DICIASSETTESIMO CAPITOLO

DICIASSETTESIMO CAPITOLO

Le notizie d' Italia giunte a Montevideo decidono Garibaldi al ritorno. - Lettera di Mazzini al Papa. - Lettera di Garibaldi e di Anzani al Nunzio. - Risposta di monsignor Bedini. - Garibaldi è pronto a servire l'Italia sia col pontefice sia col granduca di Toscana. - Manda la famiglia a Nizza. - Lettera inedita di Anita. - Partenza sulla Speranza per l'Italia il 15 aprile 1848.

Giunte a Montevideo le tante ed insperate notizie della sua patria, la gioia di Garibaldi e degli altri italiani è difficile descriversi. Ritornare in Italia, combattere per l'Italia, ecco l'idea unica che primeggiava sopra ogni altra.
Con chi, sotto di chi e per quale forma di governo, non passò per la mente di nessuno. Assurdo dunque il baccano fatto intorno alla supposta defezione di Garibaldi dal partito della repubblica.

Mentre Mazzini inneggiava a Pio IX da Londra ....

( Un solo estratto de' suoi scritti basta per comprenderne tutto il pensiero;
"Unificate l'Italia, la patria vostra. Combattete colla parola del giusto il governo austriaco. Abbracciato nel vostro amore ventiquattro milioni d'italiani, fratelli vostri. L'unità italiana è cosa di Dio, parte di disegno providenziale, voto di tutti. Il risorgimento d'Italia sotto l'egida di un' idea religiosa, sotto uno stendardo, non di diritti ma di doveri, porrebbe l' Italia a capo del progresso europeo. Un altro mondo deve svolgersi dall' alto della città eterna ch'ebbe il Campidoglio ed ha il Vaticano. "
)

.... Garibaldi e Anzani mandarono al Nunzio di Montevideo una lettera, ove la devozione al papa non è minore dell'entusiasmo per il Prìncipe:

" Illustrissimo e rispettabilissimo signore,
"Dal momento che ci giunsero le prime nuove dell'esaltazione al trono del sovrano pontefice Pio IX e dell'amnistia che egli concedeva ai poveri proscritti, con una simpatia ed un interesse sempre crescenti noi contammo i passi che il capo supremo della Chiesa ha fatto sulla via della gloria e della libertà.
Le lodi, il cui eco era giunto sino a noi dall'altra parte dei mari, il fremito col quale l'Italia accoglie la convocazione dei deputati e vi applaude, le sagge concessioni accordate alla stampa, l'istituzione della guardia civica, l' impulso dato alla istruzione popolare ed all'industria, senza contare le innumerevoli cure dirette tutte al miglioramento, al benessere delle classi povere ed alla formazione di una nuova amministrazione, tutto infine ci convinse essere finalmente uscito dal seno della nostra patria l'uomo, il quale, comprendendo i bisogni del suo secolo, aveva saputo, giusta i dettami della nostra augusta religione, sempre nuovi, sempre immortali, e senza derogare alla loro autorità, piegarsi alle esigenze dei tempi; e noi, sebbene tali progressi non avessero diretta influenza per questi luoghi, pure da lungi li seguivamo, accompagnando con i nostri applausi e con i nostri voti il concerto universale dell'Italia e di tutto il cristianesimo: ma quando pochi giorni or sono, noi risapemmo il sacrilego attentato per cui una fazione fomentata e stipendiata dallo straniero, non ancor stanco dopo sì lungo tempo di straziare la nostra povera patria, si proponeva di rovesciare l'ordine delle cose che oggi esiste, ci parve che l' ammirazione e l' entusiasmo per il sovrano pontefice erano troppo debole tributo e che ci era imposto un dovere più grande.
Illustrissimo e rispettabilissimo Signore! Noi che scriviamo, siamo coloro, che sempre animati dalla stessa idea che ci fece affrontare l'esilio, abbiamo preso le armi a Montevideo, per una causa che ci sembrava giusta, e riunito poche centinaia d'uomini nostri compatrioti, i quali erano qui venuti, sperando trovarvi giorni meno amari di quelli che eravamo obbligati a subire nella nostra patria.
Per cinque anni durante l'assedio, che ci chiudeva fra le mura di questa città, ciascun di noi poté far prova di rassegnazione e coraggio, e, grazie alla Provvidenza ed a quell'antico spirito che infiamma ancora il nostro sangue italiano, la nostra legione ebbe occasione di distinguersi ed ogni qualvolta tale occasione si é presentata, non se l'ha lasciata sfuggire: tanto bene che crediamo ci sia permesso di dirlo senza vanità: - sulla strada dell' onore, ha sorpassato tutti gli altri corpi che erano suoi rivali ed emuli.
Or dunque, se oggi le braccia che hanno qualche pratica delle armi sono accettate da Sua Santità, é inutile dire che col maggior piacere del mondo le consacreremo al servizio di Colui che tanto fa per la patria e per la Chiesa.
Noi dunque ed i nostri compagni, nel cui nome vi rivolgiamo la parola, ci chiameremo felici, se ci sarà dato di venir in aiuto dell' opera redentrice di Pio IX, e non crederemo di pagarla troppo cara, versando tutto il nostro sangue.
Se la Signoria vostra illustrissima e rispettabilissima crede che la nostra offerta possa riuscire gradita al sovrano Pontefice, che Ella la deponga ai piedi del suo trono.
Non l' offriamo già per la puerile pretesa che il nostro braccio possa essergli necessario: noi sappiamo che il trono di S. Pietro riposa su solide basi e non possono scuoterlo né abbatterlo gli sforzi umani: d'altronde il nuovo ordine di cose conta numerosi difensori che sapranno energicamente respingere le ingiuste aggressioni dei suoi nemici: ma siccome l'opera deve essere ripartita fra i buoni ed il faticoso lavoro affidato ai coraggiosi, fateci l'onore d'annoverarci fra questi.
Intanto noi ringraziamo la Provvidenza d'aver preservato Sua Santità dalle macchinazioni dei tristi e facciamo ardenti voti perché ella le accordi molti anni per la felicità del cristianesimo e dell' Italia.
Non ci rimane dunque che pregare la Signoria Vostra illustrissima e rispettabilissima di volerci perdonare l' incomodo che le cagioniamo, e di gradire i sensi della nostra profonda stima e rispetto col quale ci dichiariamo della Signoria Vostra illustrissima, i più devoti servi
Montevideo, 12 ottobre 1847.
« G. GARIBALDI. - F. ANZANI. »

