Una analisi storica per la definizione dell'organizzazione e dei suoi appartenenti
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COS'E'
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Che cos'� la mafia e chi sono i mafiosi? Sin
dall'Unit� d'Italia, quando questi termini comparirono per la prima in
documenti ufficiali, studiosi di differenti scienze sociali, giornalisti,
magistrati, poliziotti e Commissioni Parlamentari hanno cercato di dare una
risposta alle domande.
Il notevole dispendio di energie ha dato luogo a una
sterminata produzione bibliografica che ha reso il tema famigliare non solo a
tutti gli italiani, ma possiamo dire a tutti i paesi del mondo. La celebrit�
dei mafiosi � tanta e tale che persino il cinema americano gli ha dedicato
ampio spazio, a partire dalla serie de "Il Padrino" diretta dal
regista italo-americano Francis Ford Coppola.
Tuttavia, nonostante le luci del
palcoscenico siano state costantemente puntate sulla mafia, il fenomeno ha
continuato a rimanere avvolto in un alone di ambiguit�, una nebbia che lo ha
reso inafferrabile e misterioso. E' sufficiente dare una prima occhiata alle
definizioni avanzate nel corso dei decenni per comprendere la complessit� del
problema. La mafia � stata descritta come cospirazione, crimine organizzato,
industria della violenza, modello comportamentale, anti-Stato e altro ancora.
Qualche studioso, ancora di recente, ha ipotizzato che la mafia non esiste, in
quanto si tratterebbe di una "idea" artificialmente utilizzata dalla
classe politica per screditare di volta in volta l'operato del governo o
dell'opposizione1
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Gaspare Pisciotta, cognato, compare e forse assassino del bandito Giuliano,
disse che la mafia era tutto e si trovava dappertutto, mentre recentemente un
pentito ha sostenuto che la sua origine risale ai tempi degli apostoli. Insomma
la mafia � dovunque e contemporaneamente da nessuna parte. La mafia � una
sorta di "Zelig", capace di modificarsi a seconda del contesto che lo
circonda e di sopravvivere nei pi� differenti ambiti e condizioni.
L'obiettivo
di questo articolo non � risolvere questa Babele linguistica n� proporre una
nuova definizione. Troppe sono le definizioni esistenti e l'aggiunta di un'altra
non potrebbe che aumentare la confusione. Molto pi� semplicemente qui si tenter�
di individuare quelle peculiari caratteristiche che rendono la mafia un fenomeno
unico e affatto diverso dagli altri fenomeni di criminalit�. In altri termini,
partendo dalle definizioni avanzate dagli osservatori sociali, si tenter� di
focalizzare l'attenzione su quegli elementi che rappresentano "le
condizioni necessarie" per poter parlare di mafia. Nel 1874 il prefetto di
Agrigento forn� una delle prime definizioni di mafia.
"La mafia oggettivamente si pu�
definire il senso misterioso della paura che l'uomo famoso per delitti o per
forza brutale fa sentire sui deboli, ai pusillanimi, ai quietisti.
Soggettivamente � la celebrit� che fa acquistare l'imprudente coraggio a colui
che, con azioni delittuose e colla prontezza del braccio, della mente e delle
relazioni personali � arrivato ad imporsi su coloro che lo conoscono di nome e
di persona, in modo che pu� commettere sfacciatamente il delitto, colla
certezza della impunit�, perch� tutti avendo paura di lui, nessuno ardisce di
reagire alle sue sfacciate pretese di accusarlo".2
La caratteristica peculiare del mafioso sarebbe pertanto il suo comportamento
violento. Tale idea era condivisa da molti altri osservatori. Bonfadini,
presidente di una delle prime Commissioni Parlamentari che studi� il problema
del Sud Italia, nel 1875 defin� la mafia come "lo sviluppo e il
perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male"3.
Il futuro presidente del Consiglio Antonio Starrabba marchese di Rudini us�
l'espressione malandrino per inquadrare il mafioso e specific� che il
suo scopo era l'arricchimento personale attraverso l'uso della forza
approfittando dell'assenza della sicurezza in gran parte della Sicilia4.
Lo stesso termine malandrino venne usato nel 1865 dal prefetto di Palermo
Filippo Gualtierio, il quale sottoline� un secondo aspetto dei mafiosi, ovvero
la loro capacit� di organizzarsi.5
Il problema associativo � stato spesso dibattuto, ma va detto che gli
osservatori del fenomeno lo hanno spesso negato o trascurato. La mafia non �
un'associazione che abbia forme stabilite e organismi speciali; non � neanche
una riunione temporanea di malandrini a scopo transitorio o determinato; non ha
statuti, non ha compartecipazioni di lucro, non tiene riunioni, non ha capi
riconosciuti, se non i pi� forti e i pi� abili.
