SCHEDE BIOGRAFICHE
PERSONAGGI
SISTO V - FELICE PERETTI

SISTO V - Felice Peretti (1520-1521)
(Pontificato 1585-1590)

FELICE PERETTI nacque a Grottammare (AP) il 13 dicembre 1520; 1521 secondo alcune fonti. Il padre Francesco era originario della vicina Montalto Marche, la mamma, Mariana, proveniva da Frontillo di Sopra di Pieve Bovigliana (circoscrizione di Camerino) e si trovava a Grottammare, serva nella casa del possidente Ludovico De Vecchis; i due si erano rifugiati presso il minuscolo centro adriatico per scampare alle angherie del Duca d'Urbino.

La sua è una famiglia contadina poverissima ma, grazie all'interessamento di uno zio, entra a dodici anni nel convento francescano dei frati Conventuali di Montalto. La sua formazione avvenne nei collegi dell'Ordine, a Fermo, a Ferrara e a Bologna. Nel settembre del 1544 conseguì, a Rimini, il Baccelierato in Teologia e quattro anni dopo, a Fermo, il Dottorato. Nel 1547 fu ordinato sacerdote a Siena. Nel 1552 ottenne la protezione del grande inquisitore Antonio Michele Ghislieri, futuro Pio V, che lo guadagnò al 'partito rigorista' e potè così frequentare con assiduità Paolo IV e lo stesso Pio V. Le sue capacità, specialmente come predicatore, gli consentirono di mettersi in luce, nonostante una certa durezza di carattere che gli procurò non poche inimicizie; gli invidiosi suoi confratelli presero a chiamarlo 'il porcaro', per ricordare le sue umili origini. A lui venne affidata anche la riforma di numerosi conventi dell'Ordine. Lettore di teologia a Roma, nel settembre del 1561 fu nominato Procuratore generale dell'Ordine e, dal 1566, per due anni, fu Vicario Generale dell'Ordine.

Come teologo partecipò alle discussioni della Congregazione per il Concilio di Trento. Nel 1557 fu nominato Inquisitore Apostolico a Venezia, nel 1560 ebbe l'incarico di teologo e consultore del Sant'Uffizio a Roma; nel 1565 lo troviamo in Spagna, inviato come teologo dell'Inquisizione per un processo contro l'arcivescovo di Toledo. Fu lo stesso Pio V che lo creò vescovo di sant'Agata de' Goti nel 1566 e di Fermo nel 1571. Nel maggio 1570 era stato nominato cardinale con il titolo di san Gerolamo degli Schiavoni.

Alla morte di Gregorio XIII avvenuta il 12 aprile 1585, durante il cui pontificato si era tenuto in disparte, il conclave era diviso in molteplici partiti, e il cardinal Peretti, pur non facendo parte delle fazioni dominanti, il 24 aprile 1585, ascese al soglio pontificio, raccogliendo, i voti di molte controparti. Scelse di chiamarsi SISTO V in omaggio al francescano Sisto IV, pontefice dal 1471 al 1484.

Con Sisto V la Sede Apostolica raggiunse un vertice di autorità all'interno e di prestigio nella politica estera, quale da lungo tempo non s'era più visto; fin dall'inizio del suo pontificato egli mostrò una non comune capacità di governo e un'incredibile resistenza al lavoro, compiendo in cinque anni un lavoro che ne avrebbe richiesto cinquanta; anche per questo uno degli azzeccati suoi soprannomi, ampiamente meritato, fu 'il Turbine Consacrato'.

