VENTISEIESIMO CAPITOLO

CAPITOLO VENTISEIESIMO

Il generale in capo Roselli e Garibaldi a Velletri. - Ritirata dei napoletani. - Garibaldi progetta di invadere il Regno. - Garibaldi richiamato a Roma. - I tedeschi sotto Ancona. - Di nuovo in lotta con i francesi. - Loro fraudolenze. - Combattimento a Villa Cospine; a Villa Pamphili. - Medici al Vascello. - Le stragi al Vascello.


La notte del 19-20 maggio fu una delle più dolorose per Garibaldi.
E non teniamo conto nemmeno dei suoi dolori fisici che pure debbono essere stati acuti, perché il Ripari, quando la mattina dopo lo medicava per la ferita non rimarginata del 30 aprile, lo trovò "tutto una ammaccatura sulla parte destra; malleolo, ginocchio, avambraccio, cubito, spalla. E sul dorso della mano vi era l'impronta d'un ferro di cavallo."

Ma soffrire e tacere era una sua virtù particolare. E tutta la notte, sdraiato fra le viti sui colli Latini, soffriva e taceva. Né apriva bocca se non per sedare il tumulto fra i suoi legionari che con piglio audace gridavano: "A Velletri, a Velletri!".
Né mangiava, né dormiva, ma stava con l'orecchio teso sui rumori della vicina città e in attesa della risposta del messo speditovi alla ricerca di precise notizie.
E oltre il Dandolo, il Masina che vi era entrato all'alba tornò con la conferma che la città era vuota. Garibaldi, che uscendo da Roma si era ripromesso di circondare e fare prigioniero quell' esercito condotto da capi venali e vili, e di guadagnare i poveri soldati alla comune patria, di ravvivare l'insurrezione nel Regno, e, aiutato dai nobili patrioti calpestati dal re spergiuro, farne il caposaldo dell'unità d'Italia, ora vide con l'alba il sogno scomparso; sentì la propria impotenza e perfino inutilizzato per l' Italia il nobile ardore di tale e tanta gioventù bramosa di morire per essa!
"Una vittoria, una sola - egli andava ripetendo - e l' Italia sarebbe nostra."

E come poteva a lui mancare la vittoria? a lui che dieci anni più tardi la afferrò per la chioma con quegli stessi eroi che allora lo circondavano! - Amara notte quella, preludio di altre ancor più amare .
All'alba ricevette l'ordine di Roselli di mandare parte del suo corpo sulle orme dei fuggiaschi. E immediatamente gli scrisse la seguente lettera:
"Velletri, 20 maggio 1849.
Generale!
Io approfitto della vostra compiacenza ad ascoltarmi, e vi espongo il mio parere. Voi avete mandato ad inseguire l'esercito napoletano da una forza nostra; ed é molto bene. Domani mattina dobbiamo con tutto il corpo dell'esercito prendere la strada di Frosinone e
non fermarci fino a giungere sul territorio napoletano, le popolazioni del quale bisogna insurrezionare.
La divisione che seguirà la strada de Terracina non deve impegnarsi con forze superiori, e deve ripiegarsi sopra di noi in caso di urgenza; ciò che potrò farò anche attraverso le montagne, non impedito dal peso dell' artiglieria.
G. GARIBALDI".

Copia conforme all'originale, il generale in capo ROSELLI.
( Memorie storiche, di Federico Torre)

Il Roselli nel giorno stesso spediva la lettera al ministero di Roma, senza però far presente "tale impresa piena di difficoltà"
E ora domandiamo che cosa avanza delle accuse di disobbedienza e di indisciplina scagliate contro Garibaldi? In ogni sua opera egli procedette d'accordo col generale in capo Roselli. Garibaldi non attaccava, ma fu dai napoletani attaccato, e quando ricevette l'ordine di aspettare il grosso dell'esercito, il combattimento era già impegnato e i napoletani debellati.

Quando il Roselli con molto ritardo alla fine giunse al campo, Garibaldi lo pregò di permettergli l'immediata partenza; non fu esaudito, e fremente, ma obbediente, si portò sui colli Latini, e ancora obbediente sottomise rispettosamente il suo disegno al proprio capo e aspettò con le armi al piede il permesso da Roma.
E poi in tutte le lettere e nelle relazione de Boschi al governo, scritte alla mattina dopo del 19, non si legge sillaba di biasimo, anzi il discorso é tutto di onore del prode Garibaldi "per la sua vittoria e di congratulazione perché i nemici disarmati dal valore mostrata nel combattimento hanno abbandonata la città" . (*)
(*) Riproduciamo un solo di questi documenti e qualche estratto degli altri. Il lettore li troverà tutti riportati nell'Appendice di Torre, Vol. II, p. 371 e seguenti. E per il dubbio che il patriottico scrittore avesse soppresso qualche frase o postcriptum, per non dare luogo a recriminazioni, abbiamo raffrontato lo stampato con gli originali. Questi sono riprodotti con esattezza scrupolosa:

REPUBBLICA ROMANA
COMANDO GENERALE DELL' ARMATA
N. 33.
Dal quartier generale presso Velletri, 20 maggio 1849 (ore 10 del mattino). Cittadino Ministro!
Ieri verso le ore 10 del mattino l'avanguardia comandata dal prode Garibaldi percorrendo la strada Consolare era pervenuta ad un miglio lontano da Velletri. Qui fu attaccata dal nemico uscito fuori da Velletri stesso in numero di circa 6000 tra cavalleria e fanteria. I Repubblicani avendo usato coraggio caricato due volte alla baionetta le masse nemiche, le costrinsero a ritirarsi e rinchiudersi nella città dopo avere lasciato sul campo molti morti, fra cui un capo di battaglione e trenta prigionieri
Arrivato col corpo di battaglia verso le ore due pomeridiane, trovai che il nemico rispondeva con vivo fuoco di moschetti e cannoni ai nostri, i quali avevano steso intorno alle mura una catena, la di cui sinistra si appoggiava alla strada Consolare, e la destra alle alture dei Cappuccini. Allora facendo io rilevare da truppe fresche i soldati della prima brigata continuai la riconoscenza intorno alle mura, la quale fu vivissima, atteso l'ardore delle nostre truppe.
La notte feci sospendere il fuoco sostenuto anche da nostra parte con due pezzi di artiglieria collocati sulla strada In questa azione la nostra perdita fu assai lieve non contando che pochi uomini fuori di combattimento, fra cui pochissimi morti.
Saluto e fratellanza
Il generale in capo ROSELLI.
Al cittadino Ministro della guerra e marina, ROMA

