TABELLA BATTAGLIE NELLA STORIA


BATTAGLIA DI CARRE

By Andrea Borlotti

Data: 9 GIUGNO 53 a.C.
Luogo: CARRE (Località del regno di Osroene; oggi Haran, in Turchia.)
Eserciti contro: ROMANI E PARTI
Contesto: CAMPAGNA DI CRASSO IN ORIENTE
Protagonisti:
MARCO LICINIO CRASSO (Proconsole e generale romano)
CAIO CASSIO LONGINO (Questore romano)
PUBLIO LICINIO CRASSO (Figlio di Marco Licinio Crasso)
SURENA (Generale e alto dignitario dei Parti)
SILACE (Governatore partico della Mesopotamia)

Accenni iniziali

Marco Licinio Crasso fu meno autorevole dei suoi due colleghi, Caio Giulio Cesare e Gneo Pompeo Magno, con i quali nel 60 a.C. strinse un accordo privato, il cosiddetto Primo Triumvirato. Infatti se Pompeo era diventato famoso per le sue imprese contro i Pirati e contro Mitridate VI Eupàtore, re del Ponto, e Cesare era in procinto di portare guerra ai Galli, Crasso non aveva intrapreso delle campagne militari personali; fu più che altro famoso per aver sconfitto Spartaco e i suoi ribelli durante le guerre servili nel 73 a.C.

Nel 55 a.C., per il trattato di Lucca, gli fu affidato il proconsolato della Siria. Lontano da quello che avveniva in Occidente (guerre di Cesare in Gallia, crescita del potere personale di Pompeo a Roma), lui cercò di consolidare la sua posizione cercando di ottenere l’intero controllo della Mesopotamia, regione chiave per i traffici con l’Oriente.

Giunto in Siria all’inizio del 54 a.C., Crasso rilevò le truppe e il comando del suo predecessore Aulo Gabinio, potendo così fruire di sette legioni; decise allora di passare l’Eufrate (fiume che divideva la Siria dall’Osroene, regno sotto protettorato romano) nei pressi della città di Zeugma e di portare guerra contro i parti, nemici per eccellenza di Roma; essi provenivano dal Chorassan, sotto il Mar Caspio, e possedevano un impero che, nei momenti di maggiore estensione, si estendeva dall’Eufrate all’Indo e aveva come capitale Seleucia, sul Tigri (in seguito la capitale diventerà Ctesifonte).

Il proconsole Crasso marciò quindi in Mesopotamia prima verso est, poi verso sud seguendo il corso del fiume Belik, senza trovare una grande resistenza, fatta eccezione per la città di Zenodozia, dove perse un centinaio di uomini. I parti erano in quel momento ancora impegnati in una lunga guerra civile e non reagirono: il governatore della zona, Silace, non si oppose all’avanzata romana e si diede alla fuga. Dopo aver messo di presidio circa 7000 fanti e 100 cavalieri alle città alleate, Crasso ritornò in Siria a svernare con il resto dell’esercito. Qui giunse anche il figlio, Publio Licinio Crasso, inviato da Cesare insieme a mille cavalieri galli in aiuto al padre.

Nella primavera del 53 a.C. Crasso era in procinto di ripartire per la Mesopotamia, quando gli giunsero ambasciatori dal re dei parti Orode, che aveva prevalso nella guerra civile degli anni precedenti, chiedendo spiegazioni sulla campagna militare dei mesi precedenti. Poi aggiunsero che Orode avrebbe perdonato Crasso se avesse confessato il vero motivo della spedizione, ovvero se era stata una guerra politica, o una guerra per fini personali. Non si arrivò a nessun accordo e Crasso li congedò dichiarando aperto il conflitto. Tra i romani vi erano opinioni differenti sul da farsi: il questore Caio Cassio Longino (uno dei futuri uccisori di Cesare) consigliò a Crasso di rivedere i suoi piani e di ascoltare il responso degli indovini. Crasso fu però rincuorato dall’arrivo del re d’Armenia Artavasde, giunto nel suo campo con circa 6000 cavalieri; questi incitò il proconsole e gli promise inoltre altri 10.000 catafratti (cavalieri corazzati) e 30.000 fanti, consigliandogli inoltre di far passare i suoi legionari per l’Armenia, dove l’esercito non avrebbe avuto difficoltà di approvvigionamento e, data la presenza delle montagne, avrebbe invece potuto mettere in difficoltà la grande forza dell’esercito partico, la cavalleria. Crasso accettò ben volentieri gli uomini fornitigli, ma preferì attaccare passando per la Mesopotamia, dato che voleva puntare direttamente sulla capitale Seleucia.

