VENTISETTESIMO CAPITOLO

CAPITOLO VENTISETTESIMO

GLI ULTIMI GIORNI DELLA REPUBBLICA ROMANA
Le stragi - La resa: "Romani una nube sorge oggi tra voi e l'avvenire" - Ma il "leone ferito a morte è ancora maestoso". - "Popolo, la virtù non si insegna, è nel cuore".
I TRADITORI: La "disperata difesa di Roma? è rigettata all'unanimità".
- "La resa di Roma? è ammessa all'unanimità".

Non si trattava "oggi o mai più di salvare Roma", scrive Garibaldi il giorno dopo del 3 giugno; dal momento che un esercito di 40 mila uomini, con 36 cannoni e munizione in abbondanza, in stato di ricevere rinforzi e materiale ad libitum per via mare, e con Vaillant, da tutti riconosciuto ingegnere insigne, che può eseguire le sue opere d' approccio, una città si espugna a tempo matematicamente prestabilito. La sola speranza che le arride é di cadere con gloria; e per provvedere a questa gloriosa caduta, si adoperarono tutte le menti e tutti i cuori in Roma.

A Giacomo Medici, Garibaldi affidò la difesa della sua linea avanzata, ristretta al solo Vascello e a poche casupole strappate di mano ai francesi. Egli stesso si stabilì in quel nido d'aquile che é il casino Savorelli, la di cui torre, che supera l'altezza della porta San Pancrazio, gli permetteva di osservare i movimenti dei francesi nelle ville, e dei suoi al Vascello.
Pregò Manara di cedere il comando dei bersaglieri ad altro ufficiale e di accettare il difficilissimo incarico di capo di stato maggiore. Per Manara fu un grave sacrificio, perché si dovette separare dai suoi diletti compagni del Quarantotto, i disciplinati e prodi soldati di tanti combattimenti, rinunziare un incarico indipendente e facile, perché questi gli obbedivano con amore e con rispetto (
Egli il giorno stesso ne aveva scritto con così giusto orgoglio all'Assemblea), per un altro di assoluta soggezione, e d'intermediario fra Mazzini e Garibaldi.
Ma egli accettò senza esitazione e ordinò lo stato maggiore sotto una pioggia di palle, di bombe e di razzi, con cui francesi salutavano Garibaldi. Costoro, che avevano durante l'armistizio apprestati e depositati vicino a monte Verde, al coperto dai fuochi della città, fascine, fastelli, gabbioni e tutti gli attrezzi necessari per gli assedi, mentre i carri, le munizioni, le casse, i cannoni e tutto ciò che appartiene all' artiglieria erano raccolti a Santa Passara, si accinsero all'opera la notte del 4 giugno.

Queste vantaggiose posizioni essi occupavano e così sguarnite di opere avanzate erano le mura Onoriane che il generale Vaillant tracciò la prima parallela trecento metri dalla linea designata all'attacco, cioè la parte più sporgente della cinta. Però i nemici dovettero per molto tempo lavorar di notte, tirando archibugiate contro i nostri cannonieri che li molestavano, mentre il Regnault contro S. Pancrazio e Sauvin contro ponte Molle tenevano i romani sempre all'erta.

Dietro la prima parallela, i francesi eressero due batterie. L'una, di due pezzi da 16, a 160 metri dalle mura, in faccia all' angolo sporgente del bastione 6.°, e di un obice di 22 centimetri. Era affidato al capitano Gachau che la comandava con il compito di paralizzare i pezzi romani che da quel parapetto impedivano le comunicazioni fra gli assedianti e i loro depositi nella vigna Merluzzetto.
La seconda batteria, costruita all' estrema destra della parallela, mirava a tenere in freno l'artiglieria romana, posta sull'Aventino alla riva sinistra del Tevere.
I romani intendevano a rafforzare con gabbioni e terrapieni parte delle mura di cinta, da porta Portese a porta S. Pancrazio, e a fortificare la batteria del Testaccio, ad approntare una trincea fino al Vascello e di qui alla casa Giacometti, per molestare da un luogo coperto il nemico, mentre questo si affrettava alle offese ed aveva approntato la sua trincea larga e alta un metro la quale dalla chiesa di S. Pancrazio, correndo per 1500 metri, terminava alle alture che costeggiano il Tevere.

Accortosi all'alba i romani, cominciarono a fulminarla dal Testaccio, da S. Alessio (sul monte Aventino) e dal bastione 6°. Le due batterie dei francesi, benché rispondessero vigorosamente, furono costrette a tacere e il Gachau rimase perfino ferito.

Dalla destra di S. Pancrazio i nostri tempestavano il casino Corsini, ma i francesi erano così sicuri della vittoria finale, che respinsero con scherno le offerte di aiuto dai napoletani e dagli spagnoli. Sulla stessa parallela il giorno 7 posero in linea una terza batteria per tirare colpi convergenti contro i difensori dei bastioni 6.° e 7.°.
Oltre la trincea a casa Giacometti, i romani ne elevarono una seconda, per proteggere le sortite delle truppe e provvedere in caso di sconfitta alla ritirata in città.
Un cannone da 18 fu collocato sul 9.° bastione; un altro da 36 aggiunto agli altri due sull'8.°, due sul 7.°, un obice e un cannone sul 6.°, un obice sul 5.°, e all'alba del giorno 6 i romani tormentarono aspramente il nemico, mentre una fortissima pioggia li costrinsero a lavorare in acqua fino ai ginocchi, non potendo essi per il tempestare delle batterie dal monte Aventino farla scorrere nel fiume. Durante la notte il nemico impiegò parecchia gente accanto alla terza batteria, e i romani accorgendosi che il grande attacco si opererebbe contro i bastioni 6.° e 7.°, fecero trincea per chiudere le gole di quei due bastioni e impedire al nemico di salire sulle brecce.
I nostri s'accinsero con maggior lena a demolire la prima batteria del nemico smontandogli vari pezzi, danneggiando anche la seconda batteria; nulla però valeva a ritardare il lento, ma ineluttabile progresso delle parallele. Per evitare i danni del cannone romano alle guarnigioni delle ville, il generale Vaillant fece asserragliare e fortificare le bocche delle vie che mettevano alla porta, eseguire i lavori di terra necessari ad assicurare le comunicazioni e porre al coperto i soldati; e per meglio avvicinarsi ai bastioni piantò due controbatterie in faccia al 6.° e 7.° bastione.

I romani in sostegno alla trincea ne costruirono un'altra grandissima tra le vecchie mura Aureliane e i due bastioni, in modo che l'angolo formato dai due lati partisse dal mezzo della cortina, e ciò per potere, come in piazza d'arme, tenere in rispetto il nemico, se mai la spuntasse di superare la breccia. Altre due linee di difesa furono ideate, l' una avente per base le antiche mura Aureliane, l'altra in via da S. Pancrazio al bastione di S. Spirito. Si traforarono inoltre le case lungo la via, si asserragliarono le strade per resistere fino all'ultimo, e difendere la ritirata delle truppe nella città Leonina, donde poter cominciare una nuova ed ostinata resistenza.
Si pensò anche di distruggere la villa Savorelli e tramutarla in ridotto, ma per dissensi tra i capi, questo saggio progetto non fu compiuto, ed a ciò si deve se i francesi poterono impadronirsi della breccia prima del tempo.

Il giorno 8 Garibaldi domandò 2000 uomini freschi, 100 di cavalleria e due pezzi leggeri per una sortita con quelli di Manara e con la legione italiana, nell'intendimento di proteggere le nuove truppe che dovevano arrivare sotto il comando di Masi. Il Triumvirato acconsentì, ma volle la sortita in più grandi proporzioni.
I francesi intanto avevano preparato una quarta batteria sempre sotto il martello degli artiglieri del monte Aventino, e avevano ghermite molte provvigioni destinate ai romani con una ricognizione di cavalleria lungo la riva sinistra del Tevere.

La sera del 9 i finanzieri romani da porta S. Pancrazio, e una compagnia da porta Portese, uscirono per molestare la batteria alla vigna Merluzzetto; ma i francesi che se ne accorsero, lo impedirono, e il tentativo dei nostri costò il tenente Bolognesi e il capitano Rosat, colui che ferito il giorno 3 voleva ritornare al suo posto; e al suo posto una palla in testa lo uccise.
I francesi approntarono nel frattempo due nuove trincee per mettere in comunicazione villa Corsini con la chiesa e il convento di S. Pancrazio e per recarsi dalla stessa villa alla strada, prolungandola fino allo sbocco della via che partiva dalla prima parallela; costruirono la batteria quinta e inviarono una colonna lungo il Teverone per rompere i ponti Salaro, Nomentano e Mammolo. Qui vi fecero prigionieri il colonnello Pianciani e un suo ufficiale, i quali arrivavano in carrozza dalla Romagna. Di questa cattura si fece gran vanto l'Oudinot, come se fosse avvenuta in un combattimento.

