LA FIGURA E L'OPERA DI
GIOVANNI GIOLITTI

(Prefazione scritta da Olindo Malagodi per le "Memorie della mia vita" di Giolitti!)


Un accenno a chi era Malagodi:
OLINDO MALAGODI (Cento, Ferrara, 1870 - Morto in esilio a Parigi nel 1934) - scrittore e giornalista - italiano.
Laureatosi in lettere, intraprese giovanissimo la carriera giornalistica, collaborando a diversi periodici socialisti.
Divenuto amico di Giolitti, verso la fine degli anni Novanta abbandonò le originarie posizioni democratico-socialiste per avvicinarsi al liberalismo.
Corrispondente da Londra della « Tribuna » (1895-1905), nel 1910, grazie all'appoggio di Giolitti, fu nominato direttore dello stesso giornale romano.
Sotto la sua direzione il quotidiano, oltre che a risollevarsi da una grave crisi finanziaria, andò gradualmente mutando linea politica fino ad assumere quella duplice fisionomia, liberale e nazionalista, che lo portò nel 1920 ad appoggiare la lista di unione nazionale.
Con l'avvento del regime, vittima di persecuzioni fasciste, Malagodi abbandonò la vita politica (nel 1921 era stato nominato da Giolitti senatore del regno) e si recò in esilio a Parigi. Scrittore elegante e raffinato, pubblicò oltre alcune raccolte di prose e di poesie, numerosi saggi di politica e di economia, tra cui si ricordano:
"L'imperialismo e la civiltà materiale" (1901);
"Conversazioni della guerra 1914-1919" interessanti colloqui tra Malagodi e Giolitti.
  (postume)
"La figura e l'opera di Giovanni Giolitti"
in Giolitti "Memorie della mia vita"(1922);

Fu Malagodi, come possiamo leggere qui a fianco, a convincere Giolitti a scrivere le "Memorie"; ne curò la stesura e la stampa; il primo esemplare del libro fu da lui donato a Giolitti il giorno della festa del suo ottantesimo compleanno a Cavour, il 27 Ottobre 1922. In quel fatidico giorno, Giolitti era quindi assente da Roma, mentre la capitale era sotto la minaccia di Mussolini con la sua "Marcia su Roma". Facta preso dal panico, la sera del 26, gli inviò un telegramma, dicendo che il Re voleva vederlo. "Solo vederlo?" Giolitti prima di muoversi e fare un viaggio di 600 chilometri, avrebbe voluto ricevere espressamente l'incarico di formare un Governo, e quindi pigro com'era e con ottanta anni sulle spalle, non volle rinunciare a celebrare il suo compleanno. Più tardi rimpianse di non essere sceso subito a Roma. Ed anche Mussolini (che ricordava benissimo cos'era successo a Fiume). ammise che "con Giolitti a Roma le cose non sarebbero state così facili".
In quel 27 ottobre finiva un epoca; ne iniziava un'altra.
Il destino qualche volta si diverte a fare qualche scherzo.


LA FIGURA E L'OPERA DI
GIOVANNI GIOLITTI

Come l'on. Giolitti ha voluto che, in questo libro delle «Memorie» della sua vita, il mio nome apparisse appresso al suo, per la parte di collaborazione da me prestatagli, m'incombe di dichiarare in che cosa nella collaborazione sia particolarmente consistita.
Anzitutto, il mio migliore merito sta nell'averlo persuaso a compilare il libro di queste memorie. Ed ecco come avvenne. Trovandomi in visita presso di lui a Bardonecchia, lo scorso anno, nel corso della conversazione io gli chiesi quale verità ci fosse nella voce, venuta fuori da qualche tempo, che egli durante la guerra avesse scritte le sue memorie. - Non c'è niente, - mi aveva risposto l'on. Giolitti: - io non ci ho nemmeno mai pensato. - Ed alla mia richiesta perché non ci pensasse, egli rispondeva: - A che cosa servirebbe? Io ho cercato di fare sempre quello che mi é parso utile per il mio paese: ora che l'opera mia, quale essa sia, é compiuta, non vedo a che scopo ci debba ritornare sopra. -

Ma io insistei, osservandogli che una esperienza di governo così vasta e varia quale era stata la sua, sino dagli inizi dello Stato italiano, poteva e doveva avere un valore storico che di esempio. E finii di persuaderlo,
con la mia offerta di aiutarlo per tutta la parte formale della compilazione. Nacque così la mia collaborazione, la quale naturalmente è stata affatto estrinseca: consistendo in massima parte nel raccogliere, ordinare e riassumere documenti di ogni genere, pubblici e privati, di cui vi era una ingente mole: nell'aiutare a fare quelli che l'onorevole Giolitti, il quale aveva finito per interessarsi assai della cosa, chiamava scherzosamente «scavi archeologici», e nel distribuire la materia. Il resto, cioè la dicitura del libro, parola scritta o dettata o ripetutamente riveduta, é opera del narratore. Amo ben precisare questi limiti della mia collaborazione perché, alla prima notizia del libro, fu da qualcuno scritto che io avessi assunto l'incarico di dare ad esso la cosiddetta forma letteraria. Mi sarei ben guardato dal perpetrare un simile sacrilegio. L'onorevole Giolitti, autore di tanta forte prosa politica quale si può leggere nei suoi discorsi, possiede uno stile tutto suo, che non é quello di un purista del buon tempo antico, né di un letterato odierno e futurista; ma che risponde pienamente, asciutto e diritto quale é, all'indole del suo pensiero di uomo d'azione; e che è ben conosciuto a chiunque sia venuto in contatto con lui, nelle private conversazioni.

Oggi l'on. Giolitti, pubblicando le sue memorie, allarga il circolo di quelle sue conversazioni, con questa semplice e pacata narrazione, che dovrebbe farlo meglio conoscere, nella sua opera e nella sua indole, al pubblico del nostro tempo.

* * *

Giovanni Giolitti infatti, nonostante la costante sua presenza, per così lungo volger d'anni, e di anni che hanno contato assai nella storia nostra o in quella generale, alle vicende della vita politica del paese, anche nelle sue attinenze con quella europea, ed il dominio suo su tali vicende, é rimasto, sino ai giorni recenti, nella sua più profonda e reale individualità, pressochè ignorato dal pubblico italiano; il quale, per quella sua invida, democratica inclinazione, - che poi sconta con fatue esaltazioni - di mettere assai volentieri un qualunque denominatore che umilii ed abbassi, sotto ogni valore individuale e sociale, si è contentato di figurarselo e spiegarselo come una specie di colossale funzionario, una specie di mostro della burocrazia. Alla quale ignoranza, fatta pure la debita parte alla polemica deformatrice, ed alle competizioni ed interessi per cui un uomo politico, almeno sino a che vive e spesso anche dopo, essendo una forza amica o avversa, in quelle competizioni ed interessi, non si delinea, agli sguardi nella calma di una figura distaccata, né si presta al puro giudizio intellettuale; conviene cercare ragioni più profonde e generali.

