_____________________________________________________________________________

CAPITOLO QUINTO
Per la storia naturale
della morale

 

186.
Il sentimento morale é presentemente in Europa altrettanto fine, tardo, molteplice, irritabile, raffinato, quanto la "scienza della morale" é ancor giovane, principiante, goffa e grossolana; -- un contrasto attraente, il quale alle volte si manifesta anche nella persona dello stesso moralista.
Già il titolo "scienza della morale" è per riguardo a ciò che vuole significare troppo presuntuoso e contrario al buon gusto ; il quale ha una preferenza per le espressioni più modeste.
Si dovrebbe avere il coraggio di confessare che cosa ci abbisognerà ancora per molto tempo, quella sola cosa che provvisoriamente ha un diritto d'essere; vale a dire, raccogliere il materiale, riunire i concetti, coordinare tutto un mondo sterminato di sentimenti delicati, di differenziazioni di valore, i quali vivono, crescono, generano, e periscono, - e, forse, tentare di rendere intelligibili le forme rinnovantisi e più frequenti di questa cristallizzazione vivente, - quale preparazione ad una dottrina dei tipi della morale. È ben vero, che finora non si fu tanto modesti.
I filosofi senza eccezione pretesero sempre da se stessi con una gravità che muove al riso, alcunché di molto più elevato, di più solenne, non appena dovevano occuparsi della morale quale scienza; essi volevano stabilire le fondamenta della morale, e tutti ritennero per fermo d'esserci riusciti; ma la morale per sé si riguardava come cosa « data ». Quanto era lontano dal loro goffo orgoglio il compito, in apparenza insignificante e inconcludente, di una semplice descrizione, per quanto già un tale compito richiedesse delle mani e dei sensi ineffabilmente delicati! Appunto
perciò che i filosofi della morale non conoscevano i « facta » morali che solo grossolanamente in un compendio arbitrario oppure quale un'abbreviazione casuale, per esempio, quale moralità del loro ambiente, della loro classe, della loro chiesa, dello spirito dei tempi in cui vissero, dei loro clima e dei loro paese - precisamente per ciò ch'erano male informati e poco loro importava d'esser bene informati sul conto delle nazioni, delle epoche, della storia dei tempi passati, essi non ebbero mai occasione di trovarsi faccia a faccia con i veri problemi della morale; i quali sorgono unicamente dal raffronto di molte morali. Nella cosiddetta « scienza della morale » mancava precisamente, per quanto ciò possa sembrare strano, il problema stesso della morale; e non ci aveva nemmeno il sospetto dell'esistenza d'alcunché di problematico.

Ciò che i filosofi chiamano « fondamento della morale » e ciò che pretendevano da sé stessi, non era, visto nella sua vera luce, che una forma sapiente della buona fede nella morale dominante, un nuovo mezzo di esprimere questa morale, dunque uno stato di fatti nei limiti d'una moralità determinata od anche, in ultima analisi, una specie di negazione, che una tale morale potesse venir concepita quale problema; - ed in ogni caso il contrario di una disamina, di un'analisi, di una contestazione, di una vivisezione di codesta buona fede! Si senta un po' con quale ingenuità quasi degna d'ammirazione lo stesso Schopenhauer ci presenta il proprio compito, e si traggano conclusioni sui metodi scientifici di una « scienza » i cui più recenti maestri parlano ancora il linguaggio dei bambini e delle donnicciole: « il principio » ; egli dice (pag. 137 dei Problemi fondamentali dell'etica) : il « principio » intorno al quale tutti gli etici sono veramente d'accordo, suona: neminem laede, immo omnes, quantum potes juva ». « Questa é propriamente la tesi, che tutti i moralisti si affaticano a dimostrare... il vero fondamento dell'etica, che, come la pietra filosofale, da secoli si ricerca ».
La difficoltà di dimostrare questa tesi é certamente grande. - Come si sa nemmeno Schopenhauer ci é riuscito; e chi ha sentito profondamente ed intimamente quanto é assurdamente falsa e sentimentale una simile tesi in un mondo, la cui essenza è la volontà della dominazione - e bene si tenga presente, che Schopenhauer, benché pessimista, era anzitutto suonatore di flauto... Lo suonava tutti i giorni, dopo il pranzo: si consulti in proposito il suo biografo. E tanto per domandare: un pessimista, uno che rinnega Dio ed il mondo, che si arresta dinanzi alla morale, che afferma l'esistenza della morale e suona il flauto alla morale laede neminem é costui proprio un pessimista?

187.
Anche lasciando in disparte il valore di certe affermazioni, come per es. «esiste in noi un imperativo categorico », é lecito ancor sempre di chiedere che cosa una tale affermazione possa farci ritenere della persona che afferma?
Vi sono delle morali che hanno il compito di giustificare il loro autore agli occhi degli altri; altre morali hanno il compito di tranquillizzarlo e renderlo soddisfatto; in altre l'autore tende a crocifiggere sé stesso, ad umiliarsi; altre servono a scopi di vendetta, altre per nascondersi, altre ancora per esaltare se stessi, per elevarsi al disopra degli altri.
Talvolta la morale serve al suo autore per dimenticare, talaltra per far dimenticare sé stesso od una parte di sé stesso; alcuni moralisti vorrebbero sfogare sull'umanità il loro desiderio di dominazione, i propri capricci creatori ; altri, tra i quali forse anche Kant, danno ad intendere con la loro morale « ciò che in me é rispettabile, si é che io so obbedire, e voi dovete fare altrettanto! » - in breve, anche le morali non sono altro che il linguaggio figurato delle passioni.