Egli anzi si fa bello della vittoria del 19 e dice in una lettera: "abbiamo presentemente sgombrato lo Stato della Repubblica dai nemici che dal Regno provenivano" e in altra parla "delle sue truppe affamate e stanche, soggiungendo - appena potrò. farò inseguire il nemico, nella direzione di Cisterna, dalla cavalleria e da qualche reggimento di fanteria con lo scopo di far prigionieri."

Affamate! Si erano ben pasciute al mezzodì e pacatamente avevano fatto 12 miglia e poi dormito 12 ore; giacché Roselli scrive alle 9 1/2 del mattino successivo (20). E questi soldati dovevano essere troppo stanchi e affamati da non poter inseguire subito il nemico?
Ma fin qui in Roselli non troviamo che l'uomo fiacco e incerto come poteva e doveva essere solo un colonnello dei papalini. L'uomo colpevole o da biasimare ci appare dopo, quando per scusare sé stesso calunnia Garibaldi.

Egli giunto a Roma forse lesse, per imprudenza di amici, le lettere di Daverio e di Mameli a Mazzini, che a botta calda narravano i fatti del 19; oppure lo punse il coro di lodi che tutti cantavano a Garibaldi .
Persino il deputato Polito, che seguiva lo stato maggiore scrive: "Il generale Garibaldi é un uomo incomparabile. A lui solo é dovuto l'onore di questa giornata. A noi non é dovuto che il rammarico d'esser giunti parecchie ore dopo di lui e così di non aver preso parte all' at tacco del mattino. Garibaldi é l'uomo non solo di fuoco, ma del pensiero e della strategia militare."

Il Polito scusa il ritardo del Roselli incolpando l' intendenza e il suo servizio che era veramente iniquo. Ma il Torre afferma che il torto massimo era dello stato maggiore generale del Roselli che non provvide i soldati di razioni per due giorni. - E che Manara desse il medesimo giudizio, emerge dal fatto che appena dilungatosi Garibaldi da casa Blasis alle 4 pomeridiane del 29 egli "espose a Roselli con italiana vivacità e senza il minimo riguardo le negligenze del suo stato maggiore, e più tardi si rivolse ad alcuni ufficiali di stato maggiore che dormivano, scuotendoli e gridando loro forte: "Su, su che non è tempo questo di dormire... " indi volgendosi al capo dello stato maggiore, gli disse mostrando gli ufficiali che già si erano alzati: " Ecco quanta gente basta da mandare per i viveri" (Hoffstetter, p. 94-95).

Di tutto ciò Roselli allora non si lamentava; ma, ripetiamo, quattro anni dopo, formulava le accuse contro Garibaldi di avere guastato il brillante disegno concepito da lui di occupare Palestrina, muovere per Montefortino su Cisterna e avvolgendo il nemico in una rete, ripetere il fatto di Ulma (2).

(2) Ecco come Roselli falsificava i fatti nell'"Italia e Popolo" del 20 agosto 1854,
quando Garibaldi era ritornato dall'esilio:
« Il Roselli non fu ministro della guerra, ma generale di divisione, e comandò supremamente le armi romane allorché fu costretto il re di Napoli, che aveva un esercito accompagnato da 2.000 cavalieri e 52 « bocche da fuoco, a ritirarsi nuovamente nel suo regno. E le misure che prese furono tanto giuste, che sebbene un Generale subordinato abbandonasse il posto e la gente affidatagli, si portasse all'avanguardia e si facesse cedere abusivamente il comando dal colonnello Marochetti che la comandava (come risulta da ordini, registri di quell'epoca o si possono anche vedere i bollettini nel "Monitore", giornale ufficiale d'allora), la ponesse in viaggio sotto Velletri arbitrariamente, disobbedisse all'ordine del generale in capo di fermarla almeno quattro o cinque miglia distante dal nemico, la conducesse contro ogni principio militare sin quasi sotto le mura di Velletri e alterasse così perniciosamente ogni cosa, pure, sebbene, dico, si commettessero così grandi falli, non ne venne la sconfitta delle armi nostre.
« Un tal delitto fu certamente più complicato e peggiore di quello commesso dal generale Ramorino in Piemonte; e alle persone le quali asseriscono , che anche se il generale Ramorino avesse osservato la disciplina, non sarebbe stata impedita la catastrofe di Novara a cagione dei difetti delle disposizioni del duce supremo (Czarnowski), io esorto a considerare se fu invece in virtù delle supreme disposizioni che i romani non si ebbero lagrimevole sconfitta a Velletri, allorché fu nel loro esercito la disciplina tanta orrendamente conculcata.
E a chi adirato dell' infrazione del culto santo delle bandiere si maravigliasse perché il comandante in capo delle armi romane dovette dissimulare, risponderò, che costringendo al dovere chi alla potenza dell'acquistata popolarità, nessun diritto incontrovertibile rispettava, ne sarebbe seguita una lotta la quale avrebbe data occasione forse esuberante ai nemici del governo, che dentro e fuori esistevano, di rovesciare l'ordinamento che si era nuovamente stabilito. Gli antichi repubblicani di Roma volevano potentissima l'autorità pubblica e nulla la privata, e per eccesso di popolarità precipitarono giù dalla rocca Tarpea Mezio e Manlio Capitolino, ed esiliarono Coriolano, Camillo e Scipione. I moderni invece rendono nulla l'autorità pubblica e potentissima la persona privata; operano in modo contrario a quello che dicono, non vogliono il padrone e se lo fanno , si vogliono rizzar su e si tengono il lembo della cappa sotto i piedi. E per maggior prova voglio rammentar la sedizione tentata il 22 giugno 1849 in Roma. »