Il compito principale per il nuovo pontefice fu la riforma della Chiesa, riorganizzarne il governo, applicare con rigore i decreti tridentini, apportando un rinnovato clima di moralità. Con la costituzione 'Postquam vetus ille' del dicembre 1586 il numero dei cardinali, prima oscillante, venne portato a settanta: sei vescovi suburbicari, cinquanta preti, quattordici diaconi; la maggiore internazionalizzazione del Collegio Cardinalizio venne parzialmente avviata. Con la bolla 'Immensa aeterni Dei' del 1588, fondò quindici nuove Congregazioni cardinalizie permanenti, in parte di nuova erezione e in parte solo confermate o riassettate, per la conduzione e l'amministrazione degli affari secolari e spirituali, dando alla struttura gerarchica della Chiesa quell'assetto che in parte conserva ancora oggi; avviò l'Ufficio di Segreteria (la Camera secreta), con competenze in politica interna ed esterna (ne era titolare il giovane cardinale-nepote di Montalto, ma alle dirette dipendenze del papa), e la Dataria. Con la 'Romanum Pontifex' del 1585, ripristinò con vigore la Visitatio liminum dei vescovi, organizzata metodicamente e congiunta ad un periodico rendiconto a Roma sul governo della diocesi.

Si dedicò anche alle riforme economiche e finanziarie, instaurando una politica accorta nelle spese e oculata negli investimenti, ristabilendo le cassa statali, non disdegnando di adottare rigide misure, incrudendo gabelle con la vendita degli Uffici e con vantaggiosi e sicuri prestiti pubblici, grazie al sistema dei Monti di Pietà (capitalizzati per 8.000.000 di scudi); non mancò di imporre svariate tasse. Si interessò anche del commercio, con la promulgazione di alcune leggi: ad esempio, venne stabilito un nuovo sistema di misure per la vendita al dettaglio del vino, uno dei settori economici più importanti di Roma; si impegnò per la crescita di settori come quelli della lana e della seta. Alla sua morte aveva tesaurizzato Castel sant'Angelo per circa 4.000.000 di scudi, grazie anche all'afflusso di danaro genovese, che determinò un rilevante aumento dei prezzi, sollecitato pure dall'incremento demografico. Si accentrarono così nelle mani del papa tutte le forze finanziarie dello Stato, che diventavano per la prima volta organo esclusivo del potere religioso; il risultato complessivo fu una floridezza economica che la Chiesa mai aveva conosciuto fino a quel momento.
In poco meno di due anni riuscì, con pugno di ferro, ricorrendo spesso alla pena capitale, a riportare la sicurezza a Roma, in preda al banditismo più selvaggio; appositamente fece coniare una moneta con il motto 'Perfecta securitas'. Abbassò la minorità delinquenziale al quattordicesimo anno e dichiarò responsabili le Comunità degli atti di brigantaggio prodotti dai propri membri. Era spietato anche con chi favoriva i briganti, come il conte Giovanni Pepoli a Bologna; si oppose persino a Francesco I de' Medici, che dovette consegnargli il capobandito Lamberto Malatesta. Fece eseguire sentenze penali sospese da anni. Addirittura nacquero variopinte leggende, tra le quali, forse non prima di fondamento di verità, quella che narrava che il papa stesso, travestito da eremita si infiltrasse nel Colosseo, da sempre luogo di rifugio dei briganti, per scoprirne gli accampamentni.

Tra i briganti più famosi che imperversarono nelle campagne ricordiamo: Sacripante, Bastinella, Marco Sciarra, che nel 1590, alla testa di 1500 uomini, dei quali 600 a cavallo, invase l'Abruzzo e il Lazio. Per sconfiggerlo occorse un'alleanza tra napoletani, toscani e le forze pontificie. Emise severi provvedimenti anche per i mendici. Fu ugualmente inesorabile con Paolo Giordano Orsini, che aveva ucciso suo nipote Francesco Peretti, sposandone la vedova Vittoria Accoramboni; lo costrinse a fuggire da Roma e probabilmente non fu estraneo alla tragica dei morte dei due. Anche per questo, i romani ebbero a chiamarlo 'er papa tosto'.

Sisto V fu anche il papa che 'riscrisse' la Bibbia. La versione latina della Scrittura, la Vulgata, era opera di san Gerolamo nel IV secolo ed aveva avuto un posto significativo nel corso del Medioevo. Il Concilio di Trento aveva stabilito che la Vulgata era la versione autentica della Bibbia ed essa sola doveva essere usata nei sermoni, discussioni o letture. Purtroppo il lavoro di riporto dei copisti aveva prodotto molti errori e la stampa moltiplicò il numero degli sbagli. Con la Riforma i protestanti produssero la loro personale versione e diventava imperativo che anche i cattolici potessero fruire di un testo affidabile in tutte le discussioni.