188.
Ogni, morale é in opposizione al laisser aller, una specie di tirannia contro la « natura » ed anche contro la « ragione » ; ma ciò non può servire ancora d'obiezione contro la medesima, se tutt'al più non si dovesse inventare un'altra morale che decretasse ogni tirannia e irragionevolezza essere illecita.
Il pregio essenziale di ogni morale è di esercitare una lunga costrizione: per comprendere lo stoicismo, il Port-Royal od il puritanesimo, basta rammentare la costrizione che ha reso possibile alle lingue di diventar forti e libere, -- la costrizione del
metro, le tirannia delle rime e del ritmo. Quanto hanno dovuto sudare i poeti e gli oratori di tutti i popoli! - non eccettuando alcuni scrittori di prose dei giorni nostri, dell'orecchio coscienzioso, - e tutto ciò per « una sciocchezza » come dicono alcuni imbecilli utilitari, che con ciò vogliono farsi credere persone di senno - « per soggezione e leggi arbitrarie » come dicono gli anarchici, che con ciò vogliono dimostrare le loro « libertà di spirito ».

Ma il fatto curioso sta in ciò che tutto quello che vi è sulla terra di libero, di fine, d'ardito, la danza, la maestria sicura tanto nel pensare, che nell'arte del governatore, del perorare o del persuadere, sia nell'arte che nei costumi si é sviluppato precisamente in forza della « tirannia » di simili « leggi arbitrarie » e, detto sul serio, c'è molte probabilità di ritenere, che proprio in ciò consiste la « natura » ed il « naturale », anziché nel « laisser aller ». Ogni artista sa che il suo stato « naturale » si trova ben lungi dal sentimento di laisser aller: questo naturale che consiste nell'ordinare, nel porre, nel disporre, nel formare liberamente, nei momenti di « ispirazione », - ed é allora ch'egli obbedisce severamente e finemente a leggi multiple che respingono qualsiasi riduzione in formule, con nozione, in causa delle loro stesse durezze e precisione (anche il concetto il più determinato di fronte ed esse diventa alcunché confuso, di molteplice, di interpretabile in veri sensi).

L'essenziale « in cielo e sulla terra» é, a quanto pare, diciamolo ancora una volta, che si obbedisca a lungo e nello stesso senso: ne risulta a lungo andare sempre qualche cosa per cui vale la pena di vivere, per esempio le virtù, l'arte, la musica, la danza, la regione, le spiritualità qualche cose insomma di trasfigurante, di raffinato, di folle e di divino. Il lungo esservimento dello spirito, le coazione delle diffidenze nel comunicare i propri pensieri, il freno impostosi del pensatore di formulare i propri pensieri - tre le pastoie delle Chiese e delle corti o di adattarli elle premesse aristoteliche, le lunga volontà dello spirito d'interpretare tutto ciò che avviene secondo uno schema cristiano e di scoprirvi le meno di Dio, di giustificare le sue presenze in ogni avvenimento casuale, quanto vi è in ciò di violento, d'arbitrario, di duro, di orribile, di irragionevole si è dimostrato essere il mezzo per cui allo spirito europeo fu innestata le sue forze le sue curiosità senza riguardi, le sue fine mobilità, quantunque con ciò sia andata perdute une quantità irreparabile di forze e di spirito (giacché pur qui come dovunque e sempre la natura si manifesta per quello che é, vale a dire di una grandiosità prodiga e indifferente, la quale muove a sdegno, me é une prerogativa aristocratica). Se per millenni interi i pensatori europei non s'industriarono che e provare -- oggi, all'incontro, é sospetto ogni pensatore che volesse provare qualcosa una cosa che di già ritenevano per sicure, e che doveva figurare d'essere il resultato delle loro serie meditazioni come in altri tempi si usava nell'astrologia asiatica e nello stesso modo che ancor oggidì si suol dare un'interpretazione cristiano-morale « in onore di Dio » e per le « salute dell'anima » ai più comuni avvenimenti personali: quelle tirannia, quell'arbitrio, quelle stoltezze rigorose e grandiosa hanno educato lo spirito; la schiavitù, e quanto pare, tentò agli intelletti grossolani quanto ai più delicati, serve necessariamente quale mezzo di disciplina spirituale. Da questo punto di vista bisogna considerare ogni morale: la natura è quella che in lei rende odioso il laisser aller, la sorvechia libertà, e crea il bisogno di orizzonti angusti, di compiti alla mano - che restringe la prospettiva ed in certo quel modo insegna essere l'ignoranza una condizione necessaria della vita del suo sviluppo.

« Tu devi obbedire a chicchessia, ed a lungo: altrimenti tu perirai e perderai ogni stime di te stesso » questo mi sembra essere l'imperativo morale della natura, il quale e vero dire non é né categorico come pretendeva il vecchio Kant (onde l' « altrimenti ») né è diretto al singolo, individuo (che importa mai alla natura dell'individuo singolo!), bensì ai popoli, alle razze, alle classi, ma anzitutto all'animale nominato « uomo », all'umanità.

189.
Le razze lavoratrici durano molte pena e rimaner oziose: fu un colpo da maestro quello dell'istinto inglese che rese la domenica talmente sacra al riposo e noiose, da invogliare l'inglese, senza che sappia rendersene ragione, e desiderare il ritorno delle giornate di lavoro: une specie di digiuno saggiamente escogitato e interpolato, come di simili esempi se ne trova ab
bondantemente anche nel mondo antico (seppure, come e ben giusto, nei popoli meridionali un tale digiuno non abbia soltanto attinenza al lavoro). È necessario ci siano digiuni di varie specie; e dovunque predominano stimoli ed abitudini potenti, i legislatori devono provvedere perché siano interpolate certe giornate, nelle quali cotali impulsi si mettono alla catena ed imparano a conoscere la fame.
Da un punto di vista più elevato, intere generazioni ed epoche, allorquando si presentano affette da un qualche fanatismo morale, rassomigliano a delle quaresime forzate ed interpolate, durante le quali un singolo impulso apprende a rannicchiarsi e ad assoggettarsi. Ma in pari tempo si purifica e si acuisce. Anche alcune sette filosofiche (per es. la Stoa in mezzo alla civiltà ellenica e la sua atmosfera esuberantemente impregnata di effluvi lascivi) permettono d'essere similmente interpretate. - In ciò si trova anche un principio di spiegazione del paradosso, che precisamente nel periodo maggiormente cristiano dell'Europa ed in generale sotto l'oppressione delle valutazioni cristiane solamente, l'istinto sessuale s'è sublimato sino a diventar, l'amore (Amour-passion).