Non Garibaldi, sebbene i borbonici, ai quali il suo solo nome metteva le ali ai piedi, furono colpevoli dell' abortito accerchiamento da Palestrina, poi da Velletri, ove almeno il fatto d'arme brillantissimo di Garibaldi ridondava ad onore delle armi italiane e abituava e volontari a non contare i nemici. Queste accuse ripetute da tutti gli scrittori, che vennero dopo il Roselli, non hanno ombra di fondamento, mentre ognuno riconoscerà giuste le responsabilità di Daverio, di Hoffstetter, ecc., e sono:
1.° Non avere il Roselli saputo o voluto sostenere Garibaldi quando si trovava vittorioso di fronte ai napoletani fuori di Velletri;
2.° Non avere voluto l'assalto di Velletri quando il nemico vi si precipitò dentro;
3.° Non avere circondato il nemico per impedirne la ritirata;
4.° Non avere inseguito i fuggiaschi, come voleva Garibaldi alle 4 pomeridiane del giorno 19.(*)
(*)

Alle lettere di Roselli e di Garibaldi il governo di Roma rispondeva richiamando il primo col maggior nerbo delle forze, acconsentendo che il secondo rimanesse alle frontiere per cacciare Zucche coi suoi masnadieri e inseguirli nel Regno. E quindi la notte del 23 Garibaldi si trovava a Frosinone, il 25 a Ripa, il 26 a Ceprano entro il Regno donde spediva Manara con i suoi bersaglieri lombardi per snidare i napoletani da Rocca d'Arte, fortissima posizione.

Garibaldi era in gran pensiero non soltanto della questione militare ma altresì della politica, come c'informa una lettera di Goffredo Mameli a Mazzini da Frosinone in cui, parlando come di cosa certa "del viaggio per Napoli della truppa bene animata e disciplinata" avverte che al Generale mancano istruzioni politiche circa alla condotta da tenersi, entrati nel Regno, e domanda "se si debbono occupare le varie province come conquiste, "temendo che tale modo di agire potrebbe suscitare contro i garibaldini lo spirito municipale e l' amor proprio del paese."
L'idea di Garibaldi era invece "di proclamare una Repubblica Sannita o Partenopea" ma a Mameli questo concetto tendente al federalismo, che pur corrispondeva al concetto della Repubblica Romana, metteva orrore e gli riuscì d'indurre Garibaldi ad abbandonarlo. Fu risoluto di stabilire governi provvisori che farebbero eleggere deputati alla Costituente Romana, la quale si trasformerebbe in italiana, chiamata a deliberare sulla definitiva costituzione.

Mameli voleva che si proclamasse la leva in massa anche se per il momento i coscritti non fossero armati che di picche, e antivedendo la necessità di dover "presto prendere l' offensiva in Lombardia".

"Manara intanto aveva messo in fuga i napoletani solo osservandoli sul confine, facendoli sloggiare dalla Rocca, sequestrando a loro tutti i sacchi e molti oggetti. Gli abitanti del paese spaventati dai racconti dei Borbonici, i quali dipinsero i garibaldini come figure di demoni che divoravano bambini e distruggevano ogni cosa, emigrarono sui vicini monti; ma, poi saputo e visto che quegli ospiti dell'inferno sedevano in terra sulla piazza senza tentare di aprire case o botteghe, scesero frettolosi dal monte, corsero ad abbracciare i volontari, aprendo e case e botteghe e in pochi istanti il paese tornò alla consueta attività" (Emilio Dandolo, Bersaglieri lombardi).

Garibaldi, credendo di incontrare gli Svizzeri a San Germano, comandò di avanzare il giorno dopo all'alba e ai suoi ufficiali raccolti sulla piazza d' Arce disse:
"Qui si decidono i destini d'Italia. Una battaglia vinta sotto Capua ci darà nelle mani l'Italia"
(Dai Ricordi manoscritti del Generale Sacchi citati da Guerzoni, Vol. I, p. 299):

Singolare divinazione! Seguendo ora per ora il pensiero e gli atti di lui in questi giorni, sembra che Garibaldi reciti nel Quarantanove le prove del dramma del Sessanta. Liberare Napoli la Sicilia: poi, essendo già libera Roma, gettarsi sugli austriaci e sostenere Venezia e restituire all'Italia e le alpi e il mare.
Ma ahimé! il governo della Repubblica romana sapendo Ancona già alle prese con Wimpffen, mentre un altro corpo sotto Lichtenstein si avviava a Perugia, nemmeno allora sospettando l'attacco del più vicino e più perfido nemico, decise di spedire tutta il gruppo romano nelle Marche e nello stesso tempo ordinava a Garibaldi di tornare velocemente a Roma.
Garibaldi campeggiava fra Ceprano ed Aquino quando il 27 ricevette la lettera di richiamo scrittagli in data del 26.
Ubbidì, come sempre, ma non, come crede il Guerzoni, "con gioia"; ma invece con amarezza e con dolore
(Archivi Saffi).

"Cittadino Triunviro Mazzini - egli scrive - Mi conformerò agli ordini, perdendo, secondo l' opinione mia, tutto il frutto di questa spedizione." - Promette che "invece di continuare per Sali Germano e Napoli, l' opinione popolare essendogli favorevolissima, si incamminerà per Sora e Aquila, ponendo in parte riparo al mal esito, e di qui a Terni, nell'intento di trovarsi sul fianco sinistro ed alle spalle degli austriaci sempre che essi proseguano alla volta di Roma."

