G) CAPITOLI :

XXXVII. - I Sotterranei - XXXVIII. - L'Antiquario - XXXIX. - L'Esercito Romano
XL. - Il Matrimonio - XLI. - II Battesimo - XLII. - La Solitaria

XXXVII

I SOTTERRANEI


Fra le meraviglie che si trovano nella gran metropoli dell'orbe, le catacombe e i sotterranei non sono le meno notevoli.
I primi cristiani, perseguitati dal governo imperiale di Roma, allora pagano, con atroce accanimento, si rifuggivano nelle catacombe, per salvezza sovente e sovente per potersi adunare, consigliarsi, istruirsi nella nuova loro religione.
Quei sotterranei furono pure indubitatamente il rifugio dello schiavo e di quanti infelici cercavano sottrarsi a quel sistema tirannico, che fu l'impero a Roma, che produsse i mostri i più abbominevoli della terra: quali Nerone, Caracalla, Eliogabalo, ecc.
Di quei sotterranei ve ne sono di diverse specie. Alcuni scavati e costrutti col divisamento di conservarvi i cadaveri, altri per il servizio d'acquedotti che dovevano portare fiumi d'acqua dolce nell'immensa capitale, quando la sua popolazione ascendeva a due milioni. Famoso è quello della Cloaca Massima che da Roma conduceva al mare e finalmente di molta considerazione erano quelli che particolari ricchissimi facevano scavare con grandi spese per sottrarsi alle depredazioni di quei grandissimi ladri che si chiamavano Imperatori, ed in tempi meno antichi alle persecuzioni ed alle stragi dei barbari,
Il terreno sui cui Roma è edificata, come quello de' suoi dintorni, offre facilità alle escavazioni, essendo un composto di tufo Vulcanico, facile a scavare e sufficientemente solido ed impermeabile da poter formare abitazioni sicure. Io ho veduto molte mandre e mandriani alloggiati in quelle caverne.
Colle esplorazioni nei sotterranei si pensò pure ad inviare i feriti più gravi, accompagnati da quelli che lo erano meno e sotto la custodia dei vicini pastori, verso Roma.
Dei liberali, come dicemmo, non v'eran gran feriti e dei papalini molti chiesero di rimanere e seguire la sorte dei proscritti, poiché non v'è milite per poco onorevole che egli sia (degli italiani s'intende), che serva volentieri i preti. Quando l'ora suoni di liberar l'Italia e Roma da quell'immondizie non vi sarà un soldato che resti con loro, meno alcuni mercenari stranieri.
Inviati i feriti, introdotta ogni cosa migliore ed utile del castello nel sotterraneo, con provviste d'ogni specie per vari giorni, i liberali colla maggiore pacatezza aspettarono l'oste numerosa che doveva giungere coll'ordine preciso di sterminarli. I nostri non mancarono di prendere tutte le misure necessarie di precauzione, distendendo una rete di sentinelle e di esploratori in tutte le direzioni ad onta della precisione degli avvertimenti che ricevevano da Roma su tutte le mosse del nemico.
La comitiva s'era accresciuta in questi ultimi giorni. Colla venuta d'Attilio e de' suoi compagni, coll'accettazione d'alcuni soldati romani, che non volevan più sapere di preti e col l'arrivo da Roma di vari giovani, che la notizia della recente vittoria aveva esaltati, si componeva di circa sessanta individui, senza contare le donne.
L'autorità d'Orazio sulla banda crebbe invece di diminuire coll'aumento del numero. Attilio, quantunque fosse stato alla direzione delle cose di Roma, e comandante dei trecento, era quello che mostrava maggiore docilità agli ordini del bellicoso e prode fratello d'armi.
In quattro legioni suddivise Orazio la banda; e queste furono comandate da Attilio, Muzio, Silvio ed Emilio, l'antiquario, che era stato secondo in comando prima dell'arrivo dei nuovi amici.
Emilio tenne ad onore di cedere la sua posizione di secondo comandante al capo dei trecento, ma Attilio non volle accettarla e già una generosa gara s'era iniziata tra loro e non sarebbe finita senza l'interposizione d'Orazio il quale assicurava Attilio non ritenere egli per sé il primo comando se non coll'assoluta condizione accettasse lui il secondo.
Tale era l'abnegazione di quei militi della libertà di Roma. Liberare la patria o morire! era il loro proposito, e poco loro importava di gradi, ciondoli e decorazioni che stimavano mezzi adoperati dal dispotismo a corrompere la metà della Nazione, per avvilire ed incatenare l'altra.

