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L'EUROPA DOPO DUE RIVOLUZIONI - ( 1849 - 1871 )


201. 10) - LA SECONDA REPUBBLICA FRANCESE (1848-1852)


Il 24 febbraio 1848 a mezzogiorno, dopo tre giorni di lotta per le vie, era deciso il trionfo della rivoluzione. Sulla piazza della Bastiglia fu bruciato fra furiose grida d'applauso il trono regio trascinato via dalle Tuglierì dal popolo in rivolta, e come la cenere fu dispersa ai quattro venti la monarchia degli Orleans.

Se il Lamartine nella sua storia di quei giorni dice le «eroiche gesta» del popolo di Parigi pari alle azioni più gloriose dei Greci e dei Romani, si rende colpevole di forte esagerazione. A una battaglia seria fra militari ed insorti si giunse solo in pochi luoghi, poichè il grosso delle truppe non combattè, in parte perchè fra le loro file si era infiltrata l'indisciplina, in parte perchè dai superiori fu comandata la cessazione del fuoco nel momento decisivo.

Le redazioni della stampa radicale, che aveva attizzato l'insurrezione, furono anche nei tre giorni critici il centro del movimento. Il 24 febbraio alla mezzanotte fu presa negli uffici del « Nazionale », moderatamente socialista, la deliberazione di proclamare la repubblica e di insediare un Governo provvisorio, formato soltanto di seguaci dell'idea repubblicana.

Ora molti, che fino a quel momento si erano atteggiati a riformisti monarchici, si convertirono rapidamente alla repubblica. Il vecchio Dupont de l'Eure, che già dopo la rivoluzzione di luglio (del '30) era stato membro del Governo provvisorio, assunse lui la presidenza; fra il Lamartine, l'Arago, il Cremieux, il Carnot, il Ledru Rollin ed altri membri del governo provvisorio vennero distribuiti i portafogli ministeriali.

I partiti borghesi avevano ancora il sopravvento; al leader dei lavoratori Luigi Blanc non era riuscito di arrivare alla reggenza; ma la lotta non era per nulla finita. Gli uomini dalla bluse, l'organo principale dei quali era la «Riforma», si armavano per una nuova sollevazione per conquistare il dominio del quarto stato.
Per calmare la popolazione operaia il Governo istituì degli opifici nazionali, in cui tutti i disoccupati dovevano trovare collocamento. Sicccome non c'era proprio altro di meglio da fare, vennero disposti ingenti lavori di sterro, inutili e senza scopo, e vi furono addettti più di 10.000 lavoranti. Divisi in compagnie e brigate costoro andavano al lavoro la mattina e si trovavano insieme la sera con i capi per discutere con loro le comuni questioni.
Senza requie in queste riunioni fu predicata da Luigi Blanc, dal Raspail, dal Barbés, dal Blanqui, dal Cabet e da altri caporioni la resistenza non solo contro l'impresario, cioè il Governo, ma in generale contro le classi possidenti. Accanto al parlamento nel palazzo Borbone, nel palazzo del Lussemburgo c'era il parlamento sotto la presidenza di Luigi Blanc.

Presto si ebbero numerose dimostrazioni a Parigi. Più risoluti e meno riguardosi dei veri operai, vi partecipavano le molte migliaia di ragazzi irrequieti, per non dire monelli, che a Parigi sempre si compiacevano a scherzar col fuoco e per il gusto di farlo, a sbigottire l'onesto borghesuccio.
Però contro i seguaci di uno scioglimento violento della questione sociale la borghesia formava un naturale contrappeso. La capitale aveva fatto col tacito consenso della popolazione contadina una rivoluzione per abbattere un principe non amato; ma quando il movimento divenne troppo impetuoso seguì la reazione, effettuuta con l'aiuto dei provinciali, cioè il colpo di Stato di Luigi Bonaparte.