Il 28 scrive ancora a Mazzini da Frosinone:
"avendo, dietro gli ordini, ritirato da Aree tutte le mie genti sono pronto ad eseguire il rimanente degli ordini".
E il 29 maggio, lusingandosi che almeno contro gli austriaci gli fosse concessa un'azione illimitata, scrive a Masina la seguente significativa lettera:

"Frosinone. 29 maggio 1849.
Colonnello Masina,
Io vi incarico sempre delle più ardue e disagiate imprese con la coscienza del vostro coraggio e della vostra capacità a disimpegnarle. Voi siete uno di quei compagni che la fortuna mi ha fatto felicemente incontrare per l'adempimento dei destini dello sciagurato nostro paese, e per cui ogni impresa mi diventa facile. Io vi amo e vi stimo dunque doppiamente, come amico dell'anima, poiché lo meritate personalmente - come campione della santa nostra causa, per cui tanto avete fatto e tantissimo farete ancora. Io vi raccomando la Legione. Credetemi, voi solo dovete comandare quei valorosi giovani, quel nucleo delle speranze della patria. Voi non dovete limitarvi a condurla sul campo di battaglia, ma bensì, ciò che ben sapete fare, tenerla come famiglia vostra, vegliarla, custodirla, staccarvi da quella meno che sia possibile.

"Voi avrete sperimentato certamente come la fanteria é il vero nerbo della battaglia; e la legione italiana, vedete, vittoriosa tre volte, sarà vittoriosa sempre.
Voi avete bisogno pure del vostro corpo dei Lanceri e ne avete veduta la necessità. Essi con voi saranno inseparabili dalla Legione e non saranno meno utili. Ma la fanteria abbisogna veramente di tutta la vostra cura. State con essa, Colonnello
, io ve la raccomando caldamente. La vita della prima Legione italiana appartiene caramente e indispensabilmente all'Italia. I legionari, noi stessi non possiamo valutarne l'importanza. L'onore italiano - e sapete se importa l'onore ad una nazione caduta - l'onore italiano per la maggior parte é salvo dai nostri bravi legionari. Ed un popolo disonorato sarebbe meglio che sparisse dalla superficie della terra.

"Voi, avete combattuto sempre alla fronte della Legione e la Legione vi conosce, vi stima. Il valore, credetemi, é la prima qualità; almeno la più affascinante; quella che serve al capo ad affezionarsi il subalterno; e Voi foste brillante di valore. Dunque voi reggerete e guiderete bene la Legione, e bramo ve ne occupiate indefessamente. In Roma potremo supplire ai bisogni dei nostri militari, ora non abbiamo tempo da perdere. Il più terribile, il più abominato dei nostri nemici ci aspetta sulle vie delle Romagne ed io... mi suona un grido di vittoria nell'anima.

"Da questo momento voi preparerete la Legione ad uno scontro con i tedeschi. Dite ai legionari che si famigliarizzino con quell'idea, che ne facciano il pensiero d' ogni minuto della giornata, il palpito d'ogni sonno della notte. Che si famigliarizzino ad una carica a ferro freddo, e a conficcare una pungente baionetta (le affileremo a Roma) nel fianco di un cannibale. Carica a ferro freddo senza degnarsi di scaricare il fucile. Date un ordine del giorno alla Legione, che obblighi i legionari alla seguente preghiera: - Dio, concedetemi la grazia di poter introdurre tutto il ferro della mia baionetta nel petto di un tedesco senza essermi degnato di scaricare il mio fucile, la cui palla serva a trucidare altro tedesco non più lontano di dieci passi. - Dunque all'opera, mio caro Colonnello, state sulla Legione come l'avaro sul suo tesoro. Preparate i legionari ad un giorno di trionfo.
Forse dovremo combattere più compatti. Si assuefacciano dunque a miglior disciplina, e a marciare uniti; a comparire il più decorosamente che sia possibile. Vinceremo allora e approfitteremo della vittoria.
GIUSEPPE GARIBALDI.

La risposta di Mazzini alle sue lettere, Garibaldi la ricevette al momento di mettere piede in Roma con il suo stato maggiore il 1° giugno; e dalla sua replica si vede che nemmeno allora egli si immaginava di essere in prossimità di una lotta mortale con la Francia.

"Roma 1 giugno 1849.
Mazzini,
Io rispondo alla vostra di ieri, con la stessa confidenza con cui voi mi avete scritto. - Ecco l'opinione mia: Io comando la prima divisione: destinatela contro i tedeschi ed aggiungetemi facoltà illimitate per riunire tutti i corpi armati che si trovano al settentrione di Roma, siano essi civici, volontari o di linea; ordinarli tutti sullo stesso piede, e disporne, a giudizio mio, per maggior danno dei nemici: sollevare ed armare gli individui idonei di tutte le popolazioni e lasciare al mio discernimento il modo di trarne profitto. Quindi - ogni provvedimento da facilitarmi i mezzi per il conseguimento dell'impresa. E l'unica dipendenza per ordini, per mutazioni, dal Triumvirato. Dispensatemi dal provare la necessità delle mie asserzioni. Persuadetevi pure che le truppe operanti verso Ancona non possono essere sotto diverso comando di quelle operanti sulla Toscana.
Vi prego rispondermi a vostro piacimento".
G. GARIBALDI.

"Ambizione della dittatura" dicono i fautori di Roselli. - Patti modestissimi, diciamo noi, che di certo sarebbero stati accettati da Mazzini (il quale sapeva meglio di ogni altro che per riuscire in un'impresa bisogna avere facoltà illimitate fin dove giunge la responsabilità) senza la necessità incalzante di unire tutte le forze della Repubblica contro un nemico ben più formidabile che non l'Austria, la quale almeno combatteva a viso scoperto.
Se non che Mazzini gli fece capire non essere più possibile la sua partenza da Roma e ancora lo pregava di aprirgli l'animo suo; a cui Garibaldi;

COMANDO DELLA 1.a DIVISIONE REPUBBLICA ROMANA
Mazzini. - Giacché mi chiedete ciò che io voglio, ve lo dirò: qui io non posso esistere per il bene della Repubblica che in due modi. O Dittatore illimitatissimo, o milite semplice. Scegliete, invariabilmente vostro G. GARIBALDI.