La prima delle quali, a mia opinione, sta nella scarsa comprensione, da parte del pubblico italiano, di quella forma e forza dell'ingegno che é l'ingegno dell'azione; in confronto agli ingegni dell'arte e della scienza, e purtroppo anche della retorica e sofisticheria. Il nostro pubblico possiede una innata e sincera devozione, che alle volte si esagera ad un misticismo un po' fatuo, per il genio o artistico o scientifico, di cui ravvisa, con sufficiente chiarezza le manifestazioni, e nei quali sente veramente la presenza delle potenze profonde e innate della stirpe; e si lascia anche commuovere ad un'ammirazione, sia pure superficiale e transitoria, per certe forme; deteriori di quelle alte qualità, e cioè l'ingegnosità sofistica e la virtuosità retorica, quali si esprimono nel dibattito curiale e nella eloquenza dei pulpiti di ogni specie.

Una volta esso sapeva riconoscere di primo acchito una grande pittura, ed oggi ancora ha orecchio pronto per una grande musica; ma purtroppo appare anche più incline a dare valore ad una bella frase inutile che ad un'opera pratica, sicura e fortunata. A chi, come a me, sia avvenuto, nella, giovinezza di spostarsi dalla vita nostrana, e suoi contorni ed usi ed inclinazioni, a quella di un altro paese di educazione, diversa, é riuscito; come una rivelazione, da, principio turbatrice, lo spettacolo del capovolgimento delle valutazioni; per cui in Inghilterra, ad esempio, davanti a quella degli ingegni artistici e scientifici, nella; stima popolare, passa la schiera degli ingegni dell'azione, entro la quale, oltre i grandi politici e i grandi soldati, sono compresi, con una cattolicità di rispettosa ammirazione, che a noi riuscirebbe scandalosa, gli escogitati di qualche invenzione pratica, insieme, ai finanzieri che abbiano per un momento stretti nel pugno i destini della City o compiuta legalmente una qualche napoleonina incursione, nelle tasche della folla.

Presso noi l'azione, perché sia compresa ed ammirata, ha bisogno di essere condita di altri elementi, e colorata come le torte che si vendono sui banchetti nelle festività; noi, quasi inconsapevoli della sua perenne creatività nella vita normale, la constatiamo ed ammiriamo nei suoi momenti drammatici e nelle sue forme eccezionali, che non sono sempre le più importanti se pure producono la più forte impressione. Garibaldi e Mazzini furono indubbiamente grandi uomini d'azione nel significato più genuino; ma certo alla loro popolarità conferì assai il poncho pittoresco dell'uno e le penombre cospiratorie e i simboli dell'altro, al confronto dell'attività pure tanto più larga, ma contenuta, entro linee più severe, dell'uomo in redingote, quale fu Cavour, che lavorava nel suo studio ed in Parlamento, ed oprava entro la legge.
Ed é curioso osservare, nei primi conati di apprezzamento più reale di Giovanni Giolitti, nei giorni più recenti, lo sforzo ad una tal quale trasfigurazione mistica della sua figura e della sua opera, come se all'apprezzamento essa fosse necessaria. Ora, in ogni uomo superiore, quale che sia la sfera in cui si muova la sua attività, qualcosa di mistico e trascendente vi è sempre; egli é sempre un po' «fuor de l'uman uso», non fosse altro per quella singolarità di inclinazioni e di propositi nella quale in codesti uomini si incanala tutta la loro nativa potenza d'azione; ma guardiamoci dallo scambiare questa constatazione con una spiegazione, che essa anzi non rivela, ma vela.... Noi dobbiamo penetrare oltre quel velo e giungere, per quanto si possa, all'uomo quale è, nel gioco complesso delle sue virtù e dei suoi difetti, delle sue forze e delle sue debolezze.

Alle quali ragioni di indole, generale, altre se ne aggiungono, affatto personali. Perché Giovanni Giolitti, in un paese e fra una gente che ama il colore e la fanfara, ha la contraria preferenza del grigio e del discreto. La sua insofferenza del cerimoniale e delle sue vistosità é notoria; si direbbe che questo uomo, pure nella necessità, inerente al suo stesso compito, di essere sempre alla ribalta, abbia segretamente mantenuta nel suo spirito la divisa del monaco medioevale: - Bene vixit qui bene latuit.
Ed egli ha, cercato per quanto possibile di nascondere, o meglio tenere nell'ombra la propria persona dietro la propria opera, oggettivamente presentata, ripugnanza della pubblicità codesta, in un uomo necessariamente pubblico, nella quale qualcuno troverebbe appunto quella modestia degli uomini fortissimi, che senza volerlo gareggia con l'orgoglio più assertivo. Tutti possono ricordare come in un momento politico che si prestava appunto ad una trasfigurazione popolare, cioé all'epoca della guerra, di Libia, egli, quando capitava l'occasione, gettava acqua fredda sulle accensioni dei fuochi di bengala. Ad una folla che nella piazza del Parlamento gli tributava una ovazione, egli aveva risposto con poche parole, consigliandola di far del patriottismo pratico col ritrarsi ognuno al proprio compito, come faceva lui.

E quando tenne un discorso politico, del quale era ovvio aspettarsi che la guerra e i suoi aspetti occupassero la parte maggiore; egli della, guerra si sbrigava con quattro periodi, dichiarando col suo fine umore, che nessun ministro degli esteri si era mai pentito di aver taciuto: e passava ai problemi della politica interna, che non potevano a meno, per i loro contrasti, di gettare ombra su di lui. Chi poi abbia avuta la fortuna della sua conversazione, sa come, nel discorrere della propria opera, sia suo costante uso di ridurre le cose da lui fatte ai termini più semplici e modesti, tanto che non pochi ingenui devono essere partiti da quei conversari con la beata illusione che, alla fin fine, governare un paese sia una delle cose più semplici di questo mondo.

* * *

Dunque, se Cavour passò nella nostra vita pubblica stretto nella austerità diplomatica della redingote, Giovanni Giolitti vi entrò per una porticina di servizio, con la modesta giacca dell'impiegato.
Porta, questa della burocrazia, cioè della irresponsabilità collegiata e della volontà sottomessa, che appare la meno conveniente allo scopo di entrare e salire appunto dove la responsabilità è massima e l'arco della volontà deve essere perennemente teso. Ma, liberandoci dalle prevenzioni del nostro spagnolismo letterario, guardiamo bene alla cosa, e nel suo aspetto generale del momento, ed in quello personale.


