SCHEDE BIOGRAFICHE
PERSONAGGI
CLEMENTE VII - GIULIO DE' MEDICI

CLEMENTE VII - Giulio de' Medici (1478-1534)
(Pontificato 1523-1534)

GIULIO nacque il 26 maggio 1478 dalla nobile casata fiorentina DE' MEDICI, figlio naturale, in seguito legittimato, di quel Giuliano (lui e Lorenzo erano figli di Piero 'il gottoso') che era stato ucciso nella Congiura dei Pazzi un mese prima della sua nascita. Nei primi anni di vita Giulio fu affidato dallo zio Lorenzo il Magnifico alle cure di Antonio da Sangallo, per poi prenderlo direttamente sotto la sua protezione. Si preoccupò della sua educazione e, nel 1488, si prodigò per fargli avere, da Ferdinando I d'Aragona, il possesso di un beneficio prestigioso ed economicamente rilevante come il priorato di Capua dell'Ordine Cavalleresco di san Giovanni; successivamente fu anche nominato Cavaliere di Rodi.

Nel 1495, a causa delle insurrezioni dei fiorentini contro il cugino Piero, fu costretto a fuggire da Firenze e a rifugiarsi a Bologna, Pitigliano, Città di Castello e, soprattutto, a Roma, dove visse per molto tempo all'ombra del cugino cardinale Giovanni, poi papa Leone X dal marzo 1513.

Questa elezione fu determinante per la vita di Giulio come testimonia uno dei primi atti del pontificato mediceo: la concessione a Giulio dell'arcidiocesi di Firenze che faceva presagire una imminente nomina al cardinalato che arrivò il 29 settembre 1513, dopo una serie di procedure e dispense per superare i problemi derivanti dalla sua nascita illegittima. Da questo momento la sua carriera curiale è contrassegnata da una grande ricchezza di benefici ecclesiastici e da un ruolo molto delicato all'interno della politica papale. Cercò, ad esempio, di costruire una salda alleanza con l'Inghilterra che potesse aiutare Leone X a contrastare le mire egemoniche sia della Francia che della Spagna; fu nominato così cardinal protettore d'Inghilterra. Questi anni sono caratterizzati da manovre diplomatiche per mantenere il pontificato di Leone X in equilibrio tra i principi cristiani, e da importanti iniziative ecclesiastiche come il Concilio Lateranense V (1512-1517) durante il quale Giulio si interessò particolarmente alla lotta contro le eresie.

Il 9 marzo 1517 fu nominato Vicecancelliere della Chiesa di Roma, incarico che gli offrì la possibilità di mettere in mostra le sue ottime qualità diplomatiche, con un comportamento serio e apparentemente illibato in confronto a quello mondano e dissoluto del cugino.
Mentre cercava di risolvere la questione di una crociata contro i turchi che Leone X vedeva come assolutamente necessaria, gli si pararono di fronte due enormi problemi: da una parte la protesta luterana, dall'altra la successione dell'Impero che, dopo Massimiliano I, toccò al nipote Carlo, già re di Napoli. Nel corso dell'anno 1521 la delicata situazione di Firenze (di cui era stato nominato anche Governatore cittadino) lo costrinse ad allontanarsi di frequente da Roma, ma l'improvvisa morte del cugino pontefice (1521) l'obbligò a tornare di corsa a Roma per preparare il futuro conclave dal quale fu eletto Adriano VI, di cui aveva sostenuto la candidatura per ingraziarsi l'imperatore Carlo V. La situazione fiorentina rischiava però di esplodere e la presenza di un Medici si faceva sempre più necessaria; lo testimonia una congiura ordita contro Giulio nel 1522, maturata negli ambienti repubblicani.