Maggiori danni provocò ai romani la rottura dell'acquedotto della Paola, le cui acque abbondanti alimentavano le bellissime fontane della piazza di S. Pietro e mettono in movimento i molini in Trastevere. Per aver farina, i romani fecero venir da Velletri una macchina a vapore.
La sortita, di cui si disse, fu decisa per la notte del 10. Ottomila uomini dovevano uscire, divisi in cinque brigate dalla porta Cavalleggeri; e difatti uscirono con la camicia rossa messa sopra le vesti, per potersi fra di loro riconoscere. Ma appena fuori della porta, Garibaldi comprese l'errore di tale stratagemma e fece nascondere le camicie che rendevano i soldati visibili come di pieno giorno.
Bastò un piccolo panico per mandar tutto a vuoto; passando davanti una villa, vollero i soldati assicurarsi se questa fosse abbandonata e montarono una scala. Rottosi il primo gradino più in alto, cadde uno, cadde un altro, e due fucili si scaricarono; l' avanguardia sotto gli ordini di Hofstetter e di Sacchi si era avanzata per un bel tratto, e, credendosi attaccata alle spalle dai francesi, in un baleno fu sottosopra, si sbandò, fuggì, rovesciando i compagni, che stettero fermi lungo la strada. Manara percuote con la spada, Garibaldi frusta col gaucho, finalmente i bersaglieri incrociano le baionette e fermano i fuggiaschi, ma la sorpresa era divenuta impossibile, ed inveendo contro la maledetta paura Garibaldi comandò che si rientrasse in città.

Ad altro tentativo si appigliarono i romani, inviando nn grosso brulotto e due battelli pieni di polvere e di acidi infiammabili per incendiare il ponte di S. Passera che i francesi avevano eretto vicino a S. Paolo, ma questi avevano pezzi di marina, e tirarono sul brulotto che colarono a fondo con le altre due barche.
Grave sventura causò l'insuccesso della sortita, perché i francesi veramente se ne erano accorti, e riuscendo essa, si sarebbe potuto prender di rovescio i loro lavori e forse sospingere essi stessi al Tevere. La 5.a batteria dei francesi era ormai costruita e munita di cinque pezzi per demolire le difese del bastione 7.° , e tirare contro i pezzi dell' 8.° Altro bastione fu eretto sul piano di villa Corsini e munito di due cannoni da 24 e di due obici. Per la notte del 12 le due batterie 5a e 6a furono armate, mentre il generale Morris con la sua cavalleria penetrò fino a Frascati, e se ne tornò con una grossa preda.

Il giorno 12 alcune compagnie dei 9.° reggimento contro gli ordini ricevuti piombarono su due compagnie francesi, ed esaurite le munizioni combatterono con la baionetta e colle mani, ma perdettero 41 uomini fra morti e feriti, dei quali 7 ufficiali: il Cremonini, il Giordani, il Grigi, il Bagni, il polacco Wern e il maggiore Panizzi. Quest'ultimo cadde con tre palle in petto: egli era talmente amato dai suoi, che in quindici si avventarono in mezzo al nemico per riprenderne il cadavere e lo ripresero, ma nove caddero lungo la strada morti o feriti. Il Wern, l'ardito polacco commilitone dei francesi in Africa, dall'alto delle barricate, grondante di sangue, li motteggiava e indicando la croce della legion d'onore, diceva loro: "Mirate più basso, canaglie, mirate su questa croce".

Il Poggio da Imola, ferito in un braccio, volle vederne l' amputazione; poi prendendo il braccio reciso coll'altra mano, esclamò: "Mandatelo ai francesi che se ne faccian pasto" .
Compiutisi i lavori d'assedio, l'Oudinot spedì, con incluso un proclama, la seguente lettera al generale comandante in capo l'esercito romano:

"Corpo di spedizione del Mediterraneo. Il generale in capo.
- Quartier generale di villa Pamphili.
« 12 giugno 1849, ore 5 porn.
Signor Generale,
Gli eventi della guerra hanno, come lei sa, condotto l'esercito francese alle porte di Roma. Nel caso che l'ingresso della città continuasse ad esserci chiuso, mi vedrò costretto ad impiegare immediatamente tutti i mezzi d'azione che la Francia ha posto nelle mie mani.
Prima di ricorrere a cotal terribile necessità, tengo a dovere fare un ultimo appello ad un popolo che non può avere verso la Francia i sentimenti di un popolo nemico.
L'esercito romano vorrà, non vi é dubbio, al pari di me, risparmiare sanguinose rovine alla capitale del mondo cristiano.
Con questa convinzione, La prego, signor generale, di dare all'incluso proclama la più a pronta pubblicità.
Se dodici ore dopo che gli sarà consegnato questo dispaccio, non mi giungerà risposta corrispondente alla intenzione ed all'onore della Francia, mi vedrò costretto di dare alla piazza l'attacco di forza.
Gradisca, signor generale, la sicurezza dei miei distintissimi sentimenti.
Il generale comandante in capo l'esercito francese del Mediterraneo, e rappresentante del popolo.
OUDINOT DI REGGIO

Il Proclama aggiuntovi

"Abitanti di Roma,
Non veniamo per portarvi la guerra. Siam venuti ad appoggiare fra voi l'ordine con la libertà. Le intenzioni dei nostro governo sono state fraintese.
I lavori dell'assedio ci hanno condotto sotto alle vostre mura. Fin da adesso non abbiamo voluto rispondere che di tratto in tratto al fuoco delle vostre batterie. Ci avviciniamo all'ultimo istante in cui le necessità della guerra si risolvono in terribili calamità. Risparmiatele ad una città piena di tante gloriose memorie. Se persistete a respingerci, a voi soli incomberà la responsabilità di irreparabili disastri.
Il generale in capo rappresentante del popolo
OUDINOT DI REGGIO.


Il presidente dell'Assemblea, il generale della guardia nazionale e il generale dell'esercito risposero in termini energici; il Cernuschi portò le lettere al campo francese e alla finta sensibilità dell'Oudinot per i monumenti romani e per i romani stessi rispose:
"A Roma non si fanno burle, né si recitano commedie, ma non potendosi liberar l'Italia o salvare Roma, si vuole almeno salvare l' onore e la fama" : e tornò in città.

Sventuratamente, i lavori degli assediati furono molto rallentati, perché Garibaldi avendo creduto colonnello Amadei, comandante del genio, autore dello splendido ma imprudente attacco del giorno innanzi, lo aveva sottoposto a consiglio di guerra. Già molti dissapori erano sorti fra gli ufficiali di Amadei e quelli di Garibaldi, tanto che tutti si allontanarono dai lavori e furono fatti scomporre i trinceramenti delle gole fra i bastioni 6.° e 7.°.

Ciò impedì che la villa Savorelli fosse distrutta per trasformarla in ridotto, dal quale i romani avrebbero potuto fulminare il nemico quando avesse osato assalire la breccia.
La villa Savonesi, non distrutta dai romani, lo fu però dai francesi e Garibaldi dovette con gran suo rammarico - lo scrive egli stesso - partirsene e trasportare il quartier generale a palazzo Corsini.

Ancora un tentativo si fece dal quartier generale dei francesi, inviando a Roma un nuovo rappresentante in persona del Courcelles, che negando qualunque autorità a Lesseps ripeté da vero francese che in quella lotta dolorosa la Francia non aveva che un solo intendimento, la libertà cioè del venerabile capo della Chiesa, la libertà degli Stati Romani, la pace del mondo. Bellissima e virile era la risposta di Mazzini.
La replica di Oudinot fu trasmessa dalla bocca di 21 pezzi di cannone, che tirarono tutto il giorno 13 contro i bastioni 6.° e 7.", dai quali i romani risposero in modo gagliardo.
In quello stesso giorno un capitano di fregata francese distrusse la fonderia dei proiettili ed inchiodò tre cannoni; e un altro trasportò da Fiumicino 800 palle e 300 chilogrammi di mitraglia a Civitavecchia.

Per avanzare con gli approcci, i francesi condussero nuove parallele, e il giorno 14 il fuoco fu incessante; la notte circondarono il casino Corsini con una trincea da tre lati, per formarvi un ridotto; e il giorno 15 fecero fuoco da tutte le batterie sui bastioni, tirando sempre bombe sul casino Savorelli. I francese erano anche padroni della riva sinistra del Tevere, avendo costruita una lunetta dal lato sinistro del ponte Molle, e occupato parecchie case lungo la via Flaminia.
I romani che avevano circondato i monti Parioli snidarono i francesi dalle case sulla via Flaminia e con la artiglieria posta sulla cresta di quella colline li ricacciarono sulla destra del fiume; ma il nemico, inosservato, s'impossessò di quel breve tratto di strada, che giace al disotto del ripido picco dei monti Parioli, e assalì i nostri di fronte e di fianco.
Anche qui gli italiani fecero prodigi di valore sotto il comando del tenente-colonnello Berti-Pichat, ma dovettero ritirarsi alle ville Poniatoski e Borghese, abbandonando così i Parioli.

Gli assediati intanto scavavano gallerie nei bastioni per congiungere gli angoli del casino Barberini. Il nemico, lontano appena sessanta metri dalle mura, cominciò ad alzare le batterie di breccia, due contro i bastioni 6.° e 7.° , una contro la cortina rimasta quasi intatta; eresse altre batterie, cioè la 9.a e la 10.a, che i romani da monte Testaccio e dall'Aventino gravemente danneggiarono.

Liberato per ordine del ministro della guerra l'Amadei, che aveva pubblicamente dichiarato innocente, le opere di difesa procedettero alacremente, ma il giorno 20 si perdette il bravo colonnello d'artiglieria Lodovico Calandrelli, che dal giorno 3 giugno non ne aveva mai abbandonata la direzione. Rovinarono frattanto il ridotto Corsini e il casino Savorelli, e le solidissime mura del Vascello furono scosse fin dalle fondamenta. Il 21, gran battaglia di artiglieria, e al cader della sera tre brecce erano spianate, rendendo così facile aperture alle colonne d'assalto.