Nel 1588 venne presentato a Sisto il testo finale predisposto dalla commissione di studiosi a cui aveva dato l'incarico. Secondo il pontefice c'era troppo lavoro di ricerca, troppe variabili interpretative. Il papa cacciò via dalla stanza il presidente della commissione, il cardinal Carafa, urlando che avrebbe provveduto lui personalmente. In una Bolla di 300 parole dichiarò che lui, il papa, era l'unico soggetto in grado di produrre una 'autentica Bibbia' per la Chiesa. E lo fece. Lavorando giorno e notte (soffriva d'insonnia), operando su di un testo popolare e provvedendo ad aggiunte personali dove gli sembrava fosse opportuno, completò l'opera in circa diciotto mesi. Cambiò radicalmente il sistema di riferimenti. Cambiò i capitoli, che erano stati strutturati abilmente da Roberto Stefano nel 1555 ed erano universalmente adottati. Dimenticò addirittura interi versi e cambiò i titoli dei Salmi. Tutte le vecchie Bibbie e tutti i testi scolastici divennero di colpo obsoleti.

Nel 1590 gli furono presentate le prime copie 'in folio'. «Splendido!» disse il papa, finché non si accorse delle centinaia di errori di stampa. Per non perdere tempo provvide personalmente alla correzione delle bozze (ci mise sei mesi) passandole poi alla stampa, mentre la sua Bolla "Aeternus ille", pubblicata il 1° marzo 1590, era già pronta da tempo e recitava autoritativamente: "Nella pienezza del potere Apostolico, Noi dichiariamo e decretiamo che questa edizione [...] approvata per l'autorità conferitaCi da Dio, deve essere ricevuta e tenuta come vera, legittima, autentica, ed inquestionabile in tutte le discussioni, letture, preghiere, spiegazioni pubbliche e private".

A nessuno era permesso, editore o libraio, di deviare di una virgola da questa finale ed autentica versione della Bibbia latina. Chiunque contravvenisse alla Bolla papale doveva ritenersi automaticamente scomunicato e solo il papa poteva assolverlo. Erano previste anche punizioni materiali e temporali. Verso la metà di aprile furono distribuite copie a cardinali e ambasciatori. Alla morte del papa, soggiunta poco dopo, l'edizione fu immediatamente ritirata: conoscerà la versione definitiva solo con Clemente VIII.

L'assolutismo di Sisto lo portò a scontrarsi anche con i suoi collaboratori più stretti, tra cui Roberto Bellarmino che si vide censurato il primo volume delle "Disputationes de controversiis", ove aveva affermato che il pontefice possiede solo una giurisdizione indiretta sui reggenti del mondo temporale. Il papa rispose che egli poteva, per qualsiasi motivo e comunque gli piacesse, nominare o licenziare chiunque, compresi gli imperatori. Censurò anche il teologo Vittorio per aver osato dire che era giusto disobbedire ad ingiusti ordini di un papa. Lui, Sisto V, mise all'Indice entrambi i libri di questi due 'rinnegati'. I cardinali della Congregazione dell'Indice erano terrificati dal dover dire a sua Santità che entrambi gli autori citati (Bellarmino e Vittorio) basavano i loro scritti su innumerevoli documenti dottrinali di santi e studiosi cattolici. Il Conte Olivares, ambasciatore spagnolo a Roma, scrisse al re Filippo II che i cardinali tenevano la bocca chiusa "per paura che Sisto potesse fargli sentire il duro sapore del suo temperamento e, forse, costringerli a mettere all'Indice persino i santi stessi". Sisto si comportò molto male soprattutto con il gesuita Bellarmino, che aveva cooperato con lui nell'edizione dell'opera completa di Sant'Ambrogio, nel corso della quale il papa aveva ogni volta stravolto il giudizio del suo collaboratore.