Il 3 agosto 1523 venne finalmente ratificata l'alleanza tra il papa e Carlo V alla quale il cardinale de' Medici aveva lungamente lavorato. La prematura morte di Adriano VI nel settembre 1523 gli apriva la strada verso l'elezione pontificia che, con l'appoggio dell'imperatore e malgrado un conclave lungo e difficoltoso durato cinquanta giorni, giunse il 19 novembre. Il neoeletto assunse il nome di CLEMENTE VII. La sua elezione venne salutata con entusiasmo, anche se certe aspettative si dimostrarono ben presto mal riposte, perché all'atto pratico Giulio de' Medici risultò incapace di risolvere con decisione i difficili problemi che dovette affrontare.
Non fu da lui rinnegata la sua politica di neutralità, ma l'equilibrio tra i due contendenti, Carlo V e Francesco I di Valois, per il predominio dell'Italia e dell'Europa, era davvero difficile da mantenere. Carlo V, infatti, intendeva restaurare l'Impero dando carattere moderno alle sue strutture amministrative e accentuando sempre più una poltica espansionistica che non poteva non creare scontri con il re di Francia. Il delicato e precario congegno diplomatico di Clemente VII in nome della 'libertà d'Italia' si inceppò proprio quando la tensione crebbe: dopo la conquista di Milano da parte di Francesco I, avvenuta nell'ottobre 1524, Clemente VII corse ai ripari spedendo a trattare il più abile tra i suoi consiglieri, il datario apostolico Gian Maria Giberti (filo-francese, mentre l'arcivescovo di Capua, Niccolò Schomberg, lo spingeva invece a mantenere la posizione imperiale), che però dovette cambiare repentinamente direzione alla notizia dell'arrivo delle truppe imperiali in Lombardia.

Proprio il quel periodo la Riforma acquistava proporzioni sempre più vaste in Germania. Nella seconda dieta di Norimberga, nel febbraio 1524, gli stati riconobbero sì l'editto di Worms come legge dell'Impero, ma promisero al legato pontificio, cardinale Lorenzo Campegio, soltanto di mandarlo in esecuzione 'nei limiti del possibile', e chiesero di nuovo una comune assemblea della nazione tedesca, ossia un concilio nazionale che avrebbe dovuto aver luogo a Spira nello stesso anno. Sia il papa che l'imperatore vi si opposero energicamente.
Di breve durata fu il successo ottenuto dai francesi: gli imperiali di Carlo V lo sconfissero a Pavia il 24 febbraio 1525, catturando Francesco I e deportandolo a Madrid. La vittoria dell'imperatore ebbe delle enormi ripercussioni: Francesco, considerato capo della principale potenza europea, venne umiliato, dovette perdonare Carlo di Borbone ed insediarlo nuovamente nelle sue terre, fu costretto a lasciare in ostaggio i suoi due figli, fu invitato a sposare la sorella di Carlo V, Eleonora; inoltre fu costretto ad accettare la pace di Madrid del 1526 e rinunciare a Milano, Napoli e la Borgogna. Fu rilasciato il 18 marzo dello stesso anno.

Ma il sovrano francese, sottoscrivendo il contratto, aveva deciso di non osservarne le gravose condizioni. Giunto difatti in Francia, protestando di essere stato costretto con la violenza di Carlo V ad accettare i duri patti, si rifiutò di ratificare il trattato di Madrid, e il 22 maggio del 1526, a Cognac sulla Charente, stipulò con Clemente VII, con Firenze, con Francesco Maria Sforza e coi veneziani una lega per scacciare dall'Italia gli imperiali: la LEGA SANTA DI COGNAC. I confederati si obbligavano a radunare nella penisola a spese comuni 2500 uomini armati, 3000 cavalli e 30.000 fanti; Francesco I prometteva di mandare un esercito in Lombardia e un altro in Spagna; i veneziani e il pontefice dovevano assalire il regno di Napoli con una flotta di ventotto navi; infine, cacciati gli Spagnoli, il papa avrebbe dovuto mettere sul trono napoletano un principe italiano il quale avrebbe pagato al re di Francia un canone annuo di 75.000 fiorini. Furono tutte illusioni. Francesco I continuò a trattare con Carlo V per il riscatto dei figli e per tutto il 1526 non partecipò alle operazioni belliche, proprio lui che le aveva promosse.