XXXVIII

L'ANTIQUARIO


Era la vigilia di Pasqua, tutto si trovava in ordine nel castello ed i proscritti che non eran di guardia stavano con Orazio, Attilio e le donne nella vasta sala da pranzo. Là dopo una cena lieta ed alcuni brindisi patriottici, per rallegrar la serata poiché bisognava tenersi desti e stare sull'avviso per qualunque cosa potesse succedere, Emilio l'antiquario chiese permesso al suo comandante di narrare una sua istoria alla brigata. E così cominciò:
"Giacché noi dovremo viaggiare per sotterranei e catacombe, vi voglio raccontare un fatto che accadde proprio a me, or fan pochi anni, nelle vicinanze di Roma.
Voi ricordate il superbo Mausoleo di Cecilia Metella, eretto dal padre in onore della figlia morta dodicenne. Anche quel mausoleo, voi sapete, è l'orgoglio delle rovine e con il Pantheon è una delle meglio conservate. Ciò che voi non sapete forse, si è l'esistenza dell'immensa catacomba, che comincia nell'interno del monumento e non si sa dove vada a finire.
Un giorno io mi proposi d'investigar da me le latebre di quell'immenso sotterraneo; mi sembrò che facendolo accompagnato avrei menomato il merito dell'impresa; quindi nel mio orgoglio giovanile ed inconsiderato mi accinsi ad eseguirla da solo.
Provvisto di un voluminoso gomitolo di filo, un mazzo di torcie, pane in sacoccia ed un fiasco di vino a tracolla, mi avventurai di buon mattino nel seno della terra, legai un capo del filo all'entrata della catacomba e cominciai il mio misterioso viaggio.
Cammina cammina, sotto quelle tetre volte, più avanzavo e più cresceva in me la curiosità di scoprire.
Pare impossibile come l'essere umano destinato da Dio alla superficie della terra, godendone i frutti e la luce benedetta del sole, si sia condannato a quelle tenebre eterne e vi abbia lavorato tanto per costruirsi, simile alla talpa, un'abitazione sicura ma spaventosa!
Dovevano essere ben infelici e fieramente perseguiti coloro che si procuravano questa terribile dimora a furia di tante fatiche! E molto ricco doveva essere chi pagava l'esecuzione di opere sì gigantesche.
Mentre questi pensieri mi passavano per la mente, io camminava al chiaror del mio cero, scioglievo il filo del gomitolo e procedevo procurando di seguire la direzione indicata dalla ristretta linea dell'imboccatura. Ma coll'andare innanzi il sotterraneo si dilatava e presentava tra le colonne di tufo, che ne sostenevano l'immenso tetto, vari anditi che conducevano in direzioni diverse e un po' fantastiche e fuori di simmetria, come se l'architetto avesse voluto gettare nell'inganno il visitatore raggirandolo in una specie d'inestricabile labirinto.
Tutte queste viste ed osservazioni m'inquietavano alquanto, e dico il vero: qualche volta mi sentivo fallire il coraggio. Ero sul punto di tornare indietro ma l'amor proprio mi gridava: vergogna! a che tanti preparativi per fare un fiasco? e allora mi adontavo contro me stesso per la mia paura. Poi non avevo in mano il filo salvatore, che doveva ricondurmi a rivedere il cielo?

E cammina, e cammina, sgomitolando il mio filo ed accendendo un nuovo cero a misura che si consumava l'acceso!

Giunsi finalmente al termine, non del sotterraneo ma del mio filo e con mio dispiacere riscontrai che non avevo nella mia impresa scoperto altro che la terribile solitudine che mi stava ancora davanti. Stanco, forse alquanto scoraggiato di dover rifare sì lungo tratto di strada, me ne stavo lì, preoccupato dalla vanità delle ricerche e dalla noia della mia posizione. Stringevo il filo che temevo di perdere e contemplavo il lume che temevo di spegnere. Credo che dovessi essere alquanto istupidito quando uno strascichio, come di veste di donna, si fece udire dietro di me e mi destò quasi di soprassalto. Curioso, sorpreso, impaurito mi volgo verso la parte dove mi pareva aver udito il fruscio. Ma nell'atto di volgermi un soffio spegne il lume, il filo mi viene strappato di mano, robuste braccia cingono e stringono le mie in modo da stritolarmi le ossa ed un panno mi viene avvolto intorno alla testa forse per bendarmi gli occhi, ma in guisa da impedirmi quasi la respirazione.

Il presentimento del pericolo spesso è peggiore del pericolo stesso: ed io che veramente era stato colpito da timore al primo segno dell'avvicinarsi di qualcuno, come fui in potere di quel qualcuno, sentendomi condotto per mano come un bambino, il timore si dileguò e camminai francamente dietro la guida.
Benché cogli occhi bendati m'accorsi che un nuovo lume era stato acceso: dal tocco e dai passi che io udiva accanto a me conobbi ch'ero guidato da esseri viventi, non da spiriti, ma le mie scoperte rimasero lì, ed in tal guisa procedetti per vari minuti.

Finalmente la benda mi fu levata e allora i miei occhi poterono vedere che ero stato condotto, con mio grande stupore, in un salotto magnificamente illuminato, in mezzo al quale stava una mensa imbandita ed intorno una ventina di gioviali e festosi commensali".

Durante il racconto dell'antiquario un sorriso di compiacenza, velato d'una tal quale mestizia, sfiorava la ruvida guancia di Gasparo.
Quando il primo ebbe finito, il vecchio si levò, avvicinossi, lo prese per la mano, la scosse e con voce commossa:
"quelli erano bei tempi, amico caro! - sclamò, poi dirigendosi alla brigata: - Io allora abitavo - continuò - le catacombe colle mie bande e gli sgherri di Roma pria di avventurarsi in questa immensa campagna erano soliti a far testamento.

