APPENDICE DOCUMENTI - "CRONISTORIA DI UNA SCONFITTA"

* * * * MEMORIALE DELLA DELEGAZIONE ITALIANA
ALLA CONFERENZA DELLA PACE A PARIGI IN DATA 7 FEBBRAIO 1919
(documento pubblicato dall'Agenzia Stefani il 12 febbraio 1919)


"Indipendentemente dalle Convenzioni che regolavano la sua discesa in guerra, e dallo sforzo da essa compiuto ben superiore al previsto, le rivendicazioni italiane hanno un loro oggettivo fondamento di giustizia, di legittimità, di moderazione ed entrano pienamente nel quadro dei principi fondamentali enunciati dal Presidente Wilson, che furono il pegno dell'armistizio. Se qualche frazione dell'opinione pubblica italiana le vorrebbe in qualche misura ridotte, altre reclamerebbero un notevole ampliamento del programma. Così che le richieste accettate dalla Delegazione Italiana rappresentano un compromesso fondato sul criterio della necessità e dell'equità.

Certo, le nostre domande implicano aggiunzione allo Stato Italiano di un certo numero di cittadini di lingua e di origine diversa dalla nostra. Ma trattasi di un fenomeno che in ben maggiore misura si verifica negli Stati già costituiti e sta per essere riconosciuto e legalizzato in quelli da sorgere. Egli è che il lungo dispregio nel quale fu tenuto il concetto della costituzione degli Stati in coincidenza coi
limiti delle nazioni, e l'interesse dei Governi usciti in nome dell'equilibrio delle forze dai trattati di Vestfalia, di Utrecht, di Campoformio, di Vienna, a distruggere i documenti nazionali per ostacolare le rivendicazioni politiche, hanno favorito infiltrazioni e importazioni di razze estranee oltre i limiti fissati alle patrie dalla natura. Ma non potrà mai il torto inflitto ad un popolo diventare sorgente di diritto per coloro che di fronte alla storia ne hanno assunta la responsabilità. E, come si esprimeva il Presidente Poincaré nella sua recente visita all'Alsazia redenta, la libertà umana non è a discrezione della forza, non si distrugge l'anima di un popolo come la cattedrale di Reims e la biblioteca di Lovanio : in una nazione vi sono ben altri principii di vita che il suolo ereditario, la legge e la stessa lingua: e questi principii siano anzitutto la comunità delle tradizioni, la inscindibilità degli interessi, la volontà e la coscienza di conservare la patria.

Così, secondo le loro aspirazioni nazionali, la Polonia con la Galizia, Danzica, la Posnania e la Prussia Orientale andrebbe ad includere oltre il 40 per cento di popolazione straniera ; la Boemia con la Slovacchia e la Slesia austriaca circa il 30 per cento ; la Rumania con la Transilvania, la Bessarabia, la Bucovina ed una parte del Banato oltre il 17; la Jugoslavia oltre I' l l ; la Francia oltre il 4 ; l'Italia, con tutte le terre irredente appena il 3 per cento.

E per quanto riguarda l'Italia, il pericolo che essa venga a creare nuovi irredentismi i quali sono sempre la conseguenza di ingiustizie e persecuzioni, è nettamente escluso dai precedenti della sua storia che vengono riassunti nei riguardi di francesi, slavi e tedeschi già inclusi nel territorio italiano.

L'Italia, scendendo in guerra per fronteggiare l'aggressione degli Imperi centrali, si proponeva queste sue particolari rivendicazioni la liberazione dei suoi figli oppressi dallo straniero e l'integrazione della sua sicurezza terrestre e marittima. La vittoria, a cui essa ha contribuito con sacrifici tanto superiori alle previsioni, non la induce a negar fede ai principi informatori della sua risoluzione di partecipare al conflitto a fianco dell'Intesa e contro i suoi alleati di ieri. Questi principi si concretano - conciliando, entro i limiti del possibile, le ragioni nazionali con quelle della sicurezza - nel rivendicare in terra il confine alle Alpi che comprende l'Alto Adige e il, Trentino e la Venezia Giulia, sul mare un miglioramento della situazione adriatica che, senza pregiudizio delle legittime aspirazioni dei nuovi Stati che si affacciano a questo mare, sottragga I'Italia alla situazione di inferiorità assoluta e di pericolo in cui sinora si è trovata.