190.
Vi è qualche cosa nella morale di Platone, che non può dirsi appartenga a Platone, ma vi si trova soltanto, per così dire, quasi suo malgrado, vale a dire il Socratismo, per il quale egli era in fondo troppo aristocratico. "Nessuno intende recar danno a se stesso, perciò tutto il male avviene involontariamente. Il cattivo reca danno a se stesso, egli non farebbe ciò se sapesse che il cattivo é cattivo. Di conseguenza il malvagio non e malvagio che per errore ; toglietegli codesto errore, ed egli necessariamente diverrà - buono ».
Un tale modo di concludere puzza di plebe, la quale nel male che si commette altro non vede che le conseguenze che ne derivano, ed in fondo giudica « che è cosa da sciocchi l'operar male » mentre il bene, per lei, s'identifica senz'altro con l' « utile » e col « dilettevole ». Ogni utilitarismo nella morale ha la stessa origine; si prenda ciò per massima e di rado si sbaglierà. - Platone ha fatto quanto stava in lui per rendere possibile una interpretazione delicata ed aristocratica della tesi del suo maestro e ci si è messo con tutto l'impegno, - lui, il più audace di tutti gli interpreti, il quale ha raccolto, per così dire, Socrate dalla pubblica via, come si raccoglie un animale curioso o una canzone popolare, per variarla all'infinito ed all'impossibile: vale a dire sotto tutti i propri punti di vista ed in tutta la propria molteplicità.

191.
L'antico problema teologico della « fede » e della « scienza - oppure, per esprimerci più chiaramente, dell'istinto e della ragione - dunque la questione se nel giudicare il valore delle cose l'istinto meriti maggiore autorità della ragione, la quale esige che si valuti e si agisca secondo motivi, secondo un perché, dunque secondo l'opportunità e l'utilità, - é sempre ancora lo stesso antico problema morale che s'impersonò per la prima volta in Socrate, e molto tempo prima il Cristianesimo ha diviso gli spiriti. Socrate, a vero dire, assecondando il gusto del proprio ingegno - che era quello di un dialettico superiore -- si era schierato dal lato della ragione ; e, difatti, che cosa ha egli mai fatto in tutta la sua vita senonché beffarsi della goffa incapacità dei suoi aristocratici ateniesi, i quali erano uomini d'istinto al pari di tutti gli individui aristocratici e non si trovavano mai in caso di dare una spiegazione soddisfacente circa ai motivi delle loro azioni?
Da ultimo però, segretamente , rideva anche di se stesso : trovava in se, nel tu a tu colla propria coscienza, le medesime difficoltà, la stessa incapacità. Che bisogno c'è mai, così tentava di persuadere, sé stesso, svincolarsi per questo dagli istinti! Essi devono avere i propri diritti, ed anche la ragione i suoi - bisogna obbedire agli istinti, ma persuadere la ragione ad appoggiarli coi buoni argomenti. In ciò consisteva la vera doppiezza di quel grande ironico misterioso: egli ridusse la propria coscienza ad assuefarsi ad una specie di volontario inganno di se stessa; in fondo egli aveva intraveduto quanto vi era d'irrazionale del giudizio morale. -- Platone, in simili cose più ingenuo e privo dell'astuzia dei plebeo, volle dimostrare a sé stesso col più potente
sforzo di cui era capace - il massimo, di cui sinora possa vantarsi un filosofo - che la ragione e l'istinto tendevano spontaneamente al medesimo scopo, al bene, a «Dio » e dopo Platone tutti i teologi e tutti i filosofi battono la stessa strada: cioè, nelle cose della morale l'istinto, o, come l'appellano i Cristiani, la « fede », o, come dico io, il « gregge » ha trionfato fino ad oggi. Bisognerebbe fare un'eccezione per Cartesio, il padre del razionalismo (e per conseguenza l'avo della rivoluzione), il quale non riconobbe altra autorità che dalla ragione; ma la ragione non é che uno strumento, e Cartesio era superficiale.

192.
Chi ha tenuto dietro alla storia d'una singola scienza, troverà nello sviluppo della medesima il filo conduttore per comprendere i procedimenti più antichi e più comuni di una « scienza » e « conoscenza » : là e qui si sviluppano dapprima le ipotesi azzardate, le finzioni, la volontà scioccamente cieca di « credere », la mancanza di diffidenza e di pazienza; i nostri sensi troppo tardi e forse mai completamente apprendono ad essere degli organi fini, fedeli e circospetti della conoscenza. Torna più comodo all'occhio nostro di riprodurre, non appena se ne presenti il motivo, un'immagine più volte riprodotta, anziché ritenere una nuova impressione: ciò esige una forza, una « moralità » maggiore.
Udire qualche cosa di nuovo riesce penoso e difficile all'orecchio; difficilmente riteniamo una musica nuova. Involontariamente quando sentiamo parlare in un linguaggio a noi nuovo, ci proviamo a rivestire i suoni uditi di parole a noi note; così per esempio, in altri tempi in tedesco dalla parola « arcubalista » da lui udita, formò la parola « Armbrust » (Arm = braccio - Brust = petto). II nuovo trova anche i nostri sensi renitenti ed avversi; ed oltre ciò predominano anche nei più semplici procedimenti sensuali gli effetti, come la paura, l'amore, l'odio, compresivi quelli passivi dell'inerzia. Chi é che oggidì legga tutte le singole parole o (meglio ancora le sillabe) d'un foglio stampato? - Su venti parole ne ritiene a caso forse cinque ed indovina il loro nesso con le altre nello stesso modo che noi mai vediamo esattamente e completamente un albero tutto intero, con le sue foglie, i suoi rami, il suo colore, la sua forma; ci riesce tanto più facile ad immaginarci un albero così all'incirca!

