I GRANDI DISASTRI IN ITALIA
Sezione a cura di Michele Squillaci e Francomputer
( e altri gratuiti contributi di scrittori e giornalisti )


1915-1918
Gli Anni Terribili della Grande Guerra
Guerra – Epidemie - Terremoti - Tensioni sociali

 

1 – Premessa

Scoppiata la prima guerra mondiale, l’Italia decise nel maggio 1915 di intervenire nel conflitto a fianco dell’Intesa dichiarando guerra all’Austria-Ungheria ed alleandosi con Francia, Inghilterra e Russia.

La guerra, iniziata nel 1914, si trasformò velocemente in uno scontro senza esclusione di colpi dove i paesi interessati misero in campo tutte le loro risorse militari ed economiche. Armi, equipaggiamenti, materiali, strumentazioni e tecniche di combattimento subirono rispetto al passato un notevole rivoluzionamento. Le popolazioni civili delle zone prossime al fronte vissero drammaticamente il trauma del conflitto subendo come conseguenza gli eccessi delle truppe, la perdita di familiari e congiunti, le requisizioni, la distruzione di case, villaggi e raccolti. Quelle più lontane patirono anch’esse danni e vittime per il verificarsi di incursioni compiute da mezzi aerei e navali. Industrie e lavoratori poi, con il passare del tempo, furono prevalentemente impiegati nello sforzo dedicato alla produzione bellica destinata ad approvvigionare e sostenere masse sempre più numerose di combattenti.

Deciso l’intervento, malgrado le difficoltà del paese e la crisi di alcune regioni colpite nel gennaio 1915 dal terremoto della Marsica, le truppe italiane raggiunsero le frontiere iniziando le ostilità. Lutti e dolori si aggiunsero quindi ai lutti e dolori dei primi mesi di quell’anno. Le brigate di fanteria italiane infatti lanciate all’assalto nel tentativo di sfondare le linee nemiche si trovarono di fronte una difesa forte, organizzata e potentemente armata. Le perdite furono rilevanti ed i caduti in combattimento a fine guerra raggiunsero la cifra di circa 680.000 uomini oltre a 1.100.000 di feriti tra cui centinaia di migliaia di invalidi e mutilati.

Ai morti in combattimento per causa bellica se ne aggiunsero altri dovuti alle calamità naturali che colpirono alcune regioni italiane nel 1916, nel 1917 e nel 1918 nonché quelli numerosissimi causati dalle malattie: malaria, colera, polmoniti, tubercolosi e tifo che infierirono sui soldati al fronte.
Per far fronte alle esigenze curative ed…..al “dopo” delle battaglie, combattute con grande dispendio di risorse umane, furono impegnate molte specialità dell’esercito. Un ruolo importante fu assunto dai servizi sanitari il cui personale si prodigò, sul campo ed in retrovia, nella cura di migliaia di feriti e di ammalati. Ai medici inquadrati nell’esercito ed agli infermieri della sanità militare, si affiancò il personale della Croce Rossa che mobilitò ed inviò per l'assistenza ai feriti nelle case di cura, nei posti di medicazione a ridosso della linea del fuoco, sulle navi e sui treni ospedale oltre 10.000 infermiere. A queste, se ne aggiunsero altrettante provenienti dagli ordini religiosi, dalle associazioni femminili e patriottiche, dai comitati di preparazione civile e dalle società di pubblica assistenza. Anche i cappellani militari, spesso inquadrati come personale paramedico, ebbero il loro bel…….da fare e tra questi anche Angelo Roncalli, già sergente del Servizio Sanitario, che nel 1958 divenne Papa con il nome di Giovanni XXIII.
Alla gravità delle ferite, spesso curabili solo attraverso interventi chirurgici invalidanti, i medici risposero con i mezzi e le conoscenze dell’epoca. Le cognizioni trasmesse dalle Università e l’esperienza professionale consentì di individuare e guarire malattie antiche come il colera, la malaria, la tubercolosi, il tifo nonché di analizzare altre patologie del tutto nuove provocate dal freddo, dall’umidità, dagli insetti, dalla carenza di cibo e dalla paura.

Nessuna conoscenza e nessun mezzo terapeutico fu invece messo a disposizione dagli specialisti e dai ricercatori per far fronte ad una letale forma di pandemia influenzale, chiamata “Spagnola”, che in un tempo brevissimo - meno di un anno - provocò in tutta Italia centinaia di migliaia di vittime.

 

2 – Gli avvenimenti

2.1 – Attività dell’esercito italiano nel 1915

All’inizio della guerra l’Italia si trovò a mantenere forze abbastanza consistenti anche in altri settori operativi oltre quelle schierate sulla frontiera austriaca. In Africa Orientale ed in Somalia i presidi locali si mantennero pronti ad intervenire nel caso di attacchi e sconfinamenti di armati provenienti dall’Etiopia. In Libia, la Guerra Santa proclamata dal Sultano Maometto V provocò la ribellione delle popolazioni poste sotto la sovranità italiana. Le forze metropolitane ed indigene dislocate sui territori della Cirenaica e della Tripolitania furono costrette ad abbandonare le località presidiate ritirandosi verso la costa dopo aver subito perdite dolorose. In Albania, l’Italia occupò nel 1914 l’isolotto di Saseno e, successivamente, la città di Valona dislocandovi inizialmente il 10° Reggimento bersaglieri ed una batteria da montagna.

Avviate le prime operazioni contro l’Austria, le azioni offensive dell’esercito italiano sull’Isonzo, in Carnia, in Cadore, e sugli Altipiani diedero luogo alla occupazione di obiettivi ritenuti utili ad assicurare basi di partenza adeguate per le successive fasi belliche. Poi…….dopo aver ottenuto qualche successo iniziale, le armate italiane si dissanguarono negli attacchi frontali contro le posizioni avversarie senza ottenere risultati di rilievo. Spaventoso il bilancio delle perdite durante le prime quattro battaglie dell’Isonzo e di quelle combattute in zona montana infatti, tra il 24 maggio e la fine del dicembre 1915, i calcoli effettuati diedero come risultato un totale di circa 204.000 uomini di cui 62.000 deceduti. Le truppe, condannate ormai a combattere una guerra di posizione, fecero conoscenza anche con lo squallore della trincea e con le malattie da essa originate. Nel solo 1915 si contarono ben 7.338 casi di colera ed oltre 6.000 di tifo.

Di queste perdite poco ne seppe l’opinione pubblica, sia per effetto della censura sia della stringatezza dei bollettini di guerra privi di qualsivoglia notizia destinata ad ingenerare preoccupazione, proteste e dati lesivi all’immagine propagandata di un esercito forte e vittorioso. Nel corso della quarta battaglia dell’Isonzo, malgrado l’enormità delle perdite già consuntivate, furono inviati rinforzi a Valona per procedere al salvataggio dell’esercito serbo in rotta verso l’Albania. A Durazzo, la Brigata di Fanteria “Savona” fu incaricata di proteggere il riordinamento ed agevolare l’esodo verso l’Italia dei reduci in fuga. Nel febbraio 1916, concluse le operazioni di sgombero, con l’imbarco di circa 140.000 soldati trasferiti via mare in Puglia, Durazzo fu abbandonata. A Valona fu mantenuta una forza di circa 100.000 uomini, inquadrata nel XVI Corpo d’Armata con alle dipendenze la 38a, la 43a e la 44a divisione.

2.2 – Operazioni del 1916 e terremoto a Rimini

Il 1916 da punto di vista bellico si caratterizzò per tre avvenimenti importanti e cioè: la quinta battaglia dell’Isonzo, l’offensiva austriaca in Trentino e la sesta battaglia dell’Isonzo. Quest’ultima azione consentì alle truppe italiane di irrompere nel campo trincerato di Gorizia, conquistare la città ed ottenere una vittoria di grande risonanza propagandistica sia in Italia sia all’estero.

Nel corso dell’anno però un pesante tributo fu pagato dalla Marina con la perdita delle corazzate Leonardo da Vinci e Regina Margherita. La “Leonardo da Vinci” fu affondata per sabotaggio nel porto di Taranto cagionando la morte di 21 ufficiali e 237 marinai.
Alcuni mesi dopo, poco prima della fine dell’anno, la Regina Margherita nel rientrare in Italia da Valona riportò gravissimi danni cozzando contro alcune mine. La nave, lunga 130 metri e con una stazza di oltre 13.000 tonnellate, invasa da un torrente di acqua si inabissò in pochi minuti; circa 700 marinai persero così la vita. Si verificarono anche esplosioni ed incendi dolosi alla acciaierie di Terni, al porto di Genova, alla fabbrica di esplosivi di Cengio ed alla Spezia dove bruciarono nel luglio le Officine dell’Arsenale e qualcuno appiccò il fuoco ad alcuni vagoni carichi di esplosivo.


2.2.1 – I Gas, arma letale

I fanti tra una battaglia e l’altra ebbero scarsi periodi di riposo ed altrettanto scarsi furono i momenti di tranquillità per i medici militari e per il personale delle strutture assistenziali tutti impegnanti in un’opera difficilissima dato l’alto numero dei feriti alcuni dei quali incurabili e/o intrasportabili.

Il trasporto dei militari feriti o ammalati dal fronte verso l'interno fu assicurato da 59 treni ospedale dell'esercito, 24 della Croce Rossa e 4 dell'Ordine di Malta; il totale degli individui trasferiti dalla zona di guerra salì rapidamente da 81.000 nel 1915, a 305.000 nel 1917 ed a 334.000 nel 1918. Se attrezzature e mezzi per consentire lo sgombero dei campi di battaglia furono potenziati, restò comunque il grave problema di assistere sulla linea di combattimento i numerosissimi feriti e gli ammalati. Gli ospedaletti da campo, con attrezzature e personale limitato, furono impegnati al massimo nel praticare gli interventi più urgenti, effettuare le prime medicazioni e selezionare la tipologia dei feriti da curare suddividendoli tra leggeri, gravi e gravissimi. Quelli....… considerati senza speranza rimasero anche senza cure.