L'atteggiamento guerrafondaio della coalizione anti-imperiale, ma anche lo stato d'animo di essere uscito perdente contro i turchi, persuase l'imperatore a 'punire' il papa, ritenendolo il primo responsabile della sconfitta contro i turchi, visto che egli stesso demagogicamente ne aveva fatto una sua causa, cercando di far credere che tutta la sua politica fosse diretta contro i turchi per costruire poi uno stato universale cristiano. Indubbiamente voleva mettere in stato d'accusa la politica antimperiale condotta dal papa, che aveva aderito alla lega di Cognac. Per dare pubblicità alla cosa non restava che un'esemplare punizione...

Intanto un grave fatto era avvenuto. Il cardinale Pompeo Colonna, di tendenze filo-imperiali, spinto da Carlo V con promesse e denari, aveva, durante la notte dal 19 al 20 settembre 1526, con un esercito di 8000 uomini, occupato la porta di san Giovanni in Laterano e il Trastevere, spingendosi per il Borgo Vecchio fino al Vaticano. Il pontefice aveva fatto in tempo a rifugiarsi a Castel sant'Angelo, e il Vaticano e i palazzi vicini vennero saccheggiati dalle soldatesche. Clemente VII, chiuso nel castello, chiese la mediazione di Ugo di Moncada, si impegnò di perdonare ai Colonnesi, di ritirare le sue truppe dalla Lombardia, e a questi patti concluse una tregua di quattro mesi con l'imperatore. Non solo, ma vedendo che i francesi non gli mandavano gli aiuti promessi e che i veneziani non attaccavano come avrebbero dovuto il Borbone, il pontefice il 15 marzo concluse una tregua di otto mesi, promettendo di sborsare 60.000 ducati al Borbone a condizione che si ritirasse, di assolvere dalle censure ecclesiastiche i Colonna e di restituire nella sua dignità il cardinale Pompeo.
Ma Carlo di Borbone, che oramai non esercitava che scarsa autorità sulle proprie truppe, dichiarò che la somma stabilita nel patto della tregua non era sufficiente e non accettò l'armistizio.

Il 31 marzo egli passò il Reno presso Bologna e verso la metà d'aprile, per Meldole, Santa Sofia e Val di Bagno, si diresse verso la Toscana. Allora le truppe della Lega al comando di Francesco Maria della Rovere e del marchese di Saluzzo, passarono gli Appennini ed andarono ad accamparsi a poche miglia da Firenze per proteggere questa città dall'esercito del Borbone. Questo era giunto a Pieve Santo Stefano quando a Firenze, dove era generale il malcontento contro il cardinale di Cortona, Silvio Passerini, tutore di due giovani 'illegittimi' Medici, Ippolito ed Alessandro, il 26 aprile scoppiò un tumulto. Molti giovani delle principali famiglie fiorentine, capeggiati da Pietro Salviati, occuparono il Palazzo della Signoria; ma quello stesso giorno, assediati da 1500 soldati della Lega prontamente accorsi dal campo, dietro la mediazione del gonfaloniere Luigi Guicciardini che fece ottener loro il perdono, cedettero il palazzo e la calma ritornò in città. Intanto il Borbone dal territorio di Arezzo entrava nel Senese e si dirigeva alla volta di Roma. Lungo la via saccheggiò Acquapendente e San Lorenzo alle Grotte, occupò Viterbo e Ronciglione, e il 5 maggio giunse sotto le mura di Roma, che era difesa da una improvvisata ed esigua schiera e mal disciplinata milizia al comando di Renzo da Ceri.