L'on. Giolitti entrò nel curriculum degli impieghi, con l'alto grado di aspirante al volontariato, come egli ricorda col suo buon umore, intorno al 1860; quando cioè s'iniziava l'opera di costruzione amministrativa dello Stato italiano, sulle macerie, ed usando le macerie dei piccoli Stati scomparsi. Quando insomma, dopo l'epoca rivoluzionaria eroica, bisognava provvedere alla restaurazione conservatrice, alla quale é male atta la mano febbrile dei rivoluzionari. Trascorso e ormai chiuso il periodo dell'azione violenta e rapida, valida soprattutto alla distruzione, si apriva quello della ricostruzione, che richiedeva, la lunga lena della pazienza e della perseveranza: e non era troppo facile trovare uomini di codesto temperamento da dodici ore di lavoro al giorno, oscuro anche quando di primaria importanza.

Questo giovane non ancora ventenne, e che non mostrava nemmeno quei suoi pochi anni, si rivelò subito un gigante per tale opera; e i maggiori uomini del tempo, dal Sella al Lanza, dal Minghetti al Depretis, se lo disputarono, chiamandolo, a collaborare con loro in compiti ponderosi e affidandogli la presidenza di commissioni e la direzione di lavori a cui erano adibiti in sott'ordine funzionari che avevano ormai raggiunti i più alti gradi. La preparazione per la compilazione del nuovo Codice civile, l'ordinamento della riscossione delle imposte, la legge comunale e provinciale, per ricordare solo alcuni casi maggiori, ebbero lui come principale elaboratore. La genialità pronta, fresca, instancabile, quale doveva poi essere conosciuta ed ammirata nell'agone politico, di questo giovane, mentre pareva umiliarsi incanalandosi nella pesante opera burocratica, mettendo in moto per la prima volta tanti mulini dell'amministrazione statale; in realtà si rendeva consapevole a sè stessa, raccogliendo e maturando in quella diuturna disciplina le proprie energie, che altrimenti avrebbero corso rischio, in un uso politico prematuro, di sperdersi o snaturarsi.

Era, questa sua, opera burocratica, ma di una burocrazia di pioniere e di fondatore; per cui, anche prima che egli entrasse nel Parlamento e salisse al governo, quel suo lavoro di oscuro funzionario riusciva altamente politico e diventava parte integrante e permanente del nuovo Stato. E si comprende che, col ricordo di quelle moli di lavoro sgombrate nei suoi anni di noviziato, il vecchio statista, parlando con me un giorno dell'attuale problema della burocrazia, uscisse a dire che se gli impiegati lavorassero davvero tutti per tre ore al giorno, potrebbero essere ridotti della metà....
Nell'aspetto personale poi, quel tirocinio si risolse in una preparazione singolare, forse unica, alle susseguenti responsabilità dell'uomo di governo. Egli stesso, raccontandoci i preliminari infantili e giovanili della sua vita, ricorda e insiste sull'abborrimento suo dall'astratto, fosse esso grammaticale ed aritmetico prima, filosofico e professionale poi. La sua mente cercava già d'istinto il concreto, nello studio ed anche nel diletto letterario; ed il concreto glielo offerse poi l'esercizio dell'amministrazione statale; nel quale
egli apprese il congegno dell'immenso meccanismo, imparandovi anche a conoscere gli uomini, nelle loro diverse categorie di funzionari, cittadini, contribuenti, parlamentari e gente di affari che aveva interessi con lo Stato: e a diventare assai esperto, senza viaggiare come Ulisse, ma rimanendo al suo tavolo delle loro virtù e dei loro vizi.

In quel duro lavoro di ogni giorno; in quella continua rassegna di fatti minuti che tutti insieme costituiscono poi il fatto immenso della vita di un paese e di una generazione nella sua realtà, permanente pure nella mutevolezza; in quella costante lotta per dominare e regolare le cose, egli sfuggì, meglio di ogni altro e forse solo nel suo tempo, al fascino ingannevole e malefico del dottrinarismo, fiorente allora in forme che oggi ci paiono illusorie ed assurde; ma che allora, interponendosi fra la loro mente e la realtà, ne annebbiava, per tanti uomini politici, la chiara e netta visione. Giorno per giorno, a contatto con questa realtà, sia pure mediocre ed eguale, egli vi ha affinato il suo sentimento, nativamente già così acuto e sicuro, del reale; ha imparato a scoprire il vuoto entro e sotto quelle formule, vaghe e generiche, che per troppi uomini politici costituiscono la sola moneta corrente; si è fatto quel suo abito singolare di non procedere mai da idee ad idee, da raziocinii a raziocinii, ma solo da cose a fatti e da fatti a cose; si è addestrato in quella sua sorprendente attitudine per cui, posta qualunque questione, massima o minima, egli la spoglia immediatamente, quasi per un funzionamento ormai organico e inconsapevole della sua mente, di tutto il ciarpame di cui la involgono con vario motivo il dottrinarismo generico e il tornaconto particolare, riducendola,, con frequente sorpresa dei discettatori, al suo nocciolo essenziale.

A questo suo tirocinio burocratico è stato universalmente riconosciuto il merito di avergli fornita un'ottima preparazione con la minuta e precisa conoscenza ed esperienza dei congegni amministrativi dello Stato; ma in verità, ad esso va attribuito il merito ben maggiore della preparazione di una particolare forma mentis, che indubbiamente era già in lui nativa, ma avrebbe potuto essere guastata alquanto nell'accademia dottrinaria che troppo sovente é l'unica scuola degli uomini politici dei nostri tempi; di avere educato in lui uno dei più formidabili realisti che abbiamo conosciuti; inteso ciò nel senso di una mentalità che non perde mai il contatto coi fatti e le cose, e non si lascia mai ingannare e fuorviare dalle spettacolose apparenze, siano esse minacciose o lusinghiere. Che anche quando, vivendo in un tempo e in un paese in cui si sogna e si ama di far sognare, egli all'apparenza cede o sembra cedere; lo fa sempre con piena consapevolezza, perché come dice egli stesso, alle volte conviene pure buttar via qualche cosa, e col proposito di riafferrare la realtà presso che immediatamente. Non adduco esempi, ma a chi ci tenga è agevole trovare a questa enunciazione abbondanti chiose nella sua carriera politica, dai primi giorni a quelli recenti.

* * *

Con tale preparazione egli venne alla vita politica ed al Parlamento; meglio, vi fu portato, senza che egli lo cercasse, dalla sua gente montanara, semplice e storicamente democratica, come egli ricorda; quasi essa sentisse di dovere, a mezzo di questo suo forte figlio, fare valere le doti della propria indole nella vita della maggiore nazione di cui era parte. Venne alla Camera, e si dice che la sua prima impressione fosse di sentire troppo spesso, con insigni intermezzi di saggezza, declamare grosse sciocchezze da destra, a cui si rispondeva con non meno grosse sciocchezze da sinistra....
- Quale è stato il programma; suo? - hanno a ripresa chiesto con accento fra il dubbio e la sfida certi suoi critici ed avversari, i quali, riconoscendogli per la forza dei fatti la capacità di uomo di governo, formulavano una loro distinzione per negargli quella superiore di uomo di Stato, la quale, nel loro pensiero, si mostrerebbe nella grandiosità dei programmi concepiti profeticamente una volta per sempre. Al che si potrebbe ritorcere che di programmi Giovanni Giolitti ne ha meditati ed enunciati parecchi e, - quello che è peggio per i suddetti critici, - li ha anche adempiuti. Ma la questione merita altro esame.