E' evidente che Garibaldi parlava di dittatura militare soltanto. - E quanto sarebbe, stato meglio che questo ufficio gli fosse stato conferito fino dal principio, risplende da tutto l'andarnento delle cose militari, dal 30 aprile alla fine dell'assedio.
Ma la cosa era impossibile, e Garibaldi, capacitatosene, non ne fece più motto, rimanendo al posto secondario assegnatogli dal pregiudizio della romanità. E con mezzi del tutto insufficienti operò nuovi prodigi.

La mattina del 2 giugno comparve un avviso che un armistizio era concluso con la Francia e che il generale francese avrebbe dato un preavviso di 15 giorni prima di ricominciare le ostilità. Ma la sera dello stesso giorno fu affissa dappertutto una contro-avvertenza che il signor Lesseps aveva superato le sue istruzioni e che il generale Oudinot intendeva attaccare, ma non prima del mattino del 4.

Ecco compiuto il primo atto della commedia. Convinto dalla sconfitta toccatagli il 30 aprile che gli italiani si battevano sul serio, Oudinot aveva ottenuto che il Bonaparte mandasse un emissario di buona fede per mantenere in trattative il governo della Repubblica Romana fintanto che a lui fossero pervenuti i rinforzi necessari. E abusando della troppa buona fede degli italiani, egli aveva potuto occupare tutte le posizioni necessarie all'assedio.
Veramente non si capisce come durante le trattative il Triumvirato non insistesse che i francesi fossero ritornati ai loro bastimenti o tutt' al più ristretti in Civitavecchia. Avezzana era stato inviato in Ancona. Garibaldi, nel breve intervallo fra la prima e la seconda spedizione contro i napoletani, si era dato con cura speciale e alacremente a guarnire tutte le posizioni fuori porta S. Pancrazio e raccomandava tenere sempre in mano le ville sul Gianicolo presidiato e trincerato monte Mario, che alzando la testa in faccia al Vaticano si prolunga alla destra dei Tevere ove le sue falde, ossia il monte della Farnesina, girano intorno a ponte Molle, per cui deve passare chi arriva da Bologna da dove si aspettavano soldati di rinforzo. -

Ritornato in Roma, Garibaldi, che con Cattaneo riconosceva che il nemico non é l'amico, trasecolò quando s'avvide che quei posti importantissimi erano già dei francesi! San Paolo e monte Mario da punti di difesa cambiati in bastioni d'offesa! I francesi s'erano procacciate comunicazioni con la sinistra del Tevere ed avevano gettato un ponte presso la basilica ostiense, fissato alla sponda con forti gomene, il che dette agio ad essi di stendere più tardi l'ala diritta verso l'altra sponda del fiume, e girare così intorno alle mura, che per la loro grande estensione era difficilissimo investire interamente.

Questo ponte, composto di cinque tartane e di due barche, era guardato da una lunetta, capace di contenere un battaglione. I francesi fecero credere che quel ponte non fosse destinato ad offendere i romani, ma solo a vigilare le diserzioni e gli ubriacamenti dei militari,
La condiscendenza di chi militarmente comandava in Roma fu un errore senza dubbio.
Il basso inganno a cui scesero i francesi era degno dei fanti del basso Impero, né possiamo troppo biasimare gl'italiani per non aver indovinato l'uso che si sarebbe fatto della loro ingenua credulità. Crediamo che essi non poterono immaginare che uomini di alto grado e autorità si sarebbero avviliti con così ignobile tradimento: chi non sa concepire un atto nefando non ne crede capaci neppure gli altri. Bisogna toccare con mano l'altrui perfidia, e allora si passa dall'estrema fiducia alla diffidenza e al disinganno,
I romani non avevano però abbandonati i lavori di difesa; avevano preso serie precauzioni
contro un'invasione e di spagnoli e di napoletani: avevano fortificato e armato di artiglierie il monte Aventino, fortificato; le mura di S. Sebastiano, il bastione di S. Gallo, Santo Stefano Rotondo, la villa Mattei, la vigila Manutelli, e Montedoro a porta Latina; eretto opere di guerra a porta Maggiore, porta Pia, porta Salara, porta del Popolo e monte Pincio.

Il colonnello del genio, Leblanc, che aveva avuto tutto il tempo per studiare dentro Roma le posizioni, consigliava l'assalto dai lato meridionale, sulla riva sinistra del Tevere, vicino a porta S. Sebastiano; questo è senza dubbio il lato più debole di Roma, che in parte fu rinforzato. E fu preparata anche una seconda linea per i colli Aventino, Celio e Testaccio. Spinoso impegno quello di impiantare la batteria a Testaccio, essendo ripidissima la china e dovendosi portar terra dalle vicine vigne. Questa parte della città offriva le migliori opportunità all'erezione delle barricate; e ogni giardino murato si sarebbe potuto trasformare in un presidio. Il popolo romano agognava la lotta e il governo lo aveva ben provveduto di fucili e di lance e di bombe di vetro e di altre scatole cariche di schegge e di polvere.
Il popolo stesso, indotto a credere che la città sarebbe stata attaccata da quel lato, inventava ogni giorno nuovi ordigni di difesa. Si sospendevano in aria travi da schiacciare gli assalitori e si gettavano ingombri sulla strada per infastidire la cavalleria.

Il console inglese, divenuto quasi romano per trent' anni di permanenza in quella città, informò Palmerston che l' ordine in Roma era perfetto; assoluto il rispetto per il governo, che senza un grandissimo spargimento di sangue, sarebbe impossibile l'entrata degli invasori. E il capitano di un bastimento da guerra americano scrisse che anche dopo un regolare assedio sarebbero necessari 30 o 40 mila francesi per prender Roma. Lord Napier fu dello stesso avviso e il generale Vaillant avvertì il suo governo che la resistenza sarebbe stata virile e che non si poteva prevedere l'esito dell'assalto. Tanto rispetto e tanto timore incuteva quel popolo romano, inerme per secoli, aiutato solamente da pochi fratelli male armati, ma condotti da uomini che personificavano un'idea, idea destinata a trionfare più tardi, quando il tracotante invasore avrebbe assistito alla umiliazione allo smembramento della propria patria.

