NAPOLEONE: I GENERALI


Appena cinta la corona di imperatore di Francia, Buonaparte nominò Marescialli dell'Impero diciotto dei suoi più fedeli ufficiali. Era la nuova nobiltà, basata sul merito e non sui diritti ereditari

E NAPOLEONE
RICREÒ
L'ARISTOCRAZIA

di MATTEO SOMMARUGA

Il proclama del Senato che, il 18 maggio del 1804, elevò Napoleone Buonaparte al rango imperiale, fu seguito, dopo sole ventiquattro ore, dalla nomina a Maresciallo dell'Impero di diciotto fra gli ufficiali che con maggior devozione avevano combattuto al fianco del giovane generale corso in oltre otto anni di campagne.

La scelta era stata motivata dalla volontà dello stesso Buonaparte di ricostituire una nobiltà francese che, legata al merito piuttosto che al diritto di nascita, potesse al contempo fornire gli elementi per una nuova gerarchia sociale, necessaria, secondo l'opinione del militare di origine italiana, a mantenere la disciplina di un popolo, e offrire ai propri soldati, con l'alloro delle onorificenze, un incentivo per battersi con valore.

Il brillante stratega avrebbe però potuto difficilmente prevedere che, attraverso i propri marescialli, forse ancor più che tramite l'azione dei parenti più stretti, cui aveva peraltro distribuito alcune delle più prestigiose corone europee, l'aristocrazia bonapartista avrebbe potuto sopravvivere ai rovesci della campagna di Russia e di Waterloo, riservandosi un ruolo di primo piano all'interno del panorama politico francese per buona parte del XIX secolo.

La carica di Maresciallo venne infatti spesso accompagnata da un titolo nobiliare, ma tale consuetudine trova un'eccezione in Guillame-Marie-Anne Brune. Nato nel 1763 e figlio di un avvocato, il giovane Brune si avvia al giornalismo quando entra in contatto con Danton e i cordiglieri, uno dei gruppi più animosamente repubblicani sulla scena politica della Francia rivoluzionaria. Sembra che abbia svolto il primo servizio militare nel 1789, nella Guardia Nazionale, ma è una questione tuttora incerta. Alcuni storici preferiscono infatti posticipare la data del suo arruolamento a due anni più tardi, nel 1791. Parteciperà alla repressione dell'insurrezione realista del 13 Vendemmaio dove avrà modo di conoscere Barras e Buonaparte. Nominato dal Direttorio comandante dell'Armata d'Olanda, Brune si distingue per la vittoria sulle forze russo-inglesi a Bergen, il 19 settembre del 1799.

Pochi mesi dopo, nel 1800, sostituisce Massena al comando dell'Armata d'Italia, ma nonostante i servigi resi alla Francia, le sue simpatie repubblicane gli alienano la completa fiducia di Napoleone che, pur avendolo nominato Maresciallo il 19 maggio del 1804, lo desina a incarichi di secondaria importanza. Non a caso, al ritorno dei Borboni, offrirà la propria spada a Luigi XVIII e alla Restaurazione. Ma il Sovrano non accetta i suoi servigi e Brune si rivolge nuovamente al generale corso, combattendo al suo fianco durante i Cento Giorni.

Dopo Waterloo e il definitivo tramonto dell'astro di Napoleone, Brune cerca nuovamente riparo presso l'amministrazione borbonica, ma i realisti lo riconoscono mentre attraversa la città di Avignone, diretto verso Parigi. Non troverà scampo e il suo corpo sarà dato alle fiamme senza alcuna forma di processo. Paradossalmente, colui che fra i Marescialli ricevette meno onori, subì la fine più drammatica e atroce.