Coloro che assumono che uomo di Stato sia colui che nel segreto del suo pensiero matura tutto un vasto progetto di rivolgimenti e di riforme, tracciandone in anticipo le linee e gli svolgimenti e proponendosene l'attuazione, poniamo, in dieci o magari venti anni, sono vittime di una confusione; scambiano l'azione con la meditazione; il creatore col dottrinario; l'uomo di Stato con l'uomo di cattedra. Il quale ultimo, dall'alto della sua cattedra, non avendo di fronte che degli scolari che non devono mettere becco nelle sue parole, o col bianco di un foglio di carta sul tavolino, può tracciare nel comodo vuoto le linee che meglio gli talentano; mentre l'uomo di azione in qualunque campo, e più in quel campo supremo dell'azione politica che tutte le altre, compendia e riassume, deve, momento per momento, fare i conti con la dura, pervicace e ribelle materia umana che è la materia della sua arte, e con l'incidenza degli eventi imprevisti o imprevedibili.

Ora io non ripeterò quello che un fine scrittore ha detto a proposito di Napoleone, che il campo del pensiero e dell'azione di tali uomini sia concluso entro il cerchio della giornata: anche codesto è un paradosso che confonde col giorno fisico il giorno storico di un avvenimento o di un seguito di avvenimenti. Questo è tuttavia il paradosso di una verità: e ben risponde alla fatuità di chi vorrebbe alla già grave fatica dell'uomo d'azione sovrapporre gli ingombri del proprio dottrinarismo. Tale concezione, figlia, di quella speciale forma dell'ignoranza che é l'ignoranza accademica, non può annidarsi che nella mente di gente a cui abbia fatto difetto qualunque diretta esperienza delle formidabili lotte che, operando, si devono sostenere nella, realtà e con la realtà; nelle quali la stessa vittoria sopra un ostacolo ne genera spesso un altro, oltre alle accennate incidenze dell'imprevedibile e dell'illogico che sconvolgono e mutano via via l'intera situazione che si era affrontata, richiedendo nuova tattica e nuove armi, per cui mentre gli scervellati e i dottrinari, in ciò eguali, spesso agiscono con una imperturbabilità che altro non è che inconsapevolezza; il vero uomo d'azione affronta i suoi compiti con lo stesso intimo ribrezzo con cui l'artista, che, è suo fratello minore, affronta i problemi cari e tormentosi della propria arte.

L'uomo d'azione non ha mai in testa, o in tasca, il perfetto disegno e programma prestabilito; egli se lo fa agendo, rimutandolo ed adattandolo a mano a mano alle mutevolezze della realtà, che sono anche conseguenze della sua stessa azione. Giovanni Giolitti, anche se non ha mai filosofate queste verità, ne ha sempre avuto un finissimo senso: ricordo in proposito, in una, conversazione che ebbi con lui, una sua fine osservazione. Si parlava del probabile corso che certi avvenimenti avrebbero preso, ed io cercavo di conoscere i suoi propositi al riguardo. Egli mi rispondeva che era inutile almanaccare deliberazioni su delle semplici probabilità e congetture. E siccome io insistevo sulla assoluta probabilità della congettura mia, che fu poi confermata dai fatti, egli mi rispose: - Sono d'accordo sulla giustezza e probabilità di ciò che Ella pensa; ma veda, anche quando una congettura si avvera, c'è pur sempre, anche nel suo avverarsi, qualche divario, che per quanto leggero basta a cambiare tutto, e a rendere convenienti decisioni a cui prima non si era pensato. -

L'osservazione dell'uomo pratico coincide qui con le più originali speculazioni della filosofia moderna, di un Bergson e di un Blondel sui caratteri e le condizioni dell'azione e dei suoi svolgimenti.
L'uomo d'azione, e la sua forza o grandezza non si manifestano dunque nella sapienza dei disegni e programmi premeditati; ma bensì nella rapida comprensione del mutevole presente, nella chiarezza e precisione della sua visione della realtà che si cela sotto le apparenze, e nella immediatezza con cui le sue decisioni ne seguono le variazioni e ne affrontano e rispondono alle sorprese. Con che non si dice che l'uomo politico sia in balia dei fatti e debba limitarsi a seguirne servilmente il corso. Per usare una, immagine, direi che esso è nelle condizioni dell'antico bastimento a vela, che ha un certo suo corso prefisso ed una, mèta, ma che mira a raggiungerla adattandosi alla capricciosità degli elementi, onde e venti, sfruttandone in qualche modo le forze anche quando avverse, e che bordeggiando guadagna perfino contro i venti contrari. La sua bussola non é il «programma» rifinito dei dottrinari; ma una certa sua tendenza, figlia del temperamento e della educazione, raffinata col raziocinio e confermata con l'esperienza. Ma è sempre la realtà di un dato momento storico che chiama, e il vero uomo di Stato risponde ad essa e non già ai dettami di una pretesa sapienza generale ed astratta, raccolta nelle carte. La saggezza politica, chi fu cosa viva nel suo momento, non è più che scheletro e polveri nella dottrina chi la vorrebbe perpetuare.

Ora, in Giovanni Giolitti questa inclinazione nativa, chi si fece ferma convinzioni per serena osservazione delle cose, i su cui si innestò la volontà di azioni, é stata la tendenza democratica e liberale. Erede di una stirpi secolarmente libera e forte; figlio della media borghesia egualitaria e laboriosa, educata a idee corte ma solide: personalmente di gusti semplici e quasi patriarcali, egli ha sempre, in comune con la sua gente, nutrito, due fervide antipatie: della ricchezza ereditaria ed oziosa, e dell'albagia dottrinaria. Le sue simpatie sono invece state costantemente rivolte al grande popolo duramente laborioso, operaio o contadino, delle officine e dei campi, con una certa preferenza per quelle classi, quali i piccoli proprietari ed affittavoli, nei quali un interesse più diretto e continuativo eccita e mette miglio in gioco le qualità del carattere e della intelligenza.

Questo suo patriarcalismo fondamentale non gli ha però mai impedito o ostacolato il riconoscimento dei tipi più vasti della moderna produzioni e della loro necessità e convenienza, e l'apprezzamento dell'opera dei grandi capitani della industria e della, finanza per la creazione di nuove forme di ricchezza, pure nella ripugnanza della egoistica avidità dei nuovi arricchimenti.