La donna che vi spense il lume, e che poi fu ben gentile con voi, come lo era con tutti, era la mia Alba, morta non è molto dal dolore de' miei patimenti e della mia prigionia".
"Oh! - sclamò alla sua volta l'antiquario, - eravate dunque quello seduto in capo alla mensa e tenuto in tanto rispetto dai vostri che un sovrano non potrebbe esser di più?".
"Era io - rispondeva dolorosamente il bandito. - Gli anni hanno corrugata questa fronte e s'è imbiancato il pelo tra i ferri e le sevizie di quegli scellerati che si chiamano ministri di Dio. La mia sola coscienza è rimasta pura! Io ho trattato ogni creatura infelice benignamente e lo potete attestar voi se vi fu torto un capello, se alcun danno v'incolse tra noi. Certo! ho voluto abbassare quei superbi sibariti, che vivono nel vizio e nella lussuria a spese dell'umanità sofferente, come ora coll'aiuto vostro e di Dio, vecchio come sono, io non dispero di vedere la mia patria libera da quei mostri".

"Sì, - rispose l'antiquario affettuosamente - io fui trattato con gentile cortesia dalla vostra donna e da voi e lo ricorderò tutta la vita con gratitudine".
Poi rivolto ai compagni, proseguì: "Scosso dalla fatica del viaggio, forse dalle commozioni dell'incontro, rimasi due giorni febbricitante in quel sotterraneo e in tutto quel tempo ebbi cordiali affettuosissime cure da quell'amabile Alba, la quale non solo di ogni cosa necessaria mi provvide ma assiduamente mi visitava al mio capezzale.

Dopo due giorni, rinvigorito, appena ne feci richiesta, fui condotto per una nuova via che mi parve lieve alla luce del sole che io aveva creduto sulle prime di non più rivedere. La nuova uscita delle catacombe si trovava nella foresta. Data la mia parola d'onore di mantenere il segreto sulla mia involontaria scoperta, uno della banda mi scortò sulla via di Roma".

XXXIX

L'ESERCITO ROMANO


"Ora ci si fa davanti la bella regione in cui l'uomo crebbe più grande che in qualunque altra contrada del mondo, e vi operò portenti di energia e di senno: entriamo nella sacra terra da cui venne la luce che illuminò l'universo. Anche qui alla rigogliosa vita d'un tempo è succeduta la morte; e in molti luoghi non trovi più che macerie in mezzo a vasto deserto, a solitudine desolata, a silenzio d'essere umano. Caddero le città dei dominatori del mondo ma i rottami dei monumenti che ingombrano il suolo, mandano ancora una voce eloquente che rompe il silenzio dei secoli, e dice della grandezza degli antichi abitatori nelle campagne latine, comecché desolate tutto è magnifico.

L'austera natura accresce solennità alle rovine delle città e dei sepolcri e alle grandi memorie. In mezzo al deserto, ad ogni passo, sono le vestigie di una potenza che ti sgomenta il pensiero. Spesso nel medesimo luogo e sul medesimo sasso, ti è dato di leggere i ricordi, gli affetti, i dolori di età fra loro lontanissime. Qui tu trovi le colonne dei templi, dai quali gli antichi ciurmatori coi loro oracoli ingannavano le turbe per renderle schiave: e più in là incontri ciurmadori moderni che la religione fanno stromento di sozza tirannide: tristizie antiche e nuove, memorie di prepotenza e prepotenze viventi.

Se ti fa fremere il grido lontano dei miseri che la fiera aristocrazia precipitava dalle gemonie, fremito più profondo ti desta il grido vivente che esce dalle prigioni piene delle vittime del furore papale: e scavando la terra, puoi trovar le ceneri dei difensori del popolo antico, miste a quelle dei martiri che all'età nostra in nome di Dio e del popolo dettero il sangue alla nuova Repubblica, e caddero protestando contro il barbaro dominio sacerdotale.

E dal meditare sulle memorie recenti ed antiche, trarrai coll'afflitto animo qualche conforto vedendo che per volger di secoli, e per imperversar di tirannide, i lontani figli non perderono l'energia dei primi padri, e su questa terra degli augurii prenderai lieti presagi alla nostra povera patria, che le antiche fortune ha ormai scontate con troppo lunghe sventure" ("Il Lazio, i suoi abitatori, e le sue città". Tradizioni sui primi tempi di Roma, i re, la rivoluzione e la guerra ai tiranni. (Atto Vannucci, Cap. I).

Questo superbo squarcio di poesia patria del grandissimo scrittore dell' "Italia antic" io ho voluto addurre per sorreggermi nella troppo, per me, ardua impresa di descrivere la Roma dei tempi eroici e la non morta virtù degli abitatori del Lazio moderno. E dovendo narrare di quell'accozzaglia di gente nostrana e straniera, che oggi si chiama Esercito Romano io desidero che si consideri cosa ponno essere uomini che si consacrano al servizio di un governo come quello del Papa, il quale non può ispirare che disprezzo.

