D) CAPITOLI :

XIX. - Le Terme di Caracalla - XX. - Alle Terme - XXI. - Il Traditore
XXII. - La Tortura - XXIII. - I Briganti - XXIV. - Il Liberatore

XIX

LE TERME DI CARACALLA


Lascio pensare a voi quale scompiglio vi fosse in Roma il giorno quindici febbraio che seguì la notte tragica di Palazzo Corsini. Un andirivieni, un diavolo per le strade, un chiedersi: "che è, che non è? È ora di menar le mani? Di mandare a rotoli questo esoso (potere) temporale e lo spirituale con lui?".
Frattanto i tre cadaveri penzolavano dalle finestre e siccome in quella tana di birbanti uno diffidava dell'altro, niuno ardiva di avvicinarsi alla stanza fatale per non suscitare sospetti. Finalmente, un battaglione straniero, che la paura dei preti aveva richiesto, comparve nella Laguna ed invase l'immenso palazzo. I soldati se la ridevano sotto i baffi nel vedere appiccati i due chercuti e l'eunuco.
Senza nessuna reverenza al mondo s'andavan dicendo fra loro: "Che bei salami! Se ne hanno esposti per mostra tre, vuol dire che ne ha molti il pizzicagnolo".
Nella folla ognuno diceva la sua mentre i soldati davano opera a far rientrare i cadaveri.
"Lasciali andar giù a rompicollo, avrai più presto fatto", diceva l'uno. "Maneggia il pesce che non si strappi", diceva l'altro, e tutti a fischiare, mentre sforzandosi i soldati a tirar su il corpulento cadavere di Procopio, si spezzava la fune e il corpo precipitava sul lastrico con grande fracasso.
Nella folla, mentre durava l'osceno schiamazzo, il mendico diceva a Silvio:
"Questo popolaccio mi nausea, esso ama ridere di tutto. Pasquino solo ci rimane dell'antica Roma. Io vorrei che questo popolo avesse la gravità, con cui i nostri padri, nel Foro, vendevano e comperavano ad alto prezzo il terreno occupato dalle schiere di Annibale vincitore, oppure eleggevano un Dittatore per salvare la Repubblica in pericolo, senza ingannarsi mai nella scelta. Ma quanto tempo dovrà passare prima di averlo degno ancora dell'antica fama, corrotto com'è dai preti? Di tutti i danni fatti da questi impostori al nostro paese, il più imperdonabile è la corruzione con cui han potuto talmente snaturarlo".

"Cosa vuoi?- rispondeva Silvio - Il servaggio fa dell'uomo una belva e questo nostro è stato il più maligno, il più perverso di quanti si conoscono. I chercuti hanno il garbo di farci schiavi e farci adorare i nostri tiranni".

Così discorrendo i due amici quasi istintivamente s'avviarono verso lo studio d'Attilio, che trovarono dinanzi. la mensa modestamente imbandita alla quale parteciparono di tutto cuore. Dopo d'avere ragguagliato l'amico delle faccende del giorno, i tre si sdraiarono per cercare un po' di riposo ed era loro ben necessario dopo le fatiche della notte.

Verso le dieci della sera, i nostri tre amici giungevano alle Terme di Caracalla, ove sappiamo che i trecento dovevano riunirsi.
XX

ALLE TERME


Padroni del mondo e ricchissimi delle sue spoglie, i Romani si diedero al lusso, alle gozzoviglie ed agli eccessi d'ogni specie.
Fastidiose ed insopportabili divennero loro le fatiche del campo, l'aratro e l'armi che tanto avevano influito a mantenerli sobrii e robusti. Colle membra rese delicate dall'ozio il peso delle armi divenne soverchio e tra gli stranieri schiavi si cercarono i più robusti per farne dei soldati. Gli stranieri forti, armati ed agguerriti alla scuola di Roma, cominciarono a disprezzare i dissoluti ed effeminati padroni, poi, ad ammazzarli, per impadronirsi delle loro donne e delle loro ricchezze.
Ecco la storia della decadenza di quell'impero gigante che finì, come devono finire tutte le potenze edificate sull'ingiustizia e le violenze.
Fra i lussi degli antichi c'eran le Terme, ossia i bagni, e vi si prodigavano ricchezze immense per renderli comodi, doviziosi e splendidi.
Ve n'erano di particolari e di pubblici, e siccome al tempo degli Imperatori ognun di loro procurava di farsi celebre con qualche opera grandiosa, Caracalla, uno dei più abbietti di quei despoti, fece edificare le famose Terme, i cui avanzi si contemplano oggi nell'immenso deserto di ruine che segnano la grandezza e la decadenza di Roma.