Le richieste dell'Italia, che si fondano essenzialmente sul principio di nazionalità, non hanno bisogno di particolare illustrazione. Ma non minore rispondenza con i principii che regolano nella loro azione le potenze alleate ed associate, hanno le esigenze, che, deviando parzialmente dalla rigorosa applicazione del criterio etnico, tendono a dare all'Italia la sicurezza avvenire, indipendentemente dall'atteggiamento presente e futuro degli Stati confinanti; essendo, evidentemente, tanto più salde e durevoli le basi della auspicata Società delle Nazioni quanto più siano le singole nazioni garentite contro ogni esteriore pericolo o prepotenza, quanto più sia, in via assoluta e quasi fisica, esclusa la possibilità di esteriori minacce.

Quanto, in questo riguardo, reclama l'Italia, non minaccia gli altri, previene solo le minacce altrui contro di lei. Solo così l'Italia potrà dare, senza preoccupazioni, pratica attuazione a quella diminuzione degli armamenti che dev'essere per l'umanità il risultato più benefico della nuova sistemazione del mondo.

Dopo aver descritto il confine geografico della displuviale alpina, il documento ricorda che esso è l'unico confine che essendo costituito da un vero e proprio ostacolo montano - imponente muraglia sempre considerata il confine d'Italia - ha in sè il valore di necessaria e sufficiente sicurezza: chiude i valichi attraversati da due grandi vie di comunicazione ; lascia alle popolazioni delle alte valli il loro naturale movimento verso il piano ; passa senza artifizi per successivi capisaldi tutti nettamente e incontestabilmente individuati e precisati.

Il valore strategico dell'Alto Adige fu sempre riconosciuto: nella vallata superiore dell'Adige si trova il nodo di tutte le strade per l'invasione tedesca in Italia. Quando l'Italia ha Trento, i tedeschi avrebbero ancora lassù la porta d'Italia in proprie mani. Bisogna che l'Italia oltre a Bolzano arrivi a Bressanone perchè i tedeschi col raccordo delle due grandi ferrovie che passano le Alpi al Brennero e a Dobbiaco, non siano tuttavia padroni del versante italiano. Un generale austriaco, il Kuhn, lasciò scritto: « Gli Italiani devono conquistare il Tirolo nemico meridionale sino al Brennero se vogliono difendere Venezia ».

Dopo aver fatto l'esame e la critica di altre frontiere proposte aggiungiamo : Tenuta presente la «superiore necessità ed utilità » di tale confine, perde ogni valore l'inclusione di circa 180.000 abitanti di nazionalità tedesca. A tacere dei precedenti rapporti storici di questa regione con l'Italia, che monumenti e memorie indelebili confermano, ed hanno avuto sanzione eloquente (politica e militare) nell'annessione dell'Alto Adige al Regno Italico di Napoleone I, a prescindere dal fatto che l'attuale fisionomia nazionale dell'Alto Adige è il prodotto di sovrapposizioni violente e di invasioni straniere, in un bacino che geograficamente, storicamente ed economicamente appartiene all'Italia, - tanto che ancora al principio del secolo scorso la regione era prevalentemente italiana non solo a mezzogiorno del confine napoleonico, ma in tutta la vallata Venosta e in parte nei distretti di Bressanone e Sterzen, mentre italiana è ancor oggi la valle di Badia e in complesso non meno di 45.000 italiani vivono tutt'ora nell'Alto Adige vero e proprio ; - va rilevato che il territorio posto tra il confine politico precedente alla guerra e quello ora richiesto, cioè la regione del Trentino e dell'Alto Adige, che formano un tutto geografico, conta nel suo complesso una popolazione di 600.000 abitanti di cui le stesse statistiche austriache ammettono che 380.000 sono italiani, mentre in realtà toccano i 420.000.