Nella sua vasta opera di riordino, combattè anche l'accumulazione dei benefici e delle cariche ecclesiastiche, e le ingerenze delle famiglie aristocratiche. Ma non fece a meno di favorire numerosi parenti, tra cui il (già citato) cardinale-nepote di Montalto Alessandro Peretti, e discendenti. Questi ultimi vennero dotati di ricchi feudi nelle Marche, luogo di origine, nel ferrarese ed anche in polesine: Bagnolo, Castelguglielmo, Canda, Ceneselli, Villafora, Salvaterra, Crocetta, Spizine, Cavalon e Campagnon.

Durante il suo pontificato Sisto si occupò anche di un argomento attualissimo: l'aborto. Se i suoi predecessori avevano mitigato le pene per le donne che interrompevano la gravidanza entro i quaranta giorni dal concepimento, egli stabilì, con la Bolla "Effrenatum" del 1588, che l'aborto era da considerarsi, sempre ed in ogni caso, omicidio e poteva anche essere punito con l'eventuale scomunica papale. I suoi successori adottarono misure meno drastiche. Solo Pio IX, prendendo a modello papa Sisto, inasprì le posizioni.
Sisto V promosse l'attività missionaria in Giappone, in Cina, nelle Filippine e in America latina; si adoperò per la difesa dei missionari, con particolare riferimento ai Gesuiti in Oriente e ai Domenicani e Francescani del Sud America; egli stesso varò riforme aumentando gli aiuti. Sotto il suo regno, inoltre, iniziarono trattative unioniste con i Copti.
Tra i suoi interventi a favore del culto, da ricordare, troviamo l'istituzione della festa della Presentazione della Beata Vergine Maria.
Si interessò personalmente alla controversia baiana sulla grazia e l'ispirazione. Infatti nel 1588si astenne dal giudizio definitivo e vietò ai discepoli di Baio e a coloro che vi si opponevano (specialmente il professore gesuita Lessio di Lovanio che aveva mandato personalmente al pontefice un'apologia delle sue tesi) di censurarsi vicendevolmente.

Nel 1589 autorizzò la presenza di eunuchi nei cori, ma si pronunciò duramente contro coloro che perpetravano questa pratica, ormai divenuta dilagante ed incontenibile.
Con la "Christiana pietas" del 1586 sollevò gli ebrei da molte oppressive restrizioni economiche e sociali imposte loro da Paolo IV e Pio V. Gli Ebrei godranno di ciò per pochi anni, perché nel 1593 Clemente VIII ripristinerà molte leggi precedenti che resteranno in vigore fino al XIX secolo.
Come nella politica interna, allo stesso modo in quella estera, sostenne l'autorità della Chiesa promuovendo un'intelligente politica di equilibrio tra le potenze cattoliche, che allo stesso tempo arrestasse anche la marcia della Riforma protestante, attenendosi in linea di principio, come i suoi predecessori, al sistema medioevale della ierocrazia papale.

Dal 1585 assistette alla cosiddetta Guerra dei tre Enrico (VIII Guerra ugonotta). Il re di Francia Enrico III non aveva figli e, nel 1584, aveva perso suo fratello più giovane: l'intera Europa si chiedeva chi sarebbe stato il futuro re, visto che l'erede più prossimo al trono era il cugino, l'ugonotto Enrico di Navarra. Il cattolico duca Enrico di Guisa aveva dato vita ad una Lega Cattolica, a cui aveva aderito anche il re spagnolo Filippo II, che aveva lo scopo di difendere gli interessi dei cattolici ed escludere i Navarra dalla successione. La Lega nel 1585 aveva costretto il sovrano a firmare il Trattato di Nemours, a favore del Guisa, con il quale si revocavano molte concessioni nei confronti degli ugonotti e a proibire il culto protestante addirittura sotto pena di morte. Inoltre la Lega e la Spagna chiesero al papa di scomunicare l'erede ugonotto, cosa che il papa fece con una bolla del 9 settembre 1585, dichiarandolo eretico recidivo e quindi privato del diritto di successione.