Maggior riguardo fu invece riservato, dallo stesso Napoleone, a Jean Baptiste Jules Bernadotte, un ex giacobino che negli anni precedenti si era distinto per la propria fedeltà al Direttorio fino a assumere la carica di ministro della guerra dal luglio al settembre 1799. La sua convinzione negli ideali repubblicani era tale da rendere credibile la voce che si fosse fatto tatuare sul petto le parole
Mort aux rois.
Arruolatosi nell'armata reale nel 1780, a soli diciassette anni, con il grado di soldato semplice, la Rivoluzione gli aveva infatti offerto una rapida carriera militare che lo avrebbe portato in breve tempo al ruolo di generale di brigata. L'antipatia di Bernadotte nei confronti di Buonaparte era oltretutto diventata manifesta quando, al momento del colpo di stato del 18 brumaio, si era fermamente opposto di parteciparvi. Una posizione che lo avrebbe relegato, come era accaduto a Brune, a incarichi minori, ma, nonostante le precendenti relazioni burrascose, Napoleone lo volle nell'elenco dei 18 nominativi destinati alla carica di maresciallo.
Ancor più sorprendentemente, nonostante la scarsa tempestività dimostrata sui campi di Austerlitz, il 2 dicembre del 1805, ricevette nel 1806 il titolo di Principe di Pontecorvo, una roccaforte nell'agro romano precedentemente sotto sovranità pontificia.

La volontà di Buonaparte di costituire una nuova aristocrazia aveva portato il generale corso, a partire da quello stesso anno, a elargire una serie di titoli, accompagnati da un dono in terre e danaro che potesse consentire ai beneficiari un adeguato tenore di vita. Nel 1814, alla vigilia della disfatta, erano stati creati 7 principi, 31 duchi, 450 conti, 1.500 baroni e altrettanti cavalieri, cui bisogna aggiungere le corone assegnate ai famigliari del militare di origine italiana. Bernadotte avrebbe accompagnato Napoleone anche nelle successive campagne, senza peraltro riuscire a dimostrare le doti di abile ufficiale nè di scrupoloso subalterno.

A Jena, il 14 ottobre del 1806, attende fino a sera prima di correre in soccorso di Davout, impegnato con il grosso dell'armata prussiana. Un ritardo in seguito al quale, oltre a incrinare ulteriormente i rapporti sia con Davout che con Buonaparte, spinse quest'ultimo a firmare un ordine di deferimento alla corte marziale dello stesso Bernadotte. Strappato solo in un secondo momento e, come ammetterà lo stesso Napoleone a Sant'Elena, a causa della parentela fra Désirée Clary, moglie del Principe di Pontecorvo, e Giuseppe Buonaparte, di cui era la cognata.

Il comportamento di Bernadotte fu invece esemplare quando, trattando la resa con gli svedesi di stanza a Lubecca, si mostrò particolarmente generoso e magnanimo, soprattutto con il corpo ufficiale, cui garantì un trattamento privilegiato. Fu probabilmente la migliore azione da lui concepita perché in quel momento il Regno di Svezia stava andando incontro a una crisi dinastica. Nel 1809 Gustavo IV aveva abdicato a favore del fratello Carlo XIII, ma quest'ultimo, morto prematuramente Carlo Augusto di Augustenburg, era privo di eredi e l'aristocrazia svedese si interrogava sulle sorti della corona. Il 20 giugno del 1810 giunse a Parigi Carl Otto Mörner, luogotenente di Svezia, con il compito di scegliere il principe ereditario fra i Marescialli dell'Impero.
La condotta di Bernadotte a Lubecca aveva impressionato gli svedesi al punto tale che, attraverso l'intermediazione di Elof Signeul, console generale a Parigi, furono presi i primi contatti.

Nonostante il parere favorevole del Principe di Pontecorvo, l'accordo non poteva venire concluso senza il consenso di Napoleone, che diede il proprio benestare in funzione della possibilità di tessere un'alleanza con la Svezia in funzione anti-russa. Il 21 agosto del 1810 il Riksgad, la dieta svedese, riunitosi a Oeretro, sancì lo stato di Bernadotte a principe ereditario. Quest'ultimo lasciò Parigi, per non farvi più ritorno, il 27 settembre 1810, abiurò la religione cattolica per quella luterana e venne adottato da Carlo XIII con il nome di Carlo Giovanni. La posizione di Bernadotte si rafforzò ulteriormente di lì a poco quando assunse di fatto la reggenze in seguito alla grave infermità che aveva colpito il proprio padre adottivo.