I francesi impiegarono tutta la notte del 21 giugno a preparare l'assalto, con dodici compagnie formanti due colonne. Ogni compagnia era seguita da 200 minatori. La prima divisione, comandata da Regnault de St. Jean-d'Angély, fu tutta sotto le armi nelle ville Corsini e Pamphili, mentre contro ponte Molle, a monte della città, e a S. Paolo, a valle, furono dirette finte offese per distrarre l'attenzione degli assediati.
Il 6.° e 7.° bastione e la cortina che li univa erano presidiati da sei scarse compagnie del reggimento l'Unione. Le sentinelle ebbero per consegna di gridare all'armi, non appena si fossero viste che i francesi accennassero a irrompere; un ufficiale e quattro soldati stettero pronti, per dar fuoco alle canne ed ai sarmenti; una compagnia ebbe ordine di tenere ad ogni costo la casa Barberini, mentre le altre forze, in caso di ritirata dovevano ripiegare sul convento di S. Callisto.
Alle dieci della sera un battaglione del 22.° con 4 artiglieri aprì un fuoco ben nutrito a porta S. Paolo, mentre il generale Guesviller, avanzando dai monti Parioli alla testa di quattro battaglioni, prese posizione in prossimità di Villa Borghese, da dove per due ore gettò numerose granate nella città.

Lo stratagemma riuscì. Soldati e popolo correndo dal nord al sud, per timore che il nemico entrasse da porta del Popolo e da porta Ostiense, ebbero così la loro attenzione distratta dalla breccia. Alle 11 pom., il colonnello Niel, alla testa delle sue colonne, diede il segnale dell'attacco; e con un tremendo slancio la breccia fu occupata in un batter di ciglio. Una sola sentinella sul 7.° bastione diede l'avviso, ma i difensori, presi da improvviso panico nel vedere il nemico così inaspettatamente in possesso delle mura, tirarono un colpo e ripiegarono sui difensori della cortina. I soldati del 6.° bastione si ritirarono in casa Barberini; e i francesi, bajonetta in canna, li inseguirono. Qui i romani tennero testa virilmente: due capitani francesi con molti uomini caddero mortalmente feriti, ma i difensori furono sopraffatti dal numero e costretti a restringersi a S. Cosimato. Così silenziosa e istantanea fu la catastrofe che il resto della divisione, scudo alla seconda linea di difesa, non ne ebbe nemmeno sentore, finché il luogotenente-colonnello Rossi si trovò circondato e preso, mentre eseguiva la sua notturna ispezione agli avamposti. Garibaldi, avvertito del fatto e richiesto da Roselli, Avezzana, Mazzini e dal popolo, che destato dalla campana a stormo era accorso al Gianicolo, di condurre soldati e popolo a sloggiare l'invasore, vi si rifiutò per quella notte.

Inviò Manara ad occupar villa Savorelli, il colonnello Sacchi villa Spada, promettendo di attaccare all'alba per evitare il pericolo di un nuovo panico nella confusione e di movimenti disordinati. All'alba ricevette nuovi rinforzi da Roselli, ma invece di attaccare con gran numero, spedì semplicemente la compagnia degli studenti lombardi contro la gran guardia che era a difesa della breccia. Col loro solito valore questi intrepidi si gettarono contro gli assalitori, che non avevano perduto un solo momento delle preziose ore della notte, per continuare i lavori, aprendo le trincee e distruggendo le mine preparate nel frattempo dai romani.
E una terribile mischia seguì per il contrastato possesso di villa Barberini. Molti
vi rimasero morti sulla soglia. Girolamo Induno, il gran pittore, ricevette 27 ferite di bajonetta e fu portato sulle spalle di Enrico Guastalla. Carlo Gorini fu seriamente ferito al braccio sinistro.

Garibaldi richiamò i superstiti e promise al popolo fremente di condurlo all'assalto alle cinque di sera; ma nemmeno questa promessa fu mantenuta, e Pisacane e Roselli nelle loro relazioni biasimano severamente il capo dei volontari, prima per avere lasciati i bastioni con una così tenue difesa, poi per non aver preso partito dall'unanime e spontaneo entusiasmo del popolo, che unito alla truppa avrebbe, secondo la loro opinione, cacciato l'invasore dalle mura.
Garibaldi molti anni dopo spiegava i fatti così:

« Nella stessa notte del 21, nonostante un'energica resistenza, il bastione n. 7, e la cortina che l'univa al bastione n. 6, dopo un sanguinoso combattimento, caddero in mano dei francesi.
Era precisamente il giorno precedente a quello in cui avevo trasportato il mio quartier generale dalla villa Savorelli al palazzo Corsini. Accaduto il fatto, io ne ebbi subito l'avviso dall'aiutante maggiore Delai, appartenente al reggimento dell'Unione.
Confesso che la mia sorpresa fu grande e che non fui degli ultimi ad ammettere l'idea di coloro che credevano ad un tradimento.
Seguito da Manara e dal capitano Hoffstetter, giunsi sul luogo proprio nel momento che i bersaglieri, sempre svegli e sempre pronti, erano già riuniti nella via che conduce a alla porta S. Pancrazio.

"La legione italiana, avutone avviso, mi seguiva al passo di corsa: venivano quindi due coorti del colonnello Sacchi.
Sacchi mandò subito una compagnia a perlustrare i luoghi; ma giunta al secondo bastione, visto il numero dei francesi, fu costretta a ritirarsi nella casa Gallicetti.
La terribile nuova si era già sparsa per la città. Il Triumvirato, saputa la cosa, fece suonare le campane a stormo. A quel rumore tutte le case si aprirono: in un batter d' occhio tutti gli abitanti si trovarono nelle strade.
Il generale in capo Roselli ed il ministro della guerra, tutto lo stato maggiore e lo stesso Mazzini, accorsero al Gianicolo.
Il popolo, in armi, stava stipato intorno a noi, e chiedeva di cacciare i francesi dalle mura.
Il generale Roselli ed il ministro della guerra erano di questo parere, io mi vi opposi.
Temevo la confusione che avrebbero gettata nelle nostre file tutti quegli armati, l'irregolarità delle mosse, il timor panico così facile di notte nelle truppe non abituate al fuoco, ed anche, (come l'avevamo sperimentato nella notte del 13) nelle persone che vi sono abituate.
Di giorno si poteva vedere con quale nemico avevamo a che fare, e quanto grande "fosse stato il tradimento".

" Fattosi giorno, tutta la mia divisione era pronta, accresciuta dai reggimenti che il generale Roselli metteva a mia disposizione.
La compagnia degli studenti lombardi, che faceva parte della legione Medici, formava l'avanguardia. Anche la legione Medici aveva ricevuto l'ordine d'unirsi a noi.
I cannoni delle nostre batterie, rivolti verso i bastioni occupati, tuonavano nel tempo stesso da S. Pietro in Mortorio, dal bastione n.8 e da S. Alessio.
Gli studenti lombardi si spinsero per primi all'assalto. Sebbene fulminati dal fuoco dei francesi, si precipitarono alla bajonetta sulla gran guardia, e sugli operai che obbligarono a concentrarsi nel casino Barberini.
Quei bravi giovanotti erano già sul terrapieno del casino: ma io avevo capito con quali forze dovevamo combattere. Compresi che un secondo 3 giugno stava per rapirmi una metà di qei giovani che io amavo come figli. Non avevo speranza alcuna di sloggiare i francesi dalla loro posizione e perciò era un macello inutile quello che stava per succedere.
Roma era perduta, ma dopo una meravigliosa e splendida difesa.
La caduta di Roma, dopo simile assedio, era il trionfo della democrazia in tutta l'Europa.

"Poi mi dominava l'idea che io avrei conservato quattro o cinquemila difensori devoti che mi conoscevano, che io conoscevo e che avrebbero risposto alla mia prima chiamata.
Diedi l'ordine della ritirata, promettendo per le cinque ore di sera un secondo assalto, che non avrei permesso, come avevo fatto cessare il primo.
Gli studenti si erano comportati da eroi. Non citerò che un esempio:
Un pittore, il milanese Induno, fu trasportato fuori del combattimento, ferito da 27 colpi di bajonetta.
Bertani lo salvò, ed oggi sta benissimo.

" Del resto, per me, tutto era perduto, almeno per il momento, non perché i francesi si fossero impadroniti delle brecce, ma dal momento che il partito che sosteneva la Repubblica a Romana dinanzi alla Costituente Francese, era stato vinto.
Supponiamo, che sacrificando un migliaio di valorosi, avessi cacciato i francesi dalle loro posizioni, come li avevo cacciati il 2 giugno dalle ville Corsini e Valentini: come il 3 giugno a forza di truppe fresche, avrebbero ripreso un'altra volta le loro posizioni.
Ed in questo caso, non vi era più ragione per ostinarsi nell' assalto. Ripresa la villa Corsini, i francesi non potevano costruire le loro parallele. Ma, una volta costruite le trincee, una volta fatta la breccia, chi poteva impedire la presa di Roma?
Nessuno.