A misure ulteriori contro Enrico e i suoi seguaci, Sisto non si lasciò trascinare successivamente, neppure a seguito di violente pressioni spagnole sui di lui, in questo senso; Filippo infatti, come già una volta gli imperatori svevi, dominava sull'Italia del nord (Milano) e del sud (Napoli e Sicilia) e cercava di asservirsi il papato. In questo Sisto mostrò particolare intuito: Filippo si rivoltò contro i suoi stessi alleati: fece assassinare il duca di Guisa e, tramite un fanatico della Lega, il domenicano Jacques Clément, lo stesso Enrico III. Sisto lo citò, sotto pena di scomunica, davanti al suo tribunale. Ora la corona francese, secondo il diritto ereditario, spettava legittimamente ad Enrico di Navarra.
Ma, su suggerimento spagnolo, in favore dell'opposizione cattolica ad Elisabetta I, promise il finanziamento della spedizione dell''Invencible Armada', proprio nel momento in cui l'Inghilterra conquistava con le nuove flotte navali mezzo mondo e ridimensionava la potenza marinara della Spagna.

Conservò buoni rapporti con Venezia, rinunciando ad ogni rivendicazione giurisdizionale e mitigando le clausole più urtanti della Bolla "In coena Domini"; sulla Serenissima Sisto contava soprattuto per eliminare dal mediterraneo la potenza ottomana.
Ed inoltre non è possibile dimenticare il Sisto V sistematore urbanistico di Roma e grande commisionatore di opere di pubblica utilità e monumenti artistici, per i quali investì enormi somme di denaro. La sua opera di promotore di benessere dell'Urbe portò ad innovazioni veramente magnifiche, aprendo strade lunghe e diritte, pensate per mettere in comunicazione anche visiva luoghi significativi della città, attraverso i fatiscenti quartieri medievali, che ricoprivano gran parte della superficie urbana, radendo al suolo tutto ciò che era d'intralcio ai suoi progetti.
Tra questi senz'altro emerge la sistemazione e il completamento, in soli diciotto mesi, della magnifica cupola della basilica di san Pietro, ultimata nel 1590, per la quale Sisto costrinse squadre di uomini a lavorare giorno e notte.


Sempre a Roma, meno appariscenti ma ugualmente molto significativi furono il restauro di un ponte sul Tevere, che oggi porta il suo nome, e la fondazione di un ospedale; presso san Giovanni fece piazza pulita per erigere i Palazzi Lateranensi, che riprendono lo schema sangallesco di Palazzo Farnese.
L'architetto che meglio attuò il pensiero di Sisto e che realizzò la maggior parte dei suoi intenti artistico-urbanistici fu DOMENICO FONTANA (1543-1607), abile tecnico e grande propagandista del proprio lavoro, capace di realizzare i singoli edifici concependoli per una veduta da lontano che non permette di apprezzare il dettaglio architettonico; ne è esempio il (già citato) Palazzo Laterano.

Nel 1587 Sisto V incaricò il Fontana della costruzione delle fondamenta di una nuova e più ampia sede per la Biblioteca Vaticana. L'edificio, che ospita tuttora la Biblioteca, sorse sulle scale divisorie tra il Cortile del Belvedere e quello attualmente chiamato 'della Pigna'; nel piano più alto si trova la grande aula a due navate, lunga 70 metri e larga 15 che fu destinata a contenere le raccolte; il papa emanò specifiche norme per l'uso e la conservazione delle raccolte. Il salone Sistino, il più vasto e nobile della Biblioteca Vaticana, prende addirittura il suo nome, poichè egli lo edificò ed ornò, cent'anni dopo la fondazione della Biblioteca ad opera di Sisto IV. Le pitture di scuola tardo-cinquecentesca sono un documento prezioso per la cronaca del suo pontificato.

Nel 1587 Sisto acquistò dai Carafa la villa di Monte Cavallo per farne la sede estiva papale. La piccola villa costruita dal Mascarino non era però sufficiente ad accogliere la corte pontificia e a soddisfarne le esigenze di rappresentanza, per questo Sisto affidò al Fontana l'incarico di ampliare l'edificio costruendo una lunga ala verso la piazza e un secondo palazzo su via del Quirinale, così da formare un ampio cortile interno. Sisto si preoccupò inoltre di far sistemare la piazza, provvedendo anche al restauro del gruppo scultoreo dei "Dioscuri" che fu completato con l'aggiunta di una fontana: nasce il Palazzo del Quirinale, poi portato a termine dai pontefici successivi.

