per il collocamento delle truppe anche delle case degli Hidalgos e della nobiltà.

L'Inquisizione si mantenne attaccata ai suoi privilegi, finché Carlos III non le impose di cessare le sue eterne minacce. I tempi non erano più favorevoli per i privilegi e nel 1805 il Primo Capitano di Catalogna lanciò un editto alla città ove dichiarava che i dipendenti dell'Inquisizione non erano più esenti dall'inquartieramento. In seguito a ciò le autorità inviarono militari nelle loro case col severo ordine di consegnare immediatamente il numero prescritto di bestie da soma. Nel 1807 seguì anche un Decreto Reale che poneva con rigore i limiti dei privilegi ancora in vigore. Ma nel frattempo venne l'invasione napoleonica e negli scritti della restaurazione non si trovano nemmeno le tracce del ripristino di questi privilegi.

Vi era un contrasto alquanto buffo tra la pretesa bellicosa dell'Inquisizione del porto d'armi per i suoi membri e dipendenti, e quella del completo esonero del servizio militare. Secondo l'antica legge gli impiegati regolarmente stipendiati, i medici chirurgi ed i maestri erano esonerati dal servizio militare e perciò l'Inquisizione riteneva naturale che questo beneficio spettasse anche a lei. Ma nel 1560 il Borgomastro di Cordova richiamò all'arruolamento tutti i dipendenti del Santo Uffizio.
Nei tempi torbidi del secolo XVI quando l'esistenza della Spagna era minacciata, risorse di nuovo la questione dei dipendenti e servi dell'Inquisizione e la Suprema si affaticava a difendere entrambe le categorie. Nel 1636-38 i Borgomastri di diverse città si rifiutarono di fare eccezioni, ma Filippo decise per l'esonero. Quando scoppiò la rivolta nella Catalogna e nel Portogallo e le risorse del Paese cominciavano ad esaurirsi il Governo sospese ogni trattamento di favore. Con un Decreto reale del 1641 Filippo dichiarò che la guerra aveva carattere religioso, poiché i ribelli avevano stretto alleanza con delle Nazioni dove era largamente diffusa l'eresia. Ordinò pertanto al Capo Inquisitore Sotomayor di convocare tutti i suoi dipendenti e servi per il servizio militare munendolo di ampi poteri per eseguire l'ordine.
Il Capo Inquisitore non protestò, poiché anche questa volta si trattava piuttosto di una questione finanziaria che di una effettiva prestazione militare. Venne dunque disposto che il servizio militare
venisse compensato con una somma di denaro che la Suprema non ebbe difficoltà a versare alla Tesoreria.

Non é difficile rintracciare le origini del privilegio, secondo il quale gli stabili dell'Inquisizione dovevano essere considerati come Santuari, dove la polizia civile non poteva penetrare. L'usanza di dare asilo nelle chiese ai delinquenti era diffusain tutta l'Europa e la Spagna non faceva eccezione. Ancora nel 1737 era necessaria una sanzione del Papa per poter derogare da questa regola nei confronti degli assassini, briganti e traditori della patria. È alquanto strano dunque che l'Inquisizione non abbia insistito nel suo diritto di asilo, considerando l'importanza che ebbe nelle sue funzioni la segretezza. Fino alla metà del secolo XVI le richieste di estradizioni delle autorità civili furono nettamente respinte, ma più tardi si rintraccia in uno scritto del Capo Inquisitore Tavera una dichiarazione secondo la quale egli avrebbe appreso, con grave disappunto, che certi assassini erano stati accolti e difesi nel Castello di Triana, sede del Tribunale e che non era stato permesso alla polizia il sopralluogo. Sempre secondo il Tavera sarebbe stato giusto di non accordare asilo a tali criminali nella sede dell'Inquisizione, il portiere avrebbe dovuto scacciarli ed in caso che si fossero ostinati avrebbe dovuto fare subito rapporto alle autorità. Questi abusi furono apertamente disapprovati nel concordato di Valencia del 1554 il quale dichiarava che, siccome l'Inquisizione non aveva diritto di asilo, non poteva difendere coloro che si rifugiavano nei suoi palazzi.
Uno strano contrasto è dato dalla « Concordias » dell'Aragona, imposto dalla «Cortes» del 1646, la quale diminuiva in diversi modi i vari privilegi dell'Inquisizione e tuttavia riconosceva questo dubbio diritto di asilo. Riguardo agli stabili dell'Inquisizione, un avvenimento scandaloso del 1638 dimostra a quale punto si fosse arrivati a dispetto dell'ammonimento rivolto da Tavera al Tribunale di Sevilla. A Maiorca un certo Conte Ayamano, alla testa di una banda assassina, commise il sacrilegio di scavalcare le mura di un convento di monache allo scopo di uccidere sua moglie che vi aveva trovato rifugio. Filippo fece di tutto per far catturare l'assassino, ma quegli con otto suoi compagni fuggì a Barcellona dove trovarono rifugio nella sede dell'Inquisizione, negli appartamenti dell'inquisitore Cotoner, che era zio del Conte.

Si ottiene un fosco quadro della situazione giudiziaria del tempo, visto che i migliori dotti in giurisprudenza non seppero risolvere la questione. Filippo riunì la Junta per consigliarsi sul modo di catturare i malfattori, senza provocare uno scandalo a danno della Inquisizione. Il risultato dei parlamentari fu evidentemente quella lettera che la Suprema diresse al Cotoner, invitandolo, qualora volesse aiutare suo nipote, di farlo fuori dall'edificio dell'Inquisizione, per evitare che vi penetrassero i soldati del Re con gravi conseguenze. Ma questo ammonimento non impressionò l'ostinato Cotoner, cosicché due settimane dopo la Suprema gli fece pervenire una diretta diffida del Re. Purtroppo non ci é dato di sapere come la questione si sia risolta, ma dato che la Suprema, invece di procedere con rigore contro il Cotoner, si mise a contrattare con lui, si può supporre che l'asilo offerto dall'Inquisizione abbia salvato la vita al malfattore.

Da quanto si é detto risulta che il Santo Uffizio, con le sue eterne pretese di trattamento particolare, era un fattore molto inquietante della vita politica. Ma l'origine della maggior parte dei conflitti era costituita dalla sua tendenza per una giurisdizione del tutto particolare, non solo nei confronti del proprio personale, ma anche nei confronti della popolazione.

 

ANTITESI DI GIURISDIZIONI


Per poter comprendere la pretesa dell'Inquisizione di giudicare esclusivamente sui suoi dipendenti é necessario tener presente che sin dal Medio Evo ogni Ecclesiastico era indipendente dalla giustizia civile e sottomesso solo alla giurisdizione ecclesiastica. Ciò condusse in realtà all'impunità dei reati, da un lato perché il Tribunale ecclesiastico non poteva emettere sentenze di morte, dall'altro perché la Chiesa favoriva in tutti i modi i reverendi.
Tuttavia era impossibile limitare l'azione dell'Inquisizione entro i limiti della sua competenza. Perciò Ferdinando fu costretto a ripetere nel 1502, dinanzi al Tribunale del Santo Uffizio, il suo veto, dato le continue lagnanze dei Diputades. Se, sotto il controllo permanente di Ferdinando, l'Inquisizione aveva già trasgredito frequentemente i limiti delle sue competenze, si può facilmente immaginare quanto più lo abbia fatto sotto il regno dei suoi inetti successori.

Le autorità civili, soltanto a malavoglia, riconoscevano l'immunità del personale dell'Inquisizione e vi fu un tempo in cui il Tribunale civile si pose a far giustizia energicamente. Per esempio, nel 1565, due ufficiali della polizia di Barcellona arrestarono in una casa di tolleranza un certo Mexia, servo di un inquisitore, per eccessi commessi contro una donna. Egli fu rinchiuso in un carcere sotterraneo come un eretico e poi espulso per tre mesi dal paese.
Sebbene la Navarra appartenesse al Reame di Castiglia la validità della «Concordias» vi fu estesa soltanto nel 1667 con Decreto reale. Le questioni in discussione che agitarono tanto le altre regioni della Spagna, sembra che non fossero sorte colà, poiché la Storia non ne fa cenno.
Nei Reami dell'Aragona vi erano assai maggiori torbidi che
nella Castiglia poiché in questi paesi si trovavano ancora delle istituzioni in grado di opporsi contro le trasgressioni e lottare per la loro soppressione.