Alle orrende ferite riportate dai soldati durante i bombardamenti dell’artiglieria e nel corso degli assalti, si aggiunse un altro pericolo mortale contro il quale i vari metodi di intervento escogitati della scienza medica e dall’esperienza professionale si rivelarono del tutto inutili. Nel giugno 1916, una nuova arma letale fece infatti la sua prima apparizione sulla fronte italiana dell’Isonzo: i gas.

Il comando austriaco per liberarsi della continua pressione cui era soggetto decise di organizzare un’azione offensiva, da sviluppare contro l’XI Corpo d’Armata italiano, facendo uso dei gas. L’attacco curato con il massimo scrupolo ed in gran segreto, fu effettuato il mattino del 29 giugno nel settore di San Michele e di San Martino. I gas venefici furono liberati nell’aria nella primissima mattinata dopo un intenso bombardamento di artiglieria. Subito dopo le ondate di fanteria austriaca dotate di maschere e di mazze ferrate si infiltrarono nelle linee italiane trovando gli uomini, morti, svenuti oppure incapaci di reagire. Non incontrando resistenza pattuglie nemiche rastrellarono poi i camminamenti uccidendo con le mazze o facendo prigionieri i pochi superstiti ancora in grado di muoversi.

Nella zona di San Martino l’attacco fu sferrato da due colonne della 17° divisione austro ungarica che occuparono immediatamente vari tratti delle linee italiane nei sottosettori della Brigata Regina ed in quelli della Brigata Pisa. I gas provocarono morte, asfissia e stato confusionale; reparti interi furono annientati in pochi istanti, i pochi sopravissuti cercarono di ripiegare e molti morirono poco dopo. Il comandante del 10° fanteria della Brigata Regina non avendo subito gli effetti del gas cercò di riordinare le truppe superstiti e, con i rinforzi divisionali sopraggiunti nel frattempo, contrattaccò scacciando il nemico dai triceramenti conquistati. Nel sottosettore della Brigata Pisa il comandante del 30° fanteria rimasto intossicato fu sostituito da un comandante di battaglione che raccolti i pochi superstiti li condusse all’attacco coadiuvato anche da elementi del 9° e del 10° fanteria.

Nel settore del San Michele, dense nubi di gas investirono le prime, le seconde linee ed i camminamenti raggiungendo con la loro venefica azione fino a Peteano ed a Sdraussina. L’assalto sviluppato da reparti della 20° Divisione Honved fu particolarmente violento ed investì alcuni battaglioni del 20° e del 48° fanteria appartenenti alle brigate Brescia e Ferrara. Anche in questo caso i superstiti, esauriti gli effetti del gas ed ottenuti rinforzi da settori non coinvolti nell’attacco, espugnarono le trincee ed i camminamenti perduti obbligando il nemico alla fuga.

Pur non avendo portato all’acquisizione di specifici vantaggi, l’azione bellica austriaca comportò gravi perdite per la 21° e per la 22° Divisione di fanteria italiane. Della prima caddero 109 ufficiali e 4.200 soldati, della seconda 73 ufficiali e 2.050 uomini di truppa tra morti, asfittici e feriti.

Una idea sugli effetti del gas sugli esseri umani furono descritti in una relazione inviata il 1 luglio 1916 al comando della 20° Divisione dal capo della Sanità delle truppe Honved:

“COMANDO 20a DIVISIONE
IL CAPO DELLA SANITÀ TRUPPE HONVED
E. N. 120.
Allegato all'Op. 183/15.
Ufficio postale 14.
1 luglio 1916.

Al Comando della 20a Divisione truppe honved.
Comunico che nell'ospedale divisionale N. 20 sono stati ricoverati per avvelenamento da gas, in totale: delle nostre truppe: 1 tenente, 1 aspirante e 21 uomini; Italiani: 1 ufficiale e 15 uomini. Di essi sono qui morti 1 nostro fante e 4 Italiani. I prigionieri italiani da me interrogati circa l'effetto del gas, mi riferiscono che essi sulle prime sentirono bruciore agli occhi che impediva di vedere. Dopo sentivano aggravarsi il respiro e subito tosse e voglia di vomitare. Questo stato di cose, benché detti individui si trovino ora all'aria fresca, non è migliorato e anzi è andato in generale peggiorando ed è subentrata una debolezza generale. Coloro però che rimasero nel gas caddero nell’incoscienza benché facessero uso del mezzo antigas. I nostri soldati ricoverati per disturbi da gas confessano che malgrado avessero la maschera credettero di sentir le tracce dell'odore del gas e dimostrarono gli stessi sintomi che dicono di aver provati gli Italiani. Nelle persone colpite da gas fu constatato, in parte da medici presso le truppe, in parte da noi, quanto segue sugli effetti del gas stesso: gli ammalati erano straordinariamente pallidi, le mucose bluastre, il respiro superficiale e accelerato, polso piccolo, appena percettibile, velocissimo. Vomito e sputo sanguigni, muco schiumoso, sui polmoni sintomi di catarro bronchiale.
In nessun ammalato furono osservati crampi.
I sintomi sopraelencati si sono alquanto mitigati momentaneamente con inalazioni di ossigeno, però poco tempo dopo si rinnovarono. La morte sopravveniva per soffocamento. Gli interventi medici si dimostrarono inefficaci. L'autopsia dei cadaveri rivelò sangue rosso–biancastro fluido, forte infiammazione delle vie respiratorie e vasti incavernamenti polmonari.
Riassunto: Il gas impiegato possiede un'efficacia velenosa enorme. I sintomi dell'avvelenamento non possono essere annullati coi contravveleni finora noti. L'unico preventivo è una buona maschera da gas di sistema tedesco con respiratore assolutamente perfetto.
Dottor MAGYAR” (*)
Su quanto avvenuto il bollettino italiano del 30 giugno 1916 non si soffermò molto limitandosi ad affermare: “Sul Carso nella zona di San Michele e di San Martino, l’avversario disperando di contrastare in altro modo la nostra azione offensiva, spinse ieri sulle nostre linee dense nubi di gas asfissianti, alle quali fecero seguire un violento contrattacco. Le nostre valorose truppe, sfidando gli elementi deleteri dei gas, respinsero con magnifico slancio le colonne nemiche, infliggendo loro sanguinose perdite e prendendo 403 prigionieri.” (**)

2.2.2 - La Battaglia di Gorizia
(vedi nella nota in fondo, foto 1, la commemorativa, Croce al VII Corpo d'Armata)

Subito dopo la grande vittoria difensiva nel Trentino si accese, dal 4 al 17 agosto la sesta battaglia dell'Isonzo. Il piano operativo italiano fu progettato prevedendo due attacchi principali ai lati del campo trincerato di Gorizia e, cioè, sulle alture dal Sabotino al Podgora e dalla cima del S. Michele a Doberdò, ed una azione diversiva nel settore di Monfalcone.

La Terza Armata, appoggiata da azioni dimostrative della Seconda, attaccò bombardando Monfalcone e conquistando in poche ore il Sabotino. Eliminata la resistenza avversaria anche sul Peuma, sul Podgora e sul Grafenberg le fanterie italiane raggiunsero l’Isonzo guadandolo e guadagnando l’altra sponda. La lotta si accese anche sul San Michele che fu in gran parte espugnato dai fanti delle brigate Catanzaro, Brescia e Ferrara. Nelle prime ore del pomeriggio del 9 agosto la prima bandiera italiana iniziò a sventolare sulla stazione di Gorizia.
Il 10 gli austriaci si ritirarono su una linea arretrata posta ad oriente di Gorizia dove si predisposero a difesa frenando l’avanzata delle truppe italiane che, dopo aver condotto nuovi sanguinosi attacchi, sospesero l’offensiva. La battaglia di Gorizia provocò fra le truppe italiane la perdita di oltre 64.000 soldati di cui circa 6.000 morti e 58.000 tra feriti e dispersi, ma oltre alla città caddero anche posizioni considerate in precedenza come inespugnabili e tra queste il Calvario, il San Michele ed il Sabotino.

2.2.3 – Disagi per le popolazioni e bombardamenti di città e zone costiere

Nel corso della guerra la vita delle popolazioni civili subì notevoli ristrettezze sia sotto il profilo economico che alimentare mentre, come forza lavoro, vista la scarsezza di mano d’opera maschile le donne cominciarono ad essere impiegate in tutti i settori produttivi. Per colmare inoltre gli spaventosi vuoti dovuti alle perdite consuntivate sui campi di battaglia furono assegnate ai reparti combattenti anche persone precedentemente non considerate idonee al servizio militare come avvenuto con il richiamo della terza categoria della classe 1882-83 e la revisione dei riformati per le classi dal 1882 al 1895.

Il governo poi, con il progressivo dilatarsi delle esigenze finanziarie, per reperire risorse e ridurre i consumi utilizzò la leva fiscale raddoppiando la tassa del centesimo di guerra, quadruplicando la tassa di fabbricazione dello zucchero, aumentando le tasse di bollo, postali ed altri tributi. Fu infine introdotta una nuova imposta comunale da destinare a copertura dei fabbisogni dell’assistenza civile.
Il fisco, la leva e la fame non furono gli unici elementi destinati ad appesantire il modo di vivere dei civili infatti, se gli abitanti dei territori lontani dai teatri della guerra subirono ristrettezze e privazioni di vario genere, quelli delle retrovie più immediate e delle zone costiere si trovarono ad affrontare anche i bombardamenti nemici.
Venezia, Verona, Schio, Milano, Brescia, Bassano e Vicenza furono obiettivi più volte centrati dall’aeronautica nemica. Anche alcune città dell’Adriatico subirono varie incursioni sviluppate dalla flotta austriaca proveniente da Pola che nel 1915 bombardò Porto Corsini, Rimini, Senigallia, Ancona, e Potenza Picena distruggendo alcune abitazioni e facendo feriti. Nel giugno dello stesso anno un’altra scorreria fu sviluppata contro Rimini e Pesaro. A Pesaro i danni furono lievi a Rimini invece furono colpiti edifici pubblici e privati, crollarono chiese, molte abitazioni risultarono lesionate per effetto delle esplosioni. Incursioni aeree e navali nemiche colpirono anche in tempi successivi le coste del Medio e del Basso Adriatico. Bombardamenti si ebbero a Numana, Monopoli, Ostuni, Brindisi ed altre località.