Contro il dominio pigramente parassitario delle vecchie classi benestanti, e lo sfruttamento troppo avido e spietato della nuova economia speculatrice, che assommavano in quegli anni fra la fine del secolo scorso eil principio del nuovo, tutta la realtà nazionali, egli vidi gli inizi del risveglio delle massi, secolarmente assopite nel sonno dei regimi scomparsi; risveglio che provocato da prima da ragioni essenzialmente economiche, si fece poi a mano a mano anche politico; assumendo anche forme che non dovevano certo piacere alla sua mentalità, avversa a tutto ciò cheè vago ed eccessivo, ma alle quali egli poteva pure concedere la tolleranza del suo bonario scetticismo su la durabilità di qualunque eccesso.
Ed egli favorì questo movimento, non solo per la persuasione della giustizia delle domande dei lavoratori, ai quali lo scarso aumento dei salari in confronto allo svilimento della capacità d'acquisto della moneta rendeva durissima e quasi impossibili la vita; ma anche per la convinzioni, non mai scossa da apparenti contraddizioni, che alla lunga, nonostante i contrasti violenti e le negazioni ideologiche, di fatto esso dovesse concorrere a ravvivare gli alberi stinti della ricchezza paesana; a rafforzare la compagine dello Stato, che é tanto più forte quanti più veri cittadini raccoglie; ed a ringiovanire con un flutto di sangue nuovo la nazione, alquanto rachitica e anemica nelle sui classi privilegiate, che non erano mai state robuste nè di ricchezza ne di autorità, e che cresciute nei regimi casalinghi scomparsi, apparivano inadeguate alla necessità del più vasto regime nazionale.

Questa opera di favore al movimento di risveglio e di ascesa delle classi popolari, egli l'iniziò sin dal suo primo ministero avendo avversa perfino, - ironia della politica, - la retorica socialista; la perseverò di fronte al contraccolpo della formidabile reazione conservatrice, impersonata nella vecchiaia di un uomo, il Crispi, che pure era, stato innovatore animoso, e la quale si rivestiva anche, con l'impresa d'Africa, di ragioni o apparenze patriottiche; la mantenne serenamente, nonostante le deviazioni e gli eccessi demagogici del movimento stesso, con la sua calma fiducia del buon senso fondamentale del popolo italiano, e con una costante lealtà, di cui la storia politica non ricorda molti esempi eguali. Come non ricorda forse eguali esempi di scarsa gratitudine, ed anche di flagrante ingratitudine da parte dei beneficiati; perché in quella sua lotta, perseguita per tre lustri, Giovanni Giolitti non solo trovò davanti a sè la resistenza implacabile, ma politicamente giustificabile di conservatori e reazionari; ma spesso, e nei momenti più difficili, ebbe alle spalle anche l'ostilità, interrotta solo da qualche momento di chiaroveggenza e di resipiscenza, delle classi e partiti che da quella sua politica traevano le ragioni e il sangue della loro vita.

* * *

La battaglia per la libertà, da lui condotta, si concluse con una vittoria, totale e definitiva, dovuta soprattutto alla combinazione di eccessiva violenza e di dimostrata impotenza del conato reazionario. La conversione al concetto giolittiano di governo fu così larga, quasi universale; la resa dei fautori e difensori del concetto opposto così completa, che le ragioni stesse della lotta vennero meno con la tacita intesa che la questione non fosse nemmeno più posta.
Di quel conservatorismo che aveva con tanta tenacia combattuto fra il 1892 e il 1900, per stabilire il proprio regime nella legge stessa, non rimase che la presunzione di un esercizio più rigido del governo da parte dei suoi uomini in confronto agli uomini del partito democratico liberale. Se quel conservatorismo avesse invece, pure nella sconfitta, mantenute e difese le proprie posizioni, almeno idealmente, restando fedele alle proprie premesse, l'onorevole Giolitti avrebbe dovuto per parte sua tenersi in armi per fronteggiarlo. La caduta del conservatorismo quale allora si ebbe, nelle convinzioni oltre che nei fatti, lo assolse da questa necessità di combattente, dandogli una nuova libertà di azione, nella quale le immanenti ragioni del conservatorismo stesso potevano da lui essere riconosciute e, messe in gioco al servizio di una più larga ed alta concezione. Così che ad un certo punto della sua carriera, a questo uomo politico singolare anche nella fortuna, avvenne di dover fare ad un tempo le due parti del dramma politico, quella del conservatore e quella del democratico, riassumendo in se stesso e nella, sua opera la totale dialettica del momento storico e del paese.

E' questa la seconda grande epoca della sua attività politica, che si apre con il suo trattamento dello sciopero socialista rivoluzionario del 1904, e durante la quale egli, cessando, pure senza alcuna rinuncia ai principi liberali, dall'essere l'uomo di una parte, e sollevandosi sopra le tendenze e i contrasti dei partiti e delle classi, ne diventa il moderatore e regolatore, derivandone, per così dire, l'equazione a favore degli interessi superiori e permanenti del paese. È la posizione che hanno i pastori di popoli nelle albe della storia; ma l'alba, nella storia, si riaffaccia ad ogni ciclo nuovo.

Quali sono questi interessi superiori, che furono il punto supremo di riferimento di tutta la sua azione politica, di ripresa in ripresa? Variabili di stagione in stagione, e di opinione in opinione, hanno questo di eguale, di esprimersi sempre in una grande parola comprensiva: il «Paese», la «Patria», l' « Italia». Giovanni Giolitti, che pure ha vero cuore di patriota, preferisce nel significare questa realtà, la parola più semplice, e modesta: - Paese. - E questa preferenza richiede una spiegazione.

Un cittadino italiano, quando pensa e parla del proprio paese è incline ad allargare la propria, cittadinanza, non attualmente e imperialmente, come farebbe un inglese; ma piuttosto idealmente e storicamente. L'orgoglio della sua cittadinanza egli lo sente nella eredità storica, risalendo a Venezia, a Genova, a Firenze, alla Roma del papato medioevale, e meglio ancora alla grandezza universale di Roma antica. Tale allargamento è legittimo, e genuino il sentimento. Ma essi espongono pure ai tranelli e traviamenti della retorica; col rischio di confondere in un complesso irreale momenti di storia che non hanno, dall'uno all'altro, continuità di potenza, sia politica che economica. Le vittorie dei romani sui cartaginesi o dei veneziani sui turchi, sono in più necessaria relazione con la storia generale del mondo che con la nostra situazione odierna; glorie certo ed imperiture della nostra storia, ma di una storia tramontata. Quell'ultimo barlume di orgoglio, di cittadino romano o di munifico mercante del Rinascimento che l'italiano odierno può raccogliere nel proprio petto, non è senza qualche inconveniente per la chiara visione ed il retto apprezzamento della realtà in cui deve svolgersi l'azione sua e la vita del suo paese.