La sua politica, orientata verso l'affrancamento dalla tutela francese, poteva oltretutto contare sul malcontento popolare provocato dall'occupazione delle truppe imperiali della Pomerania svedese, avvenuta nel 1812. Tale azione lo spinse in un primo momento a dichiarare lo stato di neutralità per il Regno di Svezia e, in un secondo tempo, a suggellare un patto di alleanza con lo zar Alessandro I. Il trattato prevedeva anche l'annessione della Norvegia, fino ad allora sotto il controllo della corona danese. Fallita la spedizione di Napoleone in Russia, Bernadotte condusse l'armata svedese contro l'antico alleato e benefattore, dimostrandosi peraltro un ottimo generale, capace e determinato, ben diverso dal Principe di Pontecorvo che nel 1809 era stato esonerato dal comando. Il suo intervento gli valse la conferma, dal congresso di Vienna, del ruolo assunto fino ad allora riconoscendogli, fra l'altro, anche la corona norvegese, unificata con quella svedese nel 1814. I norvegesi non accolsero però di buon grado l'allontanamento dalla Danimarca e presto divampò un'aspra insurrezione armata cui pose fine solo l'intervento dello stesso Bernadotte e dell'esercito.

Quattro anni dopo, era il 1818, Carlo XIII passò a miglior vita e l'ex militare francese divenne re con il titolo di Carlo XIV. Terminati i grandi conflitti che avevano scosso l'Europa per oltre vent'anni, poteva ora dedicarsi alla propria patria adottiva. E legati agli avvenimenti bellici erano alcuni dei principali problemi che avrebbe dovuto affrontare. Il peso delle campagne militari avevano infatti aggravato il bilancio dello stato e l'inflazione minacciava seriamente l'economia svedese. Carlo XIV cercò di dare un nuovo impulso alle attività produttive del paese rinvigorendo il pensiero liberale che lo aveva accompagnato nella sua lunga carriera. Furono introdotte nuove culture, fu incentivato lo sviluppo industriale, ma soprattutto diede vita a una radicale riforma delle istituzioni scolastiche.
Venne stabilito che ogni parrocchia dovesse avere un propria scuola, e ogni scuola fu uno strumento per diffondere i principi liberali nella popolazione svedese. Idee che Bernadotte abbandonò solo verso la fine del proprio regno. L'8 marzo del 1844, all'età di 81 anni, si spense nel Palazzo Reale di Stoccolma. Gli successe il figlio, con il nome di Oscar I, suggellando definitivamente la formidabile carriera dell'ex soldato giacobino, l'unico, fra i protagonisti delle campagne napoleoniche, che possa vantare una dinastia tuttora regnante.

Fra gli altri marescialli solo Gioacchino Murat aveva cinto una corona. Una carriera ancora più sorprendente di quella di Bernadotte, considerando i suoi umili natali, a La Bastide-Fortunière, in Guascogna, dodicesimo figlio di un fruttivendolo e avviato agli studi religiosi, come spesso accadeva quando le bocche da sfamare erano troppo numerose. Ricevuta la carica di Maresciallo il 19 maggio del 1804 e il titolo di duca di Clevès e di Berg nel 1806, precedentemente ricoperto dai membri di quella stessa dinastia che fornì a la quarta moglie a Enrico VIII d'Inghilterra, nel 1808 gli venne assegnato il Regno di Napoli. Un trono cui il cavaliere guascone, celebre per il coraggio e la sfrontatezza piuttosto che per le doti intellettuali, si trovò indissolubilmente legato fino alla fine dei propri giorni.