Il Blanc e il Blanquì, che fin'allora avevano chiesto ad altissima voce il suffragio universale, ora cercavano, perchè invece dei 180.000 elettori precedenti potevano andare alle urne circa 9 milioni di Francesi, di rimandare il più possibile le elezioni.
Per giustificare l'innaturale richiesta si affermò che il popolo, a cui la repubblica appariva ancora come qualcosa di nuovo e di estraneo, non era per nulla maturo, nè in grado di cooperare con la politica; che la libertà si sarebbe consolidata durevomente soltanto se fosse stata preceduta da una dittatura per domare i recalcitranti.

Invece di una costituzione doveva formarsi una "giunta per il pubblico bene", della quale era destinato capo supremo il Ledru Rollin. Era il segreto di Pulcinella che gli uomini del palazzo del Lussemburgo volevano il più presto possibile ingaggiare battaglia.
Ma il Lamartine e i suoi colleghi credevano ancora, parte con teatrali scene conciliative, parte con concessioni, di potere scongiurare il pericolo sociale. Solo allorchè il 16 aprile uomini in bluse armati tentarono - però invano - una rivoluzioncella contro il palazzo di città, sede della reggenza, furono di nuovo chiamati nella capitale 15.000 uomini di truppa di linea «ad una festa di affrattellamento, da cui anche l'esercito permanente non poteva essere escluso».
Chiaro per chi doveva intendere!

Sotto l'impressione della disfatta delle associazioni socialiste, avvennero le elezioni. Non solo la popolazione contadina (ovviamente la più numerosa) scelse, com'era prevedibile, per la nuova rappresentanza popolare quasi esclusivamente seguaci delle vecchie idee politiche ed economiche, ma anche le elezioni della città di Parigi dimostrarono che la maggioranza della popolazione intendeva farla finita con lo spettacolo degli elementi proletari abbeverati alle semplicistiche teorie utopistiche.

Solo pochi capi-leader degli operai entrarono nella Camera. Con tutto ciò Luigi Blanc pretese subito l'istituzione di uno speciale ministero del lavoro, mediante il quale i princìpi del palazzo del Lussemburgo dovevano divenire propositi governativi.

La richiesta fu rigettata, ciò che portò come conseguenza un assalto dell'assemblea per opera di una moltitudine ( piuttosto scarsa) armata. Ma il tumulto venne represso, e nelle elezioni suppletive in luogo dei deputati espulsi, perchè fomentatori dell'insurrezione, uscirono dalle urne i nomi di noti monarchici. O opportunistici monarchici dell'ultima ora.

Doveva ragionevolmente sorprendere che anche il nipote del grande Napoleone, Luigi Napoleone, che fin'allora si era fatto conoscere solo con i suoi pazzeschi subbugli a Boulogne e a Strasburgo, fosse eletto in parecchi collegi?

Egli prudentemente rinunziò a entrare alla camera, però con una esplicita riserva: «Il mio nome è un simbolo d'ordine, di nazionalità e di gloria. Se il popolo francese fosse veramente risoluto a impormi dei doveri, io saprei adempierli».

Intanto con gli opifici nazionali si eran fatte le più brutte esperienze. Parecchie migliaia d'i operai ricevevano ogni giorno il proprio salario, quantunque non si dessero un minimo pensiero di lavorare.
Quindi alla fine il Governo prese la risoluzione di chiudere gli opifici nazionali, di chiamare alle armi gli operai obbligati al servizio militare e di allontanare i non domiciliati a Parigi.
Questa era una dichiarazione di guerra alle associazioni operaie; e una sollevazione della moltitudine doveva esserne la risposta.

Il 24 giugno si giunse a una battaglia per le vie, come Parigi non ne aveva mai vista una così sanguinosa e vasta. Il generale Cavaignac, elevato alla dittatura, seppe operare così abilmente che al «partito dell'ordine» toccò una schiacciante vittoria.
E siccome anche in Germania e in altri paesi limitrofi i partiti operai, qua e là collegati con i liberali, non ebbero che sconfitte, il socialismo parve prostrato.