Sisto V fu anche artefice dell'Acquedotto che porta il suo nome, dell'Acqua Felice, che giungeva oltre tredici secoli dopo quello dell'imperatore Alessandro Severo realizzato nel 222-226 d.C. e le cui sorgenti si trovavano in località Pantano Borghese, presso Colonna, sulla via Prenestina. L'acquedotto Felice aveva lo scopo di rifornire d'acqua i rioni alti della città, ma anche la magnifica e vastissima Villa Montalto, sul colle Esquilino, da lui acquistata ancora cardinale; un possedimento così vasto che comprendeva il sito dell'odierna stazione ferroviaria di Termini. Il percorso del nuovo acquedotto sarebbe passato proprio accanto alla villa del papa, facendone considerevolmente aumentare il valore, anche perché avrebbe consentito la costruzione di nuove fontane nei suoi giardini. Ciò spiega per quale ragione Sisto ebbe tanta fretta di portare l'acqua a Roma, nel più breve tempo possibile: i lavori presero il via solo pochi giorni dopo la sua elezione. Ma nonostante il nome così beneaugurante, l'opera non nacque sotto i migliori auspici. Come prima cosa, forse a causa di una progettazione troppo precipitosa, l'architetto incaricato, Matteo Bartolani, (anche noto come Matteo di Castello, perchè nativo della cittadina umbra), pur aiutato da una commissione di esperti, non riuscì ad evitare un errore nel calcolo dell'altezza dei nuovi viadotti che avrebbero dovuto integrare le antiche rovine: così l'acqua, che inizialmente scorreva dalle sorgenti originali verso Roma, a un certo punto cominciò a refluire all'indietro. Il papa, furioso per aver perso tempo e denaro, nominò un diverso architetto, Giovanni Fontana, il quale riuscì a trovare altre sorgenti vicine alle precedenti, ma ad un'altezza leggermente superiore, quanto bastava per permettere all'acqua di raggiungere la città. La traiettoria dell'Acqua Felice era praticamente la stessa dell'Aqua Marcia e dell'Aqua Claudia, dalle cui rovine fu prelevata una gran quantità di materiali da costruzione. Dopo i lavori di Sisto V non rimase nulla dell'Aqua Marcia, mentre le parti ancora stabili dell'Aqua Claudia vennero anche usate come supporto per il nuovo dotto: in alcuni punti l'Acqua Felice venne edificata a ridosso della struttura romana antica, chiaramente distinguibile perché più alta di quella tardo-rinascimentale. L'impresa si concluse in due anni e il nuovo acquedotto potè essere inaugurato il 15 giugno 1587.

Nello stesso anno Sisto fece realizzare un'importante fontana, tutta in travertino, ad opera di Domenico e Giovanni Fontana, presso le rovine dellle Terme di Diocleziano. Sotto una grande iscrizione che ricorda la costruzione dell'acquedotto da parte del papa, tre alte nicchie sono divise da colonne; quella centrale è occupata dalla possente figura di Mosè, opera di Leonardo Sormani e Prospero Antichi. Una volta posta in sito, però, la statua si rivelò alquanto tozza e sproporzionata; il popolo romano, abituato ad opere d'arte assai migliori di questa, fu fortemente critico nei suoi confronti, deridendola col nome di 'Mosè ridicolo'.

Alle pesanti critiche, si aggiunse anche Pasquino con una delle sue pasquinate: "Guarda con occhio torvo l'acqua che sgorga ai pie' pensando inorridito al danno che a lui fe' uno scultor stordito". Il rilievo della nicchia sinistra raffigura Aronne che guida il popolo ebreo a dissetarsi, opera di Giovan Battista Della Porta; nella nicchia di destra vi è il rilievo di Giosuè che fa attraversare agli ebrei il Giordano asciutto, opera di Flaminio Vacca e Pietro Paolo Olivieri, autori anche del fregio con lo stemma di Sisto V fra due angeli.
Dei molti obelischi che sono presenti nella capitale alcuni furono innalzati durante il pontificato di papa Peretti. Tolti dall'oblio dei secoli, dopo che erano stati abbattuti dalla furia e dall'ignoranza dei barbari prima e dei cristiani poi, questo pontefice, sfruttò quel misto di devozione e superstizione di cui è intessuta la religione cattolica di questo periodo.