A Parigi stessa fu deciso, in vista della fiera attitudine dei romani, di investire la città dal Gianicolo che domina Roma, sperando con le lungaggini di un regolare assedio di scemare l'ardore del popolo e di spaventarlo per la rovina de' suoi monumenti. E il Vaillant con i propri occhi si formò l' idea concepita a priori di attaccare Roma dal Gianicolo.

Garibaldi, che intuisce sempre le mosse del nemico, domandava con affanno, appena lesse la contronota della sera, se le ville erano ben custodite. Gli risposero di sì, e la sua legione fu mandata ad alloggiare nel convento in Via delle Convertite.
Ora, mentre nulla può scusare il tradimento dei francesi nello scendere a Civitavecchia e nel prevalere della fiducia che Lesseps seppe ispirare ai Triumviri per impadronire delle alture, - non ci sembra giusto accusarli di un nuovo tradimento la mattina del 3 giugno!
Teniamo bene in mente che solo Roselli trattava con l'Oudinot, giacchè Avezzana tenuto in Ancona, Garibaldi nel Lazio, non intervennero nelle trattative. E non si vuole dimenticare che Roselli era ritornato da Velletri il 21 maggio col maggior nucleo dell'esercito. In Ancona quel fiero uomo di Livio Zambeccari sapeva condursi ben altrimenti che non Mannucci a Civitavecchia, o Roselli a Roma.

Appena risaputosi in Ancona l'assalto dei francesi a Roma il 30 aprile, il Mattioli, preside, intimò ai comandanti dei tre legni da guerra francesi di prendere il largo, e quando più tardi il viceammiraglio di Francia, il Belvère, offerse allo Zambeccari di scendere a terra con trecento dei suoi con la bandiera francese da inalberarsi sul forte, rispose l'accorto Livio: "Accetterei se non sapessi la differenza tra le parole e le opere della Francia. Ora non vedo differenza fra i francesi e gli austriaci se non che siete più impudenti di loro, giacchè osate voi, bombardatori di Roma, offrirvi difensori di Ancona."
E il Belvère ritornava così a bordo con le pive nel sacco, e presto si ritirava dal porto.
Il Roselli invece, sapendo che gli austriaci muovevano sopra Ancona, si rivolse all'Oudinot per ottenere un armistizio illimitato, soggiungendo: "in caso che gli austriaci presentassero la testa delle loro colonne a Civita Castellana, sull'esercito francese ricadrebbe tutta la responsabilità dinanzi alla storia per averci obbligati a dividere le nostre forze in momenti tanto preziosi."

A cui dopo poche ore, dice il Vecchi, l'Oudinot spediva il foglio seguente:
"Villa Santucci, 1 giugno 1849.
Generale,
Gli ordini del mio governo sono positivi. Essi mi prescrivono di entrare in Roma al più presto possibile. Ho denunciato all'autorità romana l'armistizio verbale che per le istanze del signor di Lesseps, avevo consentito ad accordare momentaneamente. Ho fatto pervenire per iscritto ai vostri avamposti che l'uno e l'altro esercito erano in diritto di ricominciare immediatamente le ostilità. Solo, per lasciare ai nostri connazionali che volessero abbandonare Roma, e su domanda del signor cancelliere dell'ambasciata di Francia, la possibilità di farlo agevolmente, io differisco l'attacco della piazza per lo meno sino a lunedì mattina. Ricevete, generale, le assicurazioni dell'alta mia considerazione.
Il generale in capo dell'esercito del Mediterraneo,
OUDINOT DI REGGIO.

Questo ci sembra parlar chiaro almeno: eppure Roselli in tutto il primo e secondo giorno, non seppe spedire all'avamposto più importante, cioè a villa Pamphili, che due compagnie di bersaglieri sotto Mellara, e altri duecento uomini del 6.° reggimento per occupare tutte le altre ville.
Ora Oudinot aveva il grosso delle sue truppe sulla strada maestra di Civitavecchia, la quale si biforca: una delle due vie fra villa Corsini e il parco di villa Pamphili conduce a porta Cavalleggeri; l' altra tra il Vascello e villa Valentini mette a porta S. Pancrazio. Padroni delle ville, padroni delle strade: naturale dunque che i francesi facessero di tutto per impadronirsene, attaccando poco dopo mezzanotte le compagnie di Mellara, pacificamente addormentate, - con 1000 uomini e due pezzi di artiglieria.
I soldati, svegliati all'improvviso, si difesero bravamente. A Mellara toccò la sua mortale ferita, mentre gli altri o furono fatti prigionieri o si gettarono dalle finestre, correndo ad avvertire i duecento uomini nelle altre ville Corsini e Valentini, che pure loro assaliti sostennero le posizioni, ma poi sopraffatti alcuni riprararono al Vascello dove terribile c'era Garibaldi che pronunciò una sola parola: Avanti!

Egli, la sera del 2 giugno, stanco, sofferente e impensierito, prese stanza in un alberguccio in via Carrozza, e qui, mentre Ripari stava medicandolo, essendo ancora tutta la parte destra del suo corpo livida e dolentissima, udì tuonare il cannone nella direzione del Gianicolo, e allo stesso momento balzò in stanza Daverio gridando: "Dov' è la bandiera ?" - "Qui" rispose il generale già cingendo la spada: "Ripari la porterà a Masina che condurrà la legione in piazza S. Pietro a passo di corsa."
E il medico, deponendo il cerotto e le pomate, corre, tira giù Masina per una gamba dal letto dove dormiva, ahimé! il penultimo sonno, poi va al convento dove trova i legionari tuttora in piedi, chi vestito da prete, chi da sagrestano, quale confessando, quale battezzando, - l'organo magistralmente suonato da uno di quegli empii, impedendo a tutti di udire il tuono del lontano cannone.