E a questa lettera, il Nunzio, precisamente quel terribile monsignor Bedini, che fu il terrore delle Romagne, e superò in ferocia gli austriaci stessi, rispose:
"Sento il dovere di significarle senza indugio, che quanto in essa contiene (nella lettera di Garibaldi) di devoto e di generoso verso il Sommo Pontefice regnante é veramente degno di cuori italiani, e merita riconoscenza ed elogio. Col pacchetto inglese che partì ieri, trasmisi l'indicato foglio a Roma, onde siano eccitati anche in più elevati petti i medesimi sentimenti.... Se la distanza di tutto un emisfero può impedire di approfittare di magnanime offerte, non ne sarà mai diminuito il merito, né menomata la soddisfazione nel riceverle. Quelli che si trovano sotto la sua direzione, deh! che sian sempre degni del nome che li onora e del sangue che li scalda! Con questo voto sincerissimo accompagno l'augurio...."

 

Questi due uomini, Mazzini e Garibaldi, esprimevano il pensiero dell'intero popolo. Tra tutti gli italiani eminenti, solamente G. B. Niccolini derideva l'idea di un papa liberatore, e Giuseppe Ferrari la riteneva assurda.
Tuttavia questo papa fu un inconsapevole araldo della italica rigenerazione, utilizzato dai veri rigeneratori per chiamare a raccolta i patrioti.
E per essere imparziale, Garibaldi scorgendo della buona volontà anche nel duca di To
scana (*) pensava di offrire anche a lui la sua spada. Non perciò cessavano le sue intime relazioni con Mazzini; ed essendo arruolato nella sua legione poco dopo il fatto di Salto un giovane carissimo a Mazzini, Giacomo Medici, lo rimandò in Italia all'inizio del Quarantotto per intendersi con lui, col Fanti, col Belluomini, col Guerrazzi, per raccogliere armi e volontari, promettendo che egli non avrebbe perduto tempo nel porsi in viaggio per capitanarli.

(A Paolo Antonini. - Genova)
(*) Montevideo, 27 dicembre 1847.
« Carissimo,
« Ho ricevuta la grata vostra del 2 agosto, e sì tardi io vi rispondo. - Quantunque mi conosciate poltrone da molto tempo, non é questo il motivo di non avervi scritto prima; ma bensì avendo divisato mandar la famiglia da molto tempo, volevo approfittare di tale occasione. Non fa d'uopo certamente raccomandarvela: troppo conosco la gentilezza del mio compadre; vi prego soltanto, in caso abbisogni (come suppongo) trasportarla in casa di mia madre in Nizza, vi compiacciate impegnarvi che le sia agevolato il passaggio per terra o per mare, comunque, a di lei piacimento. - Io pure, cogli amici, penso venire in Italia ad offrire i deboli servigi nostri, o al pontefice o al granduca di Toscana.
Indi avrò il bene d' abbracciarvi. Qui si aspettano notizie d'Europa, e continua l'assedio.
I miei a saluti a Paolo e agli altri fratelli vostri, e agli amici. Amate il vostro
. « G. GARIBALDI.