Gli edifici più cospicui dell'immensa città, quasi tutti avevano dei sotterranei, praticati dai grandi con astuta previdenza per nascondervisi in tempo di pericolo o per nascondervi il frutto delle loro rapine e violenze.
Nel sotterraneo delle Terme di Caracalla era stabilito il nuovo convegno dei trecento, nella notte del quindici febbraio, e subito che l'ombre della notte cominciarono a coprire Roma, già le loro sentinelle erano collocate nelle vicinanze del luogo di riunione e sulle vie che vi conducevano.

XXI

IL TRADITORE


La liberazione di Manlio e l'assalto di palazzo Corsini avevano spaventato il governo Pontificio. Mentre preparava solenni esequie al cardinale Procopio e ai compagni, avea messo sotto le armi quanta truppa straniera ed indigena v'era in Roma. La polizia coi suoi cagnotti era in grande confusione. Al minimo sospetto si arrestavano cittadini di ogni classe e le carceri ne rigurgitavano.

 

Il governo dei preti aveva saputo comprare un traditore perfino fra i trecento. Per buona sorte costui non s'era trovato coi dieci del Quirinale, né tra i venti del Corsini. Egli però sapeva della riunione alle Terme di Caracalla e ne aveva informata la Polizia. Assuefatti alla congiura, gli italiani, sanno ciò che sia una contro-polizia. Ma per chi non Io sapesse: essa è una polizia di congiurati, che regola e conosce le mene di quella del governo. Il capo della contro-polizia liberale era Muzio e ben gli serviva la sua qualità di mendico; poiché tra quei tanti infelici che accattano il pane nelle vie e sulle piazze di Roma i preti trovano sempre alcuno che si vende coll'infame patto della delazione. Muzio non lo ignorava e, coll'intelligenza superiore che lo adornava aveva saputo dai suoi emissari far vigilare gli emissari dei preti.

L'ultime ombre dei congiurati (perché veramente sembravano ombre che traversassero quelle macerie) eransi introdotte nella gola del sotterraneo. Attilio aveva fatta la dimanda: se le sentinelle erano a posto: il lume, dopo la risposta affermativa, aveva rischiarato le austere fisionomie dei nostri giovani, quando un fischio simile a sibilo di serpente fece risuonare le antiche volte dello speco. Era questo segnale d'allarme ed era il mendico che lo mandava, il
quale, messo appena il piede sull'entrata del sotterraneo "non v'è tempo da perdere - esclamava - non solo siamo accerchiati da forza armata da questa parte ma altra forza ha già preso posizione all'uscita settentrionale del sotterraneo!"

 

L'imminente pericolo in luogo di far impallidire quei prodi, gettò sulle loro maschie fisonomìe un'aria di giubilo. Tale è la coscienza del vero coraggio, massime quando serve la sacrosanta causa della libertà e della patria, ed Attilio girato uno sguardo di compiacenza sul consesso imponente ordinò a Silvio di recarsi con due compagni all'estremità del sotterraneo ed informarlo di quanto accadeva.
All'entrata compariva una sentinella e confermava quanto Muzio aveva asserito, ma dalla parte opposta, niuno si faceva innanzi, il che dava a supporre che le sentinelle, da quella parte, potessero essere state arrestate. Appena però Silvio giungeva all'estremità del sotterraneo alcune fucilate dal di fuori annunziavano il conflitto, mentre rientravano al tempo istesso i quattro compagni, che si trovavano di guardia in quella parte, per dar notizia dell'arrivo di numerose truppe.