Passato l’Eufrate sempre nella città di Zeugma, Crasso si trovò di fonte a molti problemi legati al tempo atmosferico: una tempesta si abbatté sul ponte appena costruito e lo distrusse, mentre alcuni fulmini caddero sul luogo in cui doveva essere posto l’accampamento. Il giorno seguente avanzò lungo il fiume con sette legioni di fanteria pesante, con circa quattromila cavalieri e con altrettanti fanti leggeri. Venuto a sapere da alcuni esploratori che i parti erano fuggiti e la zona davanti a loro era deserta, Crasso incitò i suoi legionari e dimostrò il falso coraggio del nemico. Cassio però, in un altro colloquio con Crasso, lo invitò a ritirare le truppe dentro una città fortificata alleata, oppure a proseguire verso Seleucia seguendo il corso dell’Eufrate.

Mentre il console rifletteva su cosa fare, si presentò a lui un arabo di nome Abgaro, uomo molto falso, che aveva avuto in affidamento da Pompeo il regno di Osroene, e si era meritato la fama di filoromano; in questa circostanza però si comportò diversamente e, d’accordo con il re parto Orode, indusse Crasso a lasciare le sponde del fiume per recarsi in aperta pianura, dove i parti erano meglio preparati. Riferì inoltre che il re Orode aveva inviato contro di lui i generali Surena e Silace, mentre egli sarebbe rimasto inattivo. Ciò però era falso poichè il re Orode, mentre Surena e Silace si diressero contro Crasso, si diresse di persona contro Artavasde e invase l’Armenia.

Crasso si lasciò persuadere da ciò e lasciò la posizione originaria per seguire quella indicata da Abgaro: questi guidò dapprima i romani su percorsi favorevoli, ma poi cambiò itinerario, passando per zone molto più aride e secche. Quando arrivarono poi notizie sull’aggressione di Orode ai danni di Artavasde, che chiedeva anche aiuti, Crasso decise di non aiutarlo, ma prese in disparte Abgaro chiedendo spiegazioni su ciò che stava accadendo. Con caratteristica tattica adulatoria, Abgaro riuscì a calmare Crasso e lo convinse a seguire ancora i suoi piani per la battaglia decisiva.

La battaglia

Il 9 giugno del 53 a.C., Crasso era ormai pronto alla battaglia e inviò alcuni cavalieri in avanscoperta per spiare le mosse del nemico: molti di questi cavalieri però furono catturati e uccisi, mentre altri tornarono e riferirono che i parti stavano avanzando in gran numero. Crasso restò sbigottito da ciò e dispose l’esercito in formazione da battaglia: formò un quadrato a due fronti, ciascuno dei quali si estendeva per dodici coorti; presso ogni coorte piazzò uno squadrone di cavalleria. Affidò un’ala a Cassio e l’altra al figlio Publio, mentre egli si pose al centro. Avanzando in questo modo i soldati romani arrivarono fino al fiume Belik, nei pressi della città di Carre, dove si trovarono di fronte ai parti guidati dal generale Surena, coadiuvato dal governatore partico Silace: l’esercito partico era composto da circa 10.000 cavalieri e 1.000 catafratti, che a prima vista sembravano non molto numerosi (evidentemente molti erano nascosti tra le dune di sabbia).