Infatti proprio verso la fine del 1847 Garibaldi costrinse, e non senza difficoltà, l'Anita a precederlo con i figli, allora tre in numero, - e il Ricciotti di pochi mesi, - promettendole di raggiungerla in casa della propria madre a Nizza.
Che accoglienza la moglie e i figli di Garibaldi avessero in patria si deduce dalla seguente lettera inedita, scritta tutta di pugno dell'Anita a Stefano Antonini, abitando essa a Genova la casa del fratello di lui. Ne diamo il fac-simile essendo oggi abitudine dei biografi di Garibaldi di presentare quella donna ignorante come persona volgare e quasi analfabeta.


(A Stefano Antonini)
"Stimatissimo Signore,

« Mi fo un piacere di dare a V. S. la nuova del mio felice arrivo in Genova, dopo un felicicissimo viaggio di circa due mesi. Io sono stata festeggiata dal popolo genovese in modo singolare. Più di tremila persone vennero sotto le finestre gridando viva Garibaldi, viva la famiglia del nostro Garibaldi, e mi fecero dono d'una bella bandiera dai colori italiani, di cendomi di farla tenere a mio marito tosto che giunga in Italia, ond'egli sia il primo a piantarla sul suolo Lombardo. S' ella sapesse quanto è amato e desiderato Garibaldi in tutta i Italia, e principalmente qui in Genova! Tutti i giorni, ad ogni bastimento che credono venga di Montevideo pensano che vi possa esser egli, e se ciò fosse io credo che le feste sarebbero senza fine. Le cose d'Italia procedono assai bene. In Napoli, Toscana e Piemonte fu promulgata la Costituzione, e Roma starà poco ad averla. La guardia Nazionale è stabilita dovunque, e moltissimi benefici ottennero questi paesi. Da Genova, ed anzi da tutto lo Stato furono cacciati i Gesuiti, e tutti i loro affiliati, e dappertutto non si parla che di unire l' Italia mediante una Lega politica, e doganale, e poscia liberare i fratelli Lombardi dal dominio dello straniero.
Mille finezze ho ricevuto, dai fratelli Antonini. L'altr'ieri sono stata all'opera e iersera alla commedia, ho visitati i principali luoghi della città e i dintorni, e domani parto
col vapore per Nizza. Mi farà grazie, nel caso che mio marito non fosse ancora partito, di sollecitarlo a questo, e dirgli che gli ultimi avvenimenti d'Italia devono fargli accelerare la sua partenza.
Salutandola poi caramente mi creda
Genova, 7 marzo 1848.
Sua devotissima serva ANNA GARIBALDI.

Appena scritto questa lettera, nei giorni successivi e fino all'arrivo di Garibaldi (21 giugno) accadde di tutto: a partire dal 1° marzo la rivoluzione scoppiata in Francia si era allarganta; il giorno 16 giunsero a Venezia le prime notizie della rivoluzione scoppiata a Vienna il giorno 13; seguì la ribellione il 17 nella stessa Venezia con Daniele Manin che iniziò a cacciare gli austriaci; nello stesso giorno la notizia si propagò in lombardia e a Milano iniziarono le "cinque giornate"; il giorno 22 Carlo Alberto si decise a mobilitare il suo esercito in soccorso dei milanesi e a far guerra agli austriaci; l'8 aprile i bersaglieri avevano inseguito gli austriaci fino a Goito e il 30 fino a Pastrengo; il giorno 31 maggio erano arrivati fino a Peschiera ma da quel momento... il "re tentenna" perse l'iniziativa.