Silvio tornò indietro e ragguagliò il suo capo di quanto accadeva. Attilio allora diede questi ordini: "Muzio formerà la avanguardia coi suoi cento, io lo seguiterò coi miei. Silvio colla sua schiera starà alla retroguardia. Con uomini come voi, io posso risparmiare ogni incoraggiamento: dirò soltanto, che qualunque sia la forza che noi abbiamo a fronte, dobbiamo caricarla in massa col pugnale alla mano. I primi venti della tua schiera, disse a Mimo, marcino radi e adagio sino ad incontrare il nemico. Scoperto, lo assaltino gridando e a passo di corsa. Noi vi seguiremo da vicino".

Dopo queste poche parole Muzio, disposti i venti e dato un colpo d'occhio al resto della sua schiera, si avvolse la toga al braccio sinistro e col pugnale nella destra si avanzò dicendo: "seguitemi!". L'antro sembrò in quel momento vomitare un torrente di lava ed all'oscuro, perché ogni lume era spento, cupi, silenziosi, s'avanzarono i discendenti dei Fabii, pronti ad affrontare i satelliti del dispotismo.
I primi soldati che s'incontrarono coi nostri ebbero appena il tempo di spianare i fucili, che in un lampo si trovarono avviluppati dai terribili aggressori e volti in fuga. Un urlo tremendo di "avanti!!!" uscito da trecento maschie e sonore voci incuteva una paura di morte anche nei men codardi di quella bordaglia. In men ch'io noi dica il Campo Vaccino e poi le vie di Roma diventarono fiumi di fuggenti. Elmi, sciabole, fucili, si trovarono seminati sul lastrico delle vie e più feriti vi furon dagl'inciampi in quelle armi che da mano nemica. Molti incespicando rovesciati cagionavano la caduta dei vegnenti dimodoché in certi luoghi si trovavano qua e colà monti di mercenari e di birri. Alcuni si lamentavano, altri mostravan tanta paura nelle ossa che gridavano:
"Non mi uccidete, signor liberale, ch'io mi sono arreso".

Frattanto i prodi campioni della libertà di Roma, dopo d'aver fugato i mercenari pretini si separavano e tranquillamente ripigliavano la via delle loro case sparpagliati in piccoli gruppi. Quanto valga l'uomo di coraggio è cosa incredibile! Un uomo può mettere in fuga un esercito e non è esagerazione. Io ho veduto degli eserciti colti dal panico fuggire davanti non ad un uomo solo ma a meno d'un uomo, davanti ad un pericolo immaginario. Un grido di "salva chi può!", "Cavalleria!", "il nemico!", risonante di notte ed anche di giorno con qualche tiro di fucile o senza, basta a mettere in fuga un corpo di truppa che ha combattuto e combatterà in altra circostanza col maggiore coraggio.

Comunque sia, il panico è vergognoso e, veramente veduto e considerato con pacatezza, esso ha qualche cosa di degradante. Io vorrei non aver mai a vedere gl'Italiani colti da terror panico. Eppure pare che i popoli meridionali e più spiritosi, come il Francese, l'Italiano, lo Spagnolo vi siano più soggetti dei
popoli freddi e posati del settentrione. Dei liberi, pochi furono i feriti, il che succede sempre ai valorosi; dei mercenari però molti furono i feriti da loro stessi, e si contarono alcuni morti. Tra i cadaveri che all'albeggiare si distinsero nelle vicinanze delle Tenne, v'era un giovane col mento appena coperto di lanugine, era supino e sul suo petto a grandi caratteri si leggeva la parola "traditore".
Giovinetto senza esperienza, Paolo, ebbe la disgrazia d'innamorarsi della figlia d'un prete. La Dalila astuta, ammaestrata dal padre, era giunta a scoprire che il suo amante apparteneva ad un gruppo di cospiratori. Dal primo errore lo sciagurato cadde in altri e finì con l'abbandonarsi intieramente all'infame vita del delatore.

Quella notte n'ebbe degna ricompensa!