Al suo apparente declino però seguì uno sviluppo ignoto fino allora alla storia mondiale. Sinceri umanitari e arrivisti freddamente calcolatori seguitarono a lavorare attorno alle idee del Saint-Simon, del Fourier, dell'Owen.
Dagli elementi conservatori, nobiltà, clero, borghesia non c'era a priori da aspettarsi che essi avrebbero aiutato il quarto stato a dichiararsi maggiorenne. Ma che anche la colta borghesia (la quale ora, mediante le industrie, sempre più intensamente progrediva, ed era giunta al benessere e alla ricchezza) non avesse occhi per la miseria dei quartieri operai e fosse sorda per i lamenti degli oppressi - questa è la grave colpa del liberalismo nel XIX secolo!

Per ciò il movimento socialista non si limitò più semplicemente ad aiutare i lavoratori a conseguire una esistenza umana e il godimento dei diritti politici, ma mirò ad abbattere del tutto l'ordinamento vigente.
In primo luogo la politica di classe, compassionevolmnete unilaterale, fu costituita in un sistema e su di esso fu creata una mirabile organizzazione; però appena furono sciolte le grandi questioni nazionali il proletariato si ordinò internazionalmente sulla base della dottrina marxista, e fu da allora dichiarata la guerra allo Stato e alla società.

Il Cavaignac procedette contro i vinti con grande severità, gli opifici nazionali vennero sciolti; le gazzette radicali punite o richiamate alla severa disciplina; le associazioni assoggettate alla vigilanza della polizia. Tuttavia il Cavaignac dileguò ogni dubbio sulle sue tendenze repubblicane. Così egli si guadagnò molto seguito in città; mentre invece eccitò contro di sè con la sua condotta la popolazione campagnola dalle tendenze monarchiche.

I «bons villageois» assai scherniti dai Parigini, i quali disponevano di una grande maggioranza nella rappresentanza nazionale, contrapposero al fedele repubblicano il loro fiduciario, Luigi Bonaparte, fino allora mai preso sul serio da nessun partito.

Certo sapevano che egli nella sua gioventù se l'era intesa con i carbonari e si era immischiato in pericolose avventure; ma quale giovane non commette nessuna sciocchezza?
Ora il nipote dei grande zio è un uomo posato di quarant'anni, e non sarà più incerto dove debba cercare i suoi veri amici. Il primo Napoleone abbattè il drago della rivoluzione, e anche dal nipote si può aspettare che riesca a sbaragliare gli incorreggibili schiamazzatori parigini e a ristabilire la tranquillità e l'ordine nel paese!
Così infatti Luigi Bonaparte nelle nuove elezioni nel settembre fu eletto in non meno di cinque dipartimenti. Egli ormai entrò anche nell'assemblea nazionale, ma si comportò piuttosto modestamente; prese solo di rado la parola, e nel resto lasciò operare in suo favore il suo oro e i suoi seguaci. I capi dei partiti repubblicani reputarono il timido «imbastardito » Bonaparte, per un uomo da nulla e per nulla pericoloso.

Essi s'ingannarono in ciò, come intorno alla forza delle «idées Naboleoniennes», che il Re borghese Luigi Filippo e il suo ministro Thiers avevano contribuito a far crescere. Quando i rappresentanti del popolo nel dicembre 1848 deliberarono che un presidente dell'assemblea nazionale dovesse essere eletto per un quadriennio mediante il suffragio universale, le cose eran già così avanzate che non si parlava più nè del Lamartine, nè dei figli di Luigi Filippo, ma si accennava più solo due candidati, il Cavaignac e Luigi Napoleone.

I manifesti elettorali del principe promettevano alla popolazione contadina diminuzione delle oppressive tasse fondiarie e soprattutto mantenimento dell'ordine nel paese e della pace con l'estero; per guadagnare le classi borghesi si insisteva energicamente sull'affezione alla repubblica conservatrice; al clero fu accennato a un intervento in favore della minacciata sovranità temporale del papa, e in ispecie alla libertà d'insegnamento chiesta dal conte Montalembert.