Persino nelle avventure più strane che ci occorrono noi procediamo similmente; noi inventiamo in massima parte l'avventura, ed è cosa ben difficile l'obbligarci a non assistere in qualità d'inventori ad un dato avvenimento. Tutto ciò significa: noi siamo in fondo avvezzi, sin dai tempi più remoti a mentire. Oppure per esprimerci più virtuosamente o gesuiticamente, insomma più amabilmente, siamo più artisti di quanto possa sembrare. Talvolta, conversando con una persona, la fisionomia di questa assume un'espressione così precisa e determinata a seconda del pensiero ch'essa esprime o che io credo d'averle suggerito, che codesta espressione sorpassa di gran lunga la mia forza visiva: -- la finezza delle contrazioni muscolari e della espressione dell'occhio devono essere quindi una mia immaginazione. Probabilmente in questi momenti la fisionomia di quella data persona esprimeva tutt'altra cosa e forse anche nulla affatto.

193.
Quidquid luce fuit, tenebris agit; ma anche viceversa. Ciò che noi proviamo nel sogno, ammesso che lo proviamo di frequente, finisce coll'appartenere all'economia della nostra anima allo stesso modo, come le cose che abbiamo « realmente » provate: il nostro sogno ci arricchisce o ci rende più poveri, ci procura un bisogno di più o di meno e finiamo con l'essere un poco lo zimbello dei nostri sogni anche nei momenti più sereni della nostra mente completamente desta.
Supposto che uno sogni molto spesso di volare e che quando sogna si prevalga della sua forza e della sua abilità nel volare come d'una prerogativa sua propria, ed anche d'una sua fortuna speciale degna d'invidia; che creda poter descrivere, mercé un leggerissimo impulso, ogni specie di circoli e di angoli, e conosca la sensazione di una leggerezza quasi divina, un potersi innalzare senza tensione di muscoli, senza sforzi, un calarsi dall'alto
senza provare un'oppressione avvilente - sfidando la legge della gravità - come mai colui, che nei suoi sogni ha fatto tali esperienze, contratto simili abitudini, non dovrebbe, anche quant'è ben testo, attribuire un colorito, un significato ben diverso alla parola « felicità », come mai non dovrebbe desiderare una felicità - differente? Persino l'« elevarsi» dei poeti in confronto al suo « volare » deve sembrargli qualche cosa ti troppo terrestre, di troppo muscolare, violento, di troppo pesante ».

194.
La diversità degli uomini si dimostra non solamente nella diversità delle loro categorie dei beni desiderabili o nell'essere discordi a proposito del maggior o minor valore, della classificazione dei beni comunemente riconosciuti come tali ; essa si dimostra ancor maggiormente per il valore che essi attribuiscono al possesso di un bene. Riguardo alla donna, per esempio, un uomo modesto sarà soddisfatto col possesso del suo corpo e col godimento sessuale, come segni sufficienti ch'egli ne è il vero proprietario : un altro nel suo desiderio più sospettoso e più esigente vede l' incertezza et il lato illusorio di una tal proprietà e vuol delle prove più convincenti; egli vuol sapere innanzi tutto, non solo se la donna si dà a lui, ma anche se essa rinuncia in suo favore a ciò che ha o a ciò che vorrebbe avere : solo allora essa sembrerà « posseduta ».
Ma un terzo anche con questo non è ancora giunto all'estremo limite della sua diffidenza e del suo desiderio di possesso, e domanda a sé stesso, se la donna, abbandonando ogni cosa per lui, non lo faccia forse per un dato concetto, che essa di lui si è formata: egli vuole anzitutto farsi conoscer bene nel suo interno, per poter essere amato, egli osa lasciarsi indovinare. - Allora soltanto sente il completo possesso della donna amata, quando questa non può più ingannarsi sul di lui conto, quanto essa lo ama, per i suoi istinti diabolici, per la sua nascosta insaziabilità, come lo avrebbe amato per la sua bontà, per la sua virtù, per la sua intelligenza. Taluno vorrebbe possedere un popolo; et a tal uopo ricorre a tutte le arti di Cagliostro e di Catilina. Un altro in cui la sete di possesso é più raffinata, dice a sé stesso « non è lecito ingannare quando si vuole possedere » - egli si sente indispettito et impaziente all'idea che una maschera di lui imperi nel cuore del suo popolo: « dunque è necessario che io mi
faccia conoscere et anzitutto conosca me stesso! »

Negli uomini soccorrevoli e benevoli si riscontra quasi sempre la goffa astuzia di adattare ai propri desideri l'individuo che si deve soccorrere; col chiedersi, per esempio, se egli « meriti il loro soccorso, se proprio da loro debba attendersi un soccorso, se, per il soccorso ottenuto saprà mostrarsi riconoscente, affezionato, sottomesso ». -- Con simili fantasie essi predispongono di chi ha bisogno come di una cosa che si possiede, come in fondo appunto la brama del possesso li rende soccorrevoli e benefici. Si mostrano gelosi, quanto nel fare il bene temono di esser prevenuti da un altro. I genitori involontariamente tendono a formare i figli a loro immagine e chiamano ciò « educazione » ; - nessuna madre dubita in fondo al suo cuore, che l'essere da lei partorito non le appartenga, nessun padre si lascia togliere il diritto di assoggettarlo ai suoi concetti et alle sue valutazioni. Si, ci fu persino un tempo, in cui ai genitori sembrava più che giusto di disporre a loro beneplacito della vita e della morte dei neonati (come presso gli antichi Germani). E come il padre, anche il maestro, la casta, il prete, il principe scorgono in ogni uomo che sorge una nuova occasione di naturale possesso. Di conseguenza....