Giova ripetere ciò che già dissi: solo il prete poteva cambiar nell'ultimo popolo della terra, questo "che nacque in una regione ove l'uomo crebbe più grande che in qualunque altra contrada del mondo".
L'esercito romano è composto di Romani che sono sotto la vigilanza di soldati stranieri, e di soldati stranieri e romani custoditi da birri, sotto il nome di gendarmi. Mercenarii tutti poiché qual uomo d'onore e non spinto dalla sete dell'oro potrebbe adagiarsi su tale letamaio?

Il nome di soldato del papa è schernito. Lo straniero, per malandrino che sia, giungendo a far parte di questo esercito crede nobilitarlo.
Disprezza quindi lo straniero, i soldati romani, e di qui le botte tra romani e stranieri, quasi sempre con la peggio degli ultimi, perché gli indigeni malgrado tutto lo studio dei preti per corromperli ed imbastardirli conservano ancora qualche avanzo dell'antico valore.

Ecco lo stato del moderno esercito romano, ed ecco perché i nostri proscritti informati d'ogni cosa se ne stavano tranquillamente aspettandone le mosse, mentre le mosse tardavano perché la confusione e la discordia regnavano in quella parodia d'esercito.

Gli stranieri, sprezzatori dei romani, volevano la destra nell'ordine di battaglia; e questi non temendo gli stranieri e giustamente credendosi migliori di loro non volevano cederla. Le sottane, impotenti a metter ordine in quella ciurmaglia, si rodevano d'impazienza, di rabbia e di paura.
Il giorno di Pasqua destinato allo sterminio dei briganti poco mancò non segnasse la distruzione dei mercenarii e se le malve (Nome dei moderati) italiane di fuori non avessero gridato "alla moderazione, all'ordine!" era questo il momento di farla finita con quella canaglia, morbo e disonore del nostro paese.

Regolo e con lui la maggior parte dei trecento, dinanzi al veto che era giunto di fuori "di non tentare nulla per allora a favore di Roma", non vollero rimanere inoperosi, e per molestare l'eterno nemico presero queste determinazioni. Si arrolarono nelle truppe pontificie indigene; e catechizzarono i soldati in modo che nell'ordinanza di marcia, col pretesto che lor toccava la destra si ammutinarono. Gli ufficiali che volevano usare la loro autorità furono bastonati ed avendo il Generale D. mandato alcune compagnie straniere per metterli all'ordine cominciò una di quelle zuffe peggiori di una battaglia campale il risultato della quale fu che gli stranieri volti in fuga riguadagnarono le loro caserme.

Uno degli instigatori principali della sommossa era stato il nostro sergente di dragoni, Dentato.

Uscito dalle torture dell'inquisizione che avea sostenute con uno stoicismo degno de' tempi antichi avea giurato di vendicarsi alla prima occasione e non l'avea perduta. Alla testa de' suoi dragoni, col suo sciabolone alla mano, egli era stato visto caricare nel più folto di un gruppo straniero dove avea fatta strage di mercenarii.
Terminata la zuffa, sapendo quale premio gli serbavano i preti per le sue sciabolate, senza smontare da cavallo si avviò coi compagni fuori di Roma in cerca dei proscritti che lo accolsero fraternamente. Narrò loro i successi della capitale e con grande ilarità di tutti ne fu udito il racconto.
XL

IL MATRIMONIO


Il più santo dei vincoli che esistano nell'umana famiglia è il matrimonio. Lega per la vita due esseri e li fa felici se veramente meritano d'esserlo.
Dico "se lo meritano" poiché quell'atto solenne deve essere contratto coll'intendimento reciproco di rendersi felici, e base dell'unione deve essere il vero amore, l'amore celeste! (Amore celeste; vero amore dell'anima. Gli antichi lo distinguevano dal sensuale).

A questa base, a questo amore, un calcolo mercantile è macchia, il sentimento materiale lo riduce al termine di pretta brutalità.
L'amoreggiamento che precede il matrimonio ha già aggentilito gli amanti, poiché essi vogliono piacersi reciprocamente e lo devono, altrimenti c'è il pericolo di rifiuto.

Il sentimento d'essere felici fa poi migliori i coniugi. L'amore che portano alla prole li ingentilisce e li rende umani verso gli altri, colla speranza che i loro figli godano il ricambio della gentilezza altrui.

L'infedeltà è sciaguratamente fedele compagna di molti matrimoni moderni. Ma coloro stessi, d'un sesso o dell'altro, che son venuti meno al dovere, ove non siano induriti nel vizio, provano tale rimorso che se potessero tornare indietro alla primitiva loro purezza sarebbero per l'innanzi ben forti contro la tentazione.
Oh! se sono giovani i miei lettori, badino al mio consiglio, tengano la fedeltà in pregio, come un impegno d'onore, si risparmieranno afflizioni pungenti per l'innanzi e godranno il vero paradiso sulla terra ancorché la loro condizione non sia delle più brillanti. I disagi stessi, passati in comune, sono alleggeriti dalle cure amorevoli del consorte e lasciano di sé cara e non dolorosa ricordanza.