Nel luglio del 1916 Spezia, Campomarino, San Giorgio di Nogaro, Padova, Treviso, Bari, Mola, Molfetta, Otranto, Termoli, Campobasso, Venezia ed Iesi subirono incursioni aeree e dal mare. Nel novembre toccò nuovamente a Padova dove, a seguito del bombardamento aereo, un ordigno raggiunse un ricovero uccidendo numerose persone così come indicato dal Bollettino del 13 novembre:”La sera dell’11 una squadriglia aerea nemica lanciò bombe su Padova. < nell'immagine qui a fianco - Fu colpita una casa nella quale erano ricoverate numerose donne e bambini, di cui la maggior parte restò uccisa. Il numero delle vittime accertate ascende finora a 60.” (**)

Alla esultanza di tutta la nazione per la liberazione di Gorizia, si contrappose però il lutto delle madri e delle vedove dei numerosissimi caduti, il trauma dei bombardamenti, i danni e le vittime provocate da un nubifragio che interessò la zona fra Sesto Calende e Solbiate nonché quelli derivanti da un lungo e devastante periodo sismico che colpì Rimini ed il territorio circostante.

Lo sconvolgimento tellurico aggravò le economie dei comuni e delle province disastrate già afflitte dal crollo dei tradizionali settori di attività quali pesca, marina mercantile e turismo per i quali fu rilevata una forte riduzione di volume a causa delle limitazioni e delle contingenze belliche. Al disastro territoriale seguì il dissesto finanziario delle amministrazioni dei comuni danneggiati, il parziale esodo delle cittadinanze ed una forte crescita della disoccupazione.

2.2.4 - Terremoto a Rimini

Il periodo sismico ebbe inizio il 17 maggio del 1916 e si protrasse fino al dicembre successivo. Le scosse di maggiore intensità si verificarono nelle giornate del 17 maggio, del 16 giugno e del 16 agosto.

Quella del 17 maggio, ebbe effetti disastrosi a Rimini < nell'immagine qui a fianco - dove furono danneggiati oltre 1.000 edifici, dei quali 10 furono abbattuti e circa 500 risultarono pericolanti. In parziale rovina il palazzo comunale, il teatro Vittorio Emanuele e molte chiese importanti tra cui quelle di San Bartolomeo, di San Giovanni Battista, di Sant'Agostino e di San Simone. Nelle cittadine di Bertinoro, Cattolica, Coriano, Gabicce molti edifici furono lesionati ed altri andarono perduti; a Riccione alcune case furono rese inagibili; a Sant'Arcangelo e a Savignano furono rilevate lesioni alla maggior parte degli immobili esistenti. Altri danni di lieve entità si ebbero a Cervia, Cesena, Cesenatico, Fano, Gambettola, Pesaro, Saltara, Saludecio, San Mauro di Romagna, Teodorano, Urbania, Urbino e Verucchio.

La replica tellurica del 16 giugno causò a Riccione ed a Rimini il crollo di qualche edificio precedentemente lesionato mentre si rilevarono fenditure in alcuni stabili a Cattolica ed a Sant'Arcangelo di Romagna.

L’ultima delle scosse di maggior intensità, quella del 16 agosto, provocò danni gravissimi nelle città e nei paesi della costa e peggiorò ulteriormente le condizioni dei centri già colpiti dai due movimenti sismici precedenti. A Riccione si rivelò dappertutto disastrosa salvo che nei pressi delle spiagge. Il Campanile della chiesa crollò e la stazione dei Carabinieri, come quasi tutti gli edifici, divenne inabitabile. A Rimini dovettero essere demoliti 615 edifici; chiese e palazzi furono fortemente lesionati mentre per altri numerosissimi stabili fu necessario intervenire con riparazioni di varia importanza. Altri danni si verificarono negli abitati delle campagne circostanti.
A Pesaro con la scossa del 16 agosto, andarono in rovina molti fabbricati che dovettero essere sgomberati mentre la cittadinanza abbandonò completamente il centro storico.

Numerose case subirono lesioni con danneggiamenti al castello Sforzesco ed al palazzo Ducale. Crolli e danni interessarono anche le zone di Besanico, Coriano, Tavolo, Misano Adriatico, Morciano e Cattolica. In quest’ultima città andarono distrutte alcune abitazioni mentre nella maggior parte furono rilevate crepe ed incrinature. Divennero inagibili molti fabbricati nelle località di Casteldimezzo, Fiorenzuola, Focara e Gabicce.

A Rimini in bilancio delle vittime fu di 4 morti e circa 60 feriti; a Riccione di 15 feriti; a Pesaro ed a Cattolica si ebbero complessivamente due feriti. A Borghi, Cartoceto, Fano, Mombaroccio, Pergola, Petriano, Roversano, Saltara, San Giovanni in Marignano, San Mauro di Romagna e Sant'Arcangelo la scossa lesionò la maggior parte degli strutture abitative, rendendole impraticabili. Furono peraltro riscontrati danni leggeri in varie altre località tra cui Cesena e Urbino. Non furono dichiarati danni a Ravenna ad Ancona e nelle rispettive province.

Alle operazioni di soccorso non parteciparono le unità dell’Esercito, impegnate tradizionalmente con compiti di protezione civile in occasione di disastri o calamità naturali, poiché fino alla fine della guerra, fu possibile utilizzare con finalità assistenziali solo reparti in sosta presso i depositi dei singoli reggimenti. Intervennero invece le strutture del Genio Civile che, per far fronte alle esigenze della popolazione ed in particolare provvedere ai moltissimi senzatetto, installarono tendopoli e baracche utilizzando come ricovero temporaneo anche i casotti degli stabilimenti balneari.

I proprietari di molte abitazioni parzialmente danneggiate decisero di rifiutare il trasferimento nei centri di accoglienza e nelle tendopoli, provvedendo poi con mezzi propri all’opera di recupero. Altri invece abbandonarono le province terremotate trasferendosi in altre regioni o in zone ritenute più sicure ma … come avvenuto nella località di Barafonda si beccarono la malaria. A causa del terremoto e delle numerose incursioni nemiche, la città di Rimini subì una forte contrazione della domanda e della presenza turistica che contribuì ad aggravare le già difficili condizioni economiche del territorio.

Avviate le prime attività assistenziali, il governo adottò vari provvedimenti finanziari di supporto a cui si aggiunse a titolo privato l’elargizione di centomila lire da parte di Vittorio Emanuele III. I comuni interessati e le forze parlamentari richiesero anche provvedimenti legislativi per procedere alle demolizioni ed ai puntellamenti degli edifici pericolanti, agli sgomberi di aree pubbliche, alle costruzioni di ricoveri per i senzatetto nonché alla concessione di sussidi e mutui alle province, ai comuni, ai poveri e ad altre istituzioni pubbliche o private.

Le scosse sismiche sebbene di intensità minore rispetto a quelle precedenti continuarono a verificarsi con numerose repliche fino alla fine del mese di dicembre preoccupando in più occasioni gli abitanti ma senza provocare ulteriori disastri. Anche le operazioni belliche sui vari scacchieri operativi proseguirono senza sosta nel tentativo di fiaccare l’avversario ed ottenere altre vittorie. Continuarono anche le incursioni degli aerei nemici che bombardarono alcune città e paesi; in settembre furono colpite Venezia, Sondrio, Ancona, Pordenone, Chioggia, Mestre Verona, Montecchio ed in ottobre Otranto, Tolmezzo, Vieste, Sant’Elpidio e Ravenna.

2.2.5 – Battaglie sull’Isonzo - Malaria in Albania e Macedonia
(vedi nella nota in fondo, foto 2, la Medaglia commemorativa al Corpo di Spedizione Balcanico)

Da settembre ripresero le “spallate” contro le posizioni austriache sul Carso. Furono quindi combattute in un breve lasso di tempo - dal 14 settembre al 4 novembre - la settima, l'ottava e la nona battaglia dell'Isonzo con il sacrificio di oltre 10.000 soldati caduti sul campo e di 67.000 feriti o dispersi. Nel corso dei numerosi scontri, furono conquistate dalle fanterie lanciate all’assalto, le alture di San Grado ed alcune posizioni del Pecinka, del Faiti e del Veliki-Hrib. Contemporaneamente alle operazioni sull’altipiano carsico, se ne svolsero anche delle altre nella zona del Pasubio e delle alpi di Fassa ottenendo modesti risultati al prezzo esorbitante di 10.000 uomini.

I medici militari, il personale di sanità, suore ed infermiere continuarono ad avere un gran da fare visto il grande numero di feriti che dai luoghi di battaglia fu inviato verso gli ospedaletti da campo per la prima assistenza. L’insufficienza dell’organizzazione esistente nel 1915 per far fronte alle grande quantità di ammalati e feriti - 24.000 posti letto al fronte e circa 100.000 nelle retrovie - si manifestò quasi immediatamente per cui si provvide alla creazione di nuove strutture a caratteristica stabile e transitoria.

Alla fine del 1916, i posti letto al fronte salirono a circa 100.000; fu potenziata l'organizzazione dello sgombero di feriti e malati verso le località delle retrovie ed ampliata la rete di ospedali e di convalescenziari. Per le esigenze di ospedalizzazione furono utilizzate le struttura sanitarie civili nonché edifici - caserme, scuole, collegi, seminari ed alberghi - appositamente requisiti ed in parte ristrutturati. Le esigenze di cure e di organizzazione ospedaliera non riguardò solo il teatro bellico nazionale ma anche quello estero. In Albania nelle zone occupate dal XVI Corpo d’Armata e successivamente in Macedonia fu predisposta una numerosa rete di ospedali da campo e di luoghi di cura fissi per rispondere alle esigenze dei numerosi feriti in battaglia e dell’altissimo numero di ammalati civili e militari.