Abbiamo già visto con quale avversione abbia accolto l'introduzione dell'Inquisizione, il popolo dell'Aragona e con quanta energia esso abbia lottato nelle « Concordias » del 1512 e 1520, ottenendo anche certe garanzie scritte, delle quali però la Inquisizione, con l'abituale malafede, non tenne alcun conto. L'eccitamento e l'ostilità divennero cronici nel paese ed ebbero il risultato che furono negate al popolo aragonese perfino le piccole facilitazioni concesse alla Castiglia, con la motivazione che il carattere del popolo e la vicinanza dell'eretica Francia avrebbero reso necessario il rafforzamento della posizione del Santo Uffizio, con maggiori privilegi che non negli altri paesi spagnoli.
Fra i Reami era la Castiglia che dava meno preoccupazioni, tuttavia nel 1540 si verificarono dei casi che caratterizzavano il terrorismo, sotto il quale i Giudici reali dovevano fare il loro dovere. Il Dottor Fesser, uno dei Giudici di Tortosa, presentò un ricorso al Capo Inquisitore Tavera in cui esponeva che nell'anno precedente aveva condannato a morte un assassino che si era ben meritata questa sentenza severa. Ma ora che l'Inquisitore aveva fatto il suo ingresso nella città i suoi nemici asserivano che l'assassino era un dipendente del Santo Uffizio e diffondevano la voce che il Capo Inquisitore lo avrebbe messo sotto accusa. Se egli avesse sbagliato nella sentenza avrebbe accettato di buon animo il castigo; pregava soltanto di non sottometterlo all'onta della procedura penale. Su questa supplica la Suprema rispose con l'ordine all'inquisitore di designare i testimoni, i quali potessero far luce sulla questione e, solo dopo di ciò, di rispondere alla supplica del Giudice.
Era evidente perciò che tutti i giudici vivevano in un continuo terrore e che, per la loro onesta attività, venivano trascinati in critici conflitti con la giurisdizione dell'Inquisizione.
Questi fatti giustificavano completamente le lagnanze della « Cortes » nel 1547 e nel 1553, secondo le quali l'Inquisizione avrebbe trasgredito i limiti delle sue competenze, immischiandosi in questioni della giurisdizione civile che nulla avevano a che fare con l'eresia. Questo fatto deplorevole avveniva sempre più spesso, tanto che la « Cortes » si vide costretta a sottoporre una domanda al Re, perché venissero esattamente delimitate le competenze dei due Tribunali.
Il Re rispose che le questioni dell'Inquisizione non dovevano essere discusse dalla « Cortes », ma allora tutti i membri si alzarono, dichiarando che avrebbero abbandonata la loro carica se il Re non avesse permesso di trattare una questione di tale importanza.
Il Re li calmò dichiarando che avrebbe ascoltato le loro lagnanze ed avrebbe provveduto al suo ritorno nella Castiglia. Evidentemente però questa dichiarazione fu fatta soltanto con l'intento di evitare una ribellione della « Cortes » mentre il Re era animato dall'intenzione di aumentare, anziché diminuire l'importanza della Inquisizione nella quale aveva ravvisato un fattore prezioso per sostenere la autorità reale e per tenere a bada e dominare il popolo.
La situazione non migliorò nemmeno in seguito e nel 1632 successe un avvenimento che merita di esser citato. Don Martino Santis fu ucciso a colpi di pistola a Valencia, mentre rientrava in carrozza nella città, in compagnia di alcuni Domenicani. Furono sospettati quattro famigerati servi dell'Inquisizione e l'Audiencia li fece anche arrestare. Ma il Tribunale dell'Inquisizione pretese la consegna dei malfattori e la questione venne portata dinanzi alla Suprema ed al Consiglio Penale dell'Aragona. Il Vice-Re, Marchese Los Velez, approfittò dell'occasione per denunciare a Filippo gli innumerevoli scandali ed eccessi commessi impunemente dai malvagi servi dell'Inquisizione, dichiarandogli che non vi sarebbe stata pace a Valencia, fino a che questa gente non fosse posta sotto accusa, poiché nella città non avveniva misfatto in cui essi non avessero parte, dato che qualunque cosa commettessero non andavano incontro a nessun rischio.
La stessa Suprema non fece alcunché per migliorare la situazione ed invece di ammonire gli elementi turbolenti si accontentava di consigliare cautela e segretezza massima.

Lo stesso spirito si rivelava nel 1649, quando si costituivano delle bande armate che commettevano delle vere devastazioni. Filippo IV ammonì la Suprema che qualora i funzionari ed i servi dell'Inquisizione avessero a partecipare a questi atti di brigantaggio, o comunque aiutare i perturbatori dell'ordine, egli non avrebbe permesso ai Tribunali del Santo Uffizio di impedire che la procedura civile avesse il suo corso. Ma pare che la Suprema preferisse conservare lo stato disordinato della vita sociale, poiché continuava nel segreto ad appoggiare gli elementi sovversivi. In queste circostanze non era possibile provvedere al miglioramento della situazione.
L'Aragona presentava ancor maggiori guai della Valencia, poiché quel popolo era animato di un maggior spirito di indipendenza per la quale era riuscita a resistere a lungo all'introduzione dell'Inquisizione fino a che l'assassinio di San Pedro Arbués non rese impossibile la resistenza.

Le origini della giurisdizione aragonese, che risalivano ai tempi leggendari, in cui l'Aragona era ancora Reame de Sobrarve, erano il maggior vanto del popolo aragonese ed é probabile, come viene affermato da un suo storico, che questa giurisdizione fosse eredità dei Mori debellati, ed esso vi ravvisava il più efficace mezzo di difesa per la sua antica libertà.
Quando la Justitia autorizzava il grido: « Contra fuero! Viva Libertad y ayuda a la Libertad! » allora tutti i cittadini accorrevano armati per difendere la libertà del paese.

Nemmeno la « Concordias » poté apportare la pace. Nel 1571 sorse un acuto dissidio tra il Tribunale del Santo Uffizio e la Justitia nel corso del quale furono abbondantemente inflitte le scomuniche. Nel dicembre si rivolsero a Pio V, perché egli intervenisse, ma il Papa li rinviò con le loro lagnanze al Capo Inquisitore. Dopo la morte di Pio, il Reame si mostrò ostinato con Gregorio VIII e nel 1572 finalmente riuscì ad estorcere al Papa un Breve, con cui la questione venne rinviata al nuovo Capo Inquisitore Ponce de Leon, ma nel contempo il Papa ordinava che venisse trovato modo di impedire agli inquisitori di far abuso dei privilegi che essi avevano ottenuto dai Capitoli e dalla Santa Sede. Nell'anno seguente il Reame sollevò lagnanza per l'intromissione nelle « Concordias » e nel 1585 l'offesa giunse a tal punto che la « Cortes » pretese una nuova « Concordias ».
Filippo promise di mandare qualcuno a Saragozza per esaminare le vertenze e più tardi diede disposizioni, affinchè venisse compilato un nuovo accordo del quale però manca ogni traccia.

Così proseguirono le cose finché la « Cortes » si riunì nuovamente. Si seppe in precedenza che sarebbero state richieste mitigazioni all'Inquisizione, ma Filippo non era presente ed il suo rappresentante Conte Mori Terry non si sentiva autorizzato ad accogliere i postulati. L'unico risultato fu che venne convertita in legge la « Concordias » del 1568, che figurava fino ad allora come Decreto Reale. La commissione elaborò quattordici paragrafi che non avevano nulla di eccessivo, ma Filippo ritardava sempre l'accettazione. D'altronde la Suprema continuava ad intrigare a Roma e la Santa Sede si disinteressò della questione.
Era inevitabile che l'Aragona con l'aggravarsi della situazione passasse dalle umili suppliche ad un atteggiamento combattivo. Erano passati vent'anni dacché Filippo nel 1626 aveva convocato la « Cortes » e la situazione era semplicemente disastrosa. La congiura catalana per poco non provocò l'unione alla Francia e perciò non era consigliabile di mettere a troppo dura prova la fedeltà dell'Aragona. La « Cortes » era convocata per il 20 settembre 1645. Come introduzione della lotta la Suprema presentò un Memorandum al Re, nel quale ammoniva il Sovrano che il pericolo della guerra doveva stimolarlo a maggiore devozione alla Fede, incoraggiandolo all'estensione dei privilegi, in omaggio a Dio, del quale si poteva attendere ogni aiuto. Concludeva pregando il Re di voler rinviare ogni pretesa della Cortes alla Suprema per opportuna deliberazione. Filippo fece indubbiamente sperare alla Suprema di prendere in considerazione il Memorandum, ma il popolo aragonese aveva già provate troppe delusioni per acconsentire alla proposta della Suprema.

Effettivamente nelle pretese della « Cortes » non vi era nulla di offensivo per la Fede; si trattava di sagge deliberazioni che miravano a ristabilire la pace del paese e la difesa della Società contro i banditi tonacati. Filippo con estremo sforzo resistette a queste pretese dichiarando che stimava l'Inquisizione più di ogni altra cosa e che sarebbe stato pronto a difenderne i privilegi con ogni mezzo. Nello stesso tempo offerse di concedere ogni altra cosa che la « Cortes » avesse domandato ed in un sol giorno distribuì più di trecentosettanta onorificenze tra gli aragonesi, ma tutto ciò non valse a diminuire l'odio generale contro il Santo Uffizio ed i Bravos rimasero irremovibili.