Ma anche nel matrimonio la prava istituzione pretesca semina e diffonde una diabolica influenza. Il morbo pretino, si sente in tutti i matrimoni dell'orbe in ragione diretta del numero di coloro che vengono congiunti da quegli esseri maleficamente parassiti. S'immagini poi quello che deve accadere in Roma, ove i preti, sono tanti, ricchi, sovrani, onnipossenti?

Ho già detto che Roma è la città del mondo che conta più nascite illegittime, e ciò deriva naturalmente dalla prostituzione delle nubili. Su questo dato, benché non pubblico nelle conseguenze, quale sarà la prostituzione nel matrimonio?

Tiriamo un velo sulle turpitudini e mi perdoni chi legge se per avventura lo scandalizzai. Ma quando penso ad un governo, che si disse riparatore e che per interesse e per compiacere ai libidinosi capricci di un despota s'inginocchia davanti a quel corrotto e corruttore fantoccio supplicandolo quasi di non disertare la terra che desolò per tanti secoli, il popolo grande che umiliò all'ultima delle degradazioni umane, allora non so frenarmi, e voi mi potete perdonare, potete concedermi uno sfogo di rammarico al pensiero delle miserie e delle vergogne del mio povero paese!

Pur mi si dirà: voi lamentate l'intervento dei preti e lo credete dannoso; ma fino a ieri, chi consacrava il matrimonio se non il prete, ed il prete esclusivamente?

Pur troppo è vero! La nascita e la morte, ogni più importante atto della vita, l'educazione della gioventù, tutto fu monopolio dei preti, perfino il mondo futuro che offrono agli altri, tenendosi caro per sé il presente.
Dacché la società umana ebbe impostori, sorsero preti, se già i primi non furono essi. Certo però i maggiori, i più astuti, i più fortunati impostori del genere umano furono sempre i preti. Più furbi degli alchimisti e dei ciarlatani essi posarono le basi della loro scienza in parte ov'era difficile che la luce giungesse a smascherarli.

L'alchimista cercò la formazione di pietre preziose e dell'oro con elementi di poco costo e morì, lasciando l'eredità del desiderio insoddisfatto accanto al vero tesoro delle esperienze, dalle quali partendo, i moderni chimici hanno fatto portenti.

I ciarlatani, spaccianti balsami ed elisiri miracolosi sono scomparsi, ma prepararono il posto all'utile e matematica chirurgia moderna.Il prete dura e il suo nebuloso edifizio continua a star ritto. Non monta che le antiche rivelazioni tentennino all'urto del senso comune; il prete dura benché i ciechi soltanto non s'accorgono che egli è il primo a farsi beffe delle favole che spaccia.

Vuol dire che il prete è più astuto d'ogni altro e che i non-sensi e le assurdità più grandi hanno il privilegio di una più tenace resistenza.
Non indignazione ma nausea mi sento veramente nel vedere i miei concittadini inginocchiarsi davanti a quei simulacri dell'impostura! davanti a quei detrattori di Dio!
"La crepa dell'intonaco, palesa che crolla il muro". "Basta un primo passo". "Il pugno di neve crea la valanga". E ce n'è voluto per osare questo primo passo!

Or ora appena si è compreso che il prete è impostore e non degno di celebrare l'atto più importante della vita: il matrimonio. L'autorità municipale, che deve sapere ogni cosa dei cittadini e registrarne gli atti, presiederà a questo atto solenne. Questo è il primo passo, poi in luogo dell'autorità cittadina verrà la paterna, i genitori, che sono l'autorità più legale e secondo natura.

A quest'ultimo partito si attennero Clelia ed Attilio.

"Mio! mio!" avea detto Clelia, al racconto d'Irene ed ora che quel suo caro era lì, ai suoi piedi, beandosi dell'atmosfera benefica che la circondava, adorandola! Perché essa doveva negarsi alle oneste sollecitudini dell'amante? "Sì" disse ella finalmente ad Attilio. "Sì, chiedimi a mia madre e sarò tua per tutta la vita".

Silvia per vero avrebbe voluto avere il suo Manlio accanto per consultarlo sulla sorte dell'adorata fanciulla, ma benché un po' timida di carattere, era troppo savia e piena di buon senso, da non capire la necessità dell'unione dei due amanti, massime nelle circostante presenti di proscrizione e di solitudine e si teneva sicura dell'assentimento del marito.