In Macedonia agli eserciti dell’Armata d’Oriente si aggiunse nell’agosto un contingente italiano formato dalla 35a Divisione. L’Armata nel suo complesso tra francesi, inglesi, russi, greci, serbi ed italiani raggiunse una forza di circa 300.000 uomini dislocati in vari settori operativi. Le truppe della divisione, non appena sbarcate, furono inviate nel settore Krusa Balkan luogo particolarmente insalubre, disagiato ed afflitto dalla malaria. Nell’ottobre con l’arrivo della Brigata Ivrea il Corpo di Spedizione in Macedonia superò i 50.000 uomini.
I reparti disposti sul fronte macedone come peraltro le unità successivamente dislocate a difesa del Piave, furono colpite dalla malaria che si accanì - senza particolare distinzione di parte - contro gli eserciti per quasi tutta la durata della guerra. Moltissimi i soldati colpiti dalle febbri. Del contingente francese su 120.000 soldati presenti nell’area circa l’80% fu ospedalizzato a causa della malaria. Nei luoghi di cura si alternarono complessivamente 165.000 uomini durante gli anni dal 1916 al 1918 superando di gran lunga i pur numerosi - 24.000 - soldati uccisi in combattimento, feriti o dispersi.
Anche per gli italiani la malaria, cui fece probabilmente seguito anche la “Spagnola”, costituì un incubo sia in Macedonia sia nel territorio di Valona. Da parte delle autorità sanitarie si cercò di far fronte con i mezzi dell’epoca e sopratutto con la distribuzione di chinino; molti furono rimpatriati a mezzo di navi ospedale, altri morirono mentre alcuni superstiti rientrarono in Patria con la malattia ormai cronicizzata.
Sugli aspetti della situazione sanitaria in Macedonia, ed a conferma di quanto evidenziato, si riporta la lettera trasmessa nell’ottobre 1916 al Comando Supremo dal comandante della 35a divisione generale Petitti di Roreto:
“COMANDO DELLA 35a DIVISIONE
N. 2316 di protocollo R.P.
10 ottobre 1916
OGGETTO: Condizioni sanitarie e di efficienza degli eserciti alleati in Macedonia.
Al Comando Supremo
Pur ritenendo che codesto Comando sia informato sulla situazione degli Eserciti Alleati in Macedonia, in via indiretta, credo mio dovere riferire circa l'impressione generale che ho riportato da quanto ho visto, e da quanto ho inteso dai numerosi ufficiali esteri coi quali sono stato in contatto.
L'inazione della quale si fa un carico al generale Sarrail è dovuta, per quanto mi risulta, a deficienza di forza.
Le 5 divisioni inglesi e le 4 francesi hanno subito durante l'estate perdite enormi per malaria, per tifo e per dissenteria, e non hanno ricevuto che un numero assolutamente insufficiente di complementi.
Attualmente, secondo informazioni datemi da persone degne di fede, e in condizioni di essere al corrente della situazione, le due armate inglese e francese non superano, complessivamente, le 70.000 baionette.
Altrettanti, forse, sono i Serbi; ma si calcola che, sopportando il maggior peso della guerra, perdano mensilmente circa 20.000 uomini, fra morti, feriti e ammalati, dei quali soltanto metà potranno ritornare nelle file. E i Serbi non ricevono complementi che in misura scarsa e saltuaria.
I Russi avevano qui una brigata, e pare avessero intenzione di portare il loro contingente a una divisione; finora non sono giunti che scarsi rinforzi - meno di un reggimento. Il piroscafo Gallia, che portava da Marsiglia a Salonicco circa 2.500 uomini russi e serbi, è stato silurato nelle acque della Sardegna; si sono salvati 200 uomini.
La mia divisione ha perduto in meno di due mesi quasi 5.000 uomini, pochi dei quali potranno riprendere prossimamente servizio; la maggior parte sono stati rimpatriati, o lo saranno man mano che si renderanno disponibili le navi-ospedale, perché affetti da forme così gravi di malaria da esigere molte cure e una lunga convalescenza. Devo però segnalare che la mia divisione è la sola che riceva prontamente e regolarmente i complementi che le occorrono.
Quanto avviene per le fanterie, si verifica in misura non minore per le altre armi. Le batterie francesi in posizione sulla mia fronte hanno meno della metà del personale che loro occorrerebbe; e mi risulta che intere batterie inglesi rimangono inutilizzate per assoluta mancanza di serventi.
Concludendo, le truppe agli ordini del generale Sarrail sono attualmente al disotto di duecentomila uomini, e ritengo che non solo siano assolutamente insufficienti a portare a fondo una offensiva di qualsiasi importanza, ma che difficilmente potrebbero resistere, sulla stessa fronte che occupano, ad un attacco condotto energicamente.

II Maggior Generale Comandante
PETITTI DI RORETO” (***)

2.3 – Operazioni belliche del 1917 – Eruzione dell’Etna – Terremoti

Non andate a buon fine le mediazioni condotte segretamente anche con l’intervento del Vaticano per giungere ad una pace concordata, si consolidò nei governi la decisione di proseguire la guerra fino alla vittoria finale. Crollato il fronte russo a causa della rivoluzione bolscevica, l’intervento in guerra degli Stati Uniti consentì alle forze dell’Intesa stanche, impoverite ed ormai a corto di uomini di attendere fiduciose l’arrivo delle truppe americane e degli enormi aiuti in armi e rifornimenti provenienti da quella nazione.

Anche in Italia come in Francia ed Inghilterra si verificarono manifestazioni di stanchezza e di malessere, da parte delle popolazioni civili sempre più scontente di una guerra lunga ed estremamente costosa sia dal punto di vista economico-finanziario sia da quello derivante dell’enorme consumo di risorse in uomini e materiali. La situazione, socialmente tesa, considerate anche le privazioni della gente comune, diede strumenti di azione politica ai sindacalisti ed agli elementi socialisti più ostili alla guerra che promossero manifestazioni popolari in molte città tra cui Milano e Torino.

Per le popolazioni civili non mancarono nel 1917 altre tasse, disagi e restrizioni come non mancarono nuovi disastri naturali. Il 26 aprile si verificò un movimento tellurico in Toscana e nell’Aretino provocando alcune vittime mentre pressappoco un mese dopo, il 16 maggio, un altro terremoto sconvolse l’Umbria e la città di Terni.

 

2.3.1 - Terremoto in provincia di Arezzo

Il 26 aprile 1917 il terremoto colpì l'alta Val Tiberina con un’area di risentimento che si estese a in Toscana, in Umbria e nelle Marche. Il movimento tellurico fu avvertito anche in Romagna ed in parte del Lazio.

I paesi più danneggiati furono Monterchi e Petretole, distrutti quasi completamente. Altre cinque località, Citerna, Lippiano, Lugnano, Monte Santa Maria Tiberina e Padonchia, subirono la rovina di gran parte dell'abitato. Il numero di abitazioni rase al suolo o dichiarate inagibili fu altissimo: a Monterchi e nel suo territorio il 90% degli edifici destinati ad uso abitativo crollarono o divennero inutilizzabili; a Citerna, Lippiano, Lugnano e Monte Santa Maria Tiberina il 50% degli stabili subirono crolli o gravi lesioni. Difficile la situazione a Sansepolcro, dove circa 200 case furono giudicate inagibili mentre moltissime altre risultarono lesionate; danni notevoli si riscontrarono anche ad Anghiari e Città di Castello. Non si verificarono interruzioni nelle linee ferroviarie, né guasti rilevanti a ponti e strade purtroppo però il patrimonio artistico esistente nei territori devastati dal sisma subì notevoli danni. Le vittime furono complessivamente una cinquantina; per 20 fu inutile ogni soccorso.

Organizzati gli interventi da effettuare e ripartiti i compiti, alle strutture del Genio si affiancarono nell’occasione i soldati dell’esercito. Infatti l’autorità militare del Distretto Militare di Firenze, decise di inviare nelle località terremotate una compagnia zappatori ed un reparto di formazione di 500 uomini del 70° Reggimento di Fanteria “Ancona” proveniente dalle caserme di Arezzo. I militari furono quindi impiegati in azioni di recupero delle vittime, nella cura dei feriti, nello sgombero delle macerie e nel puntellamento delle costruzioni pericolanti per rendere agibili le strutture meno disastrate. Il comando del Distretto Militare provvide poi ad utilizzare parte delle giacenze esistenti presso i magazzini di Arezzo e di Firenze facendo distribuire generi di conforto alle popolazioni meno abbienti e provvedendo a far affluire nelle località terremotate coperte, indumenti, tende e baraccamenti. Dopo circa tre settimane la presenza dei militari impiegati nell’opera assistenziale fu ridotta a circa 300 addetti che rimasero nelle zone assegnate per altri quattro mesi circa prima di raggiungere le loro destinazioni al fronte.

2.3.2 - Tumulti a Milano – Terremoto a Terni

Nel mentre mezza Italia si trovò in condizioni particolarmente precarie, tenuto anche conto della pesantissima sequenza di calamità naturali che colpì la penisola, la macchina bellica continuò a progettare ed a realizzare nuove offensive che ebbero come esito solo quello di ottenere piccole ed irrilevanti vittorie in cambio di perdite assolutamente ragguardevoli. Fame e restrizioni provocarono nel maggio sommosse popolari che si manifestarono a Milano, ed in alcuni altri centri della Lombardia. Il malcontento contro condizioni di lavoro, salari, balzelli fiscali, caro vita e scarsezza di generi alimentari, assunse anche diversa connotazione politica attraverso la ferma protesta elevata contro la guerra ed il suo proseguimento.

Alle tensioni sociali, agli studi strategici, alle accuse di disfattismo lanciate contro i manifestanti ed alla difficile azione di governo, si accompagnò un ennesimo terremoto che colpì la zona di Terni. La scossa principale del 12 maggio 1917 fu avvertita nell’Umbria meridionale mentre l’area di risentimento fu compresa fra Macerata e Roma.

I danni più gravi si verificarono in alcune frazioni del comune di Terni: Campitello, Cerqueto, Colle dell'Oro, Fontana della Mandola, Palma, Palmetta, Piedimonte, Pietrara, San Clemente Piedimonte e San Giovanni Piedimonte. Circa 1.000 le abitazioni danneggiate di cui alcune rase al suolo. Molte quelle dichiarate inagibili o danneggiate più o meno gravemente. A Rocca San Zenone quasi tutte le case furono lesionate; a Terni e a Cesi si accertarono incrinature nei muri e nelle strutture degli edifici nonché la caduta di camini e cornicioni. a Massa Martana, Papigno e San Gemini si riscontrarono invece crepe ed incrinature di scarsa rilevanza. Come in altre occasioni, si produssero anche movimenti franosi che danneggiarono case rurali e terreni coltivati.