Il Re in questa situazione difficile, come d'abitudine, si rivolse alla mistica Suor Maria de Agreda mettendo in rilievo che avrebbe mantenuto ad ogni costo, come intangibile, l'Inquisizione e certamente si stupì non poco quando la donna perspicace gli consigliò un compromesso dicendo che il litigio con l'Aragona avrebbe potuto facilmente spingere il popolo dalla parte della Catalogna e provocare lo sfacelo della monarchia. Ma nemmeno ciò poté convincere Filippo. Egli voleva partire immediatamente per Madrid, ma giunsero una dopo l'altra le deputazioni del convento di « Santa Engratia » dove il Re era alloggiato e così fu costretto a rimanervi ancora per tre o quattro giorni. Infine cedette comprendendo di non aver altra alternativa.

Lo storico descrive l'immensa gioia del popolo, perché l'Inquisizione, che era considerata superiore al Vice-Re ed all'Arcivescovo, aveva perduto finalmente il suo prestigio e vi fu più d'uno che preconizzò che essa avrebbe abbandonato definitivamente l'Aragona.
Non passò molto tempo che l'infuriata Inquisizione cedette e precisamente in una questione che non fu certo a vantaggio del suo prestigio. L'inquisitore Lazaeta intrecciò una tresca con una donna sposata, di San Anton, il cui marito, un catalano di nome Miguel Choved, le tese un tranello, dicendo che sarebbe partito in viaggio. Il Lazaeta vi cadde ed il 27 ottobre 1647 si recò nella casa della amante, nascondendo la sua carrozza dietro il macello, ma il cocchiere attese invano il suo ritorno, perché il marito tradito, penetrato nella casa per una porta laterale, lo trucidò. Egli cadde morto per la strada mentre barcollando tentava di raggiungere la sua carrozza, la donna fuggì ed il Choved scomparve. Però fu necessario trovare un capro espiatorio e perciò venne arrestato un certo Francisco Amal come complice. La Justitia lo giudicò favorevolmente, ma l'Inquisizione sporse lagnanza per intromissione nelle sue competenze. Il Tribunale dell'Aragona rispose che la Justitia giudicava sempre con molta cautela e che in questo caso aveva concesso la presentazione delle prove, dopo di che, giudicatolo innocente, aveva rimesso l'imputato in libertà.

Dopo questo fatto la Suprema pretese la riammissione del Tribunale dell'Inquisizione nell'Aragona, per evitare la ripetizione di una simile onta, ma il Consiglio rispose che il Santo Uffizio aveva competenza giuridica soltanto nelle questioni religiose e, fino a che non avesse trasgredito il limite delle sue attribuzioni, il Reame aveva tutti i diritti di valersi della sua facoltà giuridica. In tali circostanze la legge del 1646 venne a colpire duramente la supremazia dell'Inquisizione, diminuendo notevolmente il terrore che aveva sempre incusso e influendo in certo qual modo anche sulla situazione patrimoniale della istituzione. Infatti nel 1649 la Suprema ricordò a Fiippo di avergli già preconizzato nel 1646 la diminuzione dei proventi ed il Re promise di indennizzare la istituzione con una legge che assicurava un contributo annuo che sarebbe stato pagato, metà dall'Aragona e metà dalla Tesoreria reale. La Suprema dichiarò di poter accettare la proposta solo con consenso del Capo Inquisitore, ma che intanto, per soccorrere i dipendenti bisognosi, invitava il Re a liquidare ottocento ducati dal fondo dei fuggiaschi catalani. Questa pretesa e la sfacciata superbia dimostrata, di fronte alla generosa offerta del Re, indusse Filippo a far valere la sua autorità, ciò che aveva fatto ben raramente, e a rispondere che il fondo catalano non poteva essere utilizzato per altri scopi di quelli per i quali era stato istituito e che egli, capo supremo della giustizia, aveva appoggiata l'Inquisizione e aveva la facoltà di creare ed abrogare le leggi secondo il proprio discernimento.

La Catalogna non era meno difficile dell'Aragona da Governare, per la sua ancor più spiccata tendenza alla emancipazione. Sebbene non vi fosse l'istituzione della Justitia, il Paese disponeva di un'altra istituzione meno perfezionata, la cosiddetta Banch Royal, Magistratura di ricorso civile, contro le sentenze del Tribunale ecclesiastico. L'Audencia citava in questi casi i Giudici ecclesiastici e se costoro non ottemperavano alla citazione venivano immediatamente esiliati ed i loro beni sequestrati.
Come abbiamo già visto la « Concordias » del 1512 aveva fatto abrogare gli eccessivi privilegi; il Re, il Capo Inquisitore e gli altri inquisitori avevano prestato giuramento su questi accordi, ma Leone X li aveva tutti piamente assolti dal loro giuramento. I catalani ottennero un altro effimero successo nella Cortes di Mouron nel 1520 quando il Cardinale Adriano, non soltanto giurò che avrebbe rimesse in vigore le clausole del 1512, ma presentò anche un documento firmato dalla Regina Juana e da Carlos V che prometteva indagini e riparazione nella questione dei misfatti di certi servi degli inquisitori e garantiva che tutti i reati, estranei alla Religione, sarebbero stati in seguito trattati esclusivamente dai Tribunali civili. L'Adriano giurò che avrebbe ottemperato a tutte le promesse, non appena gli fosse giunto il benestare del Papa, ma l'Inquisizione probabilmente ebbe sufficiente influenza presso la Santa Sede, per impedire che il benestare fosse impartito, poiché nelle epoche successive non vi é traccia di tali mutamenti.

Dato il carattere dei catalani e la loro abitudine di ricambiare le violazioni di legge con altre violazioni di legge, non c'é da stupirsi che mentre fervevano i preparativi per mettere in vigore la « Concordias » nei tre Reami, la Catalogna, che non l'aveva mai approvata, non abbia voluto saperne, e che quando i cittadini furono obbligati ad accettarla abbiano mandato delle deputazioni di protesta al Re, per dichiarare che consideravano il fatto contro la Costituzione ed offensivo ai privilegi dei Paese, che avrebbero riconosciuto le disposizioni della « Concordias » soltanto se esse fossero vantaggiose per il loro Paese, ma che in caso contrario sarebbero stati disposto piuttosto a perdere la vita, il patrimonio e la famiglia prima di riconoscerla. Già nel 1569 l'Inquisizione scriveva che il popolo non si sarebbe placato prima che fosse riuscito à scacciarla dal Paese e, per quanto la riguardava, si sarebbe allontanata fino a che il popolo non avesse accettato la « Concordias » e ciò fu approvato anche dalla Suprema.
La reciproca ostilità non era favorevoli alla pace interna. Già nel 1570 essa degenerò al punto che i deputados chiesero l'intervento di Pio V, il quale ordinò a Filippo II° di tentare con ogni mezzo la conciliazione ad evitare gravi conseguenze.
La situazione divenne critica, la rivolta di Granada esaurì le risorse della Corona e persisteva il pericolo di un'offensiva della flotta turca. I catalani furono dunque invitati a contribuire alla difesa del litorale, ma non risulta che abbiano preteso concessioni, a danno dell'Inquisizione, come ricompensa del loro intervento. Anzi il legato di Venezia, Leonardo Donato, riferisce che nel 1573, mentre i catalani avevano speso più di centomila ducati nella difesa del litorale, l'Inquisizione aveva fatto imprigionare proprio coloro che maggiormente si erano prestati a quest'opera, e che questi, dopo l'ordine di scarcerazione, non vollero abbandonare le prigioni, prima di aver ottenuto l'esplicita dichiarazioni di non esseri stati arrestati per eresia.