 

Anche Silvia non era amica dei preti. Municipio lì non ve ne era, né altra autorità all'infuori di quella dell'onesto lor salvatore Orazio e la propria per supplirvi. Non fu difficile quindi convincerla che la più legale autorità era questa, la più naturale e più semplice di ogni altra.
La celebrazione del matrimonio de' nostri cari fu una vera festa per tutti nel castello e per Irene sopra ogn'altro. Pratica del matrimonio silvestre, ch'essa aveva celebrato alcuni anni prima, superba di fare da sacerdotessa per amici che amava teneramente, essa improvvisò un altare al piede della più maestosa delle quercie coll'aiuto della sua ancella e di John, il quale ebbe occasione di fare gran pompa delle sue capacità ed agilità marinesche arrampicandosi e saltellando per i rami dell'immensa figlia della terra, docile però sempre agli ordini dell'amata sua protettrice. In poco tempo fasci di verzura e ghirlande di fiori silvestri adornarono un magnifico tempietto coperto dalla gran cupola dell'albero ed illuminato dal maggiore degli astri, figlio primogenito di Dio.
La cerimonia non fu lunga ma semplice, patriarcale, al cospetto della maggior parte di quei prodi romani, che facevano corona alla bellissima coppia.
Irene, collocatasi dinanzi agli sposi, colle seguenti brevi parole ne sancì l'unione sacra:
"Giovani cari e avventurosi, l'atto da voi compiuto in questo giorno vi unisce con vincoli indissolubili del corpo e dell'anima. Voi dividerete per la vita, il bene e la sciagura. Ricordatevi, che nell'amore e nella fiducia reciproca, troverete sempre felicità duratura e che, quantunque qualche volta questa felicità possa essere alterata da afflizioni, queste saranno sempre menomate o dome dall'amor vostro reciproco. Dio benedica l'unione vostra! e così sia".
Silvia, piangendo amorosamente, pose ambe le mani sul capo de' suoi cari, e ripetè: "Dio vi benedica!" senza poter articolare altra parola.
L'atto di matrimonio, anticipatamente scritto, fu presentato da Orazio alle firme degli sposi, poi a quelle dei testimonii, dopo averlo firmato egli stesso.
Così ebbe fine quest'atto solenne colla maggiore semplicità possibile. Celebrato nel vero tempio dell'Onnipotente, rischiarato dall'universale luminare, non fu per la sua semplicità men sacro, né men fedeli per tutta la vita si mantennero l'uno all'altro i nostri sposi.
Dall'altare la comitiva festosa si diresse al castello, ove splendida mensa l'aspettava.
Dopo il pasto, in mezzo alla universale letizia si fecero brindisi, si cantarono inni patriottici e sino il piccolo John riscaldato dal calore della festa volle regalare i suoi amici coi patriottici e simpatici canti della tua terra: il "God save the Queen" ed il "Rule Britannia".(53) "Dio salvi la Regina" e "Britannia regge le onde".
XLI

IL BATTESIMO


Come si vede, l'esercito di Serse, ossia del Papa, avea concesso tutto questo bel tempo ai proscritti senza sturbarli ed essi conoscendone le condizioni, davansi poca briga di allontanarsi.
A noi però, durante questa sosta, converrà tornare ad alcuni personaggi principali e cari della nostra storia, che abbiam pur troppo lasciati in dimenticanza; voglio parlare di Giulia e de' suoi compagni così prodigiosamente scampati dal tempestoso Tirreno.
Dopo due giorni dalla sua partenza da Porto d'Anzo, la Clelia entrava con vele e bandiere spiegate a Porto Longone.
Appena ancorata i nostri amici videro scendere da Capo Liberi, piccolo villaggio che domina il porto, un gruppo di gente che giunse alla marina, imbarcossi in un palischermo e si diresse verso lo Yacht.
Giulia accolse gentilmente la comitiva, composta di persone d'ambo i sessi, e l'invitò ad asciolvere nella camera della nave ciò che gli ospiti accettarono volentieri.
Seduti a tavola con davanti un bicchierino di Marsala, vino col quale gli inglesi amano sempre adornare le loro mense, i nuovi arrivati, volgendosi a Manlio, che credettero padrone del legno accennarono di voler parlare. Quindi con accento toscano, non maschio come il romano e robusto ma più dolce, simpatico e comunque sia coll'accento d'un dialetto cui l'Italia deve la maggior parte del suo risorgimento perché in quel dialetto sta uno dei più saldi fondamenti dell'unità nazionale italiana:
"Signore! - disse l'anziano della comitiva - in Capo Liberi v'è l'uso che nascendo un bimbo contemporaneamente all'arrivo d'una nave si preghi il capitano a voler essere padrino al nuovo nato. Vorreste esser tanto buono di concederci l'onore d'avervi per compare e comare con questa vostra gentile signorina?".

Manlio sorrise a tale richiesta e tutti ammirarono la facilità con cui lo straniero può nell'Elba imparentarsi cogli isolani, poi rispose:
"Io sono qui un semplice ospite come voi, la signorina è la padrona del legno, ed essa deciderà su quel che sia da fare".