XXII

LA TORTURA


Siccome l'ora della solenne vendetta della popolare giustizia non era sonata ancora, i preti se la cavarono con la sola paura. Essi ben temettero in quella spaventosa notte di veder rompere il capello a cui la giustizia di Dio tien sospesa la spada sterminatrice che reciderà il loro capo nefario: ma fu differito il castigo. Non, che la misura non sia colma, ma forse le colpe degli uomini meritano ancora quell'abbominevole flagello!
Conoscete voi la tortura?
Sapete voi italiani che dai preti fu torturato Galileo? il più grande degli italiani? e chi se non i preti poteva istituire la tortura? Ci voleva l'animo d'un arcivescovo, per condannare a morire di fame in carcere murato Ugolino con quattro figli!
Sì! la tortura! Dacché nella famiglia umana, vi furono uomini che svestirono le forme umane per farsi impostori, cioè preti, dacché vi furono preti nel mondo, vi furono torture.
Volendo costoro mantenere tutti gli uomini nell'ignoranza, quando emergeva alcuno che avesse ricevuto da Dio tanta intelligenza da capire le loro menzogne, quell'intelligente era da questi demoni torturato, acciò confessasse che la luce era tenebra, che l'eterno, l'infinito, l'onnipotente, era un vecchio dalla barba bianca seduto sulle nubi; che una donna, madre d'un bellissimo maschio, era una vergine e che un pezzetto di pasta che voi inghiottivate era il
creatore dei mondi che vi passava per le vie digestive, e poi e poi!!!
Quando si pensa che una gran parte del popolo ci crede ancora e che in questo secolo in cui l'intelligenza umana ha pur partorito delle grandi cose, il prete la fa ancora da padrone; quando si vedono i reggitori delle nazioni fingere (perché è finzione ed iprocrisia) di proteggere e mantenere con ogni rispetto l'istituzione diabolica del pretismo, c'è veramente da impazzire, e non si capisce se ci sia più malvagità dalla parte dei potenti e degl'impostori o più stupida imbecillità da parte di chi li tollera.

In molti paesi, come l'America, l'Inghilterra, la Svizzera, la tortura è realmente abolita, né colà il progresso è vana parola.

In Roma pure non se ne parla, è vero: ma chi riesce a penetrare nei reconditi recessi di quei pandemoni, che si chiamano claustri, seminari, conventi? in quei covili ove un'assoluta reclusione isola l'individuo dall'umana famiglia, ove l'essere maschio o femmina che appartiene alla confraternita è legato da giuramenti tremendi ed appartato per sempre dal consorzio del resto degli uomini: massime se vi sia sospetto ch'egli non sia intieramente corpo ed anima consacrato all'istituzione ove il despotismo è assoluto, irresponsabile, potente!

Sì! in Roma, ove siede il vicario del Dio di pace, del redentore degli uomini, v'è la tortura come ai tempi di S. Domenico (Inventore dell'Inquisizione) e di Torquemada! (Uno dei più feroci inquistori di Spagna) ed in questi giorni di convulsioni politiche e di paure pretine la corda e la tenaglia erano all'ordine del giorno negli orridi sotterranei di Roma.

Povero Dentato! il bravo sergente de' dragoni che facilitò l'evasione di Manlio. Dentato era messo alla tortura mattina e sera per strappargli di bocca la delazione dei complici!

