TERZO CAPITOLO

TERZO CAPITOLO

Fuga di Garibaldi per non farsi prete. - E' fermato in alto mare con tre compagni. - Mozzo sulla Costanza; indi sulla tartana Santa Reparata. - Sua attitudine straordinaria alla vita marinaresca. - Approdato a Civitavecchia, fa una gita a Roma col padre. - Sua impressione dell' Eterna Città. Maestro di calligrafia a Costantinopoli, di francese, di italiano e di matematica. - Aggregato alla Giovine Italia. - La sua vocazione è fissata.

Garibaldi era molto amato dai suoi compagni per l'arditezza, la generosità, per il sentimento della giustizia; era l'idolo dei fanciulli perché sempre li proteggeva contro la tirannia degli adulti. Non si curava di dominarli, eppure i suoi compagni invariabilmente lo eleggevano a capo, sia nei giochi, sia nelle piccole questioni che riguardavano la loro intima disciplina.

Quando gli fu manifestata l'intenzione definitiva dei suoi genitori di farlo prete, egli giustificò la sua ripugnanza, ma non fece, a parole, altre opposizioni. Tre dei suoi compagni più diletti, Cesare Parodi, Raffaele De Audreis, Celestino Bermaun, si trovavano nello stessa suo situazione. In quell'epoca le madri nizzarde, spaventati dalle stragi delle guerre napoleoniche, preferivano lo stato ecclesiastico per i loro figliuoli, il solo adatto a scamparli dai pericoli; l'amore materno presagiva un avvenire tempestoso per la giovane generazione, la quale nacque essa pure presaga dei destini a cui i bisogni della patria l'avrebbero chiamata.
Pur nata ed educata in mezzo ai preti, non vi fu mai gioventù più antipretina di quella che crebbe in Italia dal 1815 al 1860. Ben altro era il suo ideale! Era l'ideale della libertà e della patria! Fatte rare e nobili eccezioni, i preti l'amor patrio non lo sentono e di libertà non ne vogliono sapere, però presto questi preti vennero in uggia ai ragazzi, affidati quasi esclusivamente alla loro cura.

Il nostro Giuseppe non era altro che un tipo dei suoi contemporanei, ma un tipo ad altissimo livello. Riuscita vana ogni speranza di smuovere la madre dalla sua risoluzione, ecco che lui propone alle altre tre vittime di darsi alla fuga e di cercar fortuna con le proprie forze. Riuniti i magri risparmi, vuotate le dispense di casa, e caricato il tutto sopra una barca, quei ragazzi veleggiarono per Genova allegramente, calcolando di potersi arruolare là, come mozzi, a bordo di qualche bastimento.
Anzi, Garibaldi si riprometteva di raggiungere in America il fratello Angelo, che pure lui l'aveva incoraggiato nelle sue lettere a non farsi prete. Ma proprio un prete quel giorno scopre la trama e ne avverte il padre di Giuseppe, il quale raggiunge all'altezza di Monaco i fuggiaschi con una barca più veloce e li riconduce tutti a Nizza.

Figurarsi la mortificazione del giovinetto! Egli che aveva per massima, "non doversi intraprendere una cosa senza la quasi certezza della vittoria!".
Diventò taciturno, non rispondeva più alle carezze della madre, studiava, sì, per proprio conto, ma della disciplina scolastica, delle lezioni prescritte non ne voleva proprio sapere. Sperava la mamma che si sarebbe arresa, ma il padre che nulla scorgeva di male nella predilezione del figlio per la professione dei suoi avi, accortosi dell'indomabile volontà del fanciullo, dimostra a sua moglie l' inutilità di altri contrasti. Essa nuovamente prega, implora e vigila il figlio ad ogni istante, per impedirgli un secondo tentativo di fuga. Accortosi di ciò, il nostro Giuseppe le dichiara con pacato sdegno esser inutile il suo spionaggio, giacché, non essendo riuscito la prima volta, non intendeva più rinnovare il tentativo. Ad ogni modo, giammai avrebbe indossata l'abito talare, né mai avrebbe subita l'operazione della chierica.

Finalmente essa dovette cedere ed acconsentire che il figlio facesse un viaggio con un amico del padre, il capitano Angelo Pesante, a cui privatamente raccomandava di disgustarlo della prescelta carriera. Quando Giuseppe vedeva la mamma preparargli piangente il suo corredo da mozzo, la consueta amorevolezza ritornava fra loro. Una volta a bordo della Costanza, diretta ad Odessa, la sua gioia fu completa. Anche se il capitano avesse esaudito il desiderio di sua madre, nulla avrebbe ottenuto. Quel giovinetto non domandava di meglio che le più dure fatiche ed i maggiori pericoli, pur di riuscire ad essere un buon marinaio.
Naturalmente il capitano lo prendeva in grande affetto e Giuseppe sinceramente lo ricambiava, sicché in età matura scriveva di lui: «Il capitano Pesante dovrebbe comandare uno de' primi legni; certamente non ve ne sarebbero dei meglio comandati. Pesante non ha diretto navi da guerra, ma saprebbe creare, inventare ciò che abbisogna, dal palischermo al vascello, e la patria ne ricaverebbe gloria e profitto».