Giulia, la bella viaggiatrice, l'antiquaria, l'artista, l'amica della libertà italiana, fu incantata di trovare tanta semplicità di costumi in quella buona gente e: "per me accetto volentieri la gentile vostra offerta - soggiunse - e siccome odo da voi che il padrino deve essere il capitano della nave lo consulterò e se consente, saremo a disposizione vostra".
Chiamato il capitano Thompson, Giulia spiegò la cosa al bravo marinaio, al che Thompson rise graziosamente e rispose con garbo alla sua signora che sarebbe ben onorato di poterla accompagnare tanto più colla prospettiva d'aver a diventare suo compare.
Detto fatto! Dopo che Thompson ebbe dato i suoi ordini al Muto (Secondo il comando) s'imbarcarono tutti, dirigendosi a Capo-Liberi.
Qui mi toccherebbe dir qualche cosa ancora dei preti, ma ne risparmierò il tedio al lettore. È una fatalità, che ad onta dell'invincibile antipatia che essi mi suscitano, io me li debba sempre trovar sulla via. Ma questa volta passiamocela netta a questo di Capo Liberi, il quale non è che un curato. Meno male!
La festa per essere più semplice che nella capitale non fu meno splendida e più lieta per la cordiale e patriarcale semplicità di quei buoni abitanti. Tutti parevan contenti e felici e il capitano Thompson, benché un po' confuso, era in un vero paradiso. Onorato del braccio di quella cara e bellissima creatura ora divenuta comare sua egli più nulla udiva, né vedeva, tanto che incespicò lungo la scabrosa via del villaggio che conduce alla chiesa e senza l'aiuto efficace del
braccio di Giulia, egli certamente andava ad infrangere il suo bompresso (Albero inclinato sul davanti della nave) sul lastrico d'irregolari macigni che ivi formavano mosaico.
Per buona sorte Giulia non era confusa come il nuovo compare e col contegno suo freddo ma dignitoso, rimise alla via (Termine di mare) l'andatura del capo marino il quale dappoi, temendo qualche nuova secca da prora (Da prora, davanti) e per non ripetere il grottesco primitivo scappuccio contava camminando tutti i ciottoli della via. Così si giunse al tempio.
Quivi Thompson fece buona figura: Un po' noiato dalle superflue cerimonie egli non dié segno d'impazienza e la noia in parte gli venne compensata dal piacere di sorreggere il suo nuovo figlioccio, un grosso e ben formato bimbo, che nelle robuste braccia del capitano sembrava però leggiero come una piuma.
Terminata la cerimonia, la brigata riprese la via della casa del compare, ove un lauto banchetto stava preparato e dove l'eccellente vino di Capo-Liberi era destinato a riportare i maggiori e ben meritati onori.

Il capitano Thompson si contentò di farne gli elogi perché dovendo ricondurre la signorina a bordo, e ricordandosi di quella tale inciampata, credette indispensabile il mantenersi moderatissimo.

Un altro motivo, diciamolo pure, trattenne il capitano Thompson da certe indulgenze che la professione sua qualche volta permette: ed era, il desiderio di piacere alla Aurelia. Quella buona signora, benché non più sul fiore degli anni, si manteneva abbastanza fresca e grassetta, poi piena di gratitudine alle attenzioni che il capitano le avea prodigate in quel finimondo di tempesta pareva corrispondere un po' ai segni di simpatia non cortigianeschi, ma leali ed aperti dell'inglese il quale ripeteva tra sé stesso un adagio spagnolo imparato a Cadice:
"Tiempo d'hambra no hai pan duro" ( In tempo di fame non c'è pan duro).
E tutto andò perfettamente per i nostri quasi-naufraghi della Clelia, giacché, per lupo di mare che uno sia, la terra co' suoi divertimenti, ed i suoi agi è sempre preferibile ad una tempesta marittima.
Giulia andava in estasi dinanzi alla semplicità antica di quegli eccellenti ospiti; Manlio, meditava il concetto di un gruppo in marmo per il suo arrivo in Roma, che rappresentasse la bellissima Giulia sostenente il suo compare barcollante e in procinto di dare del naso in terra. Aurelia e Thompson avean dimenticato la natura intiera tormentati da certo pizzicore, le cui espressioni erano occhiate incendiarie. Così retrocedevano a bordo, accompagnati dall'intiero villaggio con suoni ed evviva generali.

XLII

LA SOLITARIA


Nell'arcipelago italiano, che comincia al mezzogiorno colla Sicilia, e termina a tramontana colla Corsica, trovasi un'isola quasi deserta.
Composta di puro granito, le sue sorgenti d'acqua dolce sono stupende benché non siano in estate abbondanti. L'isola è ricca di vegetazione, non d'alto fusto, non concedendolo le buffere, che la spazzan via senza misericordia. Il guaio dei venti quasi continui e troppo forti vi produce il beneficio della salubrità dell'aria. I cespugli surti nell'interstizio de' massi, sono tutti aromatici; e se ospite su questa terra deserta tu accendi il fuoco senti la fragranza dei rami bruciati imbalsamare l'aria.
Il poco bestiame che pascola, vagando per i dirupi, è basso di statura, ma robustissimo. Così i pochi suoi abitatori, i quali vivono non splendidamente ma in un'abbondante agiatezza, coi prodotti della pesca e della caccia, un po' coll'agricoltura, e molto mercé la generosa provvidenza d'amici che dal continente inviano il necessario.
Il numero ristretto degli abitanti rende superflui Governo e Polizia. L'assenza dei preti è la maggior benedizione dell'isola. Dio vi si adora come si deve, col culto dell'anima, senza sfarzo, nel grandioso tempio della natura che ha il cielo per volta e gli astri per luminari.
Il capo della famiglia, che primeggia in quell'isola, è un uomo come gli altri, colle sue fortune e i suoi malanni. Ebbe la sorte di servire qualche volta la causa dei popoli servi come qualunque mortale, ha la sua dose di difetti. Cosmopolita, egli ama però svisceratamente il suo paese, l'Italia, e Roma, con idolatria. Odia i preti, come istituzione menzognera e nociva, ma il giorno in cui
spoglino il lor carattere, malignamente buffone, e tornino uomini, egli è pronto ad accoglierli e perdonare i loro errori passati.
Professa idee di tolleranza universale e vi si uniforma, ma i preti, come preti non li accetta perché egli non intende siano tollerati malfattori, ladri e assassini; e considera i preti quali assassini dell'anima, peggiori degli altri.
Egli ha passato la sua vita colla speranza di vedere nobilitata la plebe e ne ha propugnato dovunque i diritti e sempre. Ma con rammarico confessa pure che egli è rimasto in parte deluso poiché il plebeo innalzato dalla fortuna a più alto stato, ha patteggiato col dispotismo ed è diventato peggiore forse del patrizio.