Infine il Bonaparte, il quale da consumato cospiratore sapeva che la riuscita e il fallimento dei disegni ambiziosi dipendono sempre dall'esercito, si impegnò sistematicamente a coltivare gli ufficiali e i semplici soldati; mentre si guadagnava quelli con la speranza del ritorno dei giorni gloriosi del grande esercito, fece distribuire fra i reggimenti parigini denaro, carne e vino, cosicchè nelle riviste non di rado risuonavano le grida piuttosto contrarie alla disciplina di "viva il presidente", e addirittura di "viva l'imperatore".

L'astuta propaganda venne coronata il 10 dicembre 1848 da un magnifico risultato elettorale. Non solo dai suoi seguaci il principe fu levato sugli scudi; per scegliere almeno il male minore, anche i più legittimisti, orleanisti e clericali passarono nel campo bonapartista.
Di 7.300.000 voti Luigi Napoleone ne ebbe più di 6.000.000, sei volte di più del suo avversario Cavaignac. Il 2 dicembre l'eletto prestò il solenne giuramento: « In faccia a Dio e alla nazione francese io voglio rimanere fedele alla repubblica una e indivisibile, e adempiere tutti i doveri che la costituzione impone a un figlio della repubblica».

Di fatto la Francia il 10 dicembre 1848 aveva di nuovo un monarca.

È difficile trovare un altro personaggio della storia contemporanea che sia stato giudicato tanto diversamente, come Napoleone III. «Noi ci sorprendiamo dice il Sybel - per gli accenti dell'ammirazione e dell'odio, dell'amore riconoscente e del selvaggio disprezzo »!

Un politico incapace; un benefattore dell'Europa, un avventuriero e un bandito, un maestro dell'arte di governare: così suonano i vari giudizi e vengono discussi con grande vivacità dai popoli e dai partiti. Egli stesso visse taciturno, e taciturno morì; un molesto e irritante enigma per l'opinione pubblica dei contemporanei.

Tuttavia è fuori dubbio che un uomo, il quale per più di vent'anni seppe tener sospeso l'antico e il nuovo mondo ed era da considerare il polo della politica europea, non può essere condannato con poche parolone come una testa vuota o un baro.
È semplicemente impossibile che egli fosse sempre il trascinato e mai il trascinante; egli dovette, anche se il suo occhio in apparenza guardava stanco il mondo, disporre persino di straordinarie energie di spirito e di volontà.
Con scaltrita cedevolezza, da tutte le parti egli seppe ancora per tre anni nascondere che la repubblica aveva nel suo primo magistrato il più pericoloso nemico.
Un fedele aiuto e un saldo appoggio fu per lui segnatamente il Rouher, la cui incomparabile forza nel lavoro fece buona prova in tutti i campi dell'amministrazione dello Stato e la cui energia certo non di rado fu molesta al suo stesso signore.

Quanto l'influsso della sua moglie, la bella e ambiziosa Eugenia, una contessa spagnola di Montijo, fosse decisivo sui disegni e sulle azioni politiche di Napoleone, si riuscirà a comprendere esattamente soltanto quando si potranno consultare tutte le fonti autorevoli. Il nuovo capo supremo della Francia parve averla rotta completamente col suo passato.
Mentre nel 1831 egli aveva partecipato a una fallita insurrezione in Italia nelle pontificie Romagne, egli ora, per conciliarsi il clero, fece abbattere dalle truppe francesi la repubblica romana e restaurare il Patrimonium Petri.
In frequenti viaggi attraverso tutta la Francia cercò di ingraziarsi i diversi gruppi della borghesia come caldo amico del commercio e dell'industria, come saldo sostegno di una pacifica evoluzione politica.