Quando anche non militassero a favore della inclusione del Trentino ed Alto Adige nel Regno d'Italia le ragioni di difesa e sicurezza, la stessa prevalenza numerica della popolazione italiana (circa 70 per cento) in una regione per evidenti motivi inscindibile ne importerebbe la restituzione alla sua unità naturale economica e nazionale.

Passando all'esame del confine terrestre ad oriente il documento si osserva:
A correggere l'iniquità e l'errore per cui nel '66 fu dato all'Italia per confine orientale coll'Austria quello che era l'artificioso confine interno stabilito dal Governo di Vienna tra due organismi amministrativi (Lombardo-Veneto e Litorale austriaco) appartenenti al medesimo Stato, conviene anche nella Venezia Giulia seguire l'indicazione della natura e il monito della storia e portare il nuovo confine d'Italia al displuvio delle Alpi Giulie sino al Quarnero.
Si tratta di seguire lo stesso concetto di separazione geografica, di difesa naturale, di tradizione storica, di redenzione nazionale.

Geografi d'ogni paese e d'ogni età hanno posto alle Alpi Giulie il confine d'Italia. L'intera Venezia Giulia ha avuto uno svolgimento storico non difforme da ogni altra regione della penisola italiana. Ad ogni passo dal mare al monte, i segni di Roma e di S. Marco si accordano ancor sempre con la vita della popolazione che ha spirito e costumi prevalentemente italiani anche là dove infiltrazioni straniere ne hanno, a traverso i secoli, screziato la composizione etnica. Documenti di alta eloquenza, sacrifici tenaci che non ristettero neppure dinanzi al martirio, l'esistenza quotidiana del popolo che è veramente, come vuole il Renan, « un plebiscito di tutti i giorni », offrono la prova dell'armonico, congenito consenso della Venezia Giulia al moto secolare di idee e di eroismi per la liberazione e l'unità d'Italia, l'aspirazione costante di questo popolo ad unirsi, nell'invocata ora propizia, ai fratelli redenti.

Fatta la storia delle persecuzioni austriache e resistenze italiane in queste regioni: L'irredentismo italiano nacque il giorno in cui la pace del '66 espiò solo in parte quella grande violenza politica che, compiuta a Campoformio, fu ribadita dal Congresso di Vienna.
Occorre, per ridare la pace all'Europa Centrale ed equilibrio all'Adriatico, completare l'opera interrotta nel '66, lacerare anche l'ultimo brandello del trattato di Vienna che sinora contese all'Italia una parte dei suoi figli e minò la sicurezza del suo confine adriatico in terra e in mare.
A ciò ottenere è necessario portare il confine del Regno d'Italia al displuvio delle Alpi Giulie che il documento descrive.
Solo con questo confine si chiude la « Porta orientale d'Italia », si sbarrano quelle che furono chiamate le « abituali strade dei barbari », si dà applicazione anche ad oriente al criterio che impone a settentrione il confine italiano del Brennero.
Dimostrata la unità storica e geografica della Venezia Giulia, in questa relazione aggiungiamo:
Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, centri di maggiore importanza, sono italiane, anche a non pensare al passato, nella stragrande maggioranza dalla loro popolazione presente accertata dalle stesse statistiche ufficiali del governo austriaco ed ungherese. Italiane le città e borgate minori, italiani larghi centri rurali la cui esistenza economica e civile forma un tutto inscindibile con quella delle città. E poichè tali centri alla costa e all'interno sono tutti incontestabilmente italiani e dominano la vita morale e materiale di tutta la regione, non può non essere riconosciuto se non all'Italia il possesso totale della regione non solo per le ragioni superiori della sua difesa orientale, della storia, della civiltà, ma anche più propriamente per le leggi dell'economia del Paese e per il benessere stesso della sua popolazione senza differenza di nazionalità.