Nei giorni successivi alla prima manifestazione sismica e fino al 23 maggio furono avvertite numerose repliche e ciò fino al 14 giugno data in cui una scossa violenta colpì ancora una volta Terni ed il suo circondario senza però causare vittime. Nelle località di Palma, Palmetta e Piedimonte alcune persone furono ferite. A Terni il terremoto causò panico nella popolazione che si riversò all'aperto trascorrendo alcune notti in accampamenti di fortuna. Anche negli stabilimenti industriali dediti a produzione bellica, gli operai abbandonarono le officine, che rimasero inattive per una giornata intera.

I quotidiani non dedicarono spazio all’evento sismico a causa dell’intervento delle autorità militari e di quello della censura che intervenne sui giornali e sul prefetto di Perugia per impedire o quanto meno limitare la diffusione di notizie considerate…..sensibili .

Organizzati i soccorsi da parte delle autorità civili, a Terni si avviarono i lavori di sgombero delle macerie e di prima sistemazione del territorio. Nella località di Piedimonte l’assistenza alla cittadinanza fu assicurata, oltre che dal Genio Civile, anche da personale della Croce Rossa e dagli ufficiali medici di un treno-ospedale presente in stazione. il 33° reggimento artiglieria da campagna, di stanza a Terni, distaccò poi le truppe del Deposito in aiuto delle popolazioni delle località di Palma, Palmetta, Piedimonte e Colle dell'Oro, nonché a favore di quelle presenti nelle campagne di Montagnole e Monte Crocette. I militari prestarono i primi soccorsi ai feriti, distribuirono viveri ed allestirono attendamenti.

2.3.3 – Battaglie sull’Isonzo e sull’Altipiano di Asiago

Quasi contemporaneamente al terremoto di Terni, nel maggio 1917, il Comando Supremo Italiano, sulla base degli studi compiuti e secondo le richieste di intervento ricevute dagli alleati, decise di appoggiare indirettamente la grande offensiva di primavera impostata dai francesi sviluppando un’azione impegnativa su tutta la fronte dell’Isonzo.
Fu scatenata così la decima battaglia dell’Isonzo durante la quale a partire dal 12 maggio le truppe della Terza Armata e del Comando Zona Carnia cercarono di espugnare il sistema difensivo a nord e ad est di Gorizia e tentare sul Carso la conquista del bastione dell’Hermada liberando così la via per Trieste. L’offensiva si concluse verso la fine del mese di maggio con la conquista del Kuk e del Vodice sulla fronte del Medio Isonzo e di alcune importanti posizioni sul Carso. Non si raggiunsero però tutti gli obiettivi pianificati dal Comando Supremo. Altissimi i vuoti prodotti nei reparti: più di 112.000 uomini tra morti, feriti e dispersi. La lotta si riaccese nei primi giorni di giugno quando, a seguito di un contrattacco austriaco, la Terza Armata perse alcune delle posizioni conquistate in precedenza ed anche altri 22.000 soldati inquadrati nell’XI, nel XXII e nel VII Corpo d’Armata.

Il generale Cadorna, malgrado il logorio subito dalle truppe, si preparò ad un nuovo attacco sull'Isonzo e contemporaneamente ordinò di preparare un’altra operazione offensiva sull'altipiano di Asiago. In questo settore l'azione principale ebbe inizio il 10 giugno ed ottenne un buon successo con la conquista del passo dell'Agnella, e delle cima dell'Ortigara. A seguito della controffensiva austriaca il 29 giugno, dopo una lotta accanita, le truppe italiane furono costrette a sgombrare quasi tutte le posizioni conquistate durante la battaglia dell’Ortigara e costate alle brigate Piemonte, Regina, Catania, Arno, Grosseto, Pesaro, Veneto e più di 9.000 soldati mentre i battaglioni alpini su cui si concentrò il massimo sforzo ne persero circa altri 13.000.

Nonostante la durezza degli scontri a metà del mese di agosto il Generale Cadorna proseguì nel suo programma strategico sviluppando l’undicesima battaglia dell’Isonzo che comportò la conquista da parte della Seconda Armata dell’altipiano della Bainsizza e l’ottenimento di buoni risultati sul Carso da parte della Terza. Nel corso della battaglia furono conquistati il Kuk, il Veliki, il Kobilek ed anche la vetta del Monte Santo. L’altopiano della Bainsizza cadde in mani italiane, però le truppe non riuscirono a superare le altre linee difensive austriache tra cui quelle del San Gabriele. Con la conclusione della battaglia furono occupate nuove posizioni mentre sul terreno rimasero da parte italiana oltre 145.000 uomini di cui 19.000 morti.

2.3.4 – Tumulti a Torino - Eruzione dell’Etna

L’ottenimento della vittoria sulla Bainsizza, diversamente a quanto avvenuto nel 1916 in occasione della presa di Gorizia, non diede luogo nel paese a particolari espressioni di giubilo e/o di esaltazione delle virtù militari. Fame e scontento continuarono a minare la vita civile e, con il richiamo di alcune classi di riformati, tutte le persone considerate valide, secondo nuove e più restrittive norme sulle esenzioni, furono costrette prestare il servizio militare. Molti renitenti alla leva si nascosero comunque nelle campagne nel tentativo di sfuggire alla guerra; e ciò malgrado la durezza dei regolamenti di disciplina militare.

Anche i giornali, per chi li poteva e voleva leggere, subirono alcune limitazioni infatti per lo scarseggiare della carta, fu imposto il controllo governativo, la riduzione dei formati delle pagine e del numero delle edizioni. I bombardamenti da parte austriaca sulle città indifese unitamente a voci su esecuzioni sommarie di soldati accusati di diserzione ed altre attinenti la decimazione di reparti avvenute in zona di guerra, non agevolarono certo le manifestazioni di gioia e di felicità.

In questo clima già abbastanza arroventato e segnato dal sovrapporsi di lutti e di aggravi di ogni tipo, si inserì la sommossa operaia di Torino del 22 agosto dovuta essenzialmente a carenze alimentari. In assenza di risposte da parte delle autorità civili né di requisizioni che potessero far fronte ai fabbisogni di pane e farina da parte della cittadinanza, dal 22 al 25 scoppiò la rivolta. La città si fermò mentre i manifestanti devastarono alcuni esercizi commerciali, incendiando, distruggendo, erigendo barricate e protestando contro la guerra. Nel corso degli scontri sanguinosi con le truppe chiamate a reprimere la sommossa alcuni soldati solidarizzarono con gli insorti…. pagando poi il prezzo delle loro scelte. Dopo quattro giorni di lotta in cui caddero più di sessanta cittadini ed una ventina di soldati, gli interventi della strutture militari che aperti i magazzini fornirono grano e farina nonché le assicurazioni delle autorità municipali sulla possibilità di far fronte alle esigenze della cittadinanza consentirono di riportare l’ordine in città. La propaganda socialista contro la guerra, la presenza di attivisti e di materiale considerato “disfattista” presso le truppe al fronte provocò l’irritazione di Cadorna che richiese interventi immediati del governo per arginare un fenomeno ritenuto pericoloso ed atto a minare la disciplina militare.

Il nervosismo derivante dalle politiche governative ed dalle sofferenze dovute alla stato di belligeranza si fece sentire anche al Sud dove, a Reggio Calabria ed a Messina, pur non vedendosi molti generi alimentari era invece possibile vedere le rovine non ancora riparate degli edifici distrutti dal terremoto del 1908.

Oltre alle inquietudini dell’epoca ed a quella dovuta agli scarsi interventi dei governi precedenti, un’altra fonte di preoccupazione per i siciliani fu costituita dall’Etna. Il vulcano dopo le eruzioni del 1908, del 1910 e del 1911 lasciò tranquilli gli abitanti della Sicilia fino al 24 giugno 1917 per poi entrare nuovamente in fase eruttiva.

Preceduta da alcuni segni premonitori, nella notte del 24 giugno 1917 dalla bocca subterminale di Nord Est si sollevò una fontana di lava alta circa 800 m - < nell'immagine a fianco - che in circa trenta minuti riversò all’esterno 3 milioni di metri cubi di lava particolarmente fluida. Il fenomeno pur arrecando qualche danno ai paesi ubicati lungo le falde della montagna si esaurì rapidamente dopo essere stato osservato nella sua spettacolarità da tutti i centri dell’area Etnea. Cessata dopo qualche tempo anche la caduta di ceneri e consolidatosi il flusso lavico, gli abitanti delle località sfiorate da un potenziale disastro, pur guardando ancora con preoccupazione il cono dell’Etna fumante, tornarono alle loro occupazioni abituali, liberarono i terreni dalle scorie vulcaniche e si prepararono spiritualmente ad affrontare tra le altre contingenze anche nuovi provvedimenti del governo.

A partire dai primi di ottobre 1917 fu imposto…per chi ce le aveva, il divieto di circolazione alle autovetture private; subito dopo furono ritirate dalla circolazione le monete di argento sostituite da buoni di cassa da una e da due lire. Al provvedimento impopolare si aggiunse l’obbligatorietà del razionamento del grano, della farina di grano, del pane e di altre granaglie.

2.3.5 – Dodicesima battaglia dell’Isonzo – Caporetto

Conclusa a metà settembre l’undicesima battaglia dell’Isonzo si originò una forte disponibilità di riserve tedesche utilizzabili a sostegno di una nuova e decisiva offensiva austriaca contro l’Italia per effetto del crollo dell'Esercito russo nonché dell’inattività dello scacchiere francese a seguito del fallimento della offensiva Nivelle e degli ammutinamenti che seguirono.

Gli Austro -Tedeschi ammassate 56 divisioni di cui 15 concentrate nel settore tra Plezzo e Tolmino, lanciarono nella notte del 24 ottobre la loro offensiva sbaragliando le difese italiane. La 12a Divisione germanica, all’alba del 24, sfondò le linee ed avanzò lungo le rive dell’Isonzo. Al seguito di questa unità, l’Alpenkorp, travolte le truppe della 19a Divisione, si impossessò di Costa Raunza e di Costa Duole conquistando tutta la regione orientale del Kolovrat; altre unità attaccarono contemporaneamente il Globocak. Nel pomeriggio raggruppamenti tedeschi percorrendo la Valle dell’Isonzo occuparono Caporetto. Il movimento delle prime unità germaniche fu immediatamente seguito da altre 5 divisioni e nella serata del 24 ottobre risultò aggirata la destra della prima e della seconda linea di difesa italiana da Tolmino al Kolovrat nonché superato il centro della terza linea a Caporetto.