" Prima che giungesse la notizia della fuga di Ledru Rollin e dei suoi amici in Inghilterra, ogni giorno di vita della Repubblica Romana era un giorno di speranza.
Dopo quella nuova, la resistenza non era che una inutile disperazione.
D'altra parte io ero convinto che i romani, in faccia al mondo, avevano fatto abbastanza per non essere costretti a ricorrere alla disperazione.
Le potenze coalizzate avevano chiusa la Repubblica Romana, vale a dire l'intera democrazia della penisola, nelle vecchie mura d'Aurelio.
Non ci restava che di rompere il cerchio, ed al pari di Scipione, portare la guerra a Cartagine.
La nostra Cartagine era Napoli. "

Riluce da tutti questi fatti e dai detti e dagli scritti di Garibaldi, che egli, ormai convinto della impossibilità di impedire l'entrata dei francesi, si rifiutava di condurre l'esercito sulla breccia per farlo solo ammazzare; voleva invece condurlo fuori di Roma o contro i napoletani o contro gli austriaci.
Assai modesto assegnamento si faceva sull'entusiasmo del popolo, disarmato o armato per la prima volta, misto ai volontari e davanti ad un sì valente nemico, ma non per ciò desistette dall'idea della difesa, né mai alcuno di questi episodi offusca il suo sentimento di patria. Fa sorridere poi vedere il Roselli divenuto un leone e Garibaldi un coniglio: ma non possiamo passare leggermente sopra l'accusa che Garibaldi in quei momenti supremi per la patria cedesse all'imperio di motivi personali.

Tutti gli storici, anche l'esattissimo Torre, hanno scritto che Garibaldi, a causa di dissapori fra i capi, si era ritirato a porta S. Pancrazio, quasi abbandonando quella importante posizione per dispetto. E il Beghelli, che ebbe da Saffi alcune delle carte che ora stanno tutte nelle mie mani, avendo per errore collocato fuor di posto una lettera senza data, quasi avvalora questa mostruosa supposizione coll'autorità di Manara, capo di stato maggiore.
Ma leggendo le lettere nel vero ordine cronologico in cui furono scritte, si vede che Garibaldi e Mazzini segretamente avevano combinato una sortita, che, se non avvenne, non fu per loro colpa o per discordia, ma per l'incalzarsi delle cose.
Il giorno 23 era evidente che si pensava alla sortita, perche Garibaldi scrive a Mazzini:

"In risposta alla vostra d'oggi, desidero mandiate il generale in capo a prendere conto di queste truppe.
Io obbedisco, siccome è mio dovere. Vostro
G. GARIBALDI ».


Ed il Manara lo stesso giorno:

"Dal quartier generale a Villa Spada. Al Triunvirato.
23 giugno 1849.
Cittadini Triumviri,
Riescono indispensabili dei fucili, ed io mi rivolgo a voi acciò vogliate indagare, onde a procurarceli, e spedirli colla massima sollecitudine a questo comando. D'ordine, il capo di stato maggiore,
Colonnello LUCIANO MANARA."


E avendo il giorno seguente meglio maturato il progetto della sortita, Garibaldi scrive la seguente lettera:

"Roma, 25 giugno 1849.
Cittadini Triumviri,
"Credo a quest'ora il popolo romano sarà rinvenuto dalla desolante impressione cagionatagli dalla salita del nemico alla breccia, e di più, persuaso esser noi oggi più forti di prima: io almeno credo così; ed ogni giorno possiamo migliorare lo stato delle nostre fortificazioni. - Io ritorno dunque alla mia idea di sortita: non sortita disperata, con la pretesa di battere un nemico inattaccabile nelle sue posizioni; ma una sortita dalla quale si potrà avere risultati proficui, prima che quello ne sia informato. Deve il nemico condurre molte opere d' assedio, prima di essere in stato d'attaccarci decisivamente, - devono dunque passare ancora molti giorni in questo stato, e se perderemo poco in detto spazio, molto poco possiamo guadagnare. Io opino pertanto che dobbiate riunire la maggior parte dell'esercito su questa nuova cima, - destinata oramai come campo di una decisiva i battaglia, - sceglierete il migliore fra i capi che deve comandare l'esercito, lasciando sugli sugli altri punti il semplice sottoufficiale per guarnire le mura di sentinelle.
Il colonnello Manara deve continuare nel suo posto di capo di stato maggiore. Io sortirò da Roma con la legione italiana e duecento uomini di cavalleria, e tra le altre cose mi collocherò tra gli assedianti a Civitavecchia. - Io vi dispenserò dal tedio d'una lunga narrazione dei vantaggi così morali che fisici; ma é l'unico mezzo per rilevare la causa nostra. Oggi l'assedio é sistemato, il nemico tenterà difficilmente un assalto, in cui tutte le probabilità non sono per lui, poi i mille uomini tolti a Roma, forse occuperanno molto maggior numero di nemici che in quel caso non peseranno su questa. - Considerate che se dietro i nostri trinceramenti si stabiliscono non solamente tutte le truppe ivi destinate, ma di più tutti gli uomini di cuore, tutti i compromessi e quelli poi che possono essere trascinati dalla parola e dalI' autorità, voi vi ponete in una invincibile posizione; bisogna perciò non solamente dormire sulla trincea, ma permanervi continuamente. Per mio conto, non dovrete nemmeno considerarmi staccato da voi, giacchè persuadetevi molto bene che per me sarà un gioco entrare e uscire da Roma e che io valuto interamente l'importanza del sostegno della capitale. Fatevi animo - non date ascolto alla pusillanimità di molti - la nostra causa è lungi dall'essere disperata. - Ma guai se noi ci restringiamo nel recinto delle mura ! - Rinchiusi, retrocediamo ogni momento; e sortendo saremo nuovamente sulla via del progresso. - Vi prego di rispondermi subito.
Vostro G. GARIBALDI.
PS. Potrei anche lasciarvi parte della legione Italiana per meglio coprire la mia assenza.


Non abbiamo per disgrazia le lettere dei Triumviri o di Mazzini a Garibaldi, ma la seguente risposta di Garibaldi del 26 ad una avuta di Mazzini chiarisce il pieno accordo:

"Roma, 26 giugno 1849, ore 8 pom.
Mazzini,
lo penso allora ( !!!! ) di uscire domani sera. Mandatemi domani mattina il capo che deve rilevarmi in questa parte di linea. Ordinate al generale in capo che mi prepari 150 dragoni a cavallo, che con i 50 lancieri formeranno i ducento. Prenderò gli ottocento della legione e li toglierò dalla linea domattina per far loro cambiare la camicia.
Rispondetemi subito e vi raccomando il segreto maggiore.
Vostro G. GARIBALDI.

Quella parola allora prova che tutto era combinato fra loro due. La frase seguente é poi preziosa.... La scomparsa di Garibaldi colla sua legione aveva sgomentato il popolo. E tutti fino ad oggi hanno creduto che quella scomparsa traesse origine dal dispetto. Egli invece aveva solamente preso "gli ottocento della legione per fare loro cambiare la camicia", e per mantenere "il maggior segreto" aveva lasciato credere a tutti ciò che volevano. E la sua lettera ad Avezzana dello stesso giorno 26 avvalora quella di Mazzini.

"26 giugno.
Cittadino Ministro,
Il corpo dei dragoni dev'essere riunito alla legione Italiana nel corpo dei lancieri. Fra gli altri motivi, per quello che questi buoni giovani, mantenuti inerti, lo bramano ad ogni costo. La credo indispensabile cosa e vi prego di ordinarla.
Rispondete al vostro
G. GARIBALDI.

La sortita non ebbe luogo: ed ecco nuove ipotesi di dissidi. E secondo il Beghelli, la seguente lettera di Manara proverebbe che egli aveva aggiustata la faccenda proprio il giorno dopo che Mazzini scrisse a Manara , cioè il giorno 22. Ma invece studiandovi bene, gli è evidente che i triumviri e Manara e Pisacane, tutti ben calcolando le circostanze, decisero che l'assenza di Garibaldi dalla Porta S. Pancrazio sarebbe stata più importante a Roma di quella che potesse essere vantaggiosa una sortita. Perciò Manara scrive assicurando il suo ritorno.
(Lettera senza data, Villa Spada ore 1 pom., ma scritta certamente il 27 sera):

"Cittadino Triumviro,
Ho ricevuto la vostra lettera.
Io mi sento un poco meglio e sono già al mio posto, Ho parlato con Pisacane , siamo perfettamente d'accordo. Animati ambedue dal medesimo spirito, impossibile che tra noi possano esservi false gelosie. Statene certo. Io ho pregato il generale Garibaldi che ritornasse egli pure a San Pancrazio e non diminuisse in questo momento questo posto della sua legione e della sua efficace potenza. Mi ha promesso che avanti giorno sarebbe stato qui. Tutto qui è perfettamente tranquillo. Vostro
LUCIANO MANARA, colonnello

E proprio prima che spuntasse la mattina del giorno dopo, Garibaldi ritornato scrive il seguente biglietto, il quale dimostra chiaramente che anch'egli era convinto che il tempo per le sortite era passato o non ancora giunto

« Mazzini,
Abbiamo ripresa la posizione fuori Porta S. Pancrazio, il generale Roselli mi mandi ordini, ora non è tempo di cambi. Vostro
G. GARIBALDi

Seguendo attentamente il corso precipitoso degli eventi si vede chiaramente che, una volta i francesi sulla breccia, nonostante la cura onde Garibaldi preparava la difesa dell'interno sperando di poterla affidare ad altri, riusciva impossibile che altri potessero sostituirlo, perché la sua presenza era indispensabile in ogni luogo e in tutti i momenti.
Le vecchie mura Aureliane, fra Porta S. Pancrazio e Porta Settimiana, furono scelte come seconda linea per ritardare l'ingresso del nemico. I suoi movimenti erano sulla destra l'8° bastione, sulla sinistra, i conventi di S. Cosimato e S. Calisto, - dove i lavori di terra furono condotti in fretta e in furia, - una lunetta costruita a Villa Spada; casa Merluzzotto rinforzata da un piccolo bastione e così le muraglie dei due conventi.
Vennero erette due batterie al Pino e al Fontanone, una terza nel punto in cui l'8.° bastione si congiungeva con le mura, una quarta ai piedi delle mura stesse in faccia a Villa Spada: due cannoni furono posti sulla piazza S. Pietro in Montorio.
Sull'ala sinistra, il Vascello, benché orribilmente mutilato dalle batterie di Villa Corsici, servì ancora come corpo avanzato. Giacché le batterie di monte Testaccio e di S. Sabina furono rese inutili, i cannoni furono trasportati al Priorato e a Sant'Alessio sull'Aventino.