Anche all'infuori della sicurezza militare e della compattezza geografica indispensabili, un confine di transazione, un confine che non si appoggiasse ad elementi di terreno ben definiti, non potrebbe nè risolvere completamente il conflitto nazionale che si teme dall'inclusione di minoranze slave nel nostro confine, nè avrebbe alcuna solidità economica. Gli sbocchi naturali delle zone montane slavizzate (del resto poco densamente abitate) sono la pianura veneto-friulana e i porti italiani della Venezia Giulia, da Trieste a Fiume. Se codeste zone abitate ora prevalentemente da slavi, appartenessero ad uno Stato diverso dal nostro, esse diventerebbero centri di nazionalismo esasperato contro gli italiani, tenderebbero inevitabilmente al mare, potrebbero esercitare con grande energia, soccorsa anche dal retroterra sloveno e croato, una pressione minacciosa sulle nostre terre di confine tenendo queste in continua agitazione e i due Stati confinanti in continua tensione.

La inclusione di tutto il territorio cisalpino, anche di quelle frazioni abitate in parte o in tutto da slavi, lungi dal produrre pericoli di irredentismo slavo, che un saggio trattamento delle minoranze saprà prevenire, è l'unico modo per evitare o rendere innocuo e perciò neutralizzare al suo primo sorgere ogni irredentismo slavo che un confine irrazionale accenderebbe sotto la stessa pressione delle necessità economiche che gli slavi cisalpini potranno invece liberamente soddisfare come sinora nei centri urbani e nei porti italiani del paese sotto la tutela del comune dominio italiano.

Affermate l'indivisibilità della regione e la necessità che essa costituisca con suo confine alpino il baluardo orientale d'Italia, non può recar pregiudizio alla rivendicazione italiana il numero di abitanti d'altra lingua che si trovano o frammisti in minoranza agli italiani in alcuni distretti o formino magari la maggioranza di alcuni estremi distretti della regione. Si dissero già le ragioni, gli aspetti e il valore generale di questi fenomeni ai margini dei vani territori anche di altre unità nazionali, non per questo politicamente intaccate o scisse. Ad ogni modo, a correggere impressioni correnti, giova stabilire che la Venezia Giulia non è se non una parte divelta a forza in epoca recente per ragione politica dal corpo geograficamente compatto della Venezia, la quale complessivamente novera 3.600.000 abitanti, di cui poco più di 400.000 slavi e che anche volendo limitare il computo alla parte della Venezia sinora staccata dal Regno d'Italia (Venezia Giulia) le statistiche ufficiali danno, compresi i regnicoli, 482.000 italiani di contro a 411.000 slavi (tra sloveni e croati).

Dimostrata la fallacia fraudolenta delle statistiche austriache, si conclude:
Senza dilungarsi in ricordi della vita politica del paese, basterà accennare che nelle tre province amministrative di Trieste, di Gorizia e Gradisca e dell'Istria, le quali secondo la statistica ufficiale avrebbero 48 per cento di popolazione italiana, 32 per cento di sloveni e 20 per cento di croati, le amministrazioni dei Comuni cioè degli enti fondamentali e tradizionali della vita pubblica, che, pur poggiando il sistema elettorale sulla più larga base, sono in mano di italiani, comprendono il 70 per cento della intera popolazione della Venezia Giulia, mentre i Comuni amministrati da slavi comprendono soltanto il 30 per cento della popolazione complessiva delle tre province giuliane. Così le diete provinciali - anche a non pensare a Trieste dove il Consiglio-Dieta ha 68 membri italiani su 80 - sono in Istria e nel Goriziano in maggioranza italiane, in onta a regolamenti elettorali foggiati sotto la pressione del Governo a favore degli slavi.

Queste sole principali manifestazioni della vita politica della Venezia Giulia dimostrano che, o gli italiani sono, contro le statistiche ufficiali, la grandissima maggioranza della popolazione, oppure che parte molto notevole degli slavi, malgrado le pressioni governative e le agitazioni avversarie, riconosce la superiorità italiana, la necessità ed utilità della convivenza con l'elemento italiano, ne parla la lingua e ne accetta il programma politico del quale mai gli italiani hanno fatto mistero neppure nel campo amministrativo.