Entrato in un reggimento di cacciatori a cavallo nel 1787, Murat, che per un certo periodo aveva tramutato il nome in Marat, nel tentativo di accelerare la propria carriera contando sull'omonimia con lo sfortunato rivoluzionario, è a fianco di Napoleone fin dal 13 Vendemmiaio, quando il giovane generale corso deve fronteggiare l'insurrezione realista. Da allora non l'avrebbe più abbandonato, seguendolo in Egitto e nella spedizione in Siria, nelle campagne d'Italia e d'Austria, a Eylau, l'8 febbraio del 1807, ha l'onore del comando su tutta la cavalleria francese e, all'ordine di Buonaparte, guidò quella che passò alla storia come la carica degli 80 squadroni. Successivamente in Spagna, per reprimere l'insurrezione del 2 maggio del 1808, accompagnò il generale corso, nuovamente alla testa della cavalleria, nella campagna di Russia del 1812. Si batti batté con valore, ma, conclusa la ritirata e assegnato al comando della Grande Armèe, mentre Napoleone si rifugiava in tutta fretta a Parigi abbandona il proprio posto per correre alla difesa del Reame. Ricevuto il perdono da Buonaparte, si trova alla testa dell'Armata del Sud durante le operazioni del 1813, ma, ancora una volta, dopo la disfatta di Lipsia, rientra a Napoli.

Nel gennaio del 1814 segna un trattato con l'Austria, ma il Congresso di Vienna è poco propenso, nonostante i continui sforzi diplomatici, a mantenere il cavallerizzo guascone sul trono che un tempo fu dei Borboni. Dimostratosi inutile perfino l'appello che Murat rivolse a Luigi XVIII, le speranze del Re di Napoli si rianimarono con le prime notizie del sopravvenuto sbarco di Napoleone in Francia. Dichiarata guerra all'Austria occuperà Roma, Ancona, Bologna, ma viene sconfitto a Tolentino. Nel frattempo il Reame viene restituito a Ferdinando di Borbone. Murat fugge in Francia, ma Napoleone si rifiuta di riceverlo, e all'audace guascone non resta che dirigersi in Corsica, dove riesce a riunire 600 uomini. Sbarca a Pizzo, nei pressi di Napoli, pensando di venire accolto con lo stesso entusiasmo riservato al generale corso all'alba dei Cento Giorni. Le sue aspettative vennero deluse. Imprigionato e incarcerato venne condannato alla pena capitale. Il 13 ottobre del 1815, la data fissata per l'esecuzione, Murat ebbe il privilegio di comandare il plotone che lo avrebbe fucilato.

Lo spavaldo guascone non fu però l'unico dei Marescialli dell'Impero a morire di morte violenta. Jean Lannes, che Napoleone aveva creato duca di Montebello il 15 giugno del 1808, cadde infatti sul campo di battaglia a poco meno di un anno di distanza, il 22 maggio del 1809, mentre, nel corso della battaglia di Essling, respingeva gli assalti austriaci. Con lui si spense uno dei più coraggiosi collaboratori del generale corso, con il quale aveva condiviso i momenti più importanti della prima campagna d'Italia e aveva preso parte a tutti i combattimenti della spedizione in Egitto, dove era stato ferito due volte.
Jean-Baptiste Bressieres, il duca d'Istria, subì la stessa sorte, colpito da una pallottola di moschetto nei pressi di Weissenfels, durante la campagna di Sassonia. Di origini guascone, come Murat, si spense a Rippach il primo maggio del 1813.
Più tragica, o forse misteriosa, fu invece la fine di Louis-Alexandre Berthier, creato da Napoleone principe di Neuchatel e di Wagram. Nato a Versailles nel 1753, figlio di un ingegnere dell'esercito reale, Berthier era probabilmente il meglio preparato fra i Marescialli dell'Impero.
Avviato precocemente alla carriera militare, a soli 13 anni era già ingegnere-geografo, a 17 divenne ufficiale. Ricevette il battesimo del fuoco durante la guerra d'Indipendenza americana e, al suo ritorno, nel 1789, nominato maggiore-generale della guardia nazionale di Versailles cercò di proteggere la famiglia di Luigi XVI. Le sue simpatie monarchiche lo allontanarono dalle armi per i tre anni successivi, fino a che non venne reintegrato nel 1792, capo di stato maggiore di Kellerman. Le singolari doti organizzative di Berthier gli valsero l'apprezzamento di Buonaparte che lo volle al proprio fianco nelle principali campagne che condusse attraverso l'Europa. Al momento della capitolazione dell'Impero chiese, e ottenne, l'autorizzazione di arrendersi e, a Compiègnes, si presentò di fronte a Luigi XVIII per formulare la propria fedeltà al ricostuito regime monarchico. Un patto che mantenne anche durante i Cento Giorni, quando rifiutò la richiesta di Napoleone di correre in suo aiuto. Preferì accompagnare il sovrano borbonico a GAD e poi ritirarsi nel castello di Bamberg. Dove lo troveranno morto il primo giugno del 1815. Quasi sicuramente il decesso fu la conseguenza della caduta da una finestra posta al terzo piano della sua magione. Resta ancora da risolvere se l'incidente sia stato accidentale, un suicidio volontario o piuttosto un attentato accuratamente studiato.