195.
I Giudei - popolo « nato ad essere schiavo », come afferma Tacito e con lui il monto antico, « il popolo eletto tra i popoli », come dicono e credono essi stessi - i Giudei hanno reso possibile l'opera miracolosa dell' invertimento dei valori, mercé la quale la vita sulla terra ha acquistato per un paio di millenni una nuova attrattiva pericolosa: i loro profeti hanno fuso in un unico significato gli attributi « ricco », « empio », « cattivo », « violento » , « sensuale », e alla parola « mondo » hanno attribuito per i primi un significato obbrobrioso.
In tale invertimento dei valori (mercè il quale la parola « povero » diventa sinonimo di « santo » o di « amico ») consiste l'importanza del popolo giudeo: con lui s'inizia l' « insurrezione degli schiavi nella morale ».

196.
Dobbiamo credere che vicino al sole esistano degli innumerevoli corpi oscuri, - dei corpi che noi mai vedremo. Questa è, sia detto tra noi, una similitudine: e per il psicologo-moralista il linguaggio degli astri non rappresenta che un linguaggio simbolico e geroglifico che permette di sottintendere molte cose.

197.
Ci s'inganna profondamente sull'animale da preda e sull'uomo da preda (per esempio su Cesare Borgia), ci s'inganna sulla « natura » fino a tanto che si cerca un'inclinazione morbosa od anche un inferno innato nel fondo di tutte queste manifestazioni mostruose e tropicali, le più sane che esistano: come hanno fatto fino ad ora i moralisti.
A quanto sembra i moralisti provano un odio potente contro le foreste vergini e contro i tropici! E ritengono per fermo che l'« uomo dei tropici » debba essere screditato ad ogni costo, sia additandolo quale fenomeno morboso, sia quale tipo dell'uomo degenerato, sia quale demonio, tormentatore di se stesso ! E perchè ciò? in favore delle « zone temperate »? In favore degli uomini moderati? degli uomini morali? dei mediocri? - Un contributo al capitolo: La morale sotto la forma della paura.

198.
Tutte codeste morali, che s'indirizzano al singolo individuo, allo scopo - affermano - di procurare la sua « felicità », in fondo che cosa sono se non dei consigli sul modo di contenersi secondo il grado della pericolosità dei rapporti dell' individuo con sé stesso? Ricette contro le sue passioni, contro le sue inclinazioni buone e cattive, quando queste abbiano la volontà di dominare e di far da padrone; giudici più o meno assennati, artifici che sentono l'odore di stantio dei vecchi rimedi casalinghi e della sapienza delle donnicciole : tutti insieme barocchi ed irragionevoli nella forma - perché vogliono indirizzarsi all' « università », - perché vogliono generalizzare dove non é lecito generalizzare -, tutti insieme parlando incondizionatamente, atteggiandosi od incondizionati, tutti conditi non di un solo grano di sale, ma appena sopportabili e talvolta anche allettanti quando contengono droghe piccanti in quantità e mandano un odore pericoloso, specialmente del « mondo di là tutto ciò misurato con l'intelletto vale ben poca cosa, e non può chiamarsi peranco « scienza », ancor meno « sapienza », bensì diciamolo e ripetiamolo, giudiziosità, giudiziosità, giudiziosità congiunta ad imbecillità, imbecillità, imbecillità, -- si tratti dell'indifferenza o della freddezza marmorea della statua contro l'ardente follia delle passioni, che gli stoici consigliarono quale mezzo di guarigione; oppure nel non ridere e non piangere di Spinoza che propugnava la distruzione delle passioni mediante l'analisi e la vivisezione delle medesime; si tratti infine dell'abbassamento delle passioni ad un livello innocuo che permetta di soddisfarle, l'aristotelismo della morale; oppure della morale quale soddisfacimento delle passioni col diluirle e renderle spirituali per mezzo del simbolismo dell'arte, per esempio della musica, oppure per mezzo dell'amore di Dio o dell'amore dell'uomo per amor di Dio - giacché anche nella religione le passioni hanno il diritto di cittadinanza, purché.... o si tratti persino di darci facilmente e capricciosamente in braccio alle passioni, come hanno insegnato Hafiz e Goethe, dell'ardito rallentamento delle redini, della "licentia morum" corporale e spirituale in certi casi eccezionali di vecchi originali di buon senso o di ubriaconi nei quali il « pericolo é minimo ».
Anche ciò quale contributo alla « morale sotto forma della paura ».