In questo spirito di aperta ostilità entrambe le parti si preparavano all'estrema lotta che doveva svolgersi nella « Cortes » del 1595 all'inizio del regno di Filippo III. Siccome gli sforzi dei catalani rimasero sterili e l'Inquisizione riuscì a conservare integro il potere i particolari del dibattito hanno interesse solo in quanto stanno a dimostrare la vergognosa ambiguità con la quale il Re ingannò i suoi sudditi.
Tuttavia la delusione del 1599 non calmò il temperamento impulsivo dei catalani e l'esito negativo dei loro sforzi li spronava ad azioni violente. Nel 1608 tennero un comizio, duranti il quale il Banch Royal decretò l'espulsione digli inquisitori. Venne armato un bastimento per il loro trasporto, ma, quando arrivò il giorno della partenza, gli inquisitori sbarrarono il loro portone coprendolo di uno stendardo di velluto nero che aveva nel mezzo un Crocifisso d'argento. La città dimostrò la sua devozione alla Fede, accendendo candele dinanzi alla Sacra Immagine. Intervennero il Diputado, il Capitolo e le autorità comunali e ristabilirono l'accordo. Nel 1611 sorse però una lotta più accanita, perché un gendarme aveva osato disarmare il cocchiere di un inquisitore.
Il Consiglio comunale sequestrò i beni immobili dell'Inquisizione, assediando il Palazzo dilla Sede, condannando all'esilio gli inquisitori e proclamando la sentenza a suon di corno per le vie. Questo procedimento venne giustificato dinanzi al Re con l'asserzione che il Santo Uffizio era stato costituito solo per un tempo determinato, il cui termine era ormai decorso, sicché nella Catalogna doveva cessare, mentre gli affari ecclesiastici erano da restituire alla competenza delle sedi vescovili, le quali notoriamente erano molto apprezzate anche da Sua Maestà.
Poco prima della « Cortes » del 1626 gli inquisitori impensieriti della loro posizione scossa, sollecitavano la Suprema di illuminare il Re e fargli comprendere che soltanto col mantenimento della loro giurisdizione avrebbe potuto conservare il dominio e la pace della Catalogna. La Suprema non mancò di avvertire il Re il quale rispose che era stato sempre suo desiderio che l'Inquisizione mantenesse il proprio prestigio.

L'Inquisizione dunque come sempre anche questa volta ottenne il sopravvento, ma fu del tutto impossibile che le due giurisdizioni in competizione collaborassero in pace. Infatti già nel 1637 la Suprema sporse lagnanza per i continui eccessi e per la mancata osservanza delle « Concordias » di Zapata. Questa volta era colpevole il Vice-Re, il potente Principe Cardona, che aveva fatto arrestare per indebito porto d'armi un servo dell'Inquisizione. Quando il Santo Uffizio mandò dal Vice-Re un sacerdote col monito della scomunica egli fece chiudere anche il prete in una camera del suo palazzo, ordinandogli di revocare la scomunica e quando questi rifiutò lo condannò all'esilio. Fece poi circondare il palazzo dell'Inquisizione da quattrocento armati e fece apprestare una nave per trasportare a Maiorca il prete renitente. L'Inquisizione convocò quattro Vescovi i quali dichiararono che il Cardona avrebbe meritato la scomunica, ma che per evitare lo scandalo era opportuno desistere. Dopo l'intervento dei Vescovi fu sospeso tanto il procedimento di esilio, come quello di scomunica, ed il Vice-Re lasciò in libertà il prete, ma si vantò per tutta la vita di aver mantenuto il sopravvento.

Poco tempo dopo, nel 1639 sorse un conflitto ancora più grave a Tortosa, inquantoché nella faccenda era coinvolta anche l'autorità civica e tutto il popolo si rivoltò contro l'Inquisizione. Siccome però nel frattempo era scoppiata la rivolta catalana non era consigliabile procedere a passi rigorosi.
La causa diretta di tale rivolta era l'incendio delle chiese di Montiro e Rio de Arenes, commesso dalle truppe napoletane accantonate presso la popolazione. Si trovò un quantitativo di Santa Ostia carbonizzata ed allora i contadini, che soffrivano molto per gli eccessi dei soldati, i quali non avevano ricevuto il soldo, afferrarono le armi e li massacrarono. Essi si chiamarono Exercit Cristi e dipinsero sul loro vessillo, accanto al Santissimo Sacramento, la seguente dicitura " Senor judican vostra causa" dichiarando che il loro scopo era la difesa del popolo e della Santa Religione Cattolica.

Sebbene l'ostilità non sia stata rivolta contro l'Inquisizione, nemmeno l'immunità di quest'ultima venne rispettata. Quando la Vigilia di Natale la plebaglia si ribellò ancora e volle massacrare tutti i nobili castigliani, si sparse la voce che l'Inquisizione tenesse nascosti nel proprio palazzo quattromila uomini. Sotto la guida di un cocchiere i popolani penetrarono nell'edificio, malmenando i dipendenti ed impiccandone qualcuno; svaligiarono i forzieri e trovato in una cella un castigliano, arrestato per eresia, lo portarono in trionfo al Consiglio Comunale, ma più tardi lo sciagurato venne riconsegnato al Santo Uffizio.

Quando il 23 gennaio deI 1641 intervenne l'accordo con la Francia, si provvedette anche per l'Inquisizione. Siccome la Catalogna si era staccata dalla Spagna, non era possibile ammettere che la Corte Marziale rimanesse oltre sotto la supremazia della Suprema di Madrid. I catalani pretendevano che soltanto i loro connazionali potessero essere inquisitori e che la competenza di questi ultimi venisse limitata esclusivamente alle questioni religiose, ponendo tutta la istituzione, direttamente sotto la Congregazione Romana del Santo Uffizio.
Ciononostante gli inquisitori rimasero al loro posto; da cinque mesi essi non avevano notizie dalla Suprema ed aspettavano dunque di essere chiamati per prestare il Giuramento Feudale a Re Luigi. Inviarono quindi il loro segretario, Juan De Eroso a Madrid per richiedere disposizioni suggerendo che sarebbe stato opportuno il loro trasferimento a Tarragona o a Tortosa. Filippo ordinò loro di rimanere al loro posto ed essi obbedirono risoluti. Ma la situazione peggiorava sempre più; il 7 novembre essi ricorsero di nuovo al Re, informandolo della loro miseria e dei pericoli al quali erano esposti, dichiararono che era loro impossibile adempiere alla loro missione e che presto o tardi avrebbero dovuto recarsi a baciare le mani ai Governatore francese, Maresciallo Brézé. Tutto ciò venne confermato anche da Don Antonio de Aragona, che proprio in quei tempi ritornava da Barcellona, dove la plebaglia aveva incendiato ben due volte il Palazzo dell'Inquisizione e dove l'eresia era diffusa principalmente perché tra le truppe francesi vi erano molti Calvinisti che facevano aperta professione di fede. Fu incaricato Juan de Mandozca di fare testimonianza di ciò a Madrid mentre agli inquisitori veniva ordinato di rimanere fermi al loro posto, di fare il loro dovere e se tuttavia venissero scacciati dalla città portassero seco i loro documenti per poter continuare la loro attività altrove.

Uno degli inquisitori, Cotoner, partì da Barcellona e si recò nella sua patria, Maiorca. Gli altri due con i loro dipendenti resistettero sul posto e la loro attività si limitava ad infliggere terribili maledizioni su persone sconosciute, le quali avrebbero sottratte le Sante Ostie. Ma verso la fine di settembre furono scacciati anche questi, poiché venne istituito un Tribunale nazionale e questa decisione venne loro comunicata con crudele cortesia. Erano in tutto in dieci rimasti fedeli al loro dovere. Essi furono imbarcati con l'ordine di sbarcare in Portogallo che al pari della Catalogna si trovava in guerra con la Spagna. Sebbene l'equipaggio della nave consistesse di francesi e di catalani, gli inquisitori riuscirono a persuaderli di attraccare a Cartagine con la promessa che essi avrebbero potuto vendere là tutto il carico. I fuggitivi furono accolti con molta ostilità in quel porto, il bastimento venne sequestrato ed il carico, compresi gli effetti personali degli inquisitori, venne venduto.

Gli esiliati rimasero senza alcun stipendio o contributo in natura e passò molto tempo prima che la Suprema, la quale pure si trovava in difficoltà finanziarie, potesse soccorrerli, estorcendo una piccola sovvenzione da Filippo. Tuttavia gli inquisitori si collocarono alla meglio e fecero il possibile per resuscitare l'antico terrore nella cittadinanza. La loro autorità era diminuita e Roig, Capo Inquisitore di Valencia, si lamentava amaramente che nessuno lo avesse ricevuto durante il suo giro di ispezione e che le autorità gli avessero negato persino l'alloggio ed il vitto.
Quando con la costituzione della Fronde, Mezawu ritirò le sue truppe dalla Spagna, crollò anche la rivolta catalana, nonostante l'ostinata decisione di rompere i rapporti con la Castiglia. Nel 1652 si arrese anche Barcellona e con ciò l'intera Catalogna cadde tra le mani dei vittoriosi, ma la saggezza politica di Filippo lo indusse a restituire gli antichi privilegi e l'antica libertà al paese. L'inquisitore Ola si ritirò a Gerona continuandovi la sua autorità in base ad un Breve papale. Il Marchese Oli ed il de Ortara lo trovarono là e chiesero disposizioni al Re sul da farsi, ma nello stesso tempo dichiararono che secondo loro l'immediato ripristino dell'Inquisizione avrebbe largamente contribuito alla pacificazione del paese. Anche il Consiglio di Stato dell'Aragona fu dello stesso parere e Filippo dispose fin dal giorno seguente che il Capo Inquisitore delegasse gli inquisitori. Non mancarono però le difficoltà finanziarie e la propagazione di eresia, operata dai francesi faceva prevedere un duro lavoro. Ma col ripristino dell'antico- ordine si rinnovarono anche gli antichi guai.