Il giorno 24 i francesi, dalla loro decima batteria a Villa Corsini e dall'undecima sulla breccia, aprirono un fuoco tremendo contro le nuove difese; ma dopo dodici tiri, fu ad essi imposto silenzio dalla batteria del Pino, diretta da Garibaldi in persona, e dove Storari, Grimaldi e Maccaferri puntarono con tale precisione, che ogni palla smontò un cannone nemico.
E al Pino, Garibaldi vegliò anche la notte sotto una tenda di stuoie, sostenute da quattro lance, e raccolse 20 bombe solo lui, gettate dal nemico in quella notte in cui ne cadde una pioggia continua in Campidoglio, in Trastevere, nel quartiere di S. Andrea della Valle e del Gesù.

Immensi veramente furono i disastri del giorno 26. La nebbia nascondeva il lavoro degli assedianti che distrussero interamente il casino Savorelli. Squarciarono il tetto della chiesa di S. Pietro in Montorio, che col campanile precipitò nell'interno della chiesa stessa; guastarono Villa Spada; straziarono orrendamente il bastione nono, a destra della Porta di S. Pancrazio, con la batteria piantata sulla 8a breccia.
Quando si avvicinò la sera del 27, e Garibaldi non fu più visto, e invece di lui comandava il generale Roselli, lo sgomento del popolo e il malcontento delle milizie traboccarono, come narra lo stesso Torre, il quale soggiunse, dopo avere addotte varie ragioni per la scomparsa di Garibaldi:
"Certo è che la truppa, che aveva messo in lui valorosissimo grande fiducia per la difesa del Gianicolo, fu assai lieta e soddisfatta di vederlo lassù il giorno dopo".

E così ci sembra d'avere assodato i fatti e restituita la verità. Dal momento del suo ritorno fra i suoi - quando, scrive il Torre, invano quella notte il nemico ripigliò i suoi lavori di difesa intorno al rialto della casa Barberini, perché la vigile fanteria romana lo impediva - sino alla fine della difesa, non s'è più udita una parola di contrari pensieri fra i capi. Se fu impossibile vincere, fu almeno possibile essere gloriosamente vinti.
E nessuna vittoria, per quanto io venga studiando la storia d'Italia e di altre nazioni, mi sembra così gloriosa quanto la lotta finale e la finale disfatta della Repubblica romana.

L'iniquo attentato contro la libertà e la sua indipendenza, e il fatto che fu Roma la città così barbaramente bombardata, commossero in ultimo i rappresentanti delle nazioni straniere, i quali fecero le più energiche rimostranze all'Oudinot.
I consoli della Gran Bretagna, della Prussia, dei Paesi Bassi, di Danimarca, del Wurtemberg, degli Stati. Uniti, della Confederazione Svizzera, dell'America Centrale, di Portogallo e perfino il console generale di S. M. il re di Sardegna firmarono una protesta; a cui Oudinot rispondeva che, esauriti i mezzi della conciliazione, era giunto il momento in cui bisognava assolutamente operare con vigore, o rinunziare ad una impresa, nella quale erano in gioco l' onore della Francia, e i più grandi interessi della sua politica all'estero.

E per dimostrare che egli non aveva più scelta, nemmeno di differire, citava l'ultima lettera ricevuta dal suo governo, ove era segnalata l'impossibilità di ulteriori esitazioni. "Muovete su Roma con tutte le forze imponenti , che ora stanno riunite sotto gli ordini vostri; e nonostante tutte le resistenze, impadronitevene. Tale è la volontà del governo della Repubblica."
E il generale, degno strumento di tali padroni, aggiungeva: "Dopo gloriosi combattimenti, le truppe poste sotto i miei ordini hanno dovuto venire all'assalto; esse si sono fortemente stabilite sui ripari di Roma. Il nemico non essendosi offerto ancora di sottomettersi, io sono obbligato di continuare le offese".

Confrontando questa insolente risposta con gli amichevoli consigli, con le melliflue parole all'arrivo della flotta a Civitavecchia, si ha la misura, della coscienza francese! E non sembra che l' Oudinot parli di qualche colonia della Francia ribellatasi, invece di un popolo indipendente e fratello, il quale si era atteggiato a governo dietro il suo esempio?
Giova rifarsi di tempo in tempo su queste memorie. A me sempre è parso magnanimo il perdono delle ingiurie; ma l'oblio, se generoso in un individuo, è per lo meno imprudente in una nazione.

Ciò che più di tutto danneggiava come mai gli assalitori era il Vascello e il bastione VIII. Durante due giorni e una notte le artiglierie imperversavano dalle batterie 11a, 12a e 13a molestando assai la seconda linea di difesa, poi la 11a batteria rispondeva ai fuochi di Sant Alessio sull'Aventino; e la 10a tirava contro il IX bastione e contro Porta S. Pancrazio, mentre i mortai lanciavano bombe ovunque entro la città. Cinquantaquattro cannonieri romani morirono, o furono feriti sui loro pezzi il giorno 28, nonostante gli erculei sforzi dei nostri che arsero varie case per impedire i lavori del nemico; pure approfittando di qualche trincea romana, questo era giunto all' estremo del giardino di Villa Corsini fra le vigne fino ad ottanta metri dal Vascello stesso.

I lettori ricorderanno che fu proprio il giorno 3 giugno, quando Giacomo Medici prese possesso del Vascello; forte edilizio allora, a tre piani, con dietro un giardino recinto di basse mura, 180 metri distante da Porta S. Pancrazio. Egli colla sua valorosa legione aveva mantenuto la posizione mentre tutto l'edificio crollava intorno ai difensori, piano per piano, muro per muro, e in ultimo sasso per sasso; egli fece aprire una trincea, che dal Vascello penetrò per 50 metri nel ridotto di villa Corsini, e precisamente fino a villa Giacometti, che i romani, benché circondati dalle trincee francesi, mantennero sempre.

La notte del 21 i francesi vollero impossessarsi della casa Giacometti, presidiata da soli 35 uomini e l'attaccarono con due colonne di granatieri del 36° reggimento. I nostri li aspettarono in silenzio, e appena il capitano si presentò chiamando i suoi nascosti nelle vigne a seguirlo, fecero così infernale fuoco dalla finestra che i francesi indietreggiarono e i romani li caricarono alla baionetta.


Medici volle tenere fino all'ultimo quest'importantissimo ed unico avamposto e, caso mai i francesi dovessero venirne in possesso, pensò di renderlo loro fatale, mettendo le mine sotto i pilastri dell'angolo e lungo le mura. Solamente la notte del 27 i romani furono costretti di abbandonare la casa Giacometti, ciò che rendette insostenibile la posizione del Vascello.

Eppure a quell eroe crucciava il dover abbandonare quel luogo, ove i cadaveri dei suoi giacevano a mucchi, e donde ogni giorno si eseguirono sortite delle più audaci, cercando fin dentro le catacombe una strada che conducesse al casino dei Quattro Venti per minarlo - in seguito sventato dai francesi, i quali inondarono i lavoranti coll'Acqua Paola dopo averla deviata dalla città. - Numerosi furono i tentativi dei francesi di penetrare nel Vascello, posizione assai inferiore al casino Quattro Venti, né difeso da artiglieria, e aperta da tutte le parti.
Ora tentarono la mura più al basso dal lato opposto della casa; ma quelli della legione oramai ridotti a tante sentinelle, li ricevettero, in silenzio sempre, con una buona scarica di moschetteria, e non pochi ne infilzarono con la baionetta, a tal punto che i francesi immaginarono che i romani avessero qualche via segreta per mandare rinforzi a quel manipolo di eroi. In quel cambio ogni notte i difensori del Vascello parteciparono a qualche audace tentativo, come per esempio alla difesa di casa Barberina.

Ma dopo la presa della breccia, la notte del 21, avendo Garibaldi, come abbiamo visto, fortificato S. Pietro in Montorio, fu necessario ai francesi di impadronirsi del Vascello a qualsiasi costo per prendere la nuova difesa di Garibaldi alle spalle. Perciò diressero una batteria di sei grossi pezzi che, a 150 passi dal Vascello, iniziò ad aprire un fuoco furioso gettandovi 400 proiettili da 36 che lo ridussero, quale tuttavia si vede, un cumulo di calcinacci, e fra queste rovine scherzando con le bombe e ridendosi delle granate stettero indomiti i difensori superstiti, che trovavano sempre modo per una archibugiata o per una corsa alla baionetta, e costantemente vigili contro una possibile sorpresa.

Ventidue giorni durò questo duello. Il solo pianterreno resisteva e finalmente questo, con la solida sua volta fu mandato in aria e il fumo si vedeva e la detonazione si sentiva fin dentro la città; e ancora nuove vittime seppellite, e sopra ancora i vendicatori.
Sicuro oramai di potervi mettere piede nella notte, la fitta nebbia facendo più cieca l'oscurità, il nemico circondò per intero il Vascello, intimando la resa e facendo fuoco da tutte le parti.