Più felice la sorte di Laurent Gouvion-St.Cyr. Come Berthier non si unì all'antico padrone durante i Cento Giorni, ma rimase fedele alla Monarchia. Il suo atteggiamento fu ricompensato da Luigi XVIII che, al suo ritorno, lo nominò ministro della Guerra, carica che ricoprì dal luglio al settembre del 1815. Successivamente al dicastero della Marina, poi di nuovo alla Guerra, carica che ricoprì per due anni, dal 1817 al 1819. La nuova posizione gli permise di perpetuare alcuni dei principi napoleonici, riorganizzando l'esercito e lasciando, a proprio nome, una legge sul reclutamento. Creato marchese nel 1817, Napoleone gli aveva assegnato il titolo di conte, si ritirò a vita privata per morire, a Hyeres, il 17 marzo del 1830.

A non abbandonare la carriera militare, nelle file del rinnovato esercito borbonico, furono invece Oudinot e Moncey. Il primo, arruolatosi volontario nel 1784, fu probabilmente il più valoroso fra i Marescialli dell'Impero. Creato duca di Reggio nell'aprile del 1810, il suo nome è indubbiamente legato al corpo dei granatieri, alla cui testa condurrà molte azioni memorabili, riportando ferite di vario genere. L'ultima delle quali, la trentaduesima, a Arcis sur Aube, il 20 marzo del 1814, dove sarebbe andato incontro a morte certa se la palla di moschetto che lo colpì non avesse trovato sul proprio cammino l'aquila della Legion d'Onore che gli era stata conferita più di dieci anni prima. Rimasto neutrale durante i Centro Giorni, entrerà a far parte del Consiglio Privato di Luigi XVIII nel settembre del 1815.
La carica gli aprì le porte della carriera all'interno del nuovo regime e già il mese seguente divenne generale in capo della guardia nazionale a Parigi. Nominato duca, per la seconda volta, e pari di Francia nel 1817, sarebbe ritornato sul campo di battaglia solo nel 1823, prendendo parte alla spedizione in Spagna. I figli, uno dei quali si sarebbe scontrato con Garibaldi durante gli ultimi giorni della Repubblica Romana, furono gli unici, fra gli eredi dei Marescialli dell'Impero, a frequentare un'accademia militare.