Il 15 febbraio del 1664 vennero assassinati il Tesoriere Juan Matheu e l'Alguasil. L'Audencia pretese per se la causa, ma il Santo Tribunale rifiutò la collaborazione finché il Banch Royal finì col minacciare d'esilio l'Inquisizione. Questi litigi non avvenivano sporadicamente, ma di continuo.
Mentre l'Inquisizione agiva in modo da suscitarsi l'odio generale non può meravigliare l'amara lamentela della Suprema che nel 1677 dichiarava che l'autorità dell'Inquisizione era tanto menomata a Barcellona, che quegli inquisitori non avevano trovato tra la popolazione che un solo servo disposto ad entrare al loro servizio, e che l'Aguasil aveva dovuto chiedere di essere esonerato dal portare il suo bastone ufficiale poiché nessun nobile voleva più mostrarsi al suo fianco se egli aveva con se quel segno della sua carica.

Filippo V, non appena salì al Trono si trovò di fronte alla ostilità dei catalani verso il Santo Uffizio. In uno dei consigli della Suprema egli venne avvertito che secondo i rapporti degli inquisitori di Barcellona, nella prossima « Cortes » si sarebbe fatta una campagna per limitare l'importanza dell'Inquisizione. Il Re venne quindi solennemente invitato a seguire l'esempio dei suoi grandi predecessori. Ma qualunque cosa sia avvenuta non poteva avere un grande effetto poiché nella guerra scoppiata poco tempo dopo la Catalogna si schierò con entusiasmo dalla parte dell'Arciduca Carlo, più tardi Carlos III, e divenne una delle più forti rocche del partito austriaco. La rivolta del 1640 contro l'Inquisizione si ripeté. Il Santo Tribunale fu abolito e sostituito da una organizzazione locale.

Maiorca non aveva una « Concordia » e così il Tribunale dell'Inquisizione poteva seguire i criteri di giurisdizione secondo il proprio discernimento. Come era stato stabilito nel 1623 soltanto questo Tribunale aveva la facoltà di giudicare nelle questioni civili e penali dei dipendenti dell'Inquisizione. Ciò portò ad un grave urto tra il Vice-Re ed il Tribunale poiché il primo aveva fatto eseguire un sopralluogo nella casa del Tesoriere, Juan Zunnes, dove erano state trovate delle armi. Il Vice-Re lo fece arrestare immediatamente e lo condannò all'esilio. Egli venne imbarcato entro le ventiquattr'ore. L'Inquisitore scomunicò il Vice-Re, il quale ricorse invano chiedendo di potersi difendere. Ma l'Inquisizione gli negò questa facoltà ed in seguito il Banch Royal decretò l'espulsione della Inquisizione ed il sequestro di tutti i suoi beni. Ciò fu annunciato a suon di tromba e di tamburo e nel contempo veniva emesso un editto, col quale si riteneva nulla la scomunica e si invitava il clero a ritenerla tale. Il Vice-Re non si ritenne scomunicato e seguitò a frequentare la Messa; non si sa però quale finale abbia avuto questa scaramuccia.

Sarebbe utile illustrare con altri esempi l'eterna discordia che paralizzava l'energia del Governo, minando il rispetto per la legge in tutta la Spagna. La Suprema poi non rispettava nemmeno i Breve Papali ed Arce Y Reynoso, in una controversia col Vicario vescovile, citò quest'ultimo a Madrid riuscendo a forzarlo a comparire al suo cospetto. Sotto il debole governo della Regina Reggente il successore di Reynoso Nithardt non fu tanto fortunato da poter conservare un equilibrio e l'accanita concorrenza dei vari uomini di Governo rendeva la situazione ancora più intricata in tutta la Penisola. Il 9 maggio 1667 in una solennità Don Jorje Dameto colpì il proprio genero Don Joseph Vellejo, con una stampella, lordando di sangue la chiesa. Entrambi i cavalieri erano alle dipendenze dell'Inquisizione ed il giorno stesso l'Inquisitore ordinò il loro arresto; frattanto il Vescovo Mangerre citava il Dameto per sacrilegio e profanazione della chiesa. Le due magistrature rivali si accapigliarono. Il Vice-Re con l'« Audencia » e la maggior parte della borghesia si schierarono dalla parte del Vescovo, ma siccome la cosa minacciava di provocare gravi disordini fu chiesto agli inquisitori di lasciare in sospeso la questione, fino a che il Governo non si fosse dichiarato. Ma l'Inquisitore non volle saperne. Il Vescovo allora lo scomunicò pubblicamente, cantando ripetutamente per le vie il canto della scomunica, ma l'Inquisitore non se ne curò e continuò a dir Messa ed a comparire ostentatamente nei luoghi pubblici; vietò al Vescovo l'ingresso nella propria chiesa e lo minacciò di sospenderlo dalle sue funzioni di prelato. Il 29 agosto il Vescovo convocò il Sinodo e venne deciso di inviare un delegato a Roma per ottenere la risoluzione della questione.

Nithardt intanto aveva urgentemente citato il Vescovo per riferire dell'accaduto. In virtù delle leggi canoniche l'Inquisizione non aveva il diritto di giudicare i Vescovi, senza una particolare autorizzazione del Papa; il Mangerre perciò aveva il diritto di considerare nulla quella citazione.
D'altronde il Nithardt, fidandosi ciecamente nell'obbedienza della Regina, assunse un atteggiamento estremamente provocante e riuscì a convincere la Regina che questa era la questione più importante dalla fondazione dell'Inquisizione e che dalla buona soluzione di essa dipendevano non soltanto le sorti dei Tribunali di Maiorca. ma quelli di tutta l'Aragona. La Regina, abituata ad eseguire devotamente tutti i desideri del Nithardt, ordinò subito al Consiglio di Aragona di dar esecuzione agli ordini del Capo Inquisitore e al ViceRe di appoggiare le disposizioni del Santo Uffizio ove fosse necessario.
Ma il Consiglio d'Aragona non obbedì e dilungò fino al 1668, avvertendo la Regina che soltanto il Papa aveva diritto di giudicare i Vescovi in questioni importanti, mentre in quelle di minore importanza era di competenza del Sinodo provinciale. Il Nithardt però era anche presidente del Concilio di Trento ed in tale veste fece iniziare dalla Suprema un procedimento giudiziario contro il Vescovo Mangerre. A quel punto giunse notizia da Maiorca che il Dameto aveva ritirato la lagnanza al Santo Uffizio, recandosi dal Vescovo per ottenere l'assoluzione; quest'ultimo da parte sua ritenne chiuso l'incidente.

L'Inquisizione però non era abituata a darsi vinta con facilità. Quando Juan Bruelles, prete di Minorca, offese con parole spregevoli il Commissario dell'Inquisizione, Rafael Pous, venne messo sotto processo e la cosa fece grande scalpore in tutto il Regno, poiché tanto il Vice-Re, quanto l'Audiencia ed il Clero si allearono contro l'Inquisizione. Il Parroco di Minorca, come esecutore del Breve del 1642, liberò con la forza il Bruelles dalle carceri, vietando all'Inquisizione di continuare il processo e quando quest'ultima rifiutò l'obbedienza, le inflisse la scomunica. La Suprema assunse la questione e dopo varie consultazioni con Carlos III dichiarò il Breve papale emesso su base erronea e non corrispondente al caso.
Il debole Re ripeté l'ordine che il Bruelles venisse posto dinanzi al Tribunale dell'Inquisizione. Ma nessuno lo ascoltò. La questione non si risolse a favore dell'Inquisizione, poiché nel 1693, la Suprema si lamentava amaramente dei Minorcani e della miserevole posizione in cui si trovava l'Inquisizione in quel paese. A Minorca, tanto i preti, quanto i borghesi, assumevano un atteggiamento tanto ostile che l'Inquisitore Pous non trovava più una chiesa in cui dire la Messa, mentre i suoi dipendenti erano schivati come eretici.

Un altro Tribunale col quale l'Inquisizione si trovava in continuo conflitto era quello militare. Un caso molto strano era quello di Don Fernando Antonio Herrera Calderon, il quale era Alguasil e nel contempo dipendente dell'Inquisizione. Egli, nel 1641 diede le sue dimissioni dalla carica militare sebbene fosse stato avvertito che in quei tempi guerreschi sarebbe stato rinviato al Tribunale Militare. Infatti quest'ultimo lo citò, ma la Suprema fece di tutto per difenderlo. A quanto pare, verso la fine del secolo XVIII, la giurisdizione militare originava molti guai, poiché un Decreto Reale del 1793 sospendeva la sua attività quasi integralmente, affidando, salvo pochissime eccezioni, le questioni militari al Tribunale civile.