Quando il generale Surena diede il segnale di combattimento, la pianura si riempì di urla terrificanti che spaventarono i soldati romani. I parti usarono questa tattica per scuotere l’animo del nemico e per gettarlo nel panico: così avvenne. La seconda mossa attuata dai parti fu un attacco frontale con la cavalleria corazzata, che era uno degli elementi peculiari del loro esercito: essa non riuscì a rompere lo schieramento romano ma, dando l’impressione di disperdersi e di arretrare, lo accerchiò. Crasso lanciò all’attacco la fanteria leggera che non riuscì ad avanzare molto ma, al contrario, dovette retrocedere rapidamente e si mescolò con la fanteria pesante, creando una grande confusione. Qui comparve il secondo elemento di forza dell’esercito partico, ovvero gli arcieri a cavallo: essi erano molto più mobili della cavalleria corazzata, e usavano un arco assai più potente di quello semplice; inoltre erano seguiti da un convoglio di cammelli che garantiva loro un continuo rifornimento di frecce.

Questo fu un grave colpo per i romani, poiché il loro esercito era essenzialmente costituito da legioni di fanteria, che prediligevano il combattimento corpo a corpo. Questi arcieri, tenendosi a distanza, cominciarono a scagliare i loro dardi e, poiché la formazione romana era molto compatta, non sbagliarono un colpo.

I soldati romani cercarono di resistere il più possibile, sperando che i parti finissero al più presto le frecce, per poi passare al combattimento ravvicinato; ma quando si videro arrivare nuovi cammelli carichi di frecce, Crasso mandò messaggeri al figlio Publio dicendo di costringere il nemico allo scontro prima di venire accerchiato. Il giovane allora, presi mille e trecento cavalieri, cinquecento arcieri e otto coorti di fanteria pesante, li condusse allo scontro. I parti dunque, volendo allontanare il giovane Publio dal padre per poi tendergli un’imboscata, finsero di fuggire: questi si lanciò all’attacco con la cavalleria, inseguito dalla fanteria, convinto di avere ormai la vittoria in pugno e di cominciare l’inseguimento del nemico; quando però si accorse che i parti fecero dietro front e si diressero in numero maggiore verso di loro, capì l’inganno. Fatto sta che i romani si fermarono, ritenendo che il nemico sarebbe giunto allo scontro, dato che era inferiore di numero: i parti lanciarono invece contro di loro i cavalieri corazzati che in breve tempo decimarono le truppe romane; Publio allora incitò i suoi all’attacco finale, muovendosi egli stesso insieme ai cavalieri galli, che riuscirono a scompigliare per un po’ la cavalleria partica.

Ma il clima caldo e torrido, al quale i galli non erano abituati, li costrinse alla ritirata insieme a Publio, ferito gravemente. Alcuni di essi però, nel cercare di fermare il nemico, finirono infilzati nelle lunghe aste partiche. Il giovane allora mandò alcune staffette al padre, chiedendo aiuto: la maggior parte di esse finirono però uccise. Insieme a Publio c’erano due greci, Ieronimo e Nicomaco, che tentarono di convincere il giovane a rifugiarsi con loro nella città di Icne, che si era schierata con i romani; Publio però non volle lasciare i suoi uomini, come un buon comandante è solito fare, e li congedò. In seguito, non essendo più in grado di combattere, ordinò al suo servo di ucciderlo.

I parti uccisero quindi i superstiti della cavalleria di Publio e tagliarono la testa al giovane: si diressero quindi contro Crasso in persona.

Appena ricevute le staffette inviategli dal figlio, Crasso divenne titubante, ma decise comunque di cercare di portare aiuto al figlio. In quel momento i parti attaccarono però con più tenacia e forza di prima e, alcuni di essi, portando la testa di Publio infissa su di un’asta, chiesero per scherno chi fossero i genitori di costui, giacché non era possibile che un uomo così valoroso potesse essere figlio di Crasso. Quella vista prostrò gli animi dei soldati ma Crasso dimostrò di essere all’altezza della situazione e incitò i suoi soldati al combattimento, dicendo solo che il lutto per la morte del figlio era solo suo.

La maggior parte dei soldati però non lo ascoltò e, quando fu dato loro l’ordine di alzare il grido di guerra, emisero solo un debole urlo. Quando si arrivò al combattimento, la cavalleria partica manovrò obliquamente, mentre i soldati delle prime file, usando le lunghe aste, costringevano i romani ad ammassarsi in un piccolo spazio, dove poterono finirli con le frecce o con le lunghe lance.