Il nuovo confine alle Alpi Giulie, che include nel Regno la costa istriana con Pola sino a Fiume, non elimina l'inferiorità, in cui, con tanto danno proprio e generale della pace in Europa, si è trovata sinora l'Italia nell'Adriatico. A compiere la riparazione di questo danno, a togliere di mezzo ogni pericolo e ogni minaccia, occorre ridare all'Italia una congrua parte di possesso nella Dalmazia.

Rievocata ed illustrata la storia dell'Adriatico colle infauste date di Campoformio, di Lissa, del Congresso di Berlino, si osserva che, mutati i tempi e le condizioni, l'Italia può modificare il suo postulato adriatico : anzi che il dominio assoluto di questo mare, essa può limitarsi a chiedere la libertà non escludendo, cioè dal possesso di costa adriatica il nuovo organismo statale jugoslavo, ma per sè richiedendo non più, ma anche non meno di quanto assicuri la propria tranquillità ed escluda le altrui minacce.

Fatta l'analisi di quanto l'atto di Londra comprende ed esclude, si osserva che secondo esso della Dalmazia sarebbe assicurata all'Italia una superficie di 6326 chilometri quadrati sui complessivi 12.385; che della popolazione dalmata di 645.000 abitanti 287.000 verrebbero all'Italia, cioè, il 44 per cento; che dello sviluppo totale di costa (isole escluse) da Fiume alle foci della Boiana l'Italia avrebbe contro 647 miglia date agli slavi, 117, pari ad un sesto. Onde lo Stato jugoslavo avrebbe sulla sponda orientale sei volte più sviluppo costiero che l'Italia, avrebbe la metà della popolazione e metà della superficie continentale ed insulare della Dalmazia.
Le cifre delle statistiche austriache parlando, nei riguardi nazionali della Dalmazia, di duecentocinquantamila slavi e quindicimila italiani, cercano completare con la frode l'opera della più feroce sopraffazione che la storia della politica europea ricordi nell'ultimo secolo. Il documento sottopone tali cifre a rigorosa critica e fa una analisi dell'elemento slavo che trova sostegno nelle statistiche scolastiche, nei risultati elettorali, nelle varie manifestazioni della vita sociale. Si distinguono tra i sedicenti slavi per opportunismo politico quelli che parlano esclusivamente l'italiano, il grande numero di essi che lo conoscono e parlano correntemente, a prescindere dal fatto che i cosiddetti morlacchi di origine illirica-romana con affinità albanese, son gente ben distinta dal tipo slavo.

Si osserva che la violenza governativa austriaca può aver sottratto agli italiani la rappresentanza parlamentare che nel 1869 era composta di sette deputati italiani e due slavi, e la maggioranza nella Dieta provinciale che nelle prime elezioni del 1861 contava trenta deputati italiani e tredici slavi, ma non potè nè intaccare l'italianità di Zara trionfante nel suo Comune tutto italiano, nè impedire che ad esempio la Camera di Commercio dei distretti di Zara e Sebenico fosse italiana e la Curia dei maggiori censiti per gli stessi distretti inviasse senza competizione alla Dieta ancor sempre deputati italiani, nè distruggere a Spalato le testimonianze più schiette della latinità e le vibrazioni del patriottismo italiano.
E anche se non la soccorresse il diritto storico, e la realtà nazionale non fosse come è diversa da quella che le frodi governative a beneficio degli slavi hanno costruito, l'Italia non potrebbe, per la sicurezza del proprio avvenire, rinunziare ad una parte di possesso in Dalmazia.