Come se le diverse classi sociali non avessero dato origine a sufficienti guai, nel 1574 fu avanzata una proposta, la quale, se fosse stata accettata, avrebbe mutato radicalmente la struttura politica della Spagna, sottoponendo il Paese completamente all'Inquisizione e degradando l'effettivo Regnante alla posizione di una semplice figura decorativa. È molto caratteristico per lo spirito di quel secolo che una simile proposto abbia potuto essere lanciata, che abbia trovato chi l'appoggiasse, e che lo stesso Filippo II, gelosissimo dei suoi poteri sovrani, l'abbia presa in considerazione. Si trattava della costituzione di un ordine militare che doveva portare la denominazione di «Santa Maria de la Espada Bianca» ed avere per emblema la spada bianca, come, l'Ordine di Santiago l'aveva rossa. Il Generalissimo dell'Ordine avrebbe dovuto essere il Capo Inquisitore, al quale ogni membro doveva giurare fedeltà. I componenti sarebbero stati giuridicamente dipendenti dal Capo Inquisitore, godendo di immunità, rispetto ad ogni altra giurisdizione. Lo scopo enunciato era la difesa della Spagna, per la quale dovevano essere sempre pronti, oppure far servizio di guarnigione, sotto il comando del Capo Inquisitore. In tal modo l'Inquisizione si sarebbe munita di un'organizzazione armata, la quale, col giuramento di cieca obbedienza, sarebbe stata esonerata da ogni altro dovere di cittadinanza. L'unica esigenza per l'ammissione era la Limpieza, cioè il sangue puro di ogni contaminazione ebraica o mora, e la certezza che fra gli avi dell'aspirante non vi fosse alcuno condannato per eresia.

In quell'epoca la Limpieza divenne una vera e propria mania; la sua dimostrazione, attraverso quattro generazioni, comportava una spesa non indifferente, ma nei casi in cui veniva dimostrata, questa spesa era rimborsata dallo Stato.
Nei tempi odierni potrà sembrare assurda una idea simile, ma essa era in perfetta consonanza con la mentalità di quell'epoca. In breve l'idea venne accolta con entusiasmo nella Castiglia, Leon Biscaya, Navarra, Aragona, Valencia, Catalogna, Asturia e Galicia. Gli incaricati di queste province sottoposero a Filippo la proposta di attuarla, e venne appoggiata anche dai rappresentanti di quarantotto famiglie della nobiltà, formando oggetto di lunghe ed ampie discussioni, presso i Vescovadi di ogni diocesi.
La questione venne decisa sull'opinione di Pedro Vinegos y Cordova. Egli riuscì a dimostrare che l'idea della Limpeza era già origine di gelosie ed odi in tutto il Paese, sintomi che sarebbero enormemente aumentati, se la popolazione venisse divisa in due parti, d'altra parte gli ordini militari costituivano sempre un pericolo per la monarchia, pericolo che si sarebbe ingrandito col fatto che il nuovo ordine, prevedibilmente molto numeroso, sarebbe stato vassallo del Capo Inquisitore, che aveva già un potere troppo grande ed in questo modo avrebbe ottenuto il controllo persino sulle proprietà e la competenza giuridica su ogni membro dell'Ordine, mentre nei tempi di guerra sarebbe stato lui stesso ad avere il comando delle frontiere e delle fortezze. Questo ragionamento non abbisognava di ulteriori suffragazioni e Filippo ordinò senz'altro che tutti i documenti relativi a questo progetto gli venissero consegnati. Egli obbligò alla segretezza tanto le autorità civili come quelle ecclesiastiche e diede severe disposizioni, perché il progetto fosse definitivamente abbandonato, facendo ampie promesse che la giustizia e la difesa non sarebbero venute a mancare a nessuno.

Abbiamo già visto con quale ostinazione il Reame di Aragona lottasse contro le deficienze del Regime, che furono non meno sentite nella Castiglia, la quale però non aveva lo Statuto eguale all'Aragona e quindi non poteva che fare delle proteste, non appoggiate adantichi regolamenti nazionali. Infatti la « Cortes » di Madrid del 1608 dimostrava che già le « Cortes » del 1579 e rispettivamentedel 1586, avevano invocata la riforma dell'ordinamento temporale dell'Inquisizione, che costituiva un enorme danno al Paese. Siccome però Filippo III, che aveva promesso delle facilitazioni, era morto prima di poter dare esecuzione ai suoi proponimenti, la relativa richiesta venne rinnovata. L'attenzione della « Cortes » venne richiamata principalmente sul documento che derivava dall'imprigionamento nelle carceri dell'Inquisizione a coloro che avevano commesso anche semplici reati, poiché la popolazione non avendo alcun elemento per fare distinzione, considerava ogni detenuto per eretico, marchiandolo e condannandolo al celibato. Perciò il Consiglio pregava che simili individui venissero rinchiusi in carceri civili e non in quelle dell'Inquisizione. Filippo III promise di fare tutto il possibile per ovviare all'inconveniente, ma naturalmente non fece nulla.
Il Consiglio di Castiglia che era la più alta Magistratura del Paese, nella sua « Consulta » del 1631, protestò vivamente contro la situazione scabrosa e particolarmente contro l'uso eccessivo di scomuniche. Consiglieri e Cancellieri dovevano portare per dei mesi il peso della scomunica, mentre altri individui impoverivano. Durante le lunghe tergiversazioni con le quali venivano trattate le « competencias » era ancora più esplicito quel « Memorandum » che uno dei Membri del Consiglio diresse nel 1648 a Filippo. In questo « Memorandum » venivano esposti tutti gli ostacoli che impedivano alla una sana Giustizia, ostacoli che molte volte toglievano la voglia, ai danneggiati, di ricorrere ad essa, mentre l'impunità stava creando un'intera falange di sfrontati malfattori.

Il numero dei servi dell'Inquisizione e di coloro che disertavano il servizio militare era enormemente accresciuto e questo elemento pericoloso invadeva letteralmente le province, commettendo dovunque dei misfatti, nella sicurezza dell'impunità. Dappertutto non vi erano che persone ricchissime e che conducevano una vita dissoluta, le quali cercavano di essere ammesse nei ranghi dell'Inquisizione, per godere dell'impunità. Le lettere statali venivano sottratte e fioriva in pieno il contrabbando, mentre né l'Alcade, né il Corregidor, osavano punire i colpevoli, poiché l'Inquisizione infliggeva loro immediatamente la scomunica. La Giustizia era calpestata dovunque, poichè non vi era più Alguasil che osasse procedere ad un arresto, dato che molti ne erano stati trucidati o feriti, cosicché la vita dell'Alguasil non aveva importanza, come se i custodi dell'ordine fossero dei semplici banditi.
Se il Re avesse voluto ristabilire la giustizia dei Tribunali civili, sarebbero cessate le eterne scomuniche, con le quali gli inquisitori difendevano i malfattori, l'attività del Sovrano e dei Consiglio non sarebbe stata assorbita dalle consuete vertenze e sarebbe cessata fors'anche la peste, con cui Dio aveva colpito i Reami di Spagna, per l'egoismo e la dissolutezza del suo popolo.
Tutti questi ammonimenti e queste lagnanze non trovarono alcuna eco. La Suprema se ne intendeva sul modo di risvegliare i sentimenti religiosi del Re e di promettergli la beatitudine eterna se si fosse conciliato con Dio, allargando il potere dell'Inquisizione, per la quale era una questione di esistenza la difesa dei propri dipendenti e servi dal rigore della legge e dall'odio generale.
Dopo la caduta di Nithardt la Nazione tentò sollecitamente di liberarsi dai terribili abusi, già universalmente noti. Nel 1677 Carlos II li disapprovò sinceramente, sia per quanto riguardava le ammende riscosse, sia per i soprusi innumerevoli che privavano i sudditi, veramente devoti, di qualsiasi conforto religioso. Egli dichiarò illegali le scomuniche inflitte in conseguenza di questioni che si riferivano esclusivamente alle pertinenze dei tribunali civili, e ne vietò l'applicazione. Questo ordine fu rivolto alla Suprema nel 1678, e dové essere ripetuto nel 1691, ma senza alcun risultati. Allora fu fatto un maggiore sforzo per garantire una riforma radicale. Infatti nel 1696 si riuscì a persuadere Carlos di convocare la cosiddetta « Juntamagara » che era composta da due delegati per ogni Consiglio Governativo Provinciale. Argomento del congresso furono le continue vessazioni operate dall'Inquisizione e il desiderio che cessassero per l'avvenire; si chiedeva che il Santo Uffizio restasse alla sua missione originale, guadagnandosi la benevolenza del popolo, con l'astenersi dall'immischiarsi in questioni che non lo riguardavano.