Quasi per reazione a tale tendenza ed ai suoi rischi, il patriottismo di Giovanni Giolitti è tutto attuale. Egli si compiace certo delle glorie del passato e della nobiltà storica che ce ne viene; ma si guarderebbe bene dalla fatua tentazione, a cui pure così pochi sanno resistere, di farle pesare sulla bilancia del giudizio presente. La preoccupazione della realtà odierna lo ha distolto dalla retorica retrospettiva, di cui l'anima nostra letteraria troppo si pasce, anche quando essa possa pure avere un innegabile valore di richiamo e di eccitamento. Suo costante studio è stato di rendersi ben conto delle reali condizioni del paese quale oggi è, nel confronto con le altre grandi compagini nazionali e statali con le quali si trova a competere e a collaborare. Economicamente paese povero, sia per angustia di territorio e deficienza delle materie prime su cui si fonda la ricchezza moderna, sia perché tre secoli di indolenza e di mancate iniziative coloniali e commerciali vi hanno impedita l'accumulazione di grandi capitali. Nell'aspetto umano e morale una popolazione sobria, dotata di naturale, buon senso e laboriosità; ma il cui lavoro per l'ancora scarsa educazione e per l'uso di procedimenti in parte antiquati o primitivi è, per il suo sforzo, poco redditizio.

Classi dirigenti ancora, scarse di numero, ricche d'intelligenza nativa e vogliose di progresso; ma eccessivamente suggestionabili e facili così ad esaltarsi come a deprimersi e non costantemente, consapevoli della propria missione e dei doveri ad essa inerenti. Non un paese di decadenza, come proclama di tratto in tratto certo pessimismo nostrano, ma piuttosto in formazione; con la complicazione di elementi antichi in una formazione nuova. Giovanni Giolitti ha sentita e compresa questa complicazione di vecchiaia ed infantilità meglio che nessun altro, e si è reso conto del particolare trattamento che essa richiedeva, come un medico che ha la cura di un corpo già uscito di malattia, ma ancora convalescente e debole, e che pure avviandolo alla vita normale ed alla sua libertà, procede con misura e prudenza.

Una frase che spesso gli viene alle labbra, è che anche nella politica di un paese bisogna anzitutto badare al cuore, senza troppo preoccuparsi dei malesseri accidentali o secondari. E il cuore di una nazione è lo Stato; e la deficienza di cui ha storicamente sofferto l'Italia, è stata appunto la deficienza nell'organo statale. Per cui l'onorevole Giolitti ha sempre inteso; a rafforzare lo Stato e a proteggerlo ad un tempo contro ogni e qualunque influenza disgregatrice, da qualsiasi parte provenisse; a rafforzarlo con l'immissione di sangue nuovo, sforzandosi di creare, ed allargare e intensificare l'interessamento allo Stato da parte delle grandi classi popolari; a proteggerlo vigilando a che le pretese o le ideologie particolari di queste classi non vi insinuassero ragioni, di indebolimento.

Così l'uomo che instaurò con tanta, audacia, fiducia e larghezza la politica democratica e liberale, è pure l'uomo della militarizzazione dei ferrovieri e della legge sullo stato, giuridico degli impiegati, intesa ad impedire che le legittime agitazioni per i loro miglioramenti distruggessero la disciplina di coloro che dello Stato devono essere leali servitori. Così egli, dopo aver lasciato libero corso agli scioperi, come mezzo per ristabilire, la equa bilancia dei salari adeguandoli al cresciuto costo della vita; quando lo sciopero, nel 1904 volle assumere significato e compiere azione politica contro lo Stato, convocò i comizi elettorali per fare pronunciare contro i sobillatori del movimento un giudizio, che non poteva non essere e fu conservatore.
Ma poiché il partito radicale, che per mal calcolata competizione demagogica si era lasciato fuorviare dalla propria politica, accodandosi in quella occasione ai rivoluzionari, fu in quelle elezioni particolarmente colpito, egli, a raggiustare l'equilibrio, chiamò alla presidenza di una Camera conservatrice un radicale, a preparazione della finale entrata di quel partito nell'orbita costituzionale, e con quella Camera fece una politica di riforme benefica alle classi popolari.

Più tardi, nel ministero del 1911-1913, seppe, riunire in uno stesso programma punti divergenti ed anzi opposti, e compì la riforma del suffragio universale, facendola votare da una Camera nella quale forse quasi ogni deputato in cuor suo la temeva e deprecava, ed attuò il Monopolio delle assicurazioni con l'appoggio dei socialisti e contro la resistenza, accanita anche se dissimulata, dei conservatori: ma poi, capovolgendo la situazione, intraprese, per ragioni di politica nazionale, l'impresa di Libia, avversata dalla demagogia socialista e con l'appoggio appassionato di nazionalisti e conservatori.
E' stata codesta, nella sua condotta e ne' suoi metodi, una curiosa politica, fatta al disopra, ma non al di fuori dei partiti; perché ogni partito, coi suoi interessi, le sue tendenze, le sue passioni vi era successivamente usato agli scopi che essa si prefiggeva. Ed é necessariamente riuscita una politica di sorprese, che dava al pubblico un certo stordimento, e che accentrava contro il suo autore i rancori e le accuse più contraddittorie: venendo egli accusato a volta a volta di demagogismo dai conservatori e di reazionarismo dai rivoluzionari; rancori ed accuse che non erano certo compensati dalle temporanee e successive soddisfazioni ed approvazioni dell'una o dell'altra parte, perché nella politica quelle si largiscono a libbra e queste ad oncia.

Le quali accuse e loro definizioni teoretiche si sono poi assommate in una accusa e definizione unica: quella di dittatore. E noi un certo carattere dittatoriale a cui a grado a grado, nel suo adeguarsi ad una sempre più larga realtà, giunse la politica giolittiana, non possiamo né vogliamo negare. Dobbiamo però chiarirlo e precisarlo. Codesto appellativo di dittatore suona duro a noi, per le sue tradizionali connessioni con la compressione, la prepotenza e la violenza; con la sovrapposizione: di una volontà individuale, incontrollata e capricciosa, sulla volontà generale. Ma la dittatura spontaneamente elaboratasi nella politica giolittiana, é stata di tutt'altra indole. Certo, nell'aspetto individuale, del dittatore, Giovanni Giolitti ha sempre avuta, - ed é stata una delle sue qualità più alte, - la potenza della volontà che affronta qualunque lotta, sta ferma nelle posizioni più assalite, o va diritta al suo scopo attraverso l'addensarsi degli ostacoli; ma la sua, non é mai stata una volontà angustamente individuale e capricciosa, bensì prudente e scrupolosamente ponderata; di quelle volontà che avanti di muovere all'azione cercano la giustificazione della realtà; così che, a bene considerarle, appaiono la volontà di una maggioranza e di un momento, che nell'individuo trovano il loro strumento.

Una dittatura, insomma, che cerca sempre il consenso, ed a cui, da una parte o dall'altra viene il consenso; l'azione personale ed originale restringendosi alla scelta di questi consensi ed alla libertà di passare dall'uno all'altro. E la sua giustificazione ideale sta appunto nel fatto di questa scelta e di questa libertà, per le quali il dittatore liberale non é, quale sotto la maschera pomposa riesce spesso il dittatore tradizionale, il semplice servitore di un interesse particolare; ma fa anzi servire, i diversi interessi, secondo la sua concezione, all'interesse dello Stato e della Nazione.