Per questo non dispera del miglioramento umano; si duole soltanto di vederlo progredire lentamente.
Per lui, i peggiori nemici della libertà dei popoli, sono i dottrinari democratici o repubblicani, che hanno predicato e predicano le rivoluzioni per mestiere e per avanzamento proprio e ritiene sian stati loro che hanno rovinato tutte le Repubbliche, non solo, ma screditato il sistema e il nome repubblicano. Cita ad esempio le grandi e gloriose Repubbliche Francesi, quella dell'ottantanove particolarmente, la cui memoria s'adopera dal despotismo come spauracchio contro coloro che predicano la bontà e l'eccellenza di una tal forma di reggimento.
Quanto a lui, crede che Repubblica sia: "il governo della gente onesta" e lo prova: accennando alla caduta delle Repubbliche quando i cittadini sprofondandosi nel vizio, hanno cessato di esser virtuosi. Non crede però alla durata del governo Repubblicano composto da cinquecento individui.
Egli è d'avviso che la libertà d'un popolo consista nella facoltà di eleggersi il proprio governo. Questo governo, secondo lui, dev'essere dittatoriale, cioè d'un uomo solo. A questa istituzione dovette la propria grandezza il più grande dei popoli della terra.
Sventura però a chi in luogo di un Cincinnato elegge un Cesare!
Vuole poi limitata a tempo determinato la Dittatura, e solo in caso straordinario, come quello di Lincoln nell'ultima guerra degli Stati Uniti, consentirebbe la proroga. In nessun caso accorderebbe ereditario il potere.
Egli però non è esclusivo: pensa che il sistema del Governo veramente voluto dalla maggioranza della Nazione, qualunque esso sia, equivalga alla Repubblica, come avviene, per esempio, del Governo Inglese.
Giudica il sistema presente Europeo un bordello e i Governi tutti colpevoli dello scandalo perché tutti, anzi che cercare la prosperità dei popoli non fanno altro che assicurarsi nella loro posizione di despotismo mascherato od aperto. Di qua gl'immensi eserciti stanziali di truppe, d'impiegati e di birri che divorano la produzione del paese senza faticare, con rinascente appetito e senza produrre altro che
corruzione.
E la parte più improduttiva e prava della Nazione non si contenta di consumar per uno co' suoi vizi, le sue lussurie ed il suo sfarzo, ciascuno vuol consumare per cinquanta.
Così la parte laboriosa del popolo è caricata d'imposte e priva della miglior gioventù che si strappa dai campi e dagli opifizi per l'esercito col pretesto della difesa della patria, ma in realtà per sostenere un sistema di Governo mostruoso. Le campagne abbandonate e sterili e le popolazioni malcontente ed immiserite ne sono il finale risultato

Prova che l'Europa è scelleratamente governata, si è pure lo stato di guerra quasi continuo in cui essa si trova sotto uno od altro pretesto. Colpa e vergogna questa poiché se i popoli fossero ben governati non avrebbero bisogno di uccidersi reciprocamente per intendersi.
Date un'Unione europea delle nazioni con un rappresentante per ciascuna e uno statuto fondamentale il cui primo articolo suoni: "La guerra è impossibile" ed il secondo: "Ogni lite fra le Nazioni sarà liquidata dal Congresso". Ecco veramente la guerra, flagello e vergogna umana, divenuta impossibile.
Allora non più eserciti permanenti ed i figli del popolo che si guidavano al macello, coi boriosi nomi di patriottismo e di gloria resi alle loro famiglie ed ai campi, che fecondati col lor sudore, contribuirebbero davvero a migliorare la condizione generale delle nazioni.
Ecco quali sono le credenze del "solitario", e confesso anche la mia.
Quest'isola era il luogo di rifugio, che Giulia avea scelto, d'accordo con Manlio, per i fuggitivi suoi amici. Ma poiché erano rimaste Clelia e Silvia senza poter raggiungere lo Yacht, essa avea modificata tale decisione a questo modo: si visiterebbe cioè l'isoletta per prendervi parere ma si tornerebbe sul continente per aver notizia del resto della famiglia.

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