Questa fu la più terribile aggressione che l'Inquisizione avesse mai subito, poiché erano tutte le forze dello Stato, riunite, con a capo il Re, che la dirigevano. Ma anche questo attacco fu facilmente parato. Dice il Leorente che il Capo Inquisitore Roccaberti, confessore del Re, intrigava per mezzo di Florian Diaz, che era d'ufficio Membro della Suprema. Non faticò a lungo ad ottenere per questo tramite che Carlos mettesse agli archivi il memoriale della « Consulta », dove giacevano già tanti altri documenti del genere.
Questo avvenimento, che per poco non costò all'Inquisizione la sua preponderanza, non le servì quindi neppure da buon ammonimento. Il 27 Gennaio 1705 essa compilò un documento, detto « Carta Acordada », nel quale biasimava aspramente la temerarietà dei Tribunali, che si permettevano di giudicare i suoi dipendenti, col risultati che di ogni piccolezza si faceva un « Caso de Inquisicion », con disdoro dei dipendenti e delle loro famiglie.

Tuttavia, sotto il regno dei Borboni, il Santo Tribunale dovette rassegnarsi ai radicali mutamenti apportati nella compagine dello Stato.
A poco a poco furono diminuiti gli antichi privilegi. Dopo l'ascesa al trono di Ferdinando VI sorse un dissidio circa le tasse da imporsi ai servi dell'Inquisizione. A quanto pare la questione fu ingrandita, come d'abitudine, poiché quando arrivò dinanzi al Sovrano aveva assunto una tale importanza da muoverlo a promulgare un decreto, col quale la competenza giuridica sul personale dell'Inquisizione veniva attribuita al Consiglio della Castiglia. Il fatto provocò aspri commenti da parte dell'Inquisizione, che ottenevano espressione in un atto, probabilmente scritto dal Capo Inquisitore, Prado y Ceneste, poiché nessun altro suddito avrebbe osato prendere quel tono di fronte al Sovrano. Infatti il documento diceva che il decreto non era degno del nome e della religione del Sovrano e che era inammissibile che, fin dal primo anno di regno, egli desse prova di tanta asprezza, nei confronti del Santo Uffizio che, sin dalla sua fondazione, non aveva subito un tale oltraggio. Il rifiorire della Spagna e la gloria del Re imponevano la revoca immediata del provvedimento.

Non era facile all'Inquisizione conciliarsi con le nuove vedute dell'epoca. Carlos III faceva valere i suoi diritti sovrani, ancor più di quanto non avesse fatto suo fratello Ferdinando. Comunque la intenzione dei Sovrani era stata sempre quella di risolvere pacificamente le vertenze nelle questioni di « competencias ». Il primo tentativo del genere che la Storia ricordi fu un decreto della Regina Reggente, promulgato in assenza di Carlo V e che conteneva l'ordine che, dovunque fossero sorte discussioni riguardanti la giurisdizione, i giudici dovevano riunirsi con gli inquisitori e dare alle questioni una pacifica soluzione. In tale senso si era proceduto quando nel 1542 venne messo sotto accusa Joaquin de Tunes per aver trucidato uno dei servi dell'Inquisizione. Miguel Ruget, inquisitore ebbe dei colloqui coi giudici del Consiglio Reale e col Reggente e si accordarono facilmente circa la pena da infliggersi.
È strano il fatto che nella «Concordias» di Valencia, nel 1554, non venne fatto cenno a questo procedimento di conciliazione. Nel 1568 nel Reame di Aragona lo ritroviamo in una forma alquanto modificata, inquantoché venne dato l'ordine che il Reggente della « Audiencia » ed il Capo Inquisitore si riunissero per accordarsi in una questione. Se ciò non fosse stato possibile allora il Reggente avrebbe dovuto trasmettere il proprio parere al Consiglio dell'Aragona mentre il Capo Inquisitore avrebbe dovuto comunicare la sua alla Suprema, ciò che praticamente avrebbe condotto ad una soluzione conciliativa della divergenza giuridica.

Gli inquisitori cercavano di evitare possibilmente le questioni di pertinenza, ma quando erano costretti a scendere in campo, facevano in modo, con ogni raffinatezza, di umiliare i giudici civili, facendo sentire la loro supremazia, per cui i funzionari, fieri della loro carica si irritavano sempre più. Basterà ricordare che il de Soto Salezer, nel suo rapporto degli inquisitori di Barcellona, diceva che quando questi volevano ricevere il Reggente dell' « Audiencia » mandavano un messaggero per chiamarlo, facendolo poi attendere a lungo nell'anticamera, ed altre volte citavano i giudici, riprendendoli senza motivo, per comprendere quale odio suscitassero gli inquisitori.
Quando l'Inquisizione studiò una forma per delimitare le competenze, questa era inspirata alla massima prosopopea e prepotenza. Nel primo paragrafo di questo atto veniva semplicemente vietata ai giudice qualunque funzione indipendente e veniva ordinato ad essi di rinviare, entro le ventiquattr'ore, ogni causa al Tribunale dell'Inquisizione. Quando poi e giudici avessero osato sollevare la questione delle competenze, mandavano loro disposizioni, intimando di non importunare il Foro superiore e di consegnare immediatamente tutti gli atti di causa, sospendendo il procedimento, sotto pena di scomunica e di ammenda.

Questo sfacciato ed orgoglioso procedimento venne praticato sino a che Carlos III, con decreto del 1775, non comunicò all'Inquisizione che la giurisdizione reale era da considerarsi a pari livello di quella religiosa; intimava quindi di cessare le minacce e le ammende, che gli atti di causa restassero sotto la verifica dei Giudici e che si riteneva opportuna una reciproca cortesia nei contatti tra le due autorità, con omissione dell'inutile ostentazione di superiorità.
Gli sforzi dell'Inquisizione per far valere le proprie pretese ottennero viva espressione nella Junta, formata nel 1679 dalla Suprema e da qualche teologo del Consiglio de Stato. Questa Junta dichiarò che nel caso di funzionari pagati non poteva essere sollevata la questione de competenza, eccezione fatta per gli impiegati dello Stato, qualora avessero violate le leggi; nel contempo venne stabilita la regola che, qualora la Suprema rifiutasse di entrare in discussione, il Consiglio di Stato potesse ricorrere al Re.

Probabilmente tutti questi tentatevi non ebbero un risultato tangibile, poiché Carlos IV, stanco delle continue discordie, ordinò nel 1804 che, ove sorgessero dei contrasti, tra il Tribunale Reale ed il Santo Uffizio, in questione che non riguardavano la religione, il Tribunale dovesse riferire al Consiglio Reale e del Santo Uffizio alla Suprema. I due consessi poi dovevano scegliere un giudice inquirente, il quale sottoponesse la questione alla Secretaria de Gracia y Justicia, per la decisione del Sovrano.

Era necessario soffermarci a lungo sulla questione delle competenze, non soltanto perché queste assorbirono gran parte dell'attività dell'Inquisizione, ma anche per la grande importanza che essa ebbe nella storia di Spagna, in quell'epoca e per meglio spiegare il grande odio suscitato dal Santo Uffizio in tutte le sfere della popolazione.

OSTILITA' RECIPROCA


Nei capitoli precedenti abbiamo trattato alcuni dei motivi dell'odio generale manifestatosi contro l'Inquisizione, ma le cause erano ben più numerose. Come abbiamo visto il Santo Uffizio godeva dell'appoggio universale ed incondizionato, nelle questioni di sua pertinenza, cioè finché si occupava di propagare e di rafforzare la Religione, ma, non appena abbandonava la via della sua missione, trovava una dura opposizione. I poteri illimitati erano attribuiti generalmente a persone autoritarie e superbe che erano tenute ad obbedire soltanto alla Suprema, la quale, sebbene disapprovasse qualche loro azione, in linea di massima parteggiava per essi e li appoggiava contro ogni giusta lagnanza e, mentre segretamente talvolta esprimeva il suo rimprovero, esitava molto a lungo prima di compromettere, con licenziamenti od altri provvedimenti di rigore, la pretesa infallibilità del Santo Uffizio.

A torto od a ragione le lagnanze non mancavano mai. I poteri dell'inquisitore erano quasi illimitati e le persone che venivano rivestite delle cariche, difficilmente riuscivano a resistere alle tentazioni degli abusi. Il « Memorandum » di Llerene presentato nel 1506, a Filippo e Juana, enumera le lamentele della popolazione, menzionando tra l'altro che i dipendenti dell'Inquisizione si impadronivano di qualunque stabile piacesse loro, non peritandosi di usare la forza.
Era del tutto impossibile ovviare a questi abusi illegali. La Suprema disapprovò e minacciò di punizioni quei suoi dipendenti che occupavano indebitamente gli stabili, ma siccome infliggeva punizioni soltanto raramente, anzi, per lo più, proteggeva i colpevoli, gli sforzi fatti per migliorare la situazione apportavano scarsi risultati. Non abbiamo alcun motivo di supporre che lo stato di cose fosse peggiore a Barcellona che altrove. Le indagini svolte in questa città illuminavano tutte le scelleratezze commesse a danno della popolazione.