L'obelisco in piazza san Pietro proviene da Eliopoli e fu portato a Roma da Caligola; è posato sul dorso di quattro leoni di bronzo tra due grandiose fontane. L'obelisco in Laterano (il più alto, 31 m., e il più antico), fu portato da Tebe a Roma, con una nave appositamente costruita da Costante II che lo volle come decorazione del Circo Massimo nel 357 d.C. Anche l'obelisco Flaminio decorava il Circo Massimo, ma proviene da Eliopoli dove sorgeva davanti al tempio del Sole: è il secondo più antico di Roma. L'obelisco di piazza dell'Esquilino invece fu costruito a Roma ed originariamente posto fuori al Mausoleo di Augusto, in seguito restaurato e sito di fronte la basilica di santa Maria Maggiore.

Eppure questo papa 'tosto', così duro con gli uomini fu molto tenero con il suo paese d'adozione, Montalto Marche: vi fondò un Ginnasio, assegnò una dote alle zitelle povere, donò a questo paese un reliquiario che era appartenuto a Paolo II. Nel 1586 la onorò rivestendola del titolo di 'città', la rese diocesi e capoluogo dell'omonimo residiato. Ma non fu altrettanto generoso con il borgo che lo aveva visto nascere: alle Grotte si limitò ad offrire mille scudi e due posti nel collegio Montalto di Bologna. Iniziò la costruzione della chiesa di santa Lucia che fu completata dopo la sua morte per volere della sorella Camilla, con l'aiuto economico di mille scudi offerti da Clemente VIII.
Messo alla prova duramente dagli impegni del suo pontificato, Sisto V venne piegato però soltanto dalla malaria: incurante delle prescrizioni dei medici, vuole curarsi con il vino, secondo l'uso popolare, ma morì stremato dalla febbre il 27 agosto 1590, nel palazzo del Quirinale. I romani, alla notizia della sua morte, accolta quasi come una liberazione, tentarono di distruggere la sua statua eretta in Campidoglio: per tale ragione fu poi emanata una legge che proibiva di dedicare statue ai papi viventi.

Il suo cuore fu portato nella chiesa dei santi Vincenzo ed Anastasio, sotto il Quirinale; la salma in san Pietro, da cui fu traslata, l'anno seguente, per volontà del cardinale Peretti, in santa Maria Maggiore, presso la cappella del Santissimo Sacramento, dove si trova ancora oggi.

Ci piace concludere con una delle leggende, narrate sulla figura di questo insolito pontefice, che hanno ispirato i Sonetti del poeta Gioacchino Belli. Questo è forse uno dei racconti più celebri, a proposito del suo scetticismo verso i miracoli.

Un giorno a Roma si sparse la notizia che in un fondo, appena fuori città un'immagine lignea di Cristo aveva preso a trasudare sangue. Il luogo divenne presto meta di folle di persone, e di ciò il proprietario del terreno ne ricavava un ottimo introito. La notizia giunse alle orecchie del papa, così anch'egli si recò a prenderne visione. Dopo che l'immagine prodigiosa gli fu mostrata, Sisto V si fece portare un'ascia, e profferendo le parole "come Cristo ti adoro; come legno ti spacco", mollò un violento fendente sulla statua, mandandola in pezzi. All'interno vi si trovò una spugna imbevuta di sangue animale, e una corda che, tirata, strizzava la spugna, e quindi faceva sanguinare la statua. Il proprietario del fondo fu portato a Roma, e giustiziato. Da questa storiella nacque il detto più famoso: 'papa Sisto non la perdonò neppure a Cristo!'.

 
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