Dopo aver esaminata la situazione reciproca delle due coste orientale e occidentale, ed avere esposti i termini di quello che è il problema strategico dell'Adriatico, si conclude: Dalla Dalmazia viene una minaccia per l'Italia se tutta in mano di un altro Stato ; quel tanto di possesso dalmatico, a cui sono circoscritte le aspirazioni italiane, non minaccia nessuno.
Tratti dalla guerra attuale esempi a conforto della tesi si soggiunge:
In corrispondenza ai principii esposti l'Italia deve richiedere che siano neutralizzati senza limiti di spazio e di tempo tutti i tratti di costa e tutte le isole che in Adriatico saranno assegnati ad altri, anche di quei tratti dei quali la convenzione di Londra non prevede la neutralizzazione con divieto assoluto di ogni armamento di terra e di mare e con l'obbligo della immediata inutilizzazione degli armamenti e di ogni altra opera militare esistente.

Qianto al problema di Fiume che, per non essere assegnata all'Italia dal patto di Londra, esige particolarmente illustrazione, fatta la storia della sua resistenza ad ogni tentativo di riunirla alla Croazia, si prosegue:
L'impegno che assumeva l'Italia, quando si uni agli odierni suoi alleati, era, secondo la convenzione militare allora stipulata, limitato dall'obbligo assunto dalla Russia di tenere impegnata contro l'Austria-Ungheria una determinata quantità minima di forze e per evitare che l'Austria-Ungheria concentrasse tutto il suo sforzo contro l'Italia qualora la Russia intendesse rivolgersi principalmente contro la Germania ».
Le vicende politiche interne della Russia che condussero alla pace separata, ebbero questa duplice conseguenza: che l'Austria-Ungheria, liberata da ogni pressione nuova, potè concentrare tutte le sue forze contro l'Italia, e che la Germania, pure essa liberata dal nemico orientale, potè prestare all'Austria-Ungheria quel largo contributo che determinò in un momento della guerra un così grave contraccolpo ai danni dell'Italia. Perchè, se all'evento fortuito della scomparsa della Russia dal novero dei belligeranti dell'intesa ebbero largo risarcimento i nostri alleati dall'intervento delle forze americane, nessun apporto di tal genere, come con elevata parola riconosceva e rammaricava il Presidente Wilson, venne al fronte italiano a rendere men duro lo sforzo dell'esercito nazionale.

Dimostrato come Fiume completi la sistemazione difensiva dei confine terrestre, il possesso italiano di Fiume completa anche il programma antigermanico della sistemazione adriatica che deve uscire dalla guerra. Soltanto l'Italia, cioè soltanto una grande potenza marittima, può avere i mezzi di attuare questo programma che risponde ad un interesse collettivo delle potenze che hanno insieme combattuto questa guerra.
"E Trieste e Fiume - avvertiva nel 1915 uno scrittore francese segnando i termini della pace futura - sotto apparenze austriache ed ungheresi sono dei porti soprattutto tedeschi, organi meridionali di una linea di dominazione di cui Amburgo e Brema sono i corrispondenti sul mare del Nord". Bisogna impedire che, sottratto a questa indiretta dominazione germanica, dell'Adriatico uno degli organi, Trieste, l'altro organo, Fiume, continui questa sua funzione germanica sotto le apparenze jugoslave, magari contro la volontà e gli intendimenti del nuovo Stato slavo impotente ed impreparato ad eliminare le vecchie influenze e a prevenire i nuovi sforzi tedeschi concentrati, spe
cialmente dopo la deviazione da Trieste, su l'unico punto di possibile infiltrazione.

Anche senza preoccuparsi del danno che potrebbe derivare a Trieste italiana dalla concorrenza di Fiume jugoslava od altrimenti non sottoposta alla sovranità italiana, anche senza illustrare l'evidente danno generale che da tale concorrenza deriverebbe all'economia del retroterra quando con artifizi di nuove linee ferroviarie, di tariffe di favore, di nuovi impianti portuali, di altri provvedimenti estemporanei si volessero spostare per avversioni politiche verso Fiume non italiana traffici e rapporti d'affari con retroterra che hanno a Trieste la loro sede naturale e tradizionale, già organizzata nel modo più economico, giova insistere su questa funzione antigermanica che a Fiume solo l'Italia può compiere, senza pregiudizio anzi a vantaggio del retroterra croato e ungherese.