Io risparmierò ai miei lettori l'orrido quadro dei patimenti inflitti a quel prode romano straziato colla corda, attanagliato, ridotto a una massa informe, abbandonato in un canto del suo carcere segreto, spirante, ed implorando la morte come un beneficio. Quello ch'io non posso tacere è che il prete non si contenta di martoriare, di avvilire il corpo. Egli vuole insudiciare l'anima, e quando il sofferente svenuto pei patimenti articola un'indistinta parola, egli la raccoglie e l'interpreta a modo suo, spargendo la vergogna e l'infamia sul capo
dell'infelice torturato.
Il povero Dentato così scontava il suo amore per l'Italia e per Roma nelle unghie dei luciferi umani, e non era il solo! In quei giorni di paura e di rabbia, furono numerosi gli arresti ed i torturati, ed anche rinvenuto dal terrore il prete si dava alle sevizie, condizione essenziale per riconoscere i codardi. I tiranni più crudeli, i più sanguinari di tutte le epoche, furono vili e pieni di paura.
Infelice Dentato! i suoi carnefici rapportavano ch'egli aveva confessato complici e quindi nuovi arresti, nuovi tormenti, e nuove torture!
Ecco! come da tanti secoli è trattato questo nostro povero paese, ed il mondo tollera questi carnefici, li protegge, li impone all'Italia!
Non si sa se più scellerati i preti e chi li sorregge o più stupido questo miserabile popolo che li soffre nel suo seno e non fulmina, non annienta questi istrumenti del suo servaggio, delle sue miserie e delle sue umiliazioni.
XXIII

I BRIGANTI


Lasciamo per un momento queste scene di desolazione e d'orrore, quest'atmosfera infetta dal fiato prestilenziale de' carnefici e seguiamo sulla strada di Porto d'Anzo le graziose nostre viaggiatrici, meste, perché il loro cuore rimaneva in Roma co' loro cari ma finalmente respirando l'aria libera della campagna in quella stagione purissima.
La campagna romana, un dì sì popolata e fertile, è oggi, lo ripeto, un deserto seminato di macerie e coperto di paludi e di macchie.
L'ammiratore della natura selvaggia trova pascolo colà all'esaltata immaginazione e forse è difficile rinvenire un altro lembo di terra sulla superficie del globo che presenti alla memoria tante ricordanze di peripezie, di grandezza e di miseria.
Il cacciatore vi trova selvaggina d'ogni specie, dalle quaglie al cignale, ed alimento del corpo e dell'anima vi trova colui, che alla infezione della capitale, alle sue lussurie, preferisce la quiete del deserto.
Pochi, lo abbiamo detto, sono i proprietari di quelle feraci ed immense pianure e tutti son preti, ingolfati nei vizi della metropoli, che non hanno mai veduti questi loro possessi e vi tengono al più qualche mandra di bufali e pecore.

Ma nella campagna romana si trova qualche altra cosa.

La pianta brigante è inseparabile dal governo dei preti, ed è naturale; essa non può non prosperare accanto ad un governo codardo, servito da mercenari imbelli ed abbrutiti. Quindi il ladro, l'omicida o il compromesso politico, trovandosi questa immensa campagna vicina ove loro non mancherà rifugio ed alimento, vi si gettano e molti vi passano l'intiera lor vita.

Le statistiche assicurano essere gli omicidi in Roma più frequenti che in alcun'altra parte, e non può essere altrimenti coll'educazione corruttrice dei preti e la miseria prodotta dal loro infame governo.
Quindi necessariamente la campagna è popolata da molti di questi fuorusciti delinquenti od innocenti, tutti conosciuti sotto la denominazione di briganti.
A questa non piccola famiglia di briganti per necessità vanno aggiunte le numerose e terribili bande assoldate dai preti stessi contro il presente governo italiano, bande abbastanza note e che tante stragi commisero in questi ultimi anni.
Eppure, con tutto questo, io ho simpatia dei briganti!
Le mie simpatie non si stendono certo alle iene assetate di sangue che mutilano i loro prigionieri prima di trucidarli, che bruciano, devastano, distruggono per selvaggio istinto di distruzione. No! costoro mi mettono orrore!

Ma quei briganti che odiano un governo scellerato come quello dei preti, o simile, che piuttosto di sottostare ai soprusi ed alle umiliazioni a cui ogni giorno il cittadino è esposto, preferiscono la vita vagante della foresta, senza macchiarsi con furti o con omicidi, quelli là hanno la mia simpatia.