199.
Siccome in ogni tempo, da quando gli uomini esistono, ci sono stati anche branchi di uomini (relazioni sessuali, comunità, stirpi, popoli, stati, chiese) e c'è sempre stato un numero stragrande di obbedienti in proporzione ai pochi che comandano, siccome l'obbedienza é stata esercitata più facilmente e più a lungo tra gli uomini, si può ammettere a buon diritto che in media presentemente in ognuno é per così dire innato il bisogno dell'obbedienza, quasi fosse una specie di coscienza formale, la
quale impone: tu devi fare qualche cosa incondizionatamente, devi tralasciare di fare qualche cosa incondizionatamente, in breve « tu devi ». L'uomo cerca di soddisfare un tal bisogno e di dargli una materia. Per giungere a ciò egli assorbe la misura della sua forza, della sua impazienza, della sua tensione, senza alcuna scelta, con appetito grossolano, tutto ciò che gli viene suggerito da chicchessia comandi - dai genitori, dai maestri, dalle leggi, dai pregiudizi di classe, dalla pubblica opinione. La strana limitatezza dello sviluppo dell'uomo, l'esitazione, le lungaggini, il retrocedere, lo aggirarsi entro un circolo vizioso che accompagnano un tale sviluppo, tutto ciò trova la sua spiegazione nel fatto che l'istinto dell'obbedienza si trasmette ereditariamente, meglio di ogni altro e a tutte spese dell'arte di comandare. Si immagini questo istinto progredente sino alle sue ultime conseguenze, e si comprenderà che alla fine mancheranno gli individui dominatori ed indipendenti; oppure questi ultimi saranno travagliati internamente dalla coscienza malsicura e sentiranno il bisogno di farsi certe illusioni, per poter comandare dimodoché anch'essi non faranno che obbedire a quelle tali illusioni. Questo statu di cose sussiste oggi di fatto in Europa: io lo chiamo l'ipocrisia murale dei dominanti. Essi non sanno altrimenti scagionarsi dinanzi alla propria cattiva coscienza che spacciandosi per esecutori di ordini antichi e provenienti dall'alto (dagli antenati, dalla costituzione, dal diritto delle leggi e persino da Dio), oppure prendono a prestito dal modo di pensare delle gregge le loro massime, vantandosi per esempio d'essere i « primi servi del loro popolo » oppure gli « strumenti del benessere pubblico ». D'altra parte l'uomo aggregato oggi si dà l'apparenza d'essere l'unica specie d'uomo che sia permessa e glorifica le proprie qualità, mercé le quali egli è sottomesso, socievole e utile al suo branco come se queste fossero le uniche virtù veramente umane: sicché socievolezza, benevolenza, riguardo, diligenza, sobrietà, modestia, indulgenza, compassione. In certi casi però, nei quali non si crede di poter far a meno di un montone che serva di guida, oggidì si fanno tentativi su tentativi per sostituire i veri dominatori sommando insieme un certo numero di uomini aggregati dei più assennati: tale origine hanno per esempio tutte le costituzioni rappresentative.
Quale beneficio, quale redenzione da un'oppressione divenuta insopportabile sia malgrado tutto ciò per le gregge umane europee l'apparizione di un individuo che comandi incondizionatamente, lo prova l'effetto prodotto dalla comparsa di Napoleone, l'ultima grande testimonianza del mio asserto: -- la storia dell'influenza di Napoleone é, potrebbe dirsi, la storia della maggior fortuna, che abbia raggiunto il nostro secolo nei suoi uomini e nei suoi momenti più preziosi.

200.
L'uomo d' un'epoca di dissoluzione, la quale confonde tra di loro razze, portando in sé l'eredità di molteplici origini, vale a dire impulsi e giudizi di valori contrari, e talvolta contraddittori, i quali sono in continua lotta tra di loro e di rado si dànno tregua - un simile uomo delle civiltà più tarde e di riflesso sarà in media un uomo debole: il suo desiderio - più intenso sarà che la guerra che é in lui, possa una buona volta cessare; la sua felicità consisterà (d'accordo in ciò con una medicina e con un modo di pensare tranquillante come, ad esempio, l'epicureo ed il cristiano) principalmente nel riposare, nel non essere disturbato, nella sazietà dell'unità finale, che sarebbe il « sabato dei sabati » per parlare con santo retore Agostino, che era lui pure uno di codesti uomini. - Ma quando il contrasto e la guerra in una tale indole agiscono come un'attrattiva della vita, ed una spinta di più, - e d'altra parte ai suoi impulsi potenti ed inesorabili è collegata per eredità anche la vera maestria, la vera finezza dell'arte del guerreggiare, allora sorgono quegli uomini enigmatici inafferrabili, ed incomprensibili, predestinati alla vittoria ed alla seduzione, dei quali Alcibiade e Cesare- sono la più bella espressione (per mio gusto propenderei d'aggiungervi il grande Federico), tra gli artisti forse Leonardo da Vinci. Essi fanno la loro apparizione precisamente nelle epoche in cui il proscenio é occupato dal tipo debole da noi più sopra descritto, col suo desiderio di riposo: i due tipi si completano e sono originati dalle medesime cause.

201.
Fino a che l'utilità dominante nell'apprezzamento dei valori morali, non é che l'utilità degli uomini aggregati e tende unicamente alla conservazione della comunità, fino a che l'immorale si identifica esclusivamente con tutto ciò che alla comunità riesce , dannoso, non può esistere una morale dell'« amore del prossimo ».
Ammesso pure che sussista già allora una certa qual misura di riguardi, di compassione d'equità, di bontà di reciprocità nell'aiutarsi : che di già in quello stato della società si trovino in attività tutti quelli impulsi, che più tardi si collocheranno al posto d'onore col nome di « virtù », e i quali coincidono quasi col concetto « moralità » : in quell'epoca essi non appartengono ancora al regno delle valutazioni morali sono ancora extra-morali. Così, ad esempio, un atto di pietà nei migliori tempi di Roma non viene detto né buono né cattivo, né morale né immorale: e seppure é lodato, a questa lode s'aggiunge anche una specie di sdegnoso disprezzo tutte le volte che lo si raffronti ad un atto che serve a favorire la cosa comune, la res publica. In ultima analisi l'« amore del prossimo » é sempre alcunché d'accessorio, in parte anche convenzionale ed apparentemente arbitrario in proporzione della paura del prossimo.