La mattina del 6 maggio del 1527 l'esercito imperiale mosse all'assalto delle mura del Borgo tra il Gianicolo e il Vaticano. Carlo di Borbone, per animare con l'esempio verso i suoi soldati, si lanciò tra i primi e, presa una scala, l'appoggiò alle mura; ma mentre arditamente saliva, fu colpito da una palla d'archibugio, che Benvenuto Cellini si vantò d'aver tirata, e cadde morto all'età di soli trentotto anni. La sua morte invece di smorzare accrebbe l'impeto degli assalitori, i quali, sebbene con gravi perdite, riuscirono a superare le mura e ad entrare nella città.

Durante l'assalto, passato alla storia come il SACCO DI ROMA, Clemente VII stava a pregare nella cappella del suo palazzo. Quando le grida dei soldati gli annunciavano che Roma era perduta, fuggì a Castel sant'Angelo e vi si chiuse con i cardinali e gli altri prelati, mentre gli invasori inseguivano per le strade i soldati pontifici fuggiaschi catturandoli e trucidandoli con picche e alabarde.
Circa 40.000 uomini contava l'esercito imperiale che faceva irruzione a Roma: c'erano 6000 spagnoli del Borbone a cui, lungo il cammino, si erano aggiunte le fanterie italiane di Fabrizio Maramaldo, di Sciarra Colonna e di Luigi Gonzaga, molti cavalieri che si erano messi al comando di Ferdinando Gonzaga e del principe d'Orange Filiberto di Chalons, succeduto nel comando supremo a Carlo di Borbone, numerosi disertori dell'esercito della lega, i soldati licenziati dal pontefice e non pochi banditi attratti dalla speranza di rapine.
Ma fu impiegato anche un altro esercito: quello composto da 14.000 lanzichenecchi guidati da Georg Frundsberg, una turba di soldataglia rozza e inferocita, che forse l'imperatore si illudeva di poter controllare e all'occorrenza fermare. Queste truppe travolsero le difese periferiche di Roma si impadronirono delle entrate della città, iniziarono ad assediarla. 8000 mercenari bavaresi, svevi e tirolesi arrabbiati ed esasperati dalla fame e dal ritardo nel pagamento dei loro stipendi, tutti ottimi combattenti e luterani, che quindi consideravano il papa come l'anticristo e Roma come la Babilonia corruttrice, videro balenarsi agli occhi, prospettata dal loro comandante Carlo di Borbone, la possibilità delle immense ricchezze che potevano venire dal saccheggio dell'Urbe.

Le chiese furono invase, profanate, spogliate di tutti i tesori; dagli arredi sacri, furono asportati l'oro, l'argento e le gemme, di ciò che rimaneva vennero disseminate le strade; i quadri e le statue, considerati dai luterani come segni di idolatria, furono fatti a pezzi, i monasteri furono violati e le monache date in pasto alla furiosa libidine dei soldati; numerosissime donne vennero strappate dalle case e condotte per le vie dalle truppe assetate di sozze voglie. Nessuna casa fu risparmiata, ma furono presi specialmente di mira i palazzi dei ricchi e dei prelati, che vennero spietatamente saccheggiati. Si credeva che le case dei cardinali devoti al partito imperiale dovessero esser rispettate e perciò i mercanti vi avevano trasportato le loro robe; ma alcune vennero lo stesso messe a sacco, altre si salvarono pagando grosse taglie che furono richieste e sborsate più d'una volta. I cittadini subirono ogni sorta d'insulti, d'imposizioni e di violenze. Molti vennero sottoposti a torture perché rivelassero i nascondigli dove si pretendeva che avessero nascosto le loro ricchezze o perché riscattassero la loro vita con enormi somme. Roma, in quel maggio, presentava un aspetto desolante. Le vie erano disseminate di cadaveri, percorse da ciurme di soldati ubriachi e schiamazzanti che si trascinavano dietro donne di ogni condizione, da saccheggiatori che trasportavano oggetti rapinati; le chiese erano trasformate in bivacchi, dove tedeschi, spagnoli e italiani gozzovigliavano; in ogni luogo e sopra ogni cosa lasciavano traccia del loro passaggio e della loro ferocia.