E fuoco fu risposto. I difensori delle rovine e dei cadaveri dei loro commilitoni, parvero trasformati in arcangeli, e per tre ore combatterono e finalmente i francesi dovettero retrocedere.
Tuttavia la rovina del Vascello consentì ai francesi di aprire una breccia nel bastione accanto alla Porta San Pancrazio, ma per salirvi era indispensabile passare sul petto dei difensori del Vascello. Perciò cannoni puntati da tutte le parti. Mitraglia, palle di fucile e cariche alla baionetta furono quei momenti. Alcuni scalarono le mura, ma non uno riuscì a penetrare nel giardino.

Il maggior pericolo era che il portico, che fa angolo con la strada, unica comunicazione coi posti di fuori, fosse atterrato: e di fatto la metà cadde martellata dalle artiglierie. Eppure vi fu chi non esitò di puntellare sotto il fuoco la reliquia rimasta ritta, e ancora i feriti dovettero ritirarsi trasportati da altri meno gravemente feriti. "La perdita fu sensibile anche da parte nostra - dice Medici - ma non un palmo di terreno ceduto".
Questo fu l' ultimo tentativo. I francesi riconoscevano il Vascello insuperabile ostacolo, e aprirono la breccia nel bastione a sinistra della Porta S. Pancrazio, punto principale della linea di Garibaldi. Perciò il Vascello rimaneva tagliato fuori la notte del 28 quando i francesi, forzando quella breccia, occuparono il bastione.

In tale frangente disperato, Garibaldi, che sentì giunta l'ultima ora della difesa, richiamò Medici dal Vascello, e come per non dargli un posto di minore pericolo, gli assegnò il casino Savorelli! Retrocedendo in ordine perfetto dalle rovine fuori di città, i soldati di Medici presero possesso di quelle di dentro, erigendovi come bastioni i loro petti.
Poco tempo dopo la liberazione di Roma, io visitai le rovine del Vascello, e ancora emergevano le ossa dei valorosi che mai ebbero altra tomba, se non se le rovine che crollavano loro sopra.
L'eroico difensore del Vascello ne fu anche il proprietario. Non sarebbe quello il luogo di erigere un'ara con i nomi di tutti i difensori di Roma?

Come anche dopo pronunciata dal medico la sentenza di morte di qualche persona amata si cerca di prolungarle le ore, i minuti, i secondi, così con ogni immaginabile sforzo i difensori dell'eterna città cercarono di differirne l'ora fatale. Il popolo, che più soffriva dalle bombe, sembrava impassibile; in un solo quartiere del Trastevere 150 vittime: e più ancora nei quartieri Sant'Andrea della Valle, Argentina, e Gesù. All'occhio vigile di Mazzini nessuna cosa sfuggiva; il suo cuore e quello del popolo avevano un solo battito, ciò che quegli proponeva questo eseguiva. Altrettanto esempio di comune volere non si è mai visto. La mano del governo non si sentiva, perché il popolo, fissando l'occhio su quell' onniveggente, traduceva silenziosamente il suo pensiero in opere.

Quando le sue povere case furono smantellate esso trovava approntati nuovi alloggi nei palazzi. Poi per i viveri, per il trasporto dei feriti e il servizio degli ospedali fu debitamente provveduto. Uno straniero, arrivando a Roma il 29 giugno, la vigilia di S. Pietro, non avrebbe dubitato un momento che il Santo Padre abitasse il Vaticano, e che in quella stessa mattina avesse officiato al solito nella basilica di S. Pietro. La festa secolare fu solennizzata secondo l'uso, l'immensa cupola di Michelangelo illuminata, mentre sul Tevere si lanciarono barche con materia incendiaria, sperando di bruciare Santa Passera.
Il popolo passeggiava per le strade, rattristandosi solamente quando passava un ferito o un cadavere; e se n'ebbero in quel giorno 64! Piangeva esso i suoi morti e gli sorrideva l'idea di presto raggiungerli. Non un lamento, non una parola di rammarico per la inutilità del sacrificio. La sera finì con un uragano violentissimo e pioggia strabocchevole, che serviva mirabilmente ai disegni finali dell'assalitore.

Alle 2 e mezzo di mattina del 30 è dato l'ordine dell' assalto, e il battaglione di Laforet, uscito con i suoi dal bastione VII, deve retrocedere; ma rinforzato, ritorna, si precipita nel trinceramento. I nostri combattono come leoni, ma indietreggiando verso le mura aureliane sono respinti fino all' entrata di villa Spada. Di qui il nemico si spinge fino alla batteria dei romani, uccidendone i cannonieri, e avanza sulla batteria della Montagnola, ove per poco è obbligato di sostare. La colonna principale, sotto il comando del colonnello Niel, giunge sulla breccia e muove verso il terrapieno. I romani si lanciano alla baionetta; il comandante della colonna francese cade.
Il successore si unisce all'altra colonna alla Montagnola seguito da tre compagnie di zappatori, il cui comandante Galbaut Dufort è mortalmente ferito al petto. I difensori della Montagnola combattono con vigore uguale alla calma.
Dappertutto morti e feriti; qui caddero portando via la terra che troppo facilitava la salita del nemico; là prendendo le bombe per estrarne la miccia, proiettili dei nemici ingombravano le batterie. I soldati di linea sostituivano i caduti artiglieri.

Le sentinelle stettero 73 ore al loro posto; anche se prelevate spesso dalla morte. La legione lombarda rendette in ogni luogo e sempre brillanti servizi: due compagnie ne furono mandate quella sera alla breccia sul bastione N. VIII, altre due a villa Spada oramai divenuta il quartiere generale di Garibaldi. Quando l'attacco cominciò, Garibaldi aveva in quel momento collocate le sentinelle. Dopo l' assalto del 21, impossibile qualsiasi sorpresa. Garibaldi, sguainata la spada, si slanciò avanti, e tutti i presenti lo seguirono.

Un combattimento ad arma bianca avvenne sulla barricata davanti l'ingresso di villa Spada. Il bravo Morosini che era agli avamposti, in un attimo circondato, continuava a battersi; i suoi gli fecero scudo, ma ricevette allo stesso tempo una palla nel ventre e un colpo di baionetta nel petto. I suoi lo raccolsero e lo trassero in braccio fino a villa Spada. Qui furono circondati di nuovo, ed egli si alzò e ancora afferrò la spada e assalì gli assalitori: cadde, e fu da essi portato via. L'alba spuntata mostrava Garibaldi ancora in atto di animare i suoi e dove più ferveva la battaglia, dove c'era lui sembrava tuttavia possibile la vittoria.

Medici dal casino Savorelli rinnovava le gesta del Vascello, ma i francesi avanzavano con tutte le loro forze. Pur non osarono, dopo il primo successo, gettarsi addirittura su villa Spada, occuparla e di lì attaccare il Pino e rispondere al casino Savorelli; resistettero alla Montagnola e sul bastione occupato. Eppure, eccettuato l'Avenitino ed il Pino, tutte le batterie, a cui facevano siepe i cannonieri morti, tacevano. Ed ecco diroccare in questo giorno villa Spada, S. Pietro in Mortorio e il Casino. Ma Medici impedì al nemico di impossessarsi dell'alto della Porta di S. Pancrazio e di salire il bastione IX. Aggiungi che dall'alto della Porta stessa i nostri molestarono molto i francesi sul bastione VIII.
Così si combattè fino a mezzogiorno, cioè fino a quando la necessità di sgombrare il suolo, impedito dai morti e dai feriti, indisse la tregua; e nel frattempo Garibaldi alacremente intendeva rafforzare la terza linea disposta da lui per la difesa, la quale comprendeva il bastione IX, villa Spada, S. Pietro in Mortorio, colla sinistra a San Calisto e Porta Portese.

Ancora una volta i francesi furono momentaneamente ricacciati al di là della, seconda linea, ma ritornando poderosissimi, rigettarono i nostri entro villa Spada, che Manara propose di difendere come fu difeso il Vascello. E di fatto i francesi due volte arrivati alla porta, due volte furono respinti. Sembrava che ognuno volesse morire prima di Roma. Qui cadde il fior fiore dei lombardi: e ricevette la ferita, per lungo tempo creduta mortale, Achille Sacchi, che però visse per acquistare su altri canapi l'appellativo di "medico che si batte" come lo ha onorato Garibaldi.

Impossibile ricordare i nomi di una sola decima parte dei caduti. Lo Scarinzi di Lugo accanto a Tiburzi con 17 ferite; Casini condotto all'ambulanza francese, lo dice un chirurgo francese, col cranio spaccato da dodici colpi di sciabola, una coscia forata da dieci colpi di baionetta, e una doppia frattura al braccio. E qui caddero "il moro", a Garibaldi così devoto, Andrea Anghiar ....

.... cadde Emilio Dandolo, Pietro Signoroni e più di seicento del fior fiore della gioventù italiana.
E Manara, così tanto amato da tutta questa famiglia di prodi, stava alla finestra per ordinare l'ultima carica dei suoi, geloso quasi delle palle, che tolsero agli occhi degli amici lo straziante spettacolo di Roma in agonia. Anzi ad un suo vicino disse: "Dunque per me la palla non è fusa!".
Si affacciò per vedere in basso I' ultimo suo ordine obbedito e i francesi per l'ultima volta in fuga verso la porta d'ingresso. Ma in quel fatidico attimo la desiderata palla lo colpì nel petto.

E fu l'ultimo colpo! Manara e Roma caddero insieme. E immortale come il nome di Roma vivrà la memoria dei suoi difensori!