Concorrono a ciò le attitudini naturali e i mezzi tecnici di una « nazione marinara qual'è l'Italia », la quale, mettendo questo suo porto, come anche Trieste a completa disposizione del retroterra naturale, non farebbe altro che conciliare, nel modo tecnicamente migliore ed economicamente più vantaggioso, il proprio interesse con l'interesse della naturale propria clientela, senza influenze e dipendenze politiche contrarie alla linea generale comune.

Dopo un esame delle concessioni portuarie che l'Italia è ben disposta a fare per garantire gli interessi del retroterra, si afferma quanto segue:
Poichè a Trieste e a Fiume dovranno fare capo territori tedeschi (tanto della Germania quanto dell'Austria), lo Stato czeco-slovacco, i paesi jugoslavi, (Slavonia e Croazia) e l' Ungheria, è chiara la difficoltà, per nota dire l'impossibilità che un'altra sovranità che non sia quella dell'Italia, estranea o superiore alle inevitabili competizioni non solo politiche ma anche economiche fra i vari Stati ora accennati, assicuri ai loro comuni sbocchi al mare quell'imparziale ed oggettivo governo tecnico che è una premessa indispensabile al rapido ed economico sfruttamento dei porti stessi e delle linee ferroviarie e marittime onde dovranno essere serviti.

Per quanto si riferisce più particolarmente a Fiume, va negato che questo porto sia dovuto alle esigenze economiche della Croazia. Il traffico della Croazia entra nel movimento complessivo del porto di Fiume (importazione ed esportazione) col solo 7 per cento: il resto si riferisce agli altri paesi del retroterra e più largamente all'Ungheria. Il traffico complessivo della Croazia, Slavonia, Dalmazia, Bosnia e Erzegovina prendeva la via di Fiume appena nella prop
orzione del 13 per cento, il resto s'incanalava verso i porti della Dalmazia inferiore. Il servizio marittimo, di Fiume, disimpegnato sinora da società sovvenzionate dall'Ungheria, non potrebbe essere assunto da uno Stato nuovo, che a Fiume reca così esigua parte del proprio traffico, che avrà tanti più urgenti bisogni a cui provvedere e non è in nessun modo preparato a tali funzioni. Solo un grande Stato marinaro come l'Italia con le tradizioni, i mezzi, le relazioni, le esperienze, potrà aiutare Fiume ad assolvere la propria missione, magari, nei primi tempi, con qualche sacrificio, che il proprio erario potrà lievemente sopportare nel conguaglio di utili e perdite, reso possibile dalla gestione cumulativa di tanti porti. Trieste e Fiume in mano all'Italia potranno avere, senza conflitto di interessi e con vantaggio comune del rispettivo retroterra, servizi marittimi combinati, più ampi e più economici, perfetti. Certi servizi marittimi separati per Trieste e per Fiume non sarebbero nè razionali nè economici.
Trieste, appoggiata ad un grande Stato come l'Italia potrebbe averli; Fiume no, con danno proprio e del proprio retroterra, il quale dovrebbe necessariamente pagate per tali linee noli di molto più alti di quelli che pagherà se Fiume sarà italiana e potrà usufruire dei servizi cumulativi che l'Italia pagherà per ambedue i suoi porti dell'Adriatico settentrionale.
In altre parole, e non solo per questo riguardo, l'Italia a vantaggio di ambidue i porti e dei paesi produttori o consumatori dei retroterra eserciterà quella funzione regolatrice, integratrice, o sovventrice, per la quale agli Stati del retroterra, e specialmente alla Croazia e alla Jugoslavia, mancherebbero larghezza di mezzi, preparazione tecnica, imparzialità di criteri.