Il cardinale Pompeo Colonna entrò trionfante a Roma l'8 maggio, seguito da numerosi contadini dei suoi feudi, i quali si vendicarono dei saccheggi subiti mesi prima per ordine del pontefice saccheggiando a loro volta tutte quelle case in cui ancora rimaneva qualche cosa da prendere o da distruggere. Il cardinale però - secondo quello che scrive un suo biografo - avuta compassione della miseria in cui era precipitata la sua patria, diede asilo nel suo palazzo a quanti vollero rifugiarvisi e liberò perfino con i propri denari non pochi prelati, senza distinzione di partito.

Dopo tre giorni il principe d'Orange ordinò che cessasse il saccheggio; ma le soldatesche non ubbidirono e Roma continuò ad essere saccheggiata finché vi rimase qualche cosa da prendere.
Lo stesso giorno in cui gli imperiali penetrarono a Roma, giunse in soccorso con una schiera di cavalli e di archibugieri il capitano pontificio Guido Rangoni; ma era troppo tardi. Dal ponte Salario, fin dove si era spinto, si ritirò ad Otricoli. Francesco Maria della Rovere, partito da Firenze il 3 maggio, giunse il giorno 16 ad Orvieto dove si unì al marchese di Saluzzo che vi era giunto cinque giorni prima e invano aveva tentato di liberare Clemente VII da Castel sant'Angelo. Il Della Rovere se avesse voluto, avrebbe potuto facilmente con le sue milizie penetrare in Roma e cacciare gli invasori, i quali, privi di disciplina, e intenti al saccheggio e a gozzovigliare, non erano in grado di opporre alcuna seria resistenza; tuttavia non volle tentare nessuna azione e il 1° giugno andò ad accamparsi a Monterosi.

Il Sacco di Roma fu un episodio che rimase indelebile nella memoria collettiva dell'epoca e che susciterà clamore nella cristianità. Clemente VII scelse la strada dell'estraneità; significative le parole del sonetto caudato del Berni: «Un papato composto di rispetti,/ di considerazioni e di discorsi,/ di pur, di poi, di ma, di se di forsi,/ [...]».
Essendo caduta ogni speranza di soccorso, Clemente VII il 6 giugno capitolò, obbligandosi a pagare agli imperiali 400.000 ducati, di cui 100.000 immediatamente e il resto entro tre mesi; inoltre era prevista la consegna di Parma, Piacenza e Modena. Ma Carlo V non fu soddisfatto di ciò: lui, profondamente cattolico, fu costernato di tale scempio e se ne discolpò. Clemente VII accettò a novembre le condizioni imposte dall'imperatore, ma per evitare di metterle immediatamente in esecuzione lasciò Roma e si rifugiò, il 16 dicembre 1527, a Orvieto.

Carlo inviò un'ambasciata presso Clemente per esprimere tutto il suo profondo rammarico per l'episodio. E Clemente alla fine, non ritenendolo responsabile, lo perdonò, ma non dimenticò. Fu così stipulata; verso la fine del 1529, la Pace di Barcellona. Inoltre il 24 febbraio 1530 Carlo V riceveva dalle mani di Clemente VII la corona imperiale: l'occasione fu positivamente salutata dalla cristianità che vedeva finalmente riconciliati papa e imperatore. Con la pace fatta Carlo, insieme al papa, si impegnava a restaurare i Medici a Firenze abbattendo la repubblica fiorentina e a concedere la Borgogna a Francesco I il quale, in cambio, si impegnava a non intromettersi più negli affari italiani. In ottemperanza agli accordi l'imperatore mandò le sue truppe ad assediare Firenze che aveva rovesciato i Medici nel 1527 ed aveva proclamato la Repubblica. Questa si difese con valore contro gli imperiali guidati da Filiberto d'Orange, ma nulla potè a causa del tradimento di Malatesta Baglioni; divenne duca della città Alessandro de' Medici (figlio illegittimo di Lorenzo), che ebbe in sposa Margherita, figlia naturale di Carlo V.