Nelle giornate successive gli Austro-Tedeschi diedero sviluppo alla loro manovra ed il 26 il generale Cadorna fu costretto ad emanare i primi ordini per la ritirata al Tagliamento. Al termine dell’offensiva le forze avversarie si trovarono a dominare larghe fasce territoriali tra cui tutto il Friuli, la Carnia ed il Cadore. Gravissime le perdite subite da parte italiana circa 10.000 morti, 30.000 feriti, 265.000 prigionieri ed enormi quantità di materiale bellico. Gli sbandati, molti dei quali cercarono di raggiungere le loro case, sommarono a 350.000 di cui circa il 50% appartenenti a reparti non combattenti. Rastrellati, indotti a presentarsi e concentrati per lo più in Emilia furono poi riordinati per ricostituire le unità andate perdute e formarne di nuove.

Centinaia di migliaia i profughi - circa 208.000 - provenienti dai territori caduti in mano al nemico, cui si aggiunsero altri 200.000 sfollati fatti evacuare, per ragioni militari da Treviso, Venezia, Vicenza e Padova. I fuorusciti, per lo più poveri e prostrati dagli stenti, trovarono assistenza a Milano a cura delle organizzazioni umanitarie per essere rifocillati ed alloggiati dove possibile. Non trovando sistemazione, una parte degli stessi si rimise in viaggio per raggiungere le città dell'Italia centrale dove si mantennero con le provvidenze concesse dal governo. Altri cercarono di stabilirsi in campagna cercando lavoro come braccianti in cambio di vitto ed alloggio.

3 – 1918 - Fasi finali della guerra -
Epidemia di Spagnola
Terremoto in Romagna

Decisa la ritirata al Tagliamento e poi quella al Piave, sugli Altipiani, sul Grappa e sul Piave stesso, arse per quasi due mesi - subito dopo Caporetto - una lotta furibonda senza però che le armate austro-tedesche riuscissero ad avanzare e ad intaccare il sistema difensivo ormai consolidato. Il prolungarsi del conflitto, l'estendersi nel tempo dei sacrifici e degli oneri connessi con lo stato di guerra, le perdite ingenti, il peso crescente delle privazioni che toccarono gran parte della popolazione, resero politicamente complessa l’azione del Governo.

Decisa però la resistenza su tutti i fronti, nel mese di aprile ai vari contingenti impiegati all’estero, in Albania, in Macedonia, in Russia, in Medio Oriente, in Estremo Oriente ed in Africa, si aggiunse il II Corpo di Armata che, con la 3a e l’8a divisione, fu inviato in Francia dove si distinse combattendo sull'Ardre, nella difesa di Reims, di Epernay, nella riconquista dello Chemin des Dames ed infine nell'avanzata verso la Mosa.

Gli Austriaci, frattanto, riunite sulla fronte italiana tutte le loro forze, iniziarono nel giugno una nuova offensiva con la speranza di completare il successo ottenuto nell'autunno del 1917. Tre grandi attacchi furono previsti nel progetto austriaco; il primo, dal Tonale verso Edolo; il secondo nella zona Altipiani-Grappa; il terzo, infine, sul Piave.

L'attacco dal Tonale, sferrato il giorno 13 giugno, fallì fin dall'inizio; sugli Altipiani e sul Grappa, gli Austriaci, furono contrattaccati e costretti ad abbandonare le posizioni conquistate. Sul Piave, riuscirono a passare il fiume, ed a costituire due teste di ponte in corrispondenza del Montello e nella zona di Fagarè-Musile. Ma gli assalti organizzati dalla difesa italiana, il bombardamento dei ponti e la piena del Piave obbligarono le truppe austriache a ripassare il fiume nella giornata del 23 giugno.

3.1 - Epidemia di Spagnola
(vedi nella nota in fondo, foto 3, la Medaglia commemorativa al Merito della Sanità Militare)

Nell'estate del 1918, vinta la battaglia difensiva del giugno, si cominciò a pensare ad una conclusione favorevole del conflitto senza però poter intervenire per portare a soluzione le maggiori problematiche del paese. La situazione economica interna nel suo evolversi risentì dell’allontanamento delle forze di lavoro dai campi, delle difficoltà di approvvigionamento, della riduzione delle produzioni agricole, della scarsa disponibilità di risorse, dei costi delle molteplici calamità naturali succedutesi a partire dal 1915 e delle pesantissime perdite in uomini e materiali.

L’incremento diffuso dei prezzi, l’aumento delle imposte e dei gravami sui prodotti destinati al consumo, gli intralci nella distribuzione, l’irritazione dovuta al razionamento, alla censura, alle difficoltà alimentari ed alle manovre degli speculatori crearono anche nel 1918 un clima di tensioni sociali che portarono ancora una volta a scontri tra dimostranti e forza pubblica. Ai già non pochi oneri per la popolazione civile se ne aggiunsero altri tra cui quelli dovuti alle pressanti esigenze dell’Esercito, che dopo aver mobilitato fino ai primi di luglio del 1918 circa 5.000.000 di uomini, continuò a dare la caccia a nuove reclute da inviare al fronte. Infatti le autorità militari, per ripianare le perdite dell'anno 1917 consistenti in circa 800.000 soldati, di cui quasi 400.000 considerati dispersi e/o prigionieri, richiamarono ed inviarono sui campi di battaglia verso la fine di quell’anno anche la classe del 1899. A febbraio del 1918, poi per garantire una sufficiente disponibilità di complementi, fu effettuata la chiamata anche della classe del 1900 portando nel mese di luglio la forza alle armi ad oltre 3 milioni di uomini.

Cominciò a scarseggiare anche il personale medico e sanitario anch’esso falciato dalle artiglierie durante le battaglie, catturato dal nemico o impegnato sul territorio in altre attività assistenziali. Considerato il fabbisogno di medici da suddividere tra i vari scacchieri operativi in Italia ed all’estero, cominciarono ad essere introdotti nelle strutture ospedaliere anche gli studenti universitari subito dopo però aver frequentato corsi speciali destinati, in tempi brevi, a renderli idonei ad esercitare la professione.

Nel giugno, le condizioni sanitarie nel Paese si aggravarono improvvisamente per la diffusione dell'epidemia influenzale denominata “Spagnola” ed i medici diventarono ancor più necessari e ricercati. La pandemia si diffuse, secondo studi recenti, in due ondate. La prima, del tutto innocua, fu presto superata. La seconda caratterizzata da un’altissima percentuale di mortalità fece circolare voci sull’inizio di una nuova ed innovativa forma di guerra: quella batteriologica.

Nei primi mesi del 1918 la malattia fortemente contagiosa, individuata inizialmente nella cittadina di San Sebastian in Spagna, non provocò particolare allarme. Tre giorni di febbre, dolori muscolari e malessere. Le autorità locali per ragioni turistiche cercarono di non pubblicizzare troppo l’avvenimento. In marzo marcarono visita diversi soldati americani in viaggio verso l'Europa. Due mesi dopo, il contagio si estese. In Spagna si ammalarono otto milioni di persone, tra cui re Alfonso XIII e un terzo degli abitanti di Madrid. Alcuni uffici statali furono costretti a sospendere le attività e perfino i tram smisero di circolare. Nel marzo fu riscontrata negli Stati Uniti, dove migliaia di reclute furono contagiate nello Stato del Kansas dalla “febbre dei tre giorni”. A questo appellativo fu poi sostituito quello più generalmente conosciuto di “Spagnola”.

Nell’aprile divampò in Francia per poi diffondersi in Germania ed in altre nazioni belligeranti. Anche i paesi neutrali, Svizzera e Scandinavia furono raggiunti dalla pandemia. Notizie riguardanti l’infezione pervennero anche dall’India, dalla Cina, dal Giappone e dai territori dell’estremo nord canadese. Nel maggio si ammalarono molti cittadini anglosassoni ed il virus si diffuse tra i marinai della flotta da guerra che conseguentemente non fu in condizione, per qualche tempo, di lasciare le proprie basi. Con l’estate si ridusse il numero dei contagiati ma nell’agosto focolai di epidemia ricomparvero oltre che in Europa, negli Stati Uniti ed in alcune regioni africane.

Nell’autunno del 1918 arrivò la seconda ondata influenzale con caratteristiche non solo particolarmente contagiose ma anche letali. Al manifestarsi del nuovo ceppo - sconosciuto quanto il primo – una parte dei medici che decisero di esprimere un’opinione confuse i sintomi della “Spagnola” con quelli di altre malattie già note quali broncopolmonite, infezioni respiratorie, malaria, colera, tifo e botulismo. Non furono individuate possibilità di intervenire terapeuticamente come, data la strumentazione dell’epoca, non fu possibile isolare il virus. Le guarigioni che si verificarono durante la seconda fase furono quindi dovute a fattori assolutamente fortuiti e naturali mentre i prezzi del chinino, ritenuto da alcuni il medicinale più efficace, salirono alle stelle.

Nel corso del mese di settembre la “Spagnola” si diffuse in maniera inarrestabile provocando questa volta, in pochi giorni, la morte dei contagiati. Negli Stati Uniti, dove in fase iniziale contrasse la malattia oltre il 25 per cento della popolazione. a fine di settembre, il violento imperversare dell’epidemia riempì di cadaveri le camere mortuarie di molti ospedali. Le esigenze di movimento di grandi quantità di persone, diffusero il virus nella sua forma letale in Germania, Austria, Russia, Gran Bretagna ed in Italia. In Italia un primo allarme alla cittadinanza civile fu lanciato nel settembre del 1918 a Sossano in provincia di Vicenza quando un ufficiale medico invitò il sindaco a chiudere le scuole per una sospetta epidemia di tifo.