Quando poi all'onesta indipendenza aggiungono l'indole coraggiosa del leone e si battono valorosamente contro chiunque cerchi sopraffarli, allora non solo simpatia, ma ammirazione si meritano, e francamente, nell'abbassamento presente della nostra gloria militare, io sovente insuperbisco tra me stesso, pensando che pochi italiani (ispirati da falso principio è vero) combattono contro polizie, carabinieri, guardie nazionali, esercito, un mondo di nemici, senza che questi giungano mai a vincerli o domarli.
Comunque sia, tolte le crudeltà commesse dai briganti assoldati dai preti, quella classe di gente, ha mostrato in questi ultimi tempi una tenacità ed una bravura degna di miglior causa; il che prova che gli stessi uomini sospinti dall'amor di patria e ben guidati sarebbero una barriera insuperabile contro qualunque invasione straniera.
Fatalmente quei poveri ma coraggiosi contadini sono sempre stati coi preti e da loro sono forviati. Per questo li vediamo armati contro l'unità nazionale.
E quanto tempo ci vorrà ancora per portarli sulla buona via?

Che i briganti non sieno tutti assassini lo prova Orazio, il valoroso Romano che tutti in Trastevere, specialmente le donne, ammiratrici sempre della bravura, credevano discendente dal famoso Coclite, che da solo difese il ponte contro l'esercito di Porsenna. Egli aveva questo di particolare, oltre il valore che lo ravvicinava all'antico eroe: gli mancava un occhio che nell'infanzia, in una rissa aveva perduto.
Un giovinetto della sua età, ch'egli aveva battuto, per vendicarsi gli piantò una canna nell'occhio sinistro e glielo svelse.
Orazio aveva servito con onore la Repubblica romana. Ancora inerbe, egli fu tra i primi che nel glorioso 30 d'aprile caricarono e fugarono gli stranieri invasori. A Palestrina riportò onorevole ferita di palla alla fronte. A Velletri, dopo aver freddato un ufficiale di cavalleria napoletano col suo archibugio, lo spogliò delle armi e le portò in trionfo a Roma.

Ventura sarebbe stata per Giulia e le sue compagne, se fossero cadute in potere di un tal brigante; ma non fu così: altre bande della peggior natura da noi descritta incontrò la gentile comitiva mentre si avvicinava alle spiaggie del mare, ed una fucilata uscita da un bosco circostante, che rovesciò il cocchiere dalla banchina, diede indizio agl'infelici della situazione loro.
Caduto il cocchiere, Manlio, con un'intrepidezza ed una agilità superiore all'età sua slanciossi sul davanti della carrozza, ed impugnò le redini, ma inutilmente; quattro masnadieri armati di tutto punto, si precipitarono ai freni dei cavalli e li fermarono.
"Non vi movete o siete morto" gridò con voce imperiosa uno della banda che avea apparenza di comando, e veramente inutile sarebbe stata la resistenza d'un solo e inerme contro quattro armati e di quella specie!
Manlio rimase immobile sulla banchina ove era salito. Alle donne si ordinò di scendere con certo piglio poco galante dapprima, ma scese che furono, abbarbagliati da tanta bellezza, i malviventi rimasero muti e per un pezzo stettero a considerare Clelia e Giulia con aria mista d'ammirazione e di rispetto.
Finalmente predominati dalla fiera e malvagia natura, il capo della banda così si espresse: "Signore, se voi vi decidete ad accompagnarci di buona voglia, io vi assicuro che non vi sarà torto un capello, ma se non condiscendete a quanto io vi chiedo potete essere certe che la vostra vita non è sicura, e cominceremo a darvene prova, col fucilar subito quell'uomo lassù che vi accompagna" e accennava Manlio.

Lascio pensare l'effetto dell'ultime parole sulle povere donne. Silvia cominciò a singhiozzare, e così Aurelia, che non potè trattenersi dal farle riscontro. Clelia si sentì un brivido nelle ossa, ed impallidì alla minaccia di ucciderle il genitore; Giulia sola colla impavida freddezza caratteristica della sua nazione, essendo già ne' suoi viaggi meglio delle compagne assuefatta alle peripezie della vita mostrò forte e maschio contegno.

"Non potreste - disse Giulia avanzandosi verso il masnadiero - prenderci quanto possediamo, e noi ve lo diamo senza difficoltà (così dicendo
trasse fuori la sua borsa e gliela porse) lasciandoci andare per la nostra via".