Quando la dittatura giolittiana sia, considerata sotto questo aspetto, é agevole trovare ad essa i più nobili riscontri e precedenti della storia nostra ed altrui; e forse si può porre il quesito se questa forma di dominio morale e consensuale, per cui un uomo provato e sperimentato si assume, senza sfuggire ai controlli, la somma della responsabilità del governo, non sia ciò che di meglio possano dare le democrazie moderne, che altrimenti rischiano di logorarsi nelle fazioni, senza giungere alla vera sintesi statale.
E forse agli uomini che riescono ad attuare codesta pratica di governo, personale e liberale ad un tempo, sarebbe il caso di attribuire un titolo diverso da questo, che per associazioni storiche si confonde con quello di tiranno; quel titolo per esempio di «Protettore», che assunse per sé Oliviero Cromwell, il quale viceversa, per molti rispetti, non seppe o non poté essere che un dittatore del tipo antico. Per parte sua Giovanni Giolitti preferirebbe certo il titolo, all'apparenza più modesto, di «servitore dello Stato»; ma bisogna intendere che questo grande servizio non si può disimpegnare che con la ferma volontà e la sicura capacità di dominare tutti gli altri.

* * *

Ho cominciato a delineare questo ritratto politico di Giovanni Giolitti rilevando quanto poco il pubblico italiano, pure in tanti anni che lo ha avuto innanzi come il protagonista della sua vita politica, e nonostante le continue discussioni a cui la sua azione e la sua opera hanno dato luogo, abbia imparato a conoscerlo nella sua individualità complessiva. Egualmente scarsa e errata si dimostra, questa conoscenza in quella rassegna, e analisi delle qualità e inclinazioni personali che si ama fare, in grande e in piccolo, sui giornali e nelle conversazioni, per qualunque grande uomo pubblico, con la curiosità di penetrare il segreto della sua condotta e dei suoi successi.
Segreto che nel caso di Giovanni Giolitti non c'é, tanto tutto é chiaro e diritto e semplice nella sua azione: se non che forse codesta semplicità stessa costituisce per la mentalità generale il più riposto dei segreti, perché essa, abituata alla superstizione del tortuoso e del complicato in fatto di politica, delle spiegazioni semplici non sa persuadersi.
Così, intorno a lui ed alle sue pretese arti parlamentari e politiche, intese ad irretire gli avversari ed a fuorviare i partiti, si é creata tutta una trama di leggende. Si é favoleggiato dell'on. Giolitti come di un uomo dotato di una così raffinata e complicata, furbizia da rendere vana qualunque difesa e controffesa dell'altra parte; si é detto del suo scetticismo che gli consentirebbe un gioco spregiudicato a danno di coloro che non sanno liberarsi dagli scrupoli sacrosanti; si é narrato della sua passionalità, sia nelle amicizie che nei rancori, che gli assicurerebbe la supina fedeltà degli amici ed il pauroso rispetto degli avversari, e via via.

La letteratura del cosiddetto «giolittismo», corrente in proposito nei giornali e per i circoli o corridoi politici, é appunto una di quelle leggende che si formano ancora nel realismo dei nostri tempi.
E come avviene spesso, la leggenda non solo esagera, ma falsifica addirittura la realtà, rispondendo meglio allo spirito dei suoi compilatori che a quello dell'uomo a cui é attribuita. Che in un paese nel quale, la furbizia é tenuta in troppo onore in ogni campo, e in quello politico e parlamentare gioca per quattro quinti nelle competizioni di persone e partiti, i successi di Giovanni Giolitti siano attribuiti al dono ed alla pratica di una furbizia miracolosa, si capisce. La verità invece, per chi l'abbia conosciuto da vicino é questa: che egli é certo uomo molto accorto, quanto basta per eludere agevolmente il gioco e l'insidia della furbizia altrui: ma alla cui condotta ha presieduto sempre una semplicità eccezionale, di propositi e di mezzi, la quale, fra tanto armeggiare di furberia, é forse riuscita per se stessa la furberia suprema.
In un agone dove i competitori si industriano a tenersi su parecchie strade ad un tempo, chi prenda senz'altro la strada maestra, finisce, indubbiamente per avere il vantaggio.

Altra favola il suo scetticismo. Perché pochi uomini, in quell'oscurarsi dei valori ideali, che pure fra tanti altri mali é forse la malattia più grave del nostro tempo, hanno mantenuta come lui così ferma nel cuore e nella mente la devozione, tanto più sincera quanto meno ostentata, a quelle grandi realtà che sono la patria, il dovere, la lealtà; devozione che s'accompagna benissimo all'ironia verso le, piccolezze e le manchevolezze umane. Quello che in certe sue caratteristiche disposizioni é stato accusato come scetticismo, é serenità; una lucida, fredda serenità alpina, come di chi salendo in alto vede e misura le reali prospettive e proporzioni delle cose; e per cui egli ha sempre saputo affrontare con una calma e sicurezza tanto più cospicue fra la eccitazione generale, certe mostruosità o spauracchi della demagogia o certe farneticazioni dell'imperialismo che spaurivano o esaltavano a volta a volta l'opinione pubblica; e, dare di cose ed avvenimenti certi giudizi spicci che da prima stupivano per il loro contrasto con le valutazioni generali e correnti, ma che poi alla fine si mostravano quasi sempre, giusti, ed erano tacitamente accettati.

Quanto questa sua freddezza e serenità di giudizio, con la conseguente azione, valgano nel governo, soprattutto nei momenti più gravi e difficili, il pubblico e, non solo quello politico e parlamentare, ma il pubblico generale, ai cui gusti ed abitudini di ammirazione quest'uomo per tanti versi fa pure così scarso appello, lo ha sentito e compreso: così che finisce sempre, quando i nodi s'intricano, per rivolgersi a lui, come ad una tutela, forse non troppo gradita perché non indulge a capricci e debolezze e non salva in questo nemmeno le apparenze, ma nella quale si può affidarsi e riposare.
Giolitti e la sua politica sono per il pubblico italiano la quaresima dopo i carnevali di ogni specie e colore a cui ama abbandonarsi; ed é sua, fortuna che di queste quaresime senta pure il bisogno, e che vi sia ancora chi abbia la pazienza di soddisfarlo.

Nei suoi rapporti con gli uomini si confermano queste particolari doti e disposizioni. La sua porta si apre facilmente, e siccome, la sua azione politica non comporta effetti di scena, il suo tono, semplice e bonario, é eguale con tutti. Quantunque egli creda alle sue prime impressioni, non ci si abbandona; nel giudizio degli uomini dà scarsa importanza alle parole ed aspetta i fatti. Le sue, amicizie più affettuose e le sue famigliarità più costanti sono forse state sempre di carattere privato, con uomini che non sono nella politica o vi sono senza l'ansia di ambizioni personali. Quando si passa alla politica, le ragioni della politica entrano per lui, ed é giusto e bene, anche nella amicizia. Nella sua robusta persuasione, di uomo forte e, sano, della giustezza delle proprie idee e della convenienza generale dei propri propositi, egli ha combattuti e combatte gli uomini che li avversano o traversano; non risparmiando certo i colpi, come é suo dovere di combattente, senza però mai confondere l'avversario politico col nemico personale, e rispettandolo anzi quanto più francamente avversario; ed uomini che lo combatterono strenuamente, ma lealmente, e che poi nelle mutate circostanze si sono avvicinati a lui, ebbero le accoglienze più cordiali.