Giuseppe parla di quel bastimento come del primo suo amore:
"Com'eri bella, o Costanza! Con te, doveva solcare il mare per la prima volta! Gli ampi tuoi fianchi, la snella tua alberatura, la spaziosa tua coperta e persino il pettoruto tuo busto di donna, resteranno per sempre impressi nella mia mente. Come si dondolavano graziosamente i tuoi marinari Sanremesi, vero tipo de' nostri intrepidi liguri! Con qual diletto ascoltavo i popolari loro canti, gli armoniosi loro cori!
Essi cantavano d'amore, altro non ci si insegnava allora, eppure mi intenerivano, mi inebriavano. Mi avrebbero esaltato, cantando di patria, d'Italia! Ma chi aveva detto loro esservi un'Italia, una patria da vendicare e da redimere? Noi crescemmo come gli Ebrei; ci additavano l'oro come meta della vita! Ebbene questa meta prefissa non ebbe alcuna attrattiva per lui. Mai egli ambì la ricchezza e sempre dispregiò coloro che la agognano. Irritato un giorno con i Genovesi, disse: «Che cosa volete sperare da un popolo, che chiama "dine" la morale?»

E fino all' ultimo giorno della sua vita, finché possedeva un soldo in tasca, chi lo domandava l'ebbe; gli sembrava la cosa più naturale del mondo dare il proprio a chi ne aveva bisogno. Al ritorno da Odessa, la madre, convinta che la dura vita del mozzo non scemava la sua passione per il mare, si astenne da ogni contrasto, anzi eccitò il marito a prenderlo con sé, a bordo del proprio bastimento; al che egli acconsentì.
Eccolo dunque sulla tartana Santa Riparata, avviato col padre a Civitavecchia. Giuseppe, a cui la vita precedente un po' discola non aveva impedito di gustare ciò che di grande e di magnanimo si legge degli antichi popoli, e di infiammarsi specialmente alla lettura di Plutarco, appena approdò a Civitavecchia, indusse il padre a condurlo a Roma.

Entrò egli per la prima volta nell'Eterna Città, tutto compreso dell'antica storia romana, con la Roma degli Scipioni come ideale di grandezza; ma tanto più fu stomacato al vederla nido ignobile di cardinali, di preti e di frati per lo più nullafacenti. A costoro Pio VII aveva dato in balia l'istruzione della gioventù; la censura della stampa, la diplomazia, tutte le magistrature amministrative e giuridiche e persino le armi, tutto era nelle mani dei prelati!
Il triste spettacolo del popolo, eternamente in ginocchio, nelle chiese, o prostrato nella polvere delle vie quando passava il papa, o alle tante processioni, lo impressionò al punto che non si dileguò mai più dalla sua mente, e l'idea di spazzar via tutta quella gente, «brutta ed inutile», s'impossessò di lui, assai prima che pensasse al modo di mandarla ad effetto.

Ben si guardava però dallo svelare una tale eresia al suo pio padre, che si prostrava pure lui quando il papa impartiva la benedizione dalla loggia di S, Pietro. Giammai si sarebbe questi sognato d'avere messo al mondo quel gran nemico dei preti nel biondo giovinetto, di cui andava cosi orgoglioso, perché sempre intento ad apprendere il mestiere a cui si era dedicato.
In questa come in ogni altra professione esercitata, Giuseppe tutto volle imparare: lavare il ponte, agugliare le gomene, prenderà la mano di terziruolo; egli tutto fece e fece bene. Né si avvalse di essere sul bastimento del proprio padre per addossare ad altri i suoi incarichi, e per darsi aria di padronanza. Anzi i marinai a bordo erano certi di trovare in lui aiuto nelle fatiche ed intercessione in caso di castigo. Fu però sempre sostenitore della disciplina, ma senza pedanteria, e sapeva insegnarla più con l'esempio che con la parola.

Ancora per qualche tempo fece viaggi di cabottaggio con suo padre, e provò un grande turbamento, quando sul brigantino Enea, di ritorno da Cagliari, dovette assistere impotente al naufragio di una nave. Nonostante tutti gli sforzi fatti da lui e dal resto dell'equipaggio, il Feluccio venne rovesciato da un tremendo maroso; tutti quegli infelici perirono, fra cui (lo seppe più tardi) nove persone della stessa famiglia. Grande era stato il pericolo del suo stesso brigantino, eppure Giuseppe non poté frenare le lacrime al veder perire così miseramente un equipaggio di cui aveva ammirato un momento prima il coraggio e la perizia.