Per riguardo al quarto stato si tenne lontano dalle tornate dell'assemblea nazionale, quando il diritto elettorale fu ritolto quasi a un terzo dei precedenti elettori e la capacità elettorale fu connessa con un censo più elevato.
La paura della catastrofe sociale fece apparire ai partiti borghesi accettabili le più pericolose restrizioni delle conquiste liberali. «Gli amici della vera libertà, gridò il Thiers nell'assemblea nazionale - nutrono timore della folla, della folla popolare, che ha rovinato tutte le repubbliche, che da per tutto e sempre ha consegnato la libertà in mano ai tiranni».

Invano il Generale Lamoricière ammoniva di non precipitare le cose: «Sapete a vantaggio di chi lavorate? Di quel partito, che per principio non vuol sapere di nessuna libertà, che, se voi rivedrete la costituzione secondo i suoi desideri, un giorno vi presenterà in una tristissima figura l'Impero, però senza grandezza e gloria, cioè il nudo despotismo».

Nei rapporti con i gabinetti stranieri, il presidente, come aveva fatto il console Bonaparte dopo il 18 brumaio, seppe far valere lo schiacciamento della rivoluzione come opera sua e merito suo.
Così egli potè un po' alla volta nutrire la speranza di riuscire
a mettersi, conforme all'esempio di suo zio, la porpora imperiale sulle spalle, senza incontrare una seria resistenza.

Solo il ministro della guerra St. Arnaud e un paio di amici incondizionatamente fedeli furono messi a parte del segreto. Nella notte dal 1 al 2 dicembre 1851 furono imprigionati il Cavaignac, il Thiers, Vittore Hugo e circa altri sessanta autorevoli parlamentari e scrittori perchè inflessibili repubblicani.
La mattina del 2 dicembre dei manifesti annunziavano ai sorpresi Parigini che l'assemblea nazionale era stata sciolta e che lo Stato avrebbe avuto una nuova costituzione a utile e giovamento di tutte le classi della società!

Napoleone e i suoi congiurati avevano calcolato che l'improvvisa sorpresa avrebbe impedito ogni resistenza; questa speranza fallì, poiché avvennero gravi tumulti, ma col fuoco della mitraglia le piazze e le strade vennero rapidamente ripulite; il colpo di Stato costò sanguinose ecatombi, sebbene finisse con la completa vittoria dell'imperialismo.

Ormai la paura rese arrendevoli pure coloro che non erano convertiti per nulla a vedere in Napoleone il Messia della nazione francese.
Quando la proposta di prolungare di 10 anni al Presidente la sua dignità fu sottoposta alla votazione popolare, circa 7 milioni di francesi contro circa 650.000 risposero di sì, e quando l'anno dopo, nel novembre del '52 con un plebiscito fu posta la domanda, se la nazione desiderava la restaurazione dell'Impero, 7 milioni 481.231 Francesi espressero il loro consenso.

Abbiamo qui la singolare tabella-risultati di tutti i SI e NO dei vari dipartimenti.
Notare il "Dieu le veut"

 

Il 2 dicembre 1852, nell'anniversario della incoronazione del vincitore di Marengo, Napoleone III fu proclamato Imperatore dei Francesi.

La nuova costituzione era essenzialmente una copia delle istituzioni del 1804; soltanto le forme costituzionali erano mantenute con cura, quantunque in pratica non impedissero neppure il completo svolgimento di un assolutismo imperiale.

Già prima del decisivo plebiscito Napoleone in un banchetto della camera di commercio in Bordeaux aveva annunziato: «L'empire c'est la paix»! .

La frase era prudentemente pronunziata con l'intento di conciliare tutto il mondo con la nuova creazione. Ma purtroppo non corrispose alla verità!
Ma di questo ne riparleremo in un altro capitolo.

Mentre nel prossimo noi dobbiamo tornare in Germania, in Austria e in Italia.

segue

202. 11) - LA REPRESSIONE DEL MOVIMENTO NAZIONALE
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