Dopo la battaglia

Sul far della sera i parti si ritirarono, dopo aver detto a Crasso che gli concedevano una notte sola a meno che egli non volesse conferire con il re Orode di sua spontanea volontà. Essi si accamparono nei pressi dell’accampamento romano, dove la situazione era assai grave: nessuno si curò dei feriti e della sepoltura dei morti: Crasso era in una situazione di profondo abbattimento e gli ordini sul da farsi furono quindi presi da Cassio e dal legato Ottavio, che radunarono le coorti e decisero di partire al più presto per rifugiarsi nella città di Carre, abbandonando però i feriti. Questi ultimi, avendo capito che tutti li stavano abbandonando, gridarono e chiesero aiuto. Ciò creò molto scompiglio tra i soldati superstiti, che credettero di essere attaccati dal nemico; fatto sta che verso la mezzanotte riuscirono ad arrivare a Carre soltanto trecento cavalieri al comando di un certo Ignazio. Quest’ultimo, giunto alle mura della città, ordinò di avvisare il loro comandante Caio Coponio, dicendo chi era. Riuscì così a mettere in salvo il suo reparto, ma fu accusato di avere abbandonato il suo generale: Coponio allora andò personalmente incontrò a Crasso, che stava giungendo, e lo scortò nella città.

I parti si accorsero della fuga notturna dei romani, ma non intervennero: ma il giorno successivo entrarono nell’accampamento e massacrarono tutti i feriti che erano stati abbandonati; poi con la cavalleria catturarono moltissimi che vagavano per la pianura. Un gruppo di quattro coorti, guidato dal legato Vargunteio, fu accerchiato in una strettoia e venne distrutto, fatta eccezione per venti uomini che, ammirati dai parti per il loro coraggio, furono fatti fuggire a Carre.

Surena non aveva informazioni precise su chi si fosse asserragliato a Carre: secondo le voci riferitegli Crasso e i suoi luogotenenti erano fuggiti oltre, e nella città aveva trovato rifugio solo l’esercito. Quindi, deciso a sapere chi vi fosse nella città, inviò un uomo con l’incarico di chiedere se Crasso o Cassio erano disposti a trattare la resa. Crasso cascò nella trappola e Surena inviò allora nel campo romano alcuni arabi che riconobbero Cassio, e riferirono che il loro comandante era disposto a concederli la vita a patto che abbandonassero la Mesopotamia. Il proconsole aspettò allora che tornassero i messi per riferirgli il luogo e l’ora in cui si sarebbe dovuto incontrare con Surena per trattare la resa; invece, dopo poco tempo, si vide avanzare verso Carre l’intero esercito dei parti, che chiese ai cittadini di consegnare loro Crasso.

Quest’ultimo decise di affidare la sua sorte e quella dei suoi soldati ad un certo Andromaco, che li avrebbe dovuti condurre in salvo durante la notte. Ciò avvenne in ordine sparso e, forse per il fatto che Andromaco voleva tradire lo stesso Crasso, il giorno dopo l’esercito romano si trovava ancora a vagare attorno a Carre. Cassio si era insospettito ed era tornato nella città mesopotamica, da dove poi era ripartito per la Siria con circa 500 cavalieri, mentre il legato Ottavio con circa 5000 uomini si diresse verso i monti dell’Armenia. Crasso con il resto dell’esercito (quattro coorti) distava molto poco dal nemico, con il quale venne presto in contatto. Avendolo visto in difficoltà Ottavio si mosse per soccorrerlo. Intanto Surena temeva di non riuscire a prendere la posizione in cui si trovava Crasso prima di notte e chiese di poter trattare direttamente con quest’ultimo; così lasciò andare alcuni prigionieri romani, che erano stati plagiati dai parti sulla loro magnanimità e sul loro desiderio di pace. Essi, tornati da Crasso, erano convinti di ciò che era stato loro detto dai parti, mentre il proconsole era assai dubbioso. Quindi cercò con tutti i mezzi di far capire ai suoi soldati che si trattava di un tranello e che sarebbe stato sufficiente resistere per poco tempo per raggiungere la salvezza. Ma i soldati non accettarono la proposta e iniziarono a dargli del vigliacco e dell’irresponsabile: arrivarono addirittura a minacciarlo e Crasso non poté far altro che andare dal nemico per trattare. Secondo Plutarco Crasso, voltandosi indietro mentre si dirigeva da Surena, disse:

Ottavio, Petronio, e voi comandanti romani qui presenti, vedete che la mia strada è segnata e siete testimoni che subisco un’oltraggiosa violenza. Ma dite a tutti gli altri, se sopravviverete, che Crasso è morto per l’inganno dei nemici e non per il tradimento dei suoi concittadini”.

In seguito non si sa bene cosa avvenne: ci furono delle schermaglie verbali tra Crasso e Surena, poiché quest’ultimo lo invitò a farsi precedere da alcuni soldati per appurare che i parti fossero disarmati, e il proconsole rispose che se avesse avuto interesse della propria vita non si sarebbe fidato dei parti. Surena allora gli fece portare un cavallo, dicendo che era un dono del re Orode, e aggiunse che per la firma della pace bisognava portarsi verso il fiume rammentando che Pompeo in passato non aveva mantenuto fede ai patti. A questo punto Crasso fu issato a forza sul cavallo che, frustato, sarebbe partito al galoppo se Ottavio non l’avesse fermato. Il legato sguainò la spada ad uno dei nemici e uccise un soldato partico, per essere subito dopo colpito lui stesso: nacque così una piccola battaglia dove tutti i romani che cercarono di difendere Crasso furono uccisi. Quest’ultimo sembra sia stato ucciso da un parto di nome Exatre.
Moltissimi soldati romani furono fatti prigionieri e trasportati sulla frontiera orientale dell’impero partico, a Merv; altri invece tornarono con Cassio in Siria, dove poterono allestire due legioni per la difesa della provincia. La testa e la mano di Crasso finirono sulla tavola del pranzo di nozze tra la sorella del re d’Armenia e il figlio di Orode, che sancì la riconciliazione tra i due popoli.
Surena aveva intanto allestito un grande trionfo a Seleucia e aveva vestito un soldato romano somigliante a Crasso con abiti femminili, per farlo schernire da tutta la città. Il re Orode però, invidioso della popolarità del suo generale lo fece uccidere dopo poco tempo.

Per alcuni anni dopo la battaglia di Carre i parti, al comando del figlio di Orode Pacoro, tentarono di invadere la provincia romana di Siria, ma vennero sconfitti da Cassio ad Antigoneia nel 40 a.C. e in seguito dal proconsole Publio Ventidio Basso nel 39 e 38 a.C.

La disfatta dei romani a Carre si può brevemente spiegare in questo modo: Crasso era un buon funzionario e un ottimo amministratore delle finanze, ma forse non un perfetto generale; fu forse troppo bramoso di giungere a Seleucia, non valutando il territorio e soprattutto l’armamento dei parti. Infatti a Carre i romani si trovarono di fronte ad un nuovo modo di combattere (combattimento a distanza con gli arcieri a cavallo o con la cavalleria pesante), diverso da come erano sempre stati abituati: si sa infatti che la forza dominante dell’esercito romano era lo scontro frontale che a Carre non si verificò in quasi nessun momento della battaglia. Per concludere possiamo dire che Carre è stata si una grande sconfitta, ma certo Roma non si è lasciata scoraggiare da ciò: infatti molti dopo Crasso hanno cercato di invadere la Mesopotamia, alcuni riuscendovi altri no, e questo dimostra come l’Urbe sia sempre stata la città coraggiosa per eccellenza.

Andrea Borlotti

FONTI:
- PLUTARCO, Vite parallele, Nicia e Crasso, a cura di D. Manetti, Milano, Rizzoli 1987.
- ANDREA FREDIANI, Le grandi battaglie di Roma antica, Roma, Newton e Compton 2002.


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