Durante i rivolgimenti politico-militari che insanguinarono la Spagna dal 1820 al 1823, si distinse anche Bon Andrien Jeannot de Moncey, il duca di Conegliano, nonostante la riguardevole età di quasi settantanni. Nato a Moncey il 31 luglio del 1754, figlio di un avvocato del tribunale di Besancon, con la Restaurazione non rientrò immediatamente nelle grazie di Luigi XVIII. Il suo rifiuto di prender parte al processo a Ney e il conseguente arresto lo avevano coperto di ridicolo di fronte all'opinione pubblica, ma, nel 1816 gli fu restituita la dignità di maresciallo cui fu aggiunto l'onore di pari di Francia.
Governatore della nona divisione militare dal 1820 al 1830, Moncey è nuovamente al comando durante la spedizione in Spagna dove conquisterà la Catalogna e prenderà Barcellona, Tarragona e Hostalrich. Ritiratosi a vita privata, si spense a Parigi, il 2 aprile del 1840.
Mortier, Marmont, Grouchy, Victor, MacDoanld e Soult seppero invece sfruttare la propria posizione per raggiungere incarichi di governo di primo piano, fino a poter proseguire nella stessa direzione abbandonata con la capitolazione dell'Impero. Fra questi, Adolphe Edouard Casimir Joseph Mortier, duca di Treviso, che durante i Cento Giorni aveva sostenuto Luigi XVIII, ricevette ben presto alti onori dal sovrano borbonico, fra cui il titolo di cavaliere di San Luigi e pari di Francia. Durante il regno di Carlo X, succeduto a Luigi XVIII, ricoprì incarichi di secondaria importanza, ma, all'ascesa al trono di Luigi Filippo, il suo astro tornò a risplendere. Ambasciatore in Russia nel 1830, divenne di lì a poco ministro della Guerra, fino a assumere, il 18 novembre del 1834, l'incarico di Presidente del Consiglio. Un ruolo che il destino gli negò di ricoprire troppo a lungo perché il 28 luglio dell'anno successivo, nel corso di una parata della Guardia Nazionale, un attentato rivolto contro la persona di Luigi-Filippo si rivelò per lui fatale.

Una simile carriera, ma forse ancor più gloriosa, fu quella intrapresa da Jean de Dieu Soult, duca di Dalmazia, il figlio di un notaio che, alla vigilia della Rivoluzione, aveva preferito l'onore delle armi all'agiatezza garantita dalla carta bollata. La prima abdicazione di Napoleone lo colse a Tolosa mentre, con 25.000 uomini, resisteva all'assedio di una forza quattro volte superiore. Rinnegato il proprio passato bonapartista, Luigi XVIII nomina Soult ministro della Guerra, ma, l'improvviso sbarco di Napoleone, riaccende nel Duca di Dalmazia le antiche simpatie. A Waterloo si batte coraggiosamente, ma, all'indomani della disfatta, si ritira nel castello di Soultberg. Allontanato definitivamente il pericolo bonapartista e restaurata per la seconda volta la monarchia borbonica, Soult sarà riabilitato solo nel 1819, quando rientrerà in possesso dei propri titoli.

Otto anni più tardi verrà nominato Pari di Francia da Carlo X, ma con l'ascesa di Luigi Filippo potrà riprendere una brillante carriera politica, del resto parallela a quella del meno fortunato Mortier. Dal 1830 al 1834 è infatti ministro della guerra, dal 1832 al 1834 è presidente del consiglio. Dopo quasi quattro anni di lontananza dalle alte cariche dello Stato, nell'aprile del 1838 viene inviato a Londra, in qualità di ambasciatore alla cerimonia di incoronazione della Regina Vittoria.

Un incarico che presagì la successiva nomina a ministro degli esteri, ricoperta dal 1839 al 1840. Dal 1840 al 1845 fu nuovamente Presidente del Consiglio e Ministro della Guerra, dal 1845 al 1847 presidente del consiglio e ministro senza portafogli. Si spense, nel castello di Soultberg, il 26 novembre 1851. Solo una settimana prima del colpo di stato del 2 dicembre, preludio alla restaurazione dell'Impero, avvenuta l'anno successivo sotto l'egida del futuro Napoleone III.

MATTEO SOMMARUGA
Bibliografia
Galerie des Maréchax de France, di C.Gavard - Parigi, 1839
Dictionaire Biographique des Généraux et amiraux Francais de la Revolution et de l'Empire, di A. Lasseray - Parigi, 1934
Napoleon and his marshals, di A. G. MacDonell - Londra, 1950

Questa pagina
(e solo per apparire su Cronologia)
è stata offerta da Franco Gianola
direttore di http://www.storiain.net

 

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