Il colpo mortale, benché da tutti previsto e aspettato d'ora in ora, non parve perciò meno fulmineo! Il popolo ascoltava come un uomo solo il rombo del cannone che oramai non significava altro se non che il cuore di Roma palpitava come appunto un malato di cuore. Ansiosamente il popolo correva in gran quantità alle barricate di Porta S. Pancrazio, al casino Savorelli, a villa Spada, ai non ancora abbandonati bastioni. "Si torna a combattere, non è vero?" - "Di certo!" rispondevamo i soldati. "Tutto non è perduto?" domandavano a Medici, a Sacchi, ai capi rimasti al loro posto; e questi risposero sempre: "Nulla è perduto!" ; e forse s'illudevano anch'essi.

Sembrava impossibile - dopo aver fatto tanti sacrifici per la città mille volte più amata d'Italia- che in più nulla si sperasse.

Il trasporto di Manara dalla villa Spada all'ambulanza di Santa Maria della Scala produsse un'impressione terribile; accompagnato da Emilio Dandolo ferito, e il di cui fratello era già morto, amato dai romani come un proprio figliuolo, fu quell'eroe che, oltre il brillante coraggio, dono troppo comune agli italiani per segnalarne uno solo, mostrò un carattere di acciaio ed un senno da savio. Ogni questione insorta fra Mazzini e Garibaldi egli l'aveva appianata: ai tanti richiami che venivano ora dalla truppa regolare, ora dalla guardia nazionale egli diede soddisfacimento. Un popolo intero pianse la sua caduta, ignorando tuttora che con lui moriva Roma.
Giunto gravemente all'ambulanza mandò a chiamare il dottore Bertani. E gli disse semplicemente "Lasciami morire presto, Agostino: soffro troppo". Pensò alla moglie ed ai tre giovani figli: "Saranno anch'essi soldati della patria" soggiunse.
Domandò di Morosini che amava come fratello; non sapeva s'era già morto o solamente prigioniero. Poi spirò fra le braccia dell'amico, a lui così caro.

Intanto i capi del governo non dissimulavano la gravità della situazione. Nella mattina il Roselli, dal bastione ancora difeso, aveva scritto a Mazzini:

"30 giugno 1849, 4 ore del mattino.
Il nemico ha superato la breccia del bastione sinistro della Porta S. Pancrazio. I nostri sono condotti da Garibaldi per vedere di riprendere le posizioni, ma sono respinti. Noi siamo in una critica situazione. Io mi occupo di unire gli sbandati, a far venire qualche e rinforzo".

E più tardi, Pisacane:
" Monte Cavallo, 3 pom..
Cittadino triumviro,
Credo cosa interessantissima comunicarvi le ultime decisioni prese fra il generale Garibaldi e il generale Roselli: ritirarsi questa sera tutti al di là del Tevere: ai ponti saranno messe le truppe che sono fuori di Porta del Popolo - e tutte le truppe che sono ora a S. Pancrazio, bivaccheranno in Piazza Navona: ora si danno le disposizioni per eseguire ciò.
Quelle posizioni non sono più terribili: se il nemico assalta, entrerà unito con noi in città - l'emigrazione dei trasteverini bisogna farla eseguire subito.
Salute e fratellanza.
PISACANE

Mazzini andò subito al campo e sentì il parere di tutti; poi alle 10 di sera riunì i capi dei corpi ed i generali tutti in palazzo Corsini per conoscere l'opinione di ciascheduno prima di riferirne all'assemblea. Mazzini indi così riepilogava le deliberazioni su cui poteva cadere la scelta:
1) capitolare;
2) difendersi in città fino all'estremo;
3) uscire di Roma e portare la guerra altrove.
L'assemblea, che stette in permanenza dall'alba del 30, aspettando e leggendo senza commento i bollettini del campo, sembrava impietrita, tale e così solenne era il suo silenzio! Quando giunse Mazzini "pallido, dissanguato, come un morto risorto" scrive un americano,
presente alla scena, la sua parola al solito esprimeva fiducia: posti i tre quesiti, disse indiscutibile il primo, possibile il secondo, preferibile il terzo.

Ma nemmeno lui fu capace di suscitare un palpito di speranza. Garibaldi fu chiamato e si presentò grondante di sangue e di sudore (probabilmente irritato d'essere rimosso dal suo posto in quell' ora suprema), lui disse impossibile resistere di là dal Tevere: possibile di qua sulla sinistra solo per pochi giorni, ma miglior consiglio era di uscire di Roma. Poi ritornò al campo.

Mazzini si assentò, lasciando la deliberazione all'assemblea; allora parlò il Cernuschi, che prima aveva ascoltato tacendo le proposte dei partiti disperati. Lui, l'anima delle barricate, l'incarnazione del popolo, lesse con voce tremante e con una commozione di chi adempisse ad un dovere più duro di quello del morire, la seguente proposizione:

" In nome di Dio e del popolo;
L'Assemblea Costituente romana cessa da una difesa oramai impossibile e resta al suo "posto".

Un silenzio sepolcrale succedette a tale lettura. Ognuno pesava il proprio suffragio, che imponeva all'esercito di desistere dalla difesa, poi tutti votarono la mozione, convinti che null'altro restasse da fare, aggiungendo « il triunvirato è incaricato dell'esecuzione del presente decreto."

A Mazzini non venne mai in mente che tale sarebbe la fine. Rifiutò con parole di sdegno l'incarico; un altro triunvirato fu scelto per mettere la mozione in esecuzione, perché i tre primi triumviri risposero che il mandato da essi assunto era quello di salvare la repubblica; che questa abbandonata al nemico, l'incarico cessava. Nè le più vive insistenze dell'assemblea valsero a smuoverli. Intanto il generale Roselli comunicò il decreto ad Oudinot nei seguenti termini:

"Generale,
Mi pregio comunicarvi il qui accluso decreto dell'Assemblea Costituente romana, in conseguenza del quale io farò immediatamente per parte mia cessare le ostilità, come spero farete anche voi, generale.
Vi annuncio intanto che questa sera una deputazione del municipio avrà l'onore di recarsi al vostro quartiere generale. Pregandovi di un riscontro, vi auguro salute.
ROSELLI"

Non sarà inutile al lettore leggere qui un brano di lettera che Mazzini poi mi scrisse in inglese nel 1856, cioè sette anni dopo l'accaduto, in risposta ad una mia domanda sulla caduta della repubblica, e sulla sua opinione:

"Molti ufficiali, i romani specialmente, votarono la difesa della città fino all'ultimo; nobile pensiero, ma impossibile ad attuare. La discussione si prolungava in palazzo Corsini.
Io presi un foglio di carta e scrissi in testa le tre proposte in tre colonne La capitolazione; la Resistenza palmo a palmo con guerra di barricate dentro Roma; La partenza dalla capitale del governo, della truppa, dell'assemblea per assalire gli Austriaci.
Invitai ognuno a firmare quella che era più gradita. Nessuno diede la sua firma per la "capitolazione"; ognuno sottoscrisse secondo la propria coscienza.
Io me ne andai.
Garibaldi mi seguì, domandandomi se egli potrebbe sapere quali fossero i miei progetti.
Io risposi che a lui nulla avrei da nascondere, che sommariamente il mio disegno era di portare via tutto il materiale da guerra o di distruggerlo tutto in Roma, di marciare rapidamente lungi dalla città, passando tra Francesi ed Austriaci; di attraversare la Toscana vicino ad Arezzo, di approvvigionare qui le truppe: poi piombare su Bologna, dare battaglia agli Austriaci e, riuscendo, risvegliare l'insurrezione nella Romagna, cambiato così il teatro della guerra, sostituito un nemico ad un altro.
L'esercito francese sarebbe ridotto o a rimanere inerte nella quasi deserta città, o a smascherarsi venendo in aiuto degli austriaci. La prima parte di questo disegno fu quella che Garibaldi poco dopo tentò di eseguire da solo.

"Io allora andai all'assemblea, pregai di escludere il pubblico, e vi feci le stesse proposte. Nei corridoi incontrai Cernuschi che aveva già in tasca la formula rinunciando alla difesa che fu finalmente adottata, ma gli feci promettere di ritardarne la presentazione.
Trovai l'assemblea interamente cambiata; presa dal panico, disanimata. La mia proposta fu seguita da un lungo silenzio, rotto finalmente da Cernuschi, che turbato e vivamente commosso si avvicinò alla tribuna e parlò contro l'uscita del governo, dell'assemblea, dell'esercito. Fu seguito da altri.

"A me il continuare la guerra fino allo sterminio si era presentato come così elementare per un partito repubblicano al potere, che non avevo preparato nell'assemblea gli animi mesti di una possibile resa. Errore capitale! La discussione divenne amara. Gli argomenti erano puerili e bassi. Finalmente per la prima volta in Roma perdetti la calma e diventai poco parlamentare. Tacciai l'assemblea di codardia, e l'avvertii che il popolo era pronto a tutti gli sbaragli, poi abbandonai la sala dicendo che avrei aspettato la sua decisione.
Quando io uscii, fu chiamato Garibaldi che proponeva come unico scampo lo sgombro del Trastevere sull'istante; ché allora si potrebbe prolungare la difesa per qualche giorno ancora; essi finirono col sancire il decreto che conoscete.
Il decreto mi fu mandato con le istruzioni di comunicarlo all'Oudinot. Intanto avevo visitato le truppe; erano veramente esauste, stanche da morire. Il dividerci in quel momento avrebbe distrutto l'insegnamento che l'unità della difesa aveva dato all'Italia; forse la guerra civile ne sarebbe stata il risultato, e così le accuse vigliacche dei nostri nemici giustificate.