Lo scellerato, cui il peso dell'oro che teneva in mano, in luogo di soddisfarlo, sembrava aver risvegliate altre libidini, sorrise al discorso della seducente Inglese rispondendo: "Oh! Signora! fortune come questa d'oggi non capitano tutti i giorni a noi miseri perseguiti, e la fortuna, se non la si piglia pei capelli quando arriva, fugge e sovente per non più tornare. Crede lei che possano
giungere ogni giorno tanti gioielli?".
E il furfante così dicendo facea l'occhietto girando lo sguardo dall'una all'altra delle due giovani.
Giulia non si scosse dinanzi alla gravità del pericolo ma andava ruminando nella mente la possibilità di un tentativo per liberarsene mantenendosi intanto fredda e silenziosa. Non così Clelia, che al brivido d'orrore provato alla minaccia d'uccisione del padre, sopravveniva lo sgomento pel suo onore minacciato dalle parole dell'assassino.
Percorse in un lampo colla meridionale sua immaginazione tutto l'orrore della loro situazione e la disperazione succedendo ad ogni altro senso si ricordò del pugnaletto, lo impugnò ed avventossi come una furia sul ladro procace. Giulia, non meno coraggiosa, vedendo l'eroica risoluzione della compagna, assalì il nemico con eguale trepidezza, e certo, se avessero avuto da fare con lui solo, il
brigante era spacciato. Ma il più vicino dei malandrini afferrò e tenne salda Giulia in guisa che la povera Clelia trovossi sola a lottare col nerboruto avversario il quale, benché ferito in varie parti, era ben lunge dal potersi dire vinto ed atterrato.

Le cose erano a tal punto: Giulia veniva portata via dal brigante verso la macchia, le due donne mature minacciate da un altro che le teneva sotto la bocca della sua carabina a due colpi; seguivano Giulia, Manlio, che aveva ricevuto ordini dal terzo di scendere dalla banchina, seguiva la comitiva sotto la stessa minaccia, ed ultima Clelia, trascinata dal capo, da cui invano cercava di svincolarsi, veniva alquanto più in dietro.

A un tratto un colpo, come di clava, cadde sul cranio del rapitore di Clelia e la coraggiosa fanciulla nello stesso momento si sentì sciolta e vide lui rovesciato nella polvere quasi colpito dal fulmine.

XXIV

IL LIBERATORE


Il nuovo attore comparso su quella scena di violenze non era un gigante, solo di alcuni pollici soprastava all'ordinaria statura. Però alla robusta disposizione d'un corpo svelto ed elegante, alla quadratura delle spalle, ai movimenti tutti della persona, tu dicevi:
"costui ne vale una dozzina!".
La capigliatura d'ebano gli scendeva innanellata sulle spalle e l'occhio nero, quando era fisso nel tuo occhio ti facea l'effetto del raggio di sole allorché, uscito improvvisamente dalle nubi, ti colpisce lo sguardo e ti abbarbaglia.
Com'è bello il valoroso che si slancia in soccorso del debole! Come la sua energia è raddoppiata, massime quando il debole ha il volto di Clelia!
Rovesciato il capo-brigante con un pugno sul cranio, il nuovo arrivato spianò la sua carabina prima sul guardiano di Manlio, poi su quello delle donne, ed egli, che metteva una palla nell'occhio del cignale a dugento passi di distanza, appena curossi della caduta dei due, gettando invece un colpo d'occhio sulla perla di Trastevere. Ma questa, non curante del simpatico significato di quell'occhiata, "avanti!" gli gridò: segnandogli il sentiero, per il quale Giulia ed
il suo rapitore erano scomparsi.
Quasi mosso da un elettrico impulso, il liberatore, che sembrava tanto agile, quanto forte, si avventò sulle traccie del fuggente ed in pochi minuti ritornava lieto con Giulia verso gli amici. Il brigante quando sentì la tempesta venire sulle sue traccie aveva abbandonata la preda, mettendosi in salvo fuggendo.