Avvertiti, volano a S. Pietro, perché a tutta prima Garibaldi pensò di percuotere l' ala sinistra dei francesi, uscendo per porta Cavalleggeri. Ma arrivato a piazza S. Pietro, s'accorse che i nemici erano decisamente superiori per numero e troppo protetti da boschi e muraglie, però prese la direzione di S. Pancrazio. Quando egli vide i nemici padroni del Casino dei Quattro Venti, deve aver detto fra sé e sé : "Consummatum est."
Difatti, impossessatosi i nemici di quella posizione, che egli aveva già indicata come chiave della difesa, con tutti i munizionamenti per un assedio regolare, la caduta di Roma si riduceva a tempo determinabile.

Garibaldi da porta S. Pancrazio venne diritto al Vascello, allora solidissimo edificio a tre piani, costrutto verso la strada con altissime muraglie davanti, con giardino e maestoso viale di agrifoglio circondato di più basse mura, distante circa 100 metri dalla porta.
Villa Corsini, dall' altezza su cui sta, domina tutti i dintorni e il nemico nascosto e protetto dappertutto da alberi, cespugli, statue, terrazze, parapetti, raccolto nella stessa casa, può con minimo pericolo tirare contro chi gli contesta la posizione, perché questi deve farsi strada in campo aperto, entrando nel giardino per il cancello di ferro e scavalcando la muraglia. -
Ogni volta che mi accade di transitare dal Vascello a quell'arco di trionfo, che con sua vergogna ha eretto il Doria agli assassini della sua patria, e che copre il luogo allora occupato dal Casino dei Quattro Venti, rimango stupefatta che Garibaldi stesso trovasse, una dopo l' altra, schiere di giovani per opporre il petto vivo contro quella posizione adamantina, e che uno solo di loro sia sopravvissuto.
Ma egli sapeva che riuscendo a prendere quella posizione i francesi non potevano piantar le parallele e che, in mano dei romani, da essa questi avrebbero opposto una difesa prolungata e gloriosa.
Avanti per il primo si lanciava Masina con Leggero e altri, irrompendo entro il cancello e su per il viale dei Quattro Venti, ove erano accolti da una pioggia di palle. Masina, ferito al petto, porta su il cavallo per la ripida gradinata, e qui, con una carabina in mano, strappata ad un soldato, e piedi in staffa, cadde morto trafitto al cuore.

Spintisi avanti Daverio, Peralta, Marochetti con molti soldati, sono accolti con palle dalle finestre, dalla porta, dalle basse mura, dalle alte siepi; ogni vaso di limone, ogni albero di arancio, servendo di feritoia. Cadde morto Peralta, Daverio mortalmente ferito spira, mentre lo si toglie dalla mischia, sopra mucchi di feriti e di morti. Gli altri arrivano a villa Corsini, cacciano giù i francesi alla baionetta; e dal giardino, Garibaldi, impassibile a cavallo dirigendo le truppe, vede che altro é prendere, altro é tenere: va a chiamare Bixio, lasciato in custodia al Vascello, e gli ordina di tenere la villa ad ogni costo. Bixio prorompe con la solita audacia, ma già la villa é ripresa: con dieci palle in corpo il suo cavallo soccombe, egli continua la corsa a piedi, una palla lo stende a terra, e trasportato all'ambulanza, manda un saluto ironico a suo fratello deputato all' assemblea di Parigi.

Vecchi e Mameli allora si mettono alla testa di altri soldati, e il poeta soldato, il Koerner italiano, riceve la ferita, che a tutta prima non parve, ma che fu mortale.
Ora chi non seppe custodire quelle posizioni rimprovera a Garibaldi di avere mandato alla spicciolata la sua gente. Ma che altro poteva fare se alla spicciolata gli venne mandata?

In principio si ebbe la sola sua legione, poi di mano in mano uno squadrone di dragoni, gli studenti, gli emigrati, la piccola legione di Medici, i finanzieri. Tutto ciò che abbiamo narrato era già accaduto prima che giungesse il battaglione di Manara, che dapprima ricevette l'ordine di portarsi in piazza di San Pietro poi di formare la riserva al Campo Vaccino, finché egli, fremente, mandò il suo aiutante a Garibaldi per riferirgli l'ordine del quartier generale, aggiungendo che i bersaglieri sarebbero subito venuti sul posto destinato da lui, e il reggimento giunse a suono di cornette sulla piazza di S. Pietro in Montorio, quando Garibaldi con tutti i suoi ufficiali stava preparando un nuovo tentativo per ricuperare il perduto, e le ville, e allo stesso tempo conservare il Vascello.

Garibaldi spinse avanti una compagnia di 60 uomini sotto Dandolo, seguito da uno squadrone di dragoni, e la compagnia di Ferrari. - A Masi, che trovò la cosa troppo arrischiata, Manara rispose: "Se noi non pigliamo la posizione, non la piglia neppure tutta la brigata."


Dei 60 uomini sotto Dandolo ne caddero 25, ed egli fu ferito a morte, ma da quel momento essi divennero padroni delle case a sinistra, e il Vascello, mai contaminato da zampa francese, si poteva tenere con forte nerbo di milizia, che tutto il giorno e poi fino quasi all' ultima ora dell'assedio fece di qui fuoco micidiale sul nemico. - I francesi fuggirono tentando l'incendio della villa, poi ritornarono con poderosi rinforzi, e così prima di sera, coll'altalena di prendere e perdere, anche Manara aveva quasi tutti i suoi ufficiali morti o feriti e il battaglione decimato. - Per quanto gli premessero le altre ville, più premeva a Garibaldi il Vascello. Ucciso fu il vecchio patriota Pallini che correva per portare l' ordine al Manara di "tener fermo il Vascello sino alla morte; essere in quelle mura la difesa di Roma, l' onore delle armi, la salute di tutti."