Tale suo rispetto verso la coerenza degli avversari ha la sua contropartita nella esigenza della lealtà degli amici; egli vuole essere sicuro delle persone che collaborano con lui, perché ai suoi collaboratori intende affidarsi pienamente. Ma, ripeto, gli uomini che sono, nella, politica, egli li giudica soprattutto politicamente, per quello che egli ritiene il bene e il male della loro condotta e dei loro atti. Egli ha, e mostra un ironico compatimento per i fatui, per gli inconcludenti, per coloro che s'illudono di poter adoperare le parole dove occorrono i fatti; ma la sua antipatia, più decisa é contro i deboli: - Perché, egli mi diceva un giorno, un uomo debole al governo è peggio di un briccone. È questione di aritmetica; perché il briccone fa le bricconate che convengono solo a lui, mentre il debole si presta a quelle che convengono a tutti coloro che gli si sono messi d'intorno. -

Ma, a parte i giudizi particolari e personali, su cose ed uomini, ha egli una idea generale della funzione politica e delle qualità e doti d'intelligenza e carattere che meglio conferiscono a disimpegnarla? L'ha, ed anche l'esprime, nonostante la sua ripugnanza alle disquisizioni astratte e generiche; ma riducendola a termini così semplici ed umili, da farla apparire qualche cosa fra lo scherzo e il luogo comune. Egli vi dice che a fare l'uomo di Stato occorre semplicemente del buon senso e della fermezza, e la lode che più spesso gli viene in bocca parlando di uomini politici e statisti di grande nome, morti o viventi, é appunto che essi fossero o siano «uomini di buon senso», ed «uomini fermi».

Pare troppo poco, a prima impressione. Ma bisogna pensare come il buon senso, da virtù casalinga e comune come l'erba nel piccolo, cerchio della vita privata, diventa sempre più difficile e raro spostandosi ed elevandosi in circoli sempre più larghi, dove non può più operare senza il sussidio delle maggiori virtù dell'intelligenza e della cultura. Il buon senso dell'uomo di Stato, pur rimanendo di eguale specie, sta a quello di un bravo contadino o bottegaio, come la quercia alla stipa. E la semplice fermezza, posta e mantenuta al centro del governo, al punto cioé in cui incidono le continue pressioni da ogni parte, diventa una virtù di carattere, anch'essa superiore.

Per l'attività politica e il buon esercizio del governo egli crede pure necessaria un'altra cosa, che apparirà ancora, più umile e comune: la buona salute. Ora basta pensare a quelle scariche continue di neuropatia che traversano; e pur troppo perturbano l'atmosfera politica del nostro tempo, per dargli pienamente ragione. Egli del resto questa verità l'ha dimostrata in se stesso, con la disciplina di una vita semplice ed ordinata, condotta il più possibile lungi dai centri di codesta nostra civiltà eccitatrice, nella pace e nel riposo, della campagna, con l'esercizio di quelle sue diuturne passeggiate, a proposito delle quali egli dice scherzosamente che la vera professione a cui egli era nato é quella di postino rurale. E non dobbiamo forse alla nativa sua buona salute, preservata con la vita sana se oggi, ad ottanta anni, egli domina ancora la vita politica italiana col miracolo di una intelligenza sempre lucida e fresca, e ci appare come il patriarca, a cui il paese può ancora rivolgersi nei suoi difficili momenti, tanto per il consiglio saggio che per l'azione conciliatrice?

* * *


Con questo scritto io ho inteso di abbozzare un semplice ritratto della individualità morale e politica dell'on. Giolitti, quale essa appare nella sua opera, senza entrare nel giudizio dell'opera stessa, che, sarebbe oggi affatto prematuro, ogni opera politica non essendo giudicabile che a distanza nella totale inquadratura storica in cui é compresa.
Credo tuttavia opportuno un rilievo, al riguardo di quella che potrebbe chiamarsi una critica o accusa pregiudiziale e generale. Vi é infatti chi pensa di trovare nella torbida e contraddittoria situazione attuale, ragione per constatare che la politica gio
littiana, che mirò anzitutto a rendere più democratico lo Stato, chiamando a parteciparvi le masse, sia fin d'ora condannata dalla necessità, generalmente riconosciuta, della reazione antidemagogica per la salute stessa dello Stato.

La pretesa constatazione é futile perché qualunque azione politica, comunque svolta, tende ad eccedere, sino a provocareí la reazione che la limita e contiene. Ma erra chi pensa che tali reazioni annullino le azioni ed opere che le provocano e, contro le quali appaiono dirette; al contrario esse le integrano in quella più larga realtà in cui la politica, facendosi storia, diventa un tutto continuo ed inscindibile. Ed appunto nel caso che consideriamo, si può chiedere se quella esigenza, che oggi sembra predominare, che cioè ogni cittadino faccia maggiore sacrificio dell'interesse proprio a quello dello Stato, potrebbe solamente, porsi senza l'antecedente della politica giolittiana, che dalla massa bruta traeva nuove classi di cittadini, con l'allettamento di diritti che implicavano poi nuovi doveri. E per richiamare, oggi il cittadino a questi doveri, era d'uopo che la sua dignità di cittadino fosse prima posta e riconosciuta.

Chi oggi dunque intenda fare opera politica, anche nuova e propria, non può a meno di fondarsi sulla precedente opera di Giovanni Giolitti, anche quando pensi di contraddirla e modificarla. Il che equivale a riconoscere che essa, è ormai parte della storia, del Paese, e tale non può essere diventata perché rispondeva, ad una necessità storica assoluta, costituendo un momento, la cui soppressione non é nemmeno pensabile, nella sua formazione statale, e nazionale.

A riprova della quale verità si possono indicare appunto quei fatti odierni che agli oppositori paiono contraddirla: il fatto del fascismo che per il suo essere sente il bisogno di espandersi nella folla, e il fatto di quel socialismo il quale, nato e cresciuto nella politica democratica dell'on. Giolitti, dopo il lungo errore di negazione dello Stato nazionale, sente oggi di non poter vivere che entro di esso e nella sua protezione.

OLINDO MALAGODI.
Ottobre. 1922.

Per la cronaca:
Il libro fu stampato e donata la prima copia a Giolitti
il 27 ottobre, giorno del suo 80mo compleanno nella sua casa di Cavour
Nello stesso giorno Mussolini faceva la "Marcia su Roma",
e formava il suo governo.

 
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