Durante una serie di viaggi in Levante, a bordo di diversi vascelli di una casa commerciale, questi furono tre volte assaliti e spogliati dai pirati. Ottima occasione per il giovane mozzo di menare le mani, con grande sua soddisfazione, giacché il pericolo era il suo naturale elemento e la paura cosa per lui ignota. Un giorno però lo vedemmo impallidire, per la morsicatura di un suo cane favorito, sicché esclamò: «Vedete che tutti abbiamo la nostra debolezza; la mia é quella dell'idrofobia. Se non é malato, come mai Boy mi ha morsicato? »

Durante una guerra fra la Porta e la Russia, ammalatosi, fu amorevolmente raccolto a Costantinopoli da una famiglia di esuli italiani di nome Colosso che lo curò durante la sua malattia. Con essi, parlava spesso della patria, facendosi raccontare la storia dolorosa delle cause che li avevano costretti a fuggire. Appena convalescente, per non rimanere a carico di nessuno, diede lezioni di calligrafia, in cui era esperto. Nulla lo irritava quanto il ricevere una lettera male scritta. Diede anche lezioni di francese; egli leggeva e parlava perfettamente questa lingua, una delle poche cognizioni (soleva dire) di cui andava debitore ai preti. Più tardi entrò nella casa della vedova Timone come precettore de' suoi tre figli e ad essi insegnò il francese, l'italiano e la matematica.

In quell' epoca d' entusiasmo per la Grecia e per la causa dei Greci, raccoglieva tutti i fatti di quella eroica lotta, e li confrontava con le notizie che giungevano dalla desolata sua patria,
L'episodio di Missolungi lo accese d'entusiasmo. "Avessim noi - disse - un Costantino Eparca, un Karioskaki, un Colocotroni e l'Italia non sarebbe più in potere degli stranieri".

Vi fu un momento in cui Garibaldi pensò di dedicarsi alla causa della Grecia, quando a Taganrog strinse relazione con un membro della Giovine Italia allora fondata a Marsiglia da Mazzini (che personalmente conobbe più tardi). Venne iniziato nei suoi segreti da un «credente» e fra i suoi versi scritti appunto in Taganrog, al cospetto dei servi Cosacchi, si legge:
"Nell'età giovanil
Là sui ghiacci del Ponto giurava
Per la terra natale morir"
.

E fa proprio così! Fino a quel punto, i suoi istinti generosi, la sua simpatia per gli oppressi, il suo sdegno per la schiavitù in cui giaceva l'Italia, erano vaghe aspirazioni, impeti indefiniti. Ora nell'idea che c'era una patria da liberare, che anche altri ad essa pensavano e per essa cospiravano, egli trovava lo scopo della propria vita. Comprese la ragione per cui era nato, la meta dell'essere. Egli stesso così si esprime in proposito:
"Lo dichiaro francamente, Cristoforo Colombo, perduto in mezzo all'Atlantico, minacciato da' suoi compagni, ai quali aveva domandato tre giorni, alla fine del terzo udendo gridare: « Terra! » non fu più felice di me quando udii pronunciare la parola: «Patria!» e vidi nell'orizzonte il primo «faro acceso dalla rivoluzione del 1830. - Vi erano dunque uomini che si occupavano della redenzione dell'Italia!".

In un altro viaggio, che fece più tardi a bordo della Clorinda, trasportò a Costantinopoli Emilio Barrault, capo di una compagnia di Sansimonisti. Con lui Garibaldi tenne lunghi e vivaci colloqui. Era già innamorato delle idee e dei propositi della Giovine Italia, cioè cacciare i tiranni e i loro satelliti dalla patria, disinfettare Roma dai preti, ridare all'Italia repubblicana la sua posizione naturale fra le altre nazioni d'Europa.
Ne parlò con entusiasmo; il Barrault non tentò di moderarlo, ma gli fece riflettere che la liberazione d'Italia doveva essere una parte dell'immenso lavoro prefisso ai sacrifici di tutti i coraggiosi e intelligenti del secolo, cioè l'emancipazione delle moltitudini dall' oppressione dei pochi. Non bastava insomma liberare l'Italia dall'Austria e dai tirannelli, se nell' Italia governata da Italiani il popolo stesso dovesse rimanere misero ed ignorante, servo della gleba, schiavo di un padrone. Ammesso pure che in Italia la questione sociale fosse risolta, i veri umanitari non dovevano darsi tregua, finché tutti gli altri popoli oppressi fossero, al pari di essa, liberi da ogni servitù.