Il vittorioso campione, ricaricata la carabina, disse a Manlio di armarsi: le armi che restavano sul suolo e sui cadaveri depose nella carrozza, raccogliendo i cavalli occupati a pascolare, ad onta del freno, sull'orlo della strada.

La comitiva ammirava stupefatta il coraggioso liberatore mentre egli, come assorto in contemplazione di cosa che stesse sopra gli oggetti materiali presenti, pareva col pensiero lontano da quella scena di sangue.
Una delle più belle qualità della donna è l'apprezzamento squisito del bello e dell'eroico. Siate pulito, valoroso, sprezzatore della morte, generoso, e certo avrete non solo il plauso, ma l'affetto della bellezza! Io non dubito che questa simpatia del bel sesso non sia il principale motore dell'incivilimento umano.

L'uomo si fa pulito, elegante, cortese per piacere alla donna. Egli ha lo stesso incentivo nel suo slancio verso le grandi azioni. In generosità, in coraggio, in eroismo quindi si può considerar la donna vera educatrice dell'uomo, prima agente del creatore, per migliorare questa razza burbera e di testa dura.

Le donne dunque volgevano il loro sguardo sul brigante (mi ripugna di dargli questo titolo ma pure era così chiamato dai preti e per loro era un vero brigante) e curiosamente lo fermavano su quel corpo così ben fatto, su quella capigliatura d'ebano, su quella fronte spaziosa così graziosamente ornata da un... da un buco tondo tondo, che il piombo straniero vi aveva forato. Pareva non potessero distogliere gli occhi da quella persona, vero modello della forza e del coraggio. Il difetto dell'occhio spento era, oppure sembrava, in quell'istante quasi impercettibile.
Bisogna confessarlo, in quel momento i nostri cari, non men belli e non men coraggiosi, Attilio e Muzio, furono dimenticati dalle nostre eroine. Così è più forte di noi questa nostra debole natura umana.
Lo stupore dei viaggiatori si accrebbe ancora quando il brigante uscito dalla sua posizione contemplativa, si avanzò graziosamente verso Silvia, le prese la mano, gliela baciò commosso, lasciandovi cadere sopra una lagrima.
"Voi non mi riconoscete, Madonna?- egli le disse - Guardate un poco questo mio occhio sinistro che per cura vostra gentile e materna non mi costò la vita!".
"Orazio! Orazio! - gridò la matrona abbracciandolo e spargendo un torrente di lagrime. - Orazio! mio figlio, figlio della migliore amica mia!
"Sì, Orazio! che voi raccoglieste morente, che curaste con affetto di madre, ed a cui porgeste un pane nella sventura quando fu orfano!" soggiungeva egli, e la buona Silvia, quasi fuori de' sensi, si abbandonava nelle braccia del suo robusto antico protetto.
"Qui non v'è tempo da perdere - disse finalmente Orazio, rivolgendosi a Manlio, con cui aveva pur ricambiato mille segni di reminiscenza e di gratitudine. Questo luogo è pieno zeppo di malviventi e quel fuggito potrebbe ricondurre una banda più numerosa".
Pigliando dunque i cavalli per i morsi invitò la comitiva a rimontare in carrozza e mettendosi egli stesso al posto del cocchiere, s'incamminò velocemente verso la marina secondo i voti dei viaggiatori.
Giunti alla spiaggia, l'aria balsamica del Mediterraneo sembrò ravvivare i nostri stanchi amici, e l'effetto apparve sorprendente sulla bella Giulia. Figlia della regina del mare ella, come tutti coloro che nascono sulle sue sponde, ne era innamorata. Lontani lo sospirano, al rivederlo, par loro rivedere una persona amata.
L'effetto prodotto sui dieci mila Greci di Senofonte al rivedere il mare dopo lungo e pericoloso viaggio pedestre a traverso la Persia, si comprende facilmente. E le grida di gioia e l'inginocchiarsi a salutare Anfitrite liberatrice, come il mare fosse la patria loro, non hanno d'uopo di spiegazioni.

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