Con l'imperatore lontano e preoccupato di dar pace alla Germania in preda agli scontri confessionali e con il pericolo turco alle porte, in poco tempo Clemente VII ritornò a migliori rapporti con la Francia. Carlo V, cui non erano rimaste occulte tali trattative, appena la situazione in Germania, dopo la tregua di Norimberga, lo permise, animato dal proposito di rompere l'amicizia stabilitasi tra Francesco I e Clemente VII, invitò quest'ultimo ad un convegno tenutosi a Bologna, il 13 dicembre 1532. Ivi propose al pontefice di unire in matrimonio sua nipote Caterina con il duca di Milano, ma il papa non accettò la proposta. L'imperatore allora ne avanzò una altra: gli propose una lega dei vari stati della penisola allo scopo di difendere l'Italia dalle aggressioni degli stranieri (lui non si considerava tale), specie dei Turchi. Nello stesso tempo gli chiese di convocare un concilio generale, concilio che il pontefice aveva promesso nel primo congresso di Bologna e che era necessario per pacificare la Germania.

La proposta della lega fu da Clemente VII accolta di buon grado perché non danneggiava gli interessi della Santa Sede; ma identica accoglienza non trovò la richiesta della convocazione del concilio perché il papa non solo temeva di procurare ai suoi avversari un'arma che poteva essere adoperata ai suoi danni, ma credeva anche che un concilio non potesse ridare la pace al mondo cristiano ora che la riforma luterana aveva messo salde radici. Su questo argomento, lunghe furono le discussioni tra Carlo V e Clemente VII; quest'ultimo alla fine dovette piegarsi e in un accordo segreto, consacrato in una bolla del 24 febbraio 1533, promise la convocazione del concilio, riservandosi però di fissarne la data.

Con il convegno di Bologna l'imperatore non aveva ottenuto quel che più di ogni altra cosa desiderava, di staccare cioè il pontefice da Francesco I; anzi con l'importuna richiesta del concilio aveva fatto sì che Clemente VII si avvicinasse di più al re di Francia e formalmente gli promettesse la mano della nipote Caterina de' Medici (chiamata 'la pia', ma che ordinerà nel 1572 la famosa strage degli ugonotti), figlia di Lorenzo, al delfino di Francia, Enrico d'Orleans, secondogenito di Francesco I; a mediare le nozze, che si tennero a Marsiglia nell'estate del 1533, fu chiamato l'abile duca d'Albania, con il cardinale di Grammont. Probabilmente questo matrimonio fu l'unica gioia della vita del papa, poichè lusingava la sua grande ambizione e la soddisfazione di aver elevato se stesso e la sua famiglia ai ranghi dei maggiori governanti europei.

L'attenzione alla politica europea e italiana portò Clemente VII a trascurare e sottovalutare il movimento protestante che ormai si andava sempre più diffondendo; in particolar modo non seppe spegnere con risolutezza la scintilla che si era accesa in Inghilterra che animava quella polveriera chiamata ENRICO VIII.

Enrico aveva un grosso problema: non aveva un erede maschio. Di questo egli incolpava la consorte Caterina d'Aragona, la cui unica figlia era la principessa Maria. Ebbe anche numerose relazioni con dame della corte fino a quando non si innamorò di Anna Bolena, una delle più belle signore del tempo, donna dalla volontà di ferro, intuito politico e... di religione protestante. Dal 1527 Enrico iniziò a cercare una via d'uscita all'unione con Caterina, argomentando a suo favore che il matrimonio con la vedova del fratello non era valido.