"Così io mi limitai a scrivere all'assemblea che "mi avevano eletto per difendere la repubblica non per farla abdicare", e che perciò mi rifiutavo di comunicare il decreto.
Rassegnai la mia dimissione insieme a quella dei miei colleghi. Un nuovo triumvirato fu eletto per questo scopo speciale. Il giorno seguente, andai all'assemblea e vi rimisi una violenta protesta di cui nemmeno oggi mi pento. Credo che non fu mai stampata. Tutto ciò che mi rimaneva da fare era di dimostrare, che non avevamo governato con il terrore, ma con la simpatia dell'intera popolazione.
Stetti in Roma fino all'ultimo, quando anche i Francesi e i preti ci erano entrati, e ogni giorno io passeggiai per Roma. Come mai non abbiano avuto la buona idea di disfarsi di me allora, io non lo so, né posso oggi capire!"


Nondimeno, dopo l'attenta lettura di tutto ciò che fu allora scritto, ci sembra che l'assemblea avesse ragione, e che Cernuschi, patriota senza macchia e senza paura, merita la riconoscenza dell'Italia per averle conservato tante vite preziose che, aggiunte ai caduti, nulla più avrebbero potuto per Roma; nulla aggiunto all'unico tesoro rimastole "l'onore salvato!".
La guerra era finita, dal momento che la breccia era espugnata, i trinceramenti interni guadagnati. È vero che il popolo fremeva di gioia all'idea di difendere la città casa per casa, e si può ritenere per certo che si sarebbe fatto ammazzare alle barricate! Meno gradita, lo dice lo stesso Pisacane, la proposta di cui egli stesso fu l'autore, di ritirarsi sulla sponda sinistra del fiume; i trasteverini infatti volevano difendere col pugnale le soglie delle proprie abitazioni.

"Ma - continua Pisacane - questa ostinata difesa, questa guerra del pugnale che tanto ambiva il popolo, era un'illusione. Il nemico, sempre timido, non avanzando di un passo, ma alloggiato sul Gianicolo, avrebbe proseguito il facile facile bombardamento.
Era chiaro che difendersi ostinatamente in città altro non significava, che sottoporsi a soffrire con pazienza un lungo bombardamento, le cui vittime sarebbero state gli esseri i più inoffensivi."

Dei due partiti che rimanevano, ed erano discussi, cioè che uscissero da Roma l'assemblea, il governo, l'esercito e tutti i cittadini di buona volontà per attraversare la Toscana, piombare in Romagna o invadere l' Italia meridionale, ovvero chiudersi in Albano o in Velletri e qui sostenere un secondo assedio, quanto accadde poi chiarì la impossibilità, perché ciò che Garibaldi non potè eseguire da solo e istantaneamente, da nessun altro uomo poteva venire fatto.
E poi non avrebbe il mondo detto che governo ed assemblea erano fuggiti?
A noi sembra bene che l'assemblea operasse a suo modo dalla sua parte, è Garibaldi dalla propria.

Fu proposto da Mazzini di creare Garibaldi dittatore militare, la mattina del primo luglio, e sembrava che l'assemblea fosse disposta ad acconsentirvi. Ma questa, la sera, non ne volle più sapere e si accontentò di conferire a Garibaldi i medesimi poteri di Roselli, incaricando i due generali di concertare insieme le condizioni da proporsi per l'esercito.
Era cosa evidente che nessun buono risultato potesse ottenersi da ciò. Garibaldi fino a quel momento si era contenuto, ma, visto che nulla più si poteva fare per Roma in Roma stessa, pensò di fare da sé e con coloro che soltanto in lui assolutamente si fidavano. Aspettava però di vedere se mai qualche incidente sorgesse a cambiare la decisione adottata.

Il popolo fremeva per le strade e per le piazze. Qui un gruppo assisteva all'entrata in città del cadavere di Morosini, che Bertani scoperse, disseppellì, e ricuperò dai francesi per poterlo imbalsamare e restituire alla famiglia. Altri accompagnavano altrove dall'ospitale di S. Maria alla chiesa di S. Lorenzo in Lucina la salma di Manara. La processione era formata di appena 400 soldati (fra i quali 100 feriti), i resti della sua legione; già di mille uomini, letteralmente senza ufficiali; dalle finestre e dal balcone i fiori piovvero a mazzi; l'orazione funebre pronunciata da Ugo Bassi fu appena intelligibile per le lacrime e i singulti dell'affollato uditorio.

Poi si sparse la voce che Oudinot aveva respinto le proposte del municipio, specialmente le seguenti:
1) - corpi militari francesi e romani che rimarranno in città faranno il loro servizio a vicenda;
2) - La libertà individuale e l' inviolabilità delle persone per tutti i fatti precedenti e la sicurezza delle proprietà saranno garantite indistintamente per tutti;
3) - La guardia nazionale è mantenuta in attività di servizio conformemente alla sua prima organizzazione. La Francia non s' immischierà nell'amministrazione interna dello Stato.

Oudinot però suggeriva alla deputazione romana di andare a Civitavecchia ove si trovava D'Harcourt, de Rayneval e de Courcelles, i quali pure respinsero gli articoli suddetti. La deputazione si condusse romanamente, protestando contro ogni atto di violenza che le truppe francesi potessero commettere, e soggiunse: "Giammai sanciremo con i nostri nomi l'onta di un popolo generoso; amiamo meglio vedervi entrare da nemici conquistatori che patteggiar con viltà."

La città fu ad un filo d'insorgere per conto proprio, quando i deputati ritornarono a narrare l'accaduto. Ma i rappresentanti del popolo e molti ufficiali dell'esercito, il Cernuschi stesso, si adoperarono ad impedire l'inutile spargimento di sangue.
Il 2 luglio, a un' ora pomeridiana, in municipio furono poste per iscritto le seguenti due proposizioni:
A) "Piace al Consiglio di proseguire disperatamente nella difesa?" Rigettata al
l'unanimità.
B) "Piace al Consiglio di ricevere impassibilmente i francesi in città, protestando di cedere unicamente alla forza, e inculcando al popolo di sopportare con rassegnazione tanta sventura?" Ammessa all' unanimità.

Oltre ciò, il Consiglio decise di darne subito comunicazione all'assemblea, affinché, essa associandosi essa, assumesse d'inculcare al popolo la rassegnazione, ed ordinare alle truppe le opportune disposizioni.
Al vecchio triumvirato, benché non abbia voluto né potuto prendere parte attiva nella sottomissione, perché le sue idee erano tutt'altre, pure non bastò l'animo di lasciare il popolo senza una parola di addio che gli scendesse al cuore in modo di conforto e di speranza.
Quest' addio finiva così: -
"Romani, una nube sorge oggi tra voi e l'avvenire; è nube di un'ora. Durate costanti nella coscienza dei vostri diritti e nella fede, per la quale morirono, apostoli armati, molti dei migliori fra voi. Dio vuole che Roma sia grande e libera, e sarà. La vostra non è disfatta: è vittoria dei martiri, ai quali il sepolcro è scala al cielo. Quando il cielo splenderà raggiante di risurrezione per voi, quando, tra breve, il prezzo del sacrificio, che incontraste lietamente per l'onore, vi sarà pagato, possiate allora ricordarvi degli uomini che vissero per mesi della vostra vita, soffrono oggi dei vostri dolori, e combatteranno, occorrendo, domani, uniti nei vostri ranghi, le nuove vostre battaglie."

Ancora due di queste "ultime parole". Citiamo forse troppi documenti? Certo è che oggi sembra perduto lo stile di quei giorni. Certo è che a leggerli proviamo lo stesso senso che ci occupa, quando negli scavi si rinviene qualche frammento di monumento antico: confronatto con gli edifici moderni, si vede quanto era la grandezza di quei giorni ! e come tali frammenti si conservano con ogni cura ed onore, così ci sembra doversi fare dei ricordi storici scritti col sangue di un popolo!
Ecco il commiato della Commissione delle barricate:

"Popolo! Da un anno le città italiane sono bombardate e mitragliate dallo straniero e dai re!
Roma che ebbe i più civili stranieri, ebbe il più sacro dei re per bombardatori!
Roma è vinta. - La Repubblica francese volle immergere nel cuore della Repubblica romana un pugnale, mentre gli Austriaci e i Borboni ne torturavano barbaramente le membra, e perché mai, o giustizia di Dio?
Il leone ferito a morte è ancora maestoso. Non garrisce, non rimprovera, non guarda a chi lo ferì, non prorompe in un estremo inutile sfogo di vendetta. No ! la morte dei forti è spettacolo di dignità.

"Popolo, la virtù non s'insegna, è nel cuore.
Ascolta il tuo, che è cuore romano, e sarai grande !

" CERNUSCHI, CATTABENI, CALDESI, ANDREINI. "

Sempre con un contenuto simile, il giorno 2 luglio, parlarono al popolo il ministro della guerra, e il municipio con un altro proclama.
Quanta tristezza! Roma pur sotto la minaccia di quattro eserciti, conobbe così la miseria d'animo di quegli stessi che dicevano di essere i suoi benefattori: i preti e i papi armati del potere civile, le selvagge passioni dei loro seguaci, l'ignoranza civile e sociale dei loro alleati stranieri; solo abili - questo sì - nella corruttrice oppressione. Per l'avvenire di Roma e del Popolo che aveva alle spalle un grande passato, dovranno purtroppo passare altre venti anni.

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