 

Quando giunse quella prima lettera in Montevideo, Garibaldi era partito. Finalmente il 15 aprile 1848, noleggiata la Speranza dagli amici suoi in Montevideo, egli e 85 dei suoi lasciarono il popolo che a loro tanto era debitore, per mettere spada e vita al servizio della patria. Tutti questi giovani erano reduci di S. Antonio, abituati al pericolo e alla fatica e ad ogni disagio. Anzani, che li accompagnava, aveva dato al paese adottivo purtroppo anche la salute, partì per l' Italia nell'ultimo stadio dell'etisia; e Sacchi pure soffriva atrocemente di una brutta ferita alla gamba.
Viaggiando poi nel 1862 alla Spezia, dopo l'Aspromonte, il Sacchi, allora generale, ci narrava i particolari di quel viaggio in mare e con gli occhi in lacrime parlava della tenerezza di Garibaldi verso di lui il quale lo trasportava in braccio sul ponte, per toglierlo all'aria soffocante della cabina e lo riportava giù nelle ore notturne.
Poi lui mostrandoci la gamba, che sottoposta a ripetute operazioni era tutta una cicatrice dal ginocchio al malleolo, disse; "Per Dio! se questo stinco mi ha servito in tutte le campagne fino ad ora, anche Garibaldi, nonostante la palla all'Aspromonte, potrà condurci a Roma e a Venezia."

Su quel viaggio Sacchi raccontava ancora e scrisse:
" Il viaggio da Montevideo fu corto e buono. Garibaldi e Anzani esercitavano gli 85 uomini nelle cose militari obbligando i pochi letterati ad istruire gli illetterati. Ogni sera tutti insieme cantavano un inno patriottico, che Cocelli, l'artista della compagnia, aveva composto e messo in musica.
Solamente la salute di Anzani in progressivo deperimento gettava un'ombra sull'universale contentezza. Esaurite le vivande riservateci, fu deciso che il capitano scendesse nell'isola di S. Palo in cerca di melarance, e il suo ritorno fu ansiosamente aspettato. "Che notizie d'Italia?" fu la domanda che scattò da ogni labbro. La risposta avrebbe potuto infiammare gente meno accesa di loro. Le ultime notizie giunte a Montevideo risalivano al dicembre 1847, si restringevano alle riforme e alla Costituzione.
Mentre ora essi appresero che i milanesi iniziando con schioppi da caccia avevano espulsi gli austriaci, che la rivoluzione di Venezia era avvenuta senza sangue, che il re di Piemonte capitanava il suo esercito in aiuto dei lombardi, e che da ogni terra italiana partivano a migliaia soldati e volontari per la santa guerra".

"Come pazzi - aggiunse Garibaldi nei suoi scritti - corremmo su e giù per il ponte, piangendo, abbracciandoci. Anzani in piedi, vincendo il corpo coll'energia dello spirito, Sacchi rifiutando di lasciarsi più portar via dal ponte.
L'unico grido fu "a vela, a vela!"

Levarono l'àncora, la "Speranza" stese le ali, il vento assecondava la loro impazienza, e invece di sbarcare clandestinamente in Toscana, come era stato combinato con Medici e con Mazzini, ora non più proscritti, non più esuli, sbarcarono a Nizza il 21 giugno, il 29 entrava a Genova alla testa di 150 legionari.

"In mezzo alle sventure in cui gran parte della mia vita è passata, - scrisse poi Garibaldi - io avevo sempre sognato un avvenire più sereno, ma qui a Nizza la mia gioia fu troppa. La stessa sua intensità fu accompagnata da presentimento di dolore. Prima di entrare nel porto, vidi la mia Anita ed il mio Menotti, in un piccolo battello che remava verso di noi; sul porto, sulla riva, affollati i miei concittadini, plaudenti, raggianti, fieri di quel poco che io aveva potuto fare. Ah benedetti! quanti camerati e amici della mia adolescenza non rividi ed abbracciai quel giorno! e quanti non condussi a morire e morire invano ! Che supremo momento quello, quando stringendo al cuore l'Anita e i miei figli, tornammo assieme alla casa paterna e potei riabbracciare la vecchia mia madre ed esserne benedetto, di cui la memoria non mi venne mai meno, il cui santo esempio e i precetti mi preservarono dal far del male; e forse chi sa? che la sua costante preghiera non mi salvasse nel pericolo!"

Allo sbarco, Garibaldi con tenerissima cura trasportava in terra Sacchi e Anzani, temendo ogni momento che quest'ultimo gli spirasse fra le braccia, e dopo un paio di giorni partì, sentendosi chiamato da tutte le parti.
Ma egli corse diritto al quartier generale di Carlo Alberto. Era pur vero che egli aveva dato convegno a Medici in Toscana, ma allora ignorava che tutta la penisola fosse in armi. E purtroppo con qualche rovescio dovuto al "Re tentenna", e la defezione del "Papa liberale".

Torniamo quindi sullo scenario di guerra all'inizio del '48

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