Mandò a Roma un suo rappresentante, il Wolsey, per spiegare il caso al papa, ma la missione fallì. Allora Enrico lo sostituì con THOMAS MORE, grande umanista e abile giurista, che fu nominato per l'occasione Lord Cancelliere. Moro si consigliò con i principali studiosi europei di diritto, cercando un appoggio per la sua causa. Nonostante le motivazioni addotte, il divorzio era impossibile, anche perchè nipote di Caterina era Carlo V ed il papa non voleva certo inimicarselo.
Il sovrano allora devette trovare un altro modo per realizzare il suo desiderio. All'inizio del 1529, attraverso il Parlamento, cominciò ad esercitare pressioni sul papa. Esigendo la correzione degli abusi, il Parlamento votò per sopprimere i pagamenti dei vescovi inglesi alla Chiesa di Roma ed eliminare l'indipendenza degli ecclesiastici inglesi. Secondo le disposizioni precedenti, infatti, il clero doveva fedeltà solamente al papa. Con il nuovo atto del Parlamento, Enrico ottenne il potere di nominare i propri vescovi. Egli usò tale potere per designare arcivescovo di Canterbury, Thomas Cranmer, un caro amico di Anna Bolena.

Nel gennaio del 1533 fu celebrato il suo sposalizio con Anna Bolena, nel maggio dello stesso anno il matrimonio con Caterina d'Aragona fu dal Cranmer dichiarato ufficialmente nullo; alcuni mesi dopo (7 settembre 1533) nacque la figlia di Anna, la futura regina Elisabetta. Enrico era così caduto nella scomunica papale. Contro questa egli si appellò ad un concilio ecumenico (novembre 1533). Alla sentenza definitiva di Clemente VII, per cui solo il matrimonio con Caterina aveva valore legittimo (marzo 1534), Enrico rispose con l'Atto di Supremazia, votato dal Parlamento il 3 novembre 1534, il quale lo dichirava Re supremo e unico Capo della Chiesa d'Inghilterra, e gli si attribuiva in tutto il paese quell'autorità e quel potere spirituale che fino ad allora solo il pontefice aveva esercitato. Chi si rifiutava d'accettare con giuramento tale provvedimento e di riconoscere il nuovo matrimonio del re con il relativo ordine di successione al trono, era considerato reo di alto tradimento e punito con morte.

Lo scisma era ormai compiuto. Sebbene questo evento avesse avuto dei minimi effetti sul re, la questione causò il risentimento dei cattolici praticanti. Come conseguenza della rottura con Roma, Enrico e Cromwell intrapresero una riorganizzazione della Chiesa e dello Stato. Tutti i pagamenti che prima andavano versati al papa ora venivano versati alla corona; il Parlamento si adoperò per escludere la principessa Maria dalla successione al trono in favore della figlia di Anna Bolena, nella speranza che, prima o poi, sarebbe nato un erede maschio.
Enrico accettò anche dei piccoli cambiamenti nella pratica della fede cattolica. La Bibbia venne tradotta in inglese, ai preti fu permesso sposarsi, e le reliquie dei santi vennero distrutte. La religione di Enrico rimase quella cattolica, malgrado moltissime persone alla corte e nel regno avessero adottato la fede protestante. Egli impedì ai più ferventi di questi protestanti di compiere cambiamenti troppo radicali nella dottrina religiosa, redigendo un documento (The Six Articles - 1539) nel quale venivano indicati i principi della Chiesa d'Inghilterra, molti dei quali erano derivati dalla fede cattolica.