Allorquando la compagine della società nel suo complesso é salda ed assicurata contro i pericoli esterni, si é codesta paura del prossimo che crea nuove prospettive di apprezzamenti di valori morali. Certi impulsi potenti e pericolosi come lo spirito d'intraprendenza, la temerarietà, la sete di vendetta, l'astuzia, la rapacità, la sete di dominazione, impulsi che sino allora in quanto erano utili al bene pubblico, non soltanto si onoravano sotto nomi differenti, ben inteso, da quelli da noi accennati ma necessariamente si incoraggiavano e si favorivano (perché nel pericolo comune si abbisognava di loro costantemente contro i comuni nemici) più tardi si riconoscono doppiamente pericolosi - poiché mancano i canali di sfogo - passo passo si segnano col marchio dell'immoralità e si danno in preda alla calunnia. Allora gli impulsi e le inclinazioni contrarie vengono assunti agli onori morali; l' istinto del branco trae passo passo le sue conclusioni. Quando più o meno vi sia di dannoso al benessere comune, di pericoloso all'uguaglianza di tutti, in un'opinione, in uno stato di spirito, in una passione, in una volontà, in un ingegno, ecco quale é adesso la prospettiva morale: anche qui la paura diviene la madre della morale. Gli impulsi più elevati e potenti, allorquando, erompendo con tutta la forza della passione, innalzando un singolo individuo al disopra e lo spingono ben fuori della media e della bassezza della coscienza dell'uomo aggregato, tolgono alla comunità il sentimento della propria indipendenza, la fede in sé stessa, la sua colonna vertebrale, per così dire, si spezza: sicché si vuole macchiar d'infamia e di calunnia precisamente simili impulsi. Di già in un'altra spiritualità indipendente, nella volontà di stare da per sé, in una intelligenza elevata si subodora un pericolo: tutto ciò che innalza il singolo al disopra del branco, e fa paura al prossimo, si chiamerà d'ora innanzi col nome di « male » ; i sentimenti dell'equità, della modestia, dell'ordine, dell' uguaglianza, la mediocrità delle brame ottengono nomi ed onori morali. Alla fine, in condizioni molto pacifiche cessano l'occasione ed il bisogno d'educare i propri sentimenti al rigore ed all'asprezza; ed allora qualsiasi rigore, anche della giustizia, incomincia a turbare gli animi: un'asprezza aristocratica ed indipendente offende quasi e genera la diffidenza, l'« agnello », anzi la « pecora », guadagnano nella stima. Nella storia della società, il rilassamento e la mollezza possono giungere al punto, che la società prende le parti di chi tende a recare danno, del delinquente, e le prenda seriamente ed onestamente. Punire -- ciò le sembra non equo sotto qualche rapporto, - certo si é che l'idea di punire e di dover punire le fa male, le fa paura. « Non basta renderla incapace a far dei male? Perché punire per giunta? II punire non é per sé- stesso una cosa terribile?? - Con queste interrogazioni la morale del branco, la morale della paura trae la sua ultima conclusione. Supposto che si potesse eliminare il pericolo per sé stesso, la causa della paura, con ciò solo si sarebbe eliminata anche codesta morale, essa non sarebbe più necessaria, non si sentirebbe più la sua necessità.
Chi esamina la coscienza dell'europeo odierno si vedrà costretto a nicchiare dalle pieghe, dai nascondigli della morale, sempre lo stesso imperativo, l'imperativo della paura del branco « Noi vogliamo che da un momento dato non ci sia più nulla
da temere ! - Ad un momento dato ! - la volontà e il cammino per arrivarci chiamasi oggidì dovunque in Europa il « progresso ».

202.
Diciamolo subito ancora una volta, quello che cento volte abbiamo ripetuto : le orecchie sono oggidì restie a certe verità - alle nostre verità. Noi sappiamo molto bene quanto suoni offensivo il permettersi di metter l'uomo francamente, e non solo per similitudine, tra gli animali: ma a noi s'imputerà quasi a colpa, l'aver adoperato costantemente a proposito degli uomini dalle « idee moderne » l'espressione « branco », « istinti da gregge », eccetera. Che importa! Non possiamo fare altrimenti giacché precisamente in ciò sta il nostro nuovo modo di vedere le cose. Noi troviamo l'Europa concorde in tutti i giudizi morali essenziali, ed all'Europa dobbiamo ancora aggiungere i paesi dove predomina l'influenza europea; in Europa si sa evidentemente ciò che Socrate diceva di ignorare e ciò che il famoso serpente aveva promesso di rivelare, si sa oggi quello che é bene e quello che é male. E perciò deve riuscire duro agli orecchi il nostro insistere: che quella cosa in noi che crede di sapere, ed esalta sé stessa colle lodi e col biasimo, che da per sé stessa si dichiara buona, non é che l'istinto dell'uomo da gregge ; il quale istinto si è fatto strada attraverso a tutti gli altri, istinti, ha preso su tutti il sopravvento e lo prende sempre più in forza del crescente riavvicinamento e assimilamento fisiologico, dei quali egli é un sintomo. « La morale odierna in Europa è una morale da animali aggregati » - vale a dire, al modo che noi vediamo le cose, una singola specie di morale umana, vicino alla quale esistono, e prima della quale furono e dopo la quale dovrebbero essere possibili tante altre morali, anzitutto più elevate. Contro una tale « possibilità », contro un tale « dovrebbero essere » la morale odierna si impenna con tutte le sue forze; essa dice e ripete ostinatamente ed inesorabilmente; « io sono la vera morale e nulla all'infuori di mé è morale - ; sì coll'aiuto di una religione che fece abbandono di sé stessa alle brame più sublimi dell'animale da gregge, che le adulò, le cose sono giunte al punto che persino nelle istituzioni politiche e sociali noi scorgiamo una espressione sempre più latente di quella morale: il movimento democratico va assumendo l'eredità del movimento cristiano. Ma che il tempo sembri troppo lento e noioso agli impazienti, agli esseri morbosi, avidi, lo dimostrano gli ululati sempre più furibondi, il digrignare di denti sempre più sfacciato dei cani anarchici, che scorazzano per le vie della civiltà europea: in contraddizione apparente coi democratici, che predicano pace e lavoro, con gli ideologi della rivoluzione, con i goffi filosofastri sentimentali della fratellanza universale che si appellano socialisti e vogliono la « società libera », in realtà però di completo accordo con loro nell'odio radicato ed istintivo contro ogni altra forma sociale che non sia il branco autonomo (sino nel volere l'abolizione dei concetti « padrone » e « servo - ni Dieu ni maître suona una formula socialista), d'accordo nella opposizione tenace contro ogni diritto, ogni privilegio del singolo individuo (ciò che in fondo equivale ad una opposizione contro qualsiasi diritto, giacché quando tutti fossero eguali, diverrebbero inutili tutti i « diritti »);
di completo accordo nella diffidenza contro la giustizia punitrice (come se rappresentasse una violenza del debole, un torto verso ciò che é una conseguenza necessaria delle società precedenti);
ma così pure di completo accordo nella religione della compassione per tutto ciò che sente, vive, soffre (in basso sino al bruto in alto sino a « Dio » - l'esagerazione della « pietà di Dio » appartiene ad una epoca democratica);
di completo accordo nel grido di protesta, nell'impazienza della compassione, nell'odio mortale per ogni sofferenza in generale, nell'incapacità quasi femminea di sopportare la vista di una sofferenza e di permettere che si soffra;
d'accordo nell' involontario oscuramento e nell'effeminamento, per i quali all'Europa sembra incomba minaccioso un nuovo Buddismo;
d'accordo nella fede in una morale della compassione reciproca, come se questa fosse la morale per eccellenza, la sommità, il culmine raggiunto dall'uomo, l'unica speranza dell'avvenire, la consolazione del presente la grande redenzione dalle colpe del passato;
d'accordo nella fede in una in una comunità redentrice, nel branco, dunque in sé stessi....