Nel 1544 Alonzo Perez fece un rapporto che ebbe per conseguenza una nota di biasimo della Suprema, a tutti i dipendenti dell'Inquisizione, ad eccezione del Giudice esecutore delle confische. Salvo due dipendenti subalterni gli altri furono tutti rimproverati, per aver mantenuto relazioni indecorose con delle donne; tutti avevano accettato regali, come pure riscuotevano tariffe illegali. Trascuravano i loro doveri e non facevano altro che litigare tra di loro. Il Procuratore emergeva particolarmente per la sua condotta disonesta e per l'appropriazione di oggetti di proprietà del Tribunale. Egli non pagava mai i suoi debiti: tra l'altro fece arrestare un fabbricante di candele, perché non gli aveva fornito la merce abbastanza sollecitamente. Quando un suo cliente aveva comperato delle pecore da un contadino, il Procuratore fece citare il contadino, dandogli ad intendere che era stato lui a dare il denaro per l'acquisto e che quindi ne esigeva la restituzione immediata, dicendo al contadino di tenersi pure le pecore. Ma la Suprema era tanto schifiltosa, per l'onore dei suoi dipendenti, che non si decise a licenziarne nemmeno uno.

L'ostilità così provocata scoppiava, non appena ve n'era l'occasione. Allo scopo di migliorare l'allevamento delle razze equine, un decreto reale del 1628 vietava di attaccare i muli alle carrozze. L'inquisitore di Longrono, fiducioso che nessuno avrebbe osato affrontarlo, continuava ad attaccare muli alla sua carrozza e quando il Corregidor Don Francisco Bazan gliene chiese ragione, minacciandolo di sequestrargli la carrozza, l'inquisitore gli disse che con ciò si sarebbe rovinato. Il corregidor non osò procedere, ma si procurò un ordine dal Consiglio Comunale di Castiglia che proibiva l'uso dei muli attaccati alle carrozze, poiché ciò avrebbe potuto danneggiare gli ornamenti dei negozi sulla via principale. Il Procuratore del Santo Tribunale insisté dichiarando di avere un privilegio reale, ma quando il Bazan rispose che avrebbe rispettato il decreto reale, il Procuratore non poté esibirlo.
Simili discordie erano all'ordine del giorno e degeneravano talvolta al punto di preoccupare il Re ed i suoi consiglieri.
Anche il privilegio degli inquisitori sui mercati era fonte di continui malanni. Era riconosciuto che, tanto gli impiegati civili, quanto quelli ecclesiastici, avevano il diritto di precedenza nella scelta delle merci.

I Membri dell'Inquisizione pretendevano lo stesso privilegio, non soltanto nelle città in cui risiedevano i Tribunali dell'Inquisizione, ma anche nei piccoli centri. Questa loro pretesa incontrava frequenti opposizioni, come emergeva dall'ordine dato al « corregidor » ed ai suoi venditori. Il diritto della scelta era giunto al punto che, nel 1705, sorsero a Servilla dei gravi disordini, perché il servo di un inquisitore fece aprire una barca, che conteneva una spedizione di pesce destinata al mercato, per scegliersi la sua parte. Fu necessario un decreto reale, per vietare agli inquisitori di fermare qualsiasi merce durante il trasporto e di marcare con « banderillas » quella che sceglievano.
Per quanto riguardava la falange dei servi degli inquisitori, era naturalmente impossibile vietar loro il commercio. Anzi ogni commerciante aveva l'ambizione di ottenere una qualsiasi carica all'Inquisizione, per potersi valere dei privilegi accordati dalla protezione dell'Inquisizione stessa, con la facoltà di mancare impunemente al pagamento dei loro debiti, con l'esenzione delle dogane di importazione ed in molti altri modi che non erano riconosciuti dalla « Concordias », ma che il Santo Tribunale concedeva senz'altro.
È facile immaginare che questa gente non trascurava nessuna occasione per approfittare delle possibilità offerte dal commercio disonesto e questo fatto contribuiva in misura non indifferente a rafforzare l'avversione della popolazione contro il Santo Uffizio.
La situazione non poteva migliorare, perché la Suprema riusciva sempre a difendere i suoi Tribunali contro ogni lagnanza e la sua benevolenza verso i colpevoli assicurava la loro impunità. Finalmente come abbiamo visto Filippo V fece un tentativo di introdurre delle riforme e, probabilmente in seguito a questa pressione, la Suprema emise nel 1705 una « Carta Acordata » con la quale vietava i vari abusi e dichiarava che gli inquisitori, incuranti del dovere di condurre una vita onesta, non obbedivano alle sue disposizioni e stringevano amicizia con persone disoneste, immischiandosi in questioni che non erano di loro competenza e perciò suscitavano dovunque l'odio contro la giurisdizione del Santo Uffizio.

Ma pervenivano lagnante anche da parte della nobiltà. la quale era seriamente risentita per il fatto che alcuni loro vassalli non erano più perseguibili dalla giustizia civile, avendo essi ottenuto delle cariche all'Inquisizione. Nel 1549 la Contessa Nieva si rivolse al Capo Inquisitore Valdés, lamentando che l'inquisitore Valdeolives aveva assunto alcuni contadini da un suo podere, a più di tre miglia da Calacorra, dove non vi era mai stato un dipendente dell'Inquisizione, con l'unico scopo di esimerli dalla giustizia del loro padrone. Essa metteva in rilievo il fatto, non perché i suoi vassalli erano stati onorati dall'Inquisizione, in assenza del Conte suo marito, che si trovava al servizio del Re, ma perché in tal modo venivano suscitati nei villaggi vicini gravi disordini, tendenti a sconvolgere l'ordinamento giudiziario feudale.

Si può dubitare con ogni buon diritto che la lagnanza della Contessa abbia avuto successo, ma possiamo riferire un altro caso molto rassomigliante, quando don Pedro Queral Principe di Santa Coloma, distinto nobil uomo di Tarragona, si sforzò di ottenere la punizione di due suoi vassalli, entrambi alle dipendenze dell'Inquisizione, che facevano capo ad una banda di malfattori, i quali lo esasperavano con le loro vessazioni. Tagliavano i legni dai suoi boschi, mutilavano lo stemma del portone, al Castello di Santa Coloma, distribuivano sulle vie dei manifesti oltraggiosi. Ma i due uomini essendo alle dipendenze dell'Inquisizione si trovavano al sicuro dalle ire del Principe. Don Pedro morì, ma i soprusi continuarono contro sua moglie, Contessa Queral, che finalmente ottenne l'unica soddisfazione della condanna di uno dei vassalli ed una ammonizione ed alla rifusione delle spese processuali.

Questi casi dimostrano quanto fosse minato il Feudalesimo in quell'epoca e non é difficile immaginare le ire della nobiltà, vedendo protetti i loro vassalli ribelli, col manto di immunità offerto dalle cariche del Santo Uffizio. L'odio contro l'Inquisizione era quindi diffuso in tutte le classi; ecclesiastici, civili, nobili e semplici borghesi la detestavano ugualmente. L'Inquisizione era perfettamente consapevole di questo stato d'animo, ma invece di rimediare, con energici provvedimenti nei confronti dei propri incaricati, continuava a sollecitare nuovi privilegi dal Sovrano, per meglio difendersi dall'opposizione. Non tardò a dichiarare che i suoi dipendenti, fin dall'inizio delle loro funzioni erano tanto odiati nell'Aragona, che la loro vita non sarebbe stata sicura, qualora gli avessero posti dinanzi ai Tribunali civili.
Nel 1727 l'Inquisizione fece la stessa dichiarazione per l'ostinato odio del popolo aragonese. In Castiglia la posizione non era migliore. La « Cortes » del 1566, quando sollecitò Filippo II a persuadere i fiamminghi di consentire ad introdurre l'Inquisizione anche nel loro paese, motivava la proposta col fatto che l'Inquisizione abbisognava di un successo in quel paese, per poter conservare l'istituzione nella Spagna. Con ciò si voleva segnalare che qualora i Fiamminghi si fossero opposti, anche il popolo castigliano avrebbe ben presto seguito il loro esempio.

Le ostilità continuarono inalterate, sebbene la decadenza dell'Inquisizione nel 1803 diminuisse fortemente la sua potenza. Vi è tuttavia qualche storico del tempo il quale sostiene che l'animosità contro l'Inquisizione era dovuta soltanto al fatto che il popolo ne misconosceva gli scopi, ma sono pochi isolati, la cui opinione è smentita largamente dai fatti che ci sono stati tramandati.

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