Prima l'ebbe in custodia Sacchi, il giovane veterano ferito a S. Antonio del Salto, poi Manara e finalmente Medici, che molestava i francesi nei vigneti; l'ebbe da Garibaldi in formale consegna quando a ciascuno questi assegnò il posto per la notte dopo 14 ore di mortale combattimento contro due brigate, l'una guidata dal generale Moliére, l'altra da Levaillant, sostenute da altre due, l'una sulla strada dei Tiradiavoli, l'altra al lato della foresta. Garibaldi la sera si trovò con due soli ufficiali illesi: la giornata costò 1000 feriti e 180 morti.
Egli non nomina che i morti sul campo: - colonnello Daverio, colonnello Masina, colonnello Pallini, maggiore Ramorino, aiutante maggiore Peralta, tenente Bonnet, tenente Emanuele Cavalieri, sottotenente Grassi, capitano G. Dandolo, tenente Scarini, capitano David, T. Sarete, T. Cazzaniga. - E a questi bisogna aggiungere Mellara e Sivori e Canepa che morirono nella notte, e Borelli, Rasori e Falgari.

Contemporaneamente all'attacco della villa Pamphili, il generale Sauvin, che proditoriamente si era impossessato di monte Mario, condusse la sua brigata a sorprendere ponte Milvio o Molle, a monte della città. Il ponte ha otto metri in larghezza e quasi duecento in lunghezza. I romani avevano minati i grandi archi, risoluti di farlo saltare in aria, se mai i francesi avessero accennato d'impadronirsene; premeva assai ai francesi d'impedire che questo proposito si effettuasse, che avrebbe impedito il loro passaggio. Anche qui, pochi a presidio.
Da un momento all'altro, un colpo ben aggiustato uccise la sentinella romana, e viva scaramuccia seguì fra i nostri che si sforzavano per far saltare in aria il ponte e i francesi che vi si opponevano. Da parte dei francesi combattevano: una compagnia di cacciatori, un battaglione di fanteria leggera, un altro di linea; mentre il tenente colonnello del genio aveva preparato una zattera, con dentro i fucili per i volteggiatori che dovevano passare il fiume a nuoto e condurre prigionieri i pochi nostri uomini messi di guardia. Audace concetto, ma più audace fu colui che lo sventò; e fu un romano di nome Fulgencio Fabrizi, che si gettò nudo nel fiume con la sciabola stretta fra i denti....

.... afferrò la zattera e con i denti e le mani la tirò per il fiume sulla riva; mentre i nemici lo fulminavano intanto con un nugolo di palle.

Di un'altra barca francese s'impadronì Enrico Gori, ma anche questi sforzi eroici rimasero infruttuosi, essendosi il nemico insignorito della torre quadrata che sorge a capo del ponte a destra, e di là saettò micidialmente i nostri, che dovettero indietreggiare. Nemmeno allora osarono i francesi varcarlo per paura delle mine, giacché i nostri avevano rotto uno dei piccoli archi; perciò quelli fecero passare alcuni di loro a nuoto, poi riparato il piccolo arco vi supplirono con barche e scaricarono le mine. Troppo tardi il governo militare di Roma inviò sul luogo soldati e due pezzi d'artiglieria, impotenti per cacciare il nemico dalla torre e dai colli opposti, mancando a destra posizioni sufficientemente alte per dominarli.

E qui ci sembra lecito domandare che cosa facesse il generale Roselli, duce supremo delle forze della Repubblica, in quel giorno. L'Assemblea Costituente si era dichiarata in permanenza. La commissione delle barricate, Cernuschi, Cattabene, e, nell'assenza di Caldesi, Andreini, compirono magnificamente il loro dovere, conducendovi il popolo in quel giorno, ma di Roselli ogni scrittore tace (*).
(*) Questo avevamo stampato nella Vita da Garibaldi, vol. 1.° pag. 94, e vediamo con compiacenza che il Guerzoni scrisse poi: "Per quanti libri abbiamo consultato dove il 3 giugno fosse il generale Roselli, non ci venne modo scoprirlo. Perché non comparve mai a Porta San Pancrazio, o se vi comparve perchè non corresse gli errori del suo divisionario e con la sua sapienza non li riparò? Perché non gli mandò almeno le truppe disponibili in soccorso? Non gli era evidente che le sorti di Roma si decidevano in quel giorno fuori di Porta San Pancrazio? E perché non concentrò pure lui là tutte le sue forze?


Forse Roselli stava compilando la famosa storia dei tre errori grandissimi di Garibali, di quell'uomo che aveva incominciato a guastare il progetto che egli aveva stabilito di eseguire, per cui lo aveva sottoposto alla corte marziale!
Oppure faceva Roselli le note per le maligne insinuazioni intorno all'incapacità di Garibaldi, proprio il 3 giugno, stampate quando questi, cacciato e bandito d'Italia, viveva esule in America aspettando quell'altra guerra! .

Roselli e tutti dimenticano di dire che, eccettuati i 500 fucili a percussione mandati a Garibaldi da Avezzana, i garibaldini erano armati con i soli catenacci, e che proprio quel giorno alla porta di San Pancrazio si distribuivano a cappellate le pietre focaie! Ogni tanto qualche caposcarico cambiava il proprio catenaccio con le belle carabine date alla guardia nazionale, e questo fu uno dei tanti biasimati atti di poca subordinazione e di sfrenatezza!

Ora ci sembra fuor di dubbio che se Garibaldi fosse stato nominato capo supremo delle forze della repubblica il 30 aprile, avrebbe ricacciato i francesi ai loro bastimenti: costoro non sarebbero più sbarcati se non con la forza, e di certo il 3 giugno non si sarebbero trovati padroni delle altezze e in grado con un colpo di mano di impiantarsi in quelle ville e su quelle strade che fra monte Mario e monte Verde rendevano facili, anzi non necessari i lavori d'assedio.

E qui ci piace riprodurre il giudizio di Maurizio Quadrio, tutt'altro che idolatra di Garibaldi, anzi spesso per malignità altrui indotto ad essere ingiusto verso il gran capitano.
"Giova riflettere - scrive Quadrio, - di quanta abnegazione fece prova Garibaldi fino all' ultimo, quantunque egli non avesse il comando supremo dell'esercito, e perciò non potesse disporre tutto a suo talento, cosa che influì molto sul precipitar della guerra. Ed egli si vide preposto il Roselli, uomo di fede intera, ma non da mettersi davanti a lui che genio, lampo e fulmine era di guerra e delirio dei soldati che con Garibaldi erano "tutti eroi".

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