Nei periodi, fra l'altro molto scarsi, in cui non dovette dedicarsi alla politica, Clemente VII fuuomo colto e mecenate, conformemente alle sue origini familiari, cercando sempre di circondarsi sempre di uomini dalla spiccata arguzia che si intrattenevano con lui durante i pasti e lo svagassero un po' dalle preoccupazioni. Fra questi uomini c'era sicuramente anche il già ricordato Berni, che divenne al papa carissimo e dal quale ottenne titoli ed onori (Protonotario apostolico nel 1527 ne è un chiaro esempio).
Il IX Giubileo fu da lui indetto fin dall'aprile 1524 con la bolla 'Inter sollicitudines et coram nobis', promulgata il 17 dicembre. Questa dispensava dall'obbligo dell'elemosina i pellegrini a Roma; invece restava comunque obbligatoria per coloro che non potevano giungervi. Il papa aprì personalmente la Porta Santa. Durante l'anno l'affluenza di pellegrini fu scarsa a causa delle guerre, del timore dell'avanzata turca, della rivolta dei contadini in Germania. Nell'agosto del 1525 si ebbe una nuova recrudescenza della peste. Questo Giubileo può essere considerato l'ultimo dei giubilei medievali e l'inizio della loro crisi, anche dopo che i luterani avevano diffuso alcuni libelli che accusavano Clemente VII di indire il giubileo col solo scopo di aumentare le finanze della Chiesa.

Di ritorno a Roma dopo la permanenza forzata ad Orvieto, Clemente proseguì la sua opera di mecenate mettendo in atto diverse opere di grande valore artistico: sviluppò ulteriormente la Biblioteca Vaticana, proseguì nella costruzione della Basilica di san Pietro, portò a termine i lavori del Cortile di San Damaso e Villa Madama ed incaricò Michelangelo di affrescare la parete di fondo della Cappella Sistina con il 'Giudizio Universale' seguendone personalmente i lavori.
Commentò e fece pubblicare tutte le opere di Ippocrate.
Accrebbe notevolmente il numero degli ecclesiastici, approvando, nel 1528, l'Ordine dei Cappuccini, ramo dell'Ordine dei Frati Minori, formatosi attorno ai francescani osservanti Matteo da Bascio e Luigi da Fossombrone, caratterizzato da un cappuccio quadrato appuntito e dalla barba. Nel 1530 approvò i Chierici Regolari di san Paolo (detti anche Barnabiti, dal chiostro di san Barnaba dove abitavano), fondati da sant'Antonio Maria Zaccaria per l'assistenza agli infermi e l'educazione della gioventù.
Di ritorno da Marsiglia, dove aveva assistito al matrimonio della nipote, Clemente VII si riammalò della stessa malattia che lo aveva colpito nel 1529 e che spesso tornata a visitarlo. Del resto il suo pontificato era stato coronato da dolori e sofferenze: aveva visto Roma invasa e saccheggiata, era stato schernito dai luterani, aveva sofferto la prigionia, era stato perseguitato negli ultimi tempi dallo spauracchio del concilio e afflitto dallo scisma di Enrico VIII che separava l'Inghilterra dalla Chiesa Cattolica; aveva assistito ai grandi progressi che la Riforma luterana faceva in Germania e infine lo avevano rattristato profondamente le discordie provocate a Firenze dagli altri suoi nipoti, uno contro l'altro, fino ad arrivare al delitto.

Dopo alcuni mesi d'infermità, Clemente VII morì a Roma il 25 settembre 1524 dopo quasi undici anni di intensissimo pontificato. Venne sepolto in santa Maria sopra Minerva, in un mausoleo disegnato da Antonio di Sangallo, di fronte a quello del cugino Leone X.
Con la sua morte si chiudeva il periodo dei papati medicei e del legame tra Roma e Firenze che Clemente VII aveva tenacemente cercato di mantenere e rinsaldare. Di lui scrisse il Guicciardini: "Egli cessò di vivere odiato alla corte, sospetto ai principi, e con fama più presto grave ed odiosa che piacevole, essendo reputato avaro, di poca fede e alieno di natura dal beneficare gli uomini...". Completano il ritratto le parole del Giovio: "Clemente non ebbe grandezza d'animo né liberalità; per indole si piacque delle spilorcerie, delle simulazioni; non fu crudele né malvagio, ma duro e illiberale...".

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