La malattia, ebbe conseguenze sullo sforzo bellico andando ad aggiungersi all’orrore della guerra di trincea, alle molteplici malattie cui furono soggetti i soldati ed ai gas usati dal nemico. Le perdite italiane nel corso della battaglia difensiva del giugno 1918 furono considerevoli – circa 85.000 uomini - ma nel corso dell'estate i caduti furono più numerosi per quanto dovuti solo in minima parte ad azioni di guerra. “Le perdite giornaliere, essenzialmente per influenza e malaria nel corso dei mesi tra giugno e novembre, si mantennero particolarmente elevate ed attorno ai 2.000 uomini/giorno; una concentrazione elevata di colpiti in alcune unità ebbe talora anche a menomarne le possibilità operative; la diffusione della malattia nelle retrovie e fra la popolazione aveva anche ripercussioni sulle attività industriali di interesse militare e, soprattutto, sui trasporti, con incidenze negative sui rifornimenti essenziali”. (****).

Per i soldati schierati sul Piave alla normale vita disagiata della trincea ed alla “Spagnola”, si accompagnò anche la malaria – o presunta tale - che provocò gravi vuoti nelle fila italiane ed austriache. Fonti dell'Esercito austro-ungarico lamentarono una forte riduzione della forza dei reparti, particolarmente di quelli dislocati sul Piave, per effetto della malaria che costituì un incubo anche per gli italiani. Le condizioni in cui si trovò una delle Grandi Unità dell’Esercito - il XXVI Corpo d’Armata - anche con riguardo alla sua efficienza bellica sono ben evidenziati nella lettera inviata al Comando Supremo nel settembre 1918 e di cui si riportano alcuni passi essenziali:

“GRUPPO UFFICIALI DI COLLEGAMENTO
DEL COMANDO SUPREMO PRESSO IL COMANDO 3a ARMATA
N. 80 di prot. G.C.
19 settembre 1918
OGGETTO: Condizioni del XXVI C.d.A.
AL COMANDO SUPREMO
Ufficio Operazioni
Durante la prima quindicina di settembre, nei reparti di prima linea della 3a armata la somma degli ammalati giornalieri riconosciuti affetti da febbri malariche è salita a 20.000 uomini, dei quali 15.000 presso il solo XXVI C.d'A.
Ne consegue che la forza disponibile dei battaglioni è ridotta in media a 300 fucili presso la 45a divisione, a 250 presso la 54a…………………………………………………………….
………………………………………………..
Ora è da prevedersi che la forza andrà ancora diminuendo sin verso la metà di ottobre anche perché mancano i complementi e, se vi fossero, non converrebbe inviarli in linea perché presto contrarrebbero l'infezione malarica e quindi più non servirebbero a ricostituire i reparti quando la divisione sarà ritratta in zona più salubre.
A partire dalla 2a quindicina di ottobre è da prevedersi che i casi malarici andranno gradatamente diminuendo, e che potrà cominciare il ritorno ai reparti dei ricuperi dagli stabilimenti sanitari; ma contemporaneamente con l'inoltrarsi della fredda stagione compariranno le forme di affezioni reumatiche ed articolari, molto comuni e diffuse nella regione ed altrettanto perniciose quanto la malaria.
Si può ritenere quindi che la forza del C.d'A. rimarrà stazionaria, ossia ridotta ai minimi termini, se non interverrà una notevole assegnazione di complementi che non so da dove verrebbero tratti perché la fonte delle formazioni di marcia dell'armata è da tempo inaridita.
Sino a che durerà sulla fronte del Piave l'attuale situazione di calma e di assoluta inerzia da parte delle fanterie nemiche questo stato di cose non può destare preoccupazioni.
Ho ritenuto tuttavia doveroso segnalarlo a codesto comando per quel conto che crederà farne nel valutare l'efficienza del C.d'A. nell'eventualità di azioni offensive sia da parte nemica sia da parte nostra.

IL TENENTE COLONNELLO DI
S.M.
(A. di San Martino)” (*****)

Alle perdite sostenute nelle azioni belliche e per la malaria si aggiunsero in modo sempre crescente, quelle prodotte dal flagello della “Spagnola”. In Italia infatti oltre a colpire le zone di guerra la malattia si propagò con intensità spaventosa dappertutto colpendo in particolare le grandi città dove si riscontrarono moltissime vittime. Portoni chiusi a metà in segno di lutto divennero uno spettacolo usuale come divenne altrettanto usuale l’incontro di numerosi cortei funebri diretti ai cimiteri dove però, a causa del numero delle salme da tumulare, fu necessario ricorrere a fosse comuni.

Mentre i militari nel tentativo di arginare l’indebolimento progressivo delle Grandi Unità ricorsero alla quarantena - sebbene con risultati deludenti - i medici e le autorità civili non ritennero di istituire né lazzaretti dove far affluire i contagiati né cordoni sanitari per ridurre la libertà di movimento dei cittadini. Intervennero comunque vietando manifestazioni pubbliche, chiudendo scuole, riducendo le funzioni funebri all’essenziale, e sospendendo anche la programmazione di attività teatrali e cinematografiche. La mortalità continuò quindi ad infierire in Sicilia, in Calabria, nel Napoletano e nelle regioni del Nord Italia.

La medicina militare e quella ordinaria, nel giro caotico di consulti, opinioni ed ipotesi terapeutiche, ritenne assolutamente sconfortanti i risultati delle cure tentate per ridurre in maniera incisiva la mortalità. Tutti però, anche i più taciturni, si trovarono d’accordo sul disperato bisogno di ottenere infermieri ed attrezzature ospedaliere. Nella sola città di Milano si contarono oltre seimila morti; a Genova morirono circa 1.500 persone; a Torino ed a Roma si registrarono fino a 400 decessi al giorno; a Bologna, tra l'1 e il 13 ottobre 1918, i casi di spagnola ufficialmente dichiarati dalle autorità furono circa 2.000 ed i deceduti quasi 300. In alcuni paesi scomparirono intere classi di età moltissimi bambini rimasero orfani, in molte famiglie non rimase nessuno.

Tutti gli stati europei ed extraeuropei furono afflitti dall’imperversare del morbo che nella sua prima fase provocò milioni di ammalati. la pandemia falciò poi innumerevoli vite in Russia, nel subcontinente indiano, nel Sud Est asiatico, in Giappone, in Cina, in gran parte dei Caraibi e in ampie zone del Sudamerica e dell'America centrale. L’intera Europa fu messa in ginocchio con un tasso di mortalità che raggiunse in alcune comunità anche il 70%. In Francia, i morti furono 400.000. In Inghilterra, 200.000. In Germania e in Austria-Ungheria, accusate da alcuni di aver diffuso i batteri a fini bellici, i morti furono stimati in centinaia di migliaia. la Svizzera fu investita dalla sindrome influenzale in due ondate che contagiò circa due milioni di persone causando tra il luglio 1918 e il giugno del 1919 circa 25.000 decessi. In Italia, le vittime furono oltre 375.000 ed i contagiati circa 4.500.000. Negli Usa, i deceduti superarono l’agghiacciante numero di 675.000. In Alaska alcuni villaggi eschimesi furono decimati mentre in altri non rimase nessuno; nelle Samoa occidentali, il 20 per cento della popolazione rimase vittima della malattia.

Sulla tragicità della situazione mondiale ed italiana se ne seppe molto poco, le notizie non circolarono, i giornali furono ridotti al silenzio in modo particolare in Europa dove la censura militare dei campi avversi – in piena analogia comportamentale e con lo scopo di non demoralizzare le popolazioni ed i soldati impegnati al fronte - operò in modo… quasi chirurgico, sottacendo, eliminando od impedendo la pubblicazione di articoli riguardanti la pandemia ed i suoi nefasti effetti.

In ogni caso qualche giornale affrontò l’argomento come ad esempio il Secolo XIX che oltre ad alcuni articoli sulla situazione sanitaria a Genova, pubblicò il 23 ottobre 1918 alcune norme preventive destinate ad evitare il contagio:

“Le autorità hanno il dovere di prendere tutti i provvedimenti per combattere il morbo, ma la prima difesa i cittadini la devono fare con sé stessi. Ecco le principali norme che possono garantirci contro una malattia: 1 - non starnutire e non tossire senza essersi coperta la bocca con un fazzoletto; non sputare in terra; 2 - Non baciare, non dar la mano; 3 – Non frequentare caffè, ristoranti e osterie affollate: 4 - Salire in tram meno che si può e mettersi sempre seduti presso ad un finestrino aperto; 5 -Tenere aperte le finestre con qualunque tempo e in qualunque luogo. Vivere più che si può all’aria libera; 6 -Non far visite né riceverne; Evitare soprattutto di recarsi negli Ospedali o in quei luoghi in cui siano o siano stati dei malati; 7 - non viaggiare, non salire sulle vetture pubbliche; 8 - Respirare possibilmente con il naso ed evitare di volgere la bocca a chi vi parla; 9 - disinfettarsi le mani prima di mangiare; fare mattina e sera sciacqui alla bocca e gargarismi con acqua e tintura di iodio. Pulirsi regolarmente i denti; 10 - non sollevare polvere nelle case. Lavare il pavimento con disinfettanti”.

3.2 – Fine della guerra e terremoto in Romagna

Dopo la battaglia del Piave, il Comando Supremo italiano attese l’occasione propizia per intraprendere un’azione bellica decisiva. L’opportunità s verificò alla metà di settembre quando, le truppe alleate attaccando sfondarono la fronte macedone. Caduta la Bulgaria a fine settembre, l’Austria fu minacciata, dalle truppe alleate mentre in Francia la situazione locale si dimostrò favorevole all’Intesa. Il generale Diaz, sollecitato ad intervenire e studiata l’operazione, diramò gli ordini mettendo in movimento tutte le armate italiane, sia sul Piave sia sul fronte montano. Compiuti i complessi preparativi, il 24 ottobre iniziò la battaglia di Vittorio Veneto che in dieci giorni provocò la disfatta completa dell'esercito Austro-Ungarico, la successiva capitolazione dell'esercito tedesco e la fine della guerra.

Il 3 novembre, a Villa Giusti, presso Padova fu firmato l'armistizio tra l'Italia e l'Austria, con decorrenza dalle ore 15 del giorno 4. Il 30 ottobre, a Mudros, fu concluso l'armistizio tra la Turchia e l’Intesa ed infine l'11 novembre, l'armistizio di Compiègne, firmato in un vagone ferroviario, pose fine anche alla lotta sulla fronte occidentale.