Queste dottrine allargarono l'orizzonte intellettuale del 23enne giovane marinaio, il quale passò molte di quelle serene notti d'Oriente ad ascoltare le utopie umanitarie così conformi alla sua natura. Fin da allora promise a sé stesso di dedicarsi per intero alla liberazione dei popoli oppressi, di non accontentarsi della semplice libertà di nome, di continuare i propri sforzi per tutta la vita e lì per lì egli prese per sua divisa «Peuples, formons nous la sainte alliance Et donnons nous la main".

Quanti giovani si sono prefissi simili idee? Quanti si sono sentiti acceso il petto della stessa santa fede? Molti fra essi hanno trasformato il pensiero in azione, per ciò che riguarda la liberazione dell'Italia dallo straniero. Ma quanti dei contemporanei di Garibaldi, dopo proclamata l'Italia una, hanno continuato l'opera liberatrice in favore d'altri popoli oppressi?

Garibaldi, lento nell'accettare un'idea, era singolarmente tenace nel serbarla e nel volerla mandare ad effetto. Se i fasti nell'America del Sud possono in parte spiegarsi con la sua natura audace ed amante di avventure, l' offerta nel 1870 di sè stesso infermo, storpio ed ancora fremente per la sconfitta di Mentana, il dono di tutto ciò che restava di lui alla Francia oppressa ed invasa, prova come fosse profonda ed intensa la sua devozione all' idea della libertà dei popoli e delle nazionalità.

Ma queste impressioni ricevute, queste risoluzioni formate non mutarono Garibaldi in un cospiratore; non alterarono neppure di poco il tenore della sua vita quotidiana. Anzi può dirsi che egli si prefiggesse in quei primi tempi di educare il corpo ad obbedire in tutto ed in ogni circostanza al cenno della propria volontà. Lo assuefece a non avere mai bisogno se non delle cose più alla mano, nutrendosi con lo stesso appetito di una pannocchia di mais, come di una beccaccia o di una coscia di cinghiale, preso alla caccia e arrostito sulla brace all'aria aperta, senza pane e senza sale, se pane e sale non c'erano.

Taciturno e amante della solitudine, da ragazzo, da giovinetto, da uomo, fu sempre cercato dagli altri, e da essi quasi istintivamente obbedito, perché egli non s'imponeva, né mai comandava, fuorché sul campo di battaglia; suggeriva soltanto, accennava. Gli é che la cosa additata da lui era ragionevole, necessaria.
Anche nelle minuzie cercò la perfezione. Così la stessa sua calligrafia è inappuntabile; la linea in su delicata, la linea in giù vigorosa. Leggeva pochi libri; ma per questi si appassionava. I Sepolcri di Foscolo e le strofe di Berchet le sapeva a memoria. Teneva Béranger in stima del massimo francese; ne cantava le canzoni come le cantava il popolo francese. Egli non aveva mai fretta, era di una serenità rara nell'aspettare gli avvenimenti, ma se ne impadroniva con fulminea rapidità.

«Bisogna approfittare dell' aura» (Aura = atmosfera sacrale che avvolge un'essere o una cosa - aria di mistero) era uno dei suoi adagi favoriti. E nell'approfittare dell'aura, egli fu maestro. Lo beava il sorriso delle donne, le quali non glielo hanno mai lesinato; ma egli non si dava gran pena nella ricerca né il rifiuto lo rattristava. Udendo un giorno che un suo vicino parente si era ucciso per amore, « Oh, questo poi - disse lui - io non capisco, morir per una donna, quando il mondo ne é così pieno ! Quale sciocchezza! Io dico ad una donna: Mi ami? - Ti amo - Non mi ami? Peggio per te!"

E al Garibaldi giovane corrispose a puntino il Garibaldi vecchio. Egli sapeva tesoreggiare le circostanze, o trasfigurarle, ma non ne rimaneva modificato; semmai tempravano l' acciaio onde natura lo aveva privilegiato. Sempre presente a sé stesso, diceva e faceva le cose, buone o cattive, perché così voleva dire e fare, e non per impulso di interno affetto o di altra forza esteriore. Nessun uomo più obiettivo e positivo di lui nell'operare. Con l'occhio alla meta prefissa, traeva partito di ogni evento, vinceva un ostacolo distruggendolo, o aggirandolo. Aveva una specie di disprezzo pietoso per gli uomini; da essi si aspettava così poco che non patì disinganni, ma sapeva di ciascheduno metter a profitto il buono che possedeva, spremerne il succo, come si suol dire. Né raccoglieva la buccia.

Si può dire, anzi bisogna dire che, alle leggi che governano la società moderna, egli professava un rispetto non proprio scrupoloso; però vi si conformava accadendo di accontentare i pochi esseri che egli amava, ai quali per altro non ha mai sacrificato un istante di tempo che potesse dedicare utilmente alla patria. Non nacque per lui una Cleopatra rivale della sua Italia.

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