E se è vero che le convenzioni di Londra aggiungevano Fiume al Regno di Croazia, non è men vero che nelle dette convenzioni non era presupposta la caduta della monarchia degli Absburgo della quale il detto Regno era parte integrante : onde era spiegabile che alla Trasleitania e tanto più ad una complessiva popolazione di 50 milioni di abitanti non fosse negato il possesso politico di un porto autonomo nell'Adriatico, dei quale essa era ben in misura di sostenere il peso dell'esercizio; mentre, caduta la monarchia a Vittorio Veneto per l'ultima determinante dell'urto poderoso dell'esercito italiano, del quale, tra altri, tre non sospetti testimoni, il generale inglese Lord Cavan, il Presidente della Repubblica austro-ungarica Bauet, e persino il maresciallo Conrad vari Hoetzendorf, riconoscevano la grande portata, caduta la monarchia dal novero degli Stati, veniva meno la necessità o il titolo al dominio politico di questo sbocco commerciale.

Solo deformando uno stato di animi, si potrebbe legare Fiume alle sorti del nuovo Stato, nel quale, oltre di Buccari e Segna, la Croazia - altro fatto che le convenzioni di Londra non prevedevano - trova occorrendo per i suoi traffici anche altri sbocchi nel Basso Adriatico che si supponeva sarebbero stati al servizio di altre separate agglomerazioni statali (Montenegro e Serbia).

Nessuno può onestamente contestare il diritto all'Italia ad avere dalla pace questi frutti, che nella massima parte le furono assicurati prima della sua entrata in guerra per uno sforzo ed una somma di sacrifici immensamente inferiori a quelli cui fu costretta per la causa comune. Chi contesta o discute le richieste dell'Italia, lo fa non per ragioni obiettive o intrinseche, ma solo per un troppo largo riguardo a quelle che sono le pretese e le obiezioni degli slavi meridionali.

Singolari le pretese e le obiezioni di quella parte degli slavi che cooperarono direttamente nella Monarchia Austro-Ungarica alla determinazione di scatenare con la aggressione contro i serbi la guerra mondiale e a questa guerra diedero sino all'ultimo momento una parte decisiva con speciale energia contro l'Italia (è di ieri la confessione del più importante organo dei jugoslavi che essi si sono battuti da leoni contro l'Italia cioè contro l'intesa per quella che chiamano la loro terra). Dal Governo austro-ungarico, quasi in premio del carattere lealistico e dinastico impresso sino agli ultimi tempi al loro movimento per uno Stato jugoslavo nell'orbita della Monarchia degli Absburgo, ebbero all'ultima ora, con la cessione della flotta un mandato di fiducia che deve rendere almeno perplesso l'atteggiamento degli Alleati verso il loro avvenire.

Comunque l'Italia previde, prima di stringersi al nemici degli Imperi Centrali, questa eventualità di vedersi contestata dopo la vittoria l'esecuzione degli accordi stipulati, per opera di compagni d'arme che potevano avere per qualche riguardo interessi ed ideali politici diversi ed in parte perfino opposti ai nostri. Per questo volle con moderazione che fu allora molto apprezzata, proporre un'equa transazione sui punti contrastanti, determinando, come allora scriveva il governo d'Italia, « qual'è il minimo di concessioni a nostro favore, che, pur dando qualche soddisfazione alle giustificate richieste altrui basti a garantirci che, a guerra finita e nel supposto di un suo esito favorevole, le nostre speranze non abbiano a restare frustrate e deluse, per effetto della pressione che avessero ad esercitare a nostro danno quegli stessa compagni al cui fianco avremo combattuto, e ciò specialmente per quanto riguarda l'appagamento di alcune antiche nostre aspirazioni e le indispensabili garanzie della nostra situazione militare nell'Adriatico ».

Dopo avere prevenuto equivoci futuri, si richiama l'attenzione dei nuovi alleati sulla possibilità di quelle eventuali contestazioni che ora in forma tanto più grave ma non per questo meno ingiustificata si sollevano, l'Italia può lealmente attendersi che le sue moderate richieste le quali corrispondono al suo diritto e alla sua necessità ed hanno, per tanta parte, il suffragio della volontà delle popolazioni interessate, abbiano pieno accoglimento".

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