Pochi giorni dopo la firma dell’armistizio però un ennesimo terremoto colpì il 10 novembre una ventina di paesi dell'Appennino forlivese, causando crolli, lesioni gravi e danni diffusi alle case. I centri più danneggiati furono Galeata, Santa Sofia ed altri centri abitati nelle immediate vicinanze. La scossa fu avvertita in un'area, estesa a gran parte della Toscana, al ferrarese, ed alle Marche meridionali. Danni gravi furono riscontrati a Bagno e Civitella di Romagna mentre lesioni a fabbricati ed abitazioni furono rilevati anche nei paesi di Predappio, Rocca San Casciano e Verghereto. Danni più leggeri si verificarono anche in provincia di Arezzo. Il numero delle vittime si limitò ad una ventina di morti e molti feriti.

La conclusione della guerra e le notizie di stampa sulla vittoriosa avanzata delle truppe alleate, l’occupazione di Trieste e la conclusione degli armistizi occuparono tutte le prime pagine dei quotidiani e delle riviste più diffuse. L’entusiasmo della popolazione di tutte le nazioni vincitrici non ridusse però i lutti dovuti alla “Spagnola” che nel periodo tra l’ottobre ed il dicembre 1918 raggiunse la sua fase più acuta. Alla fine dell’anno il numero dei contagiati si attenuò senza esaurirsi del tutto; il virus riprese forza nei mesi primaverili per poi spegnersi completamente nel giugno 1919. Secondo le stime effettuate a seguito di studi e dati resi disponibili da quasi tutte le nazioni del mondo, l'influenza colpì un miliardo di persone uccidendo tra i 20 ed 50 milioni di individui. Non è mai stato tuttavia possibile quantificare con esattezza né il numero delle vittime né quello dei contagiati.

Nel corso del 1919, il grande esercito italiano cominciò a rientrare a casa ma i soldati, carichi di medaglie, dopo le sofferenze della trincea non trovarono né pace né tranquillità. Infatti nelle città e nei paesi aumento dei prezzi, inflazione smobilitazione e mancanza di opportunità di lavoro, provocarono tensioni sociali che si tradussero in scioperi contro il caro vita, proteste contro il governo, ribellioni, tumulti e scontri anche sanguinosi con la forza pubblica.

Le organizzazioni umanitarie, quelle combattentistiche ed altre cercarono di intervenire, la gente si rimise in fila ma alle molte code per ottenere il…..poco, distribuito tramite le tessere annonarie, si sostituì il….. pochissimo oppure il nulla. Le aspettative deluse, le carenze alimentari, la mancanza di lavoro, la questione di Fiume e lo scontento popolare a seguito dell’andamento delle trattative di pace diede origine ad anni difficili durante i quali l’Italia fu scossa da violente lotte politiche e sociali che si conclusero solo dopo il 1922.

**************************************************************
Nota sulle Medaglie:
Le foto delle medaglie sono tratte da originali provenienti da collezione privata:
.

 


Foto 1 -
Croce Commemorativa del VII Corpo d’Armata – Presa di Gorizia

Diritto: al centro sigillo di Gorizia. Nei bracci della croce le iscrizioni: 8. VIII Gorizia MCMXVI.

Rovescio: all’interno di un cerchio perlinato il motto di Gabriele D’Annunzio: "Fu come l’ala che non lascia impronte. Il primo grido avea già preso il monte".

 

 


.


Foto 2 -
Croce Commemorativa del Corpo di Spedizione dell’Oriente Balcanico Gorizia

Diritto: nel disco centrale smaltato in arancione il profilo dorato di una moschea.

Rovescio: liscio con la scritta, Oriente balcanico 1914 - 1919 Albania -Macedonia.


.

Foto 3 -
Medaglia al Merito della Sanità Pubblica
Istituita con il Decreto Luogotenenziale del 7 luglio 1918 "per premiare le persone, gli enti, i corpi, gli uffici che abbiano resi, con cospicue elargizioni o con prestazioni, segnalati servigi nel campo delle opere che interessano la igiene e la sanità pubblica".
Diritto: Vittorio Emanuele III Re d'Italia Nel campo testa nuda del Re volto a sinistra sotto il taglio del collo A.M..
Rovescio. Al Merito della Sanità Pubblica; nel campo bastone di Esculapio posto in palo entro una corona di quercia; in basso Z (marchio della Regia Zecca)
“DECRETO LUOGOTENENZIALE 7 LUGLIO 1918, N. 1048.
TOMASO DI SAVOIA DUCA DI GENOVA
Luogotenente Generale di Sua Maestà
VITTORIO EMANUELE III
per grazia di Dio e per volontà della Nazione
RE D'ITALIA
In virtù dell'autorità a Noi delegata; Sentito il Consiglio dei ministri;
Sulla proposta del ministro segretario di Stato per gli affari dell'interno, presidente del Consiglio dei ministri;
Abbiamo decretato e decretiamo:
Art. 1.
Sarà coniata una medaglia destinata a premiare le persone, gli enti, i corpi, gli uffici che abbiano resi, con cospicue elargizioni o con prestazioni, segnalati servigi nel campo delle opere che interessano la igiene e la sanità pubblica, in circostanze diverse da quelle considerate dai Regi decreti 28 agosto 1867, n. 3872 e 25 febbraio 1886, n. 3706.
Art. 2.
La medaglia del diametro di mm. 30 porterà da una parte l'effigie di Sua Maestà il Re, dall'altra il bastone d'Esculapio entro una corona di quercia, circondata dalla leggenda "Al merito della sanità pubblica".
Si porterà dalla parte sinistra del petto, appesa ad un nastro in seta, della larghezza di trentasei millimetri, a undici righe verticali di uguale larghezza alternate di colore cilestro e nero.
A seconda dei gradi di merito sarà d'oro, d'argento e di bronzo.
Art. 3.
La medaglia di cui ai precedenti articoli, sarà conferita da Sua Maestà il Re, sulla proposta del ministro dell'interno, sentita la Commissione istituita con il Regio decreto 5 marzo 1914, n. 184.
Il decreto di conferimento sarà pubblicato per sunto nella Gazzetta Ufficiale del Regno.
Art. 4.
Nulla è innovato alle disposizioni portate dal Nostro decreto 18 maggio 1916, n. 624.
Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserto nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d'Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
Dato a Roma, addì 7 luglio 1918.
TOMASO DI SAVOIA
Orlando
V. Il Guardasigilli: Sacchi
*********************************************
Bibliografia:
S.M.E. Ufficio Storico - L'Esercito italiano nella grande guerra (1915-1918 ) – Vol. 3
Tomo 2 – Roma, 1936
S.M.E. Ufficio Storico - L'Esercito italiano nella grande guerra (1915-1918 ) – Vol. 3
Tomo 2bis – Roma, 1936 (*)
S.M.E. Ufficio Storico - L'Esercito italiano nella grande guerra (1915-1918 ) – Vol. 3
Tomo 3 – Roma, 1937
S.M.E. Ufficio Storico - L'Esercito italiano nella grande guerra (1915-1918 ) – Vol. 3
Tomo 3bis – Roma, 1937
S.M.E. Ufficio Storico - L'Esercito italiano nella grande guerra (1915-1918 ) – Vol. 4
Tomo 1 – Roma, 1940
S.M.E. Ufficio Storico - L'Esercito italiano nella grande guerra (1915-1918 ) - Vol. V, Tomo 2 - Roma 1988 (****)
S.M.E. Ufficio Storico - L'Esercito italiano nella grande guerra (1915-1918 ) - Vol. V, Tomo 2bis - Roma 1988 (*****)
S.M.E. Ufficio Storico - L'Esercito italiano nella grande guerra - Vol. VII - Tomo 3 bis. – Roma, 1981 (***)
S.M.E. Ufficio Storico - Politica e Strategia in 100 anni di Guerre Italiane – Roma, 2000
L’esercito ed i suoi Corpi – S.M.E - Ufficio Storico vol. 1 – Roma 1971
L’esercito ed i suoi Corpi – S.M.E - Ufficio Storico vol. 2 – Roma 1973
E Scala - Storia delle fanterie Italiane - S.M.E. Roma, 1955
R.Mandel - Storia Illustrata della Grande Guerra – A. Gorlini Editore, Milano, 1937
C. Manfroni - Storia della Marina Italiana durante la Guerra mondiale 1914-1918 –Zanichelli Editore - Bologna, 1936
A. Gori - Il Popolo Italiano nella storia della Libertà e della grandezza della patria dal 1800 ai giorni d’oggi. Storia Civile - Vallardi Editore, Milano 1929
I Bollettini della Guerra MCMXV-MCMXVIII - Edizioni Alpes - Milano 1923 (**)
La guerra d'Italia nel 1915-1918 – Storia Illustrata – Fratelli Treves Editori - Milano 1933
I Carabinieri nella Storia d’Italia - C.E.N. Roma 1984
Istituto Geografico De Agostini – Storia d’Italia – Novara, 1978
D. Mack Smith – Storia d’Italia 1861-1969 – CDE S.p.A. – Milano, 1984
P. Sézanne - Le decorazioni del Regno di Sardegna e del Regno d’Italia – Uffici Storici Esercito – Marina – Aeronautica , Roma 1992
Collezionismo italiano – Compagnia Generale Editoriale – 1980.
L’Italia del XX secolo - Rizzoli Editore, Milano 1977
Selezione del Readers Digest – Italia del Ventesimo Secolo – Milano 1985
Nel centenario del Secolo XIX - 1886 Il Secolo XIX 1996
G. Kolata – Epidemia – Mondadori - Milano, 2000
Alpini Storia e Leggenda – Compagnia Generale Editoriale – Milano, 1982
Il Mondo – Rivista settimanale illustrata per tutti – Sozogno editore, 1918
Siti Internet: cronologia.it; medicinademocratica.org; sportmedicina.com; it.wikipedia.org
Cronache varie
Cartoline: foto da originale collezione privata.


Michele Squillaci

I DISASTRI IN ITALIA


HOME PAGE CRONOLOGIA