203.
Noi che abbiamo una fede diversa; noi, per i quali il movimento democratico rappresenta non solamente una forma di decadenza dell'organizzazione politica, ma benanco una forma di decadenza, cioè il rimpicciolimento dell'uomo, un mediocrizzamento, un abbassamento del suo valore: verso qual punto dobbiamo dirizzare le nostre speranze? Verso nuovi filosofi, non c'è altra scelta; verso spiriti forti e sufficientemente indipendenti, tanto da poter dare un' impulso a giudizi di valore opposti, riformare, invertire i valori eterni : verso precursori, verso uomini dell'avvenire, i quali nel presente devono formare il nodo che costringerà la volontà dei millenni ad aprirci nuovi sentieri; insegnare all' uomo che il suo avvenire é la... volontà, che dalla volontà d'un uomo dipende il preparare grandi ardimenti e tentativi complessi dall'allevamento e di miglioramento per poter mettere un termine all'orribile dominazione dei controsenso e del caso che finora si chiamò la « storia » - il controsenso dei « numero massimo » non è che l'ultima forma; e per giungere a tutto ciò un giorno si manifesterà il bisogno d'una nuova specie di filosofi e di governanti, in confronto dei quali tutto ciò che finora ci fu nel mondo di spiriti misteriosi, terribili ed umanitari, non sarà che una pallida ed intristita immagine.
La visione di simili condottieri splende dinanzi ai nostri occhi: - posso dirlo francamente a voi, spiriti liberi?

Le circostanze che bisognerebbe in parte creare, in parte sfruttare perché essi possano sorgere: le vie e le prove presumibili, mercé le quali un'anima possa elevarsi ad una tale altezza, ad una tale potenza da poter sentire il bisogno di un consimile compito; un rimpasto di valori, sotto la cui nuova pressione la coscienza si ritemprerebbe, il cuore si muterebbe in bronzo, per poter sopportare il peso d'una simile responsabilità: e d'altra parte la necessità di simili condottieri, il terribile pericolo che possano mancarci, oppure abortire o degenerare -- ecco la nostra principale preoccupazione, ecco quello che ci turba - lo sapete voi o spiriti liberi? Sono questi i gravi pensieri, le tempeste che attraversano il cielo della nostra esistenza. Pochi dolori uguagliano quello d'aver dovuto, indovinato, presentito talvolta un uomo straordinario deviare dal suo cammino e degenerare: ma chi ha, cosa ben rara, gli occhi aperti al pericolo comune che « l'uomo » stesso degeneri: chi al par di noi, ha riconosciuto la mostruosa casualità che sinora ha deciso dell'avvenire dell'uomo - nel quale non la mano, ma nemmeno un dito di Dio si è giammai immischiato! - chi ha compresa la fatalità che si cela nell'ingenuità infantile, nell'esuberanza di fiducia delle « idee moderne », ma più ancora in tutta la morale cristiano-europea: colui proverà un'ineffabile stretta al cuore, - abbraccerà di uno sguardo ciò che si potrebbe fare dell'uomo col mezzo d'un favorevole accumulamento, d'un aumento di forze e di compiti; egli si dirà, con tutta la convinzione della sua coscienza, come l'uomo sia molto lontano dall'essere esaurito per le maggiori eventualità, come già altre volte il tipo uomo si sia trovato di fronte a nuove decisioni, a nuovi sentieri : - sapendo molto bene per propria dolorosa rimembranza contro quali ridicoli scogli tanti esseri, destinati alle supreme cose dal loro nascere, naufragarono, si spezzarono, sprofondarono, intristirono.

La degenerazione universale dell'uomo verso ciò, che agli imbecilli socialisti ed alle zucche vuote si presenta come l'« uomo dell'avvenire » -- come il loro ideale! questa degenerazione, questo rimpicciolimento dell'uomo sino a renderlo un uomo da gregge perfetto (ovvero, come dicono, l'uomo della « società libera »), un abbrutimento dell'uomo sotto il livello degli uguali diritti e doveri é possibile, non vi è dubbio! Chi ha meditato sino alla fine su questa possibilità, ha imparato a conoscere una nuova specie di nausea e forse anche un nuovo compito !

segue:

CAPITOLO SESTO
Noi dotti > >


ALL'INDICE DELL'OPERA


HOME PAGE CRONOLOGIA