Ma � lo sviluppo e il perfezionamento
della prepotenza diretta ad ogni scopo di male; � di solidariet� istintiva,
brutale, interessata, che unisce a danno dello Stato, delle leggi e degli
organismi regolari, tutti quegli individui e quegli strati sociali che
preferiscono trarre l'esistenza e gli agi, anzich� al lavoro, dalla violenza,
dall'inganno e dall'intimidazione.6
In questi termini, lo stesso presidente della Commissione parlamentare Bonfadini,
ridusse la mafia a fenomeno individuale. Ancora pi� esplicito fu l'avvocato
Marchesano durante il processo Amoroso agli inizi del ventesimo secolo.
"Cos'� oggi la mafia? Una organizzazione come taluni credono, con capi e
sotto capi? No. Ci� non esiste se non nei sogni di qualche questore. Dunque,
non � questa la mafia, ma un sentimento naturale, uno spontaneo concerto, una
solidariet� che riunisce tutti i ribelli alle leggi della societ� civile7".
I sogni a cui fa riferimento l'avvocato sono quelli del questore Armando
Sangiorgi, il quale tra il 1898 e il 1900 stese un interessante rapporto sulla
mafia. Da uno studio sull'agro palermitano Sangiorgi descrisse l'esistenza di
una organizzazione centralizzata composta da cosche, le cui attivit� erano
confinate entro un preciso territorio. La coordinazione dell'attivit� delle
cosche era garantita da una conferenza di capi, al di sopra della quale vi era
una "capo supremo". Secondo il questore, ogni cosca era regolata da
precise norme e da una severa disciplina che prevedeva la punizione con la morte
per chiunque le avesse violate8.
Sangiorgi non fu il solo a sognare l'esistenza di una mafia organizzata.
Entrambe le analisi di due poliziotti, Giuseppe Alongi e Antonio Cutrera,
sottolinearono alla fine del diciannovesimo secolo il carattere associativo dei
mafiosi9.
Inoltre diversi processi e rapporti di
polizia nello stesso periodo confermarono l'esistenza di diversi gruppi
associati attorno a Palermo, come i compari o stoppaghieri e i giardinieri
a Monreale, i fratuzzi a Bagheria, i fontana nuova a Misilmeri e
la fratellanza a Favara vicino ad Agrigento. Nonostante ci�, la tesi che
la mafia non fosse organizzata continu� a trovare sostenitori, tra cui il
famoso studioso di scienze politiche Gaetano Mosca. Ancora negli anni '70, il
sociologo tedesco Henner Hess, l'antropologo olandese Anton Blok e i sociologi
americani Schneider continuarono a negare l'esistenza di vincoli formali tra i
mafiosi e sostennero che alla base dei rapporti tra mafiosi vi fossero
semplicemente legami familiari, amicali e parentali. Di conseguenza la cosca
rappresenterebbe un'instabile e fluida struttura mentre un mafioso non sarebbe
in grado di riconoscere un altro mafioso come membro della stessa categoria,
gruppo o classe. In altre parole, il mafioso non sarebbe cosciente di essere
mafioso10.
Non
deve pertanto destare sorpresa se, agli inizi degli anni '80, durante il pi�
importante processo della storia della mafia, ovvero il cosiddetto maxi-processo
di Palermo, molti studiosi furono presi in contropiede dalle affermazioni dei
"pentiti" che decisero di collaborare con la giustizia.
Particolarmente sorprendente fu la testimonianza di Tommaso Buscetta, il pi�
prestigioso tra i pentiti, che dipinse uno scenario ben diverso da quello
immaginato da molti osservatori: la mafia non solo era composta da diverse
famiglie o cosche, ciascuna di esse regolate da una precisa gerarchia di
comando, ma al di sopra di esse esisteva un organo chiamato cupola o
commissione, composto dai pi� prestigiosi capifamiglia, che prendeva le
decisioni di maggiore importanza relative attivit� dell'organizzazione.
La violenza mafiosa non � sempre
stata associata al crimine e all'assassinio, ma ha anche trovato una valenza
positiva nel concetto di omert�. Omert� indica un dovere morale, profondamente
radicato nella cultura siciliana, di non parlare con l'autorit� e risolvere i
propri problemi senza ricorrere alla legge. L'omert� nel suo significato
originario non � affatto una perversione del senso morale, come potrebbe
sembrare a chi la giudicasse dal di fuori... l'omert� � una conseguenza
necessaria del principio della vendetta privata, il quale � alla sua volta una
conseguenza della poca fiducia che la giustizia pubblica ha saputo conquistarsi
nei secoli passati presso il popolo siciliano11.
Partendo da questa definizione, Giovanni
Lorenzoni, presidente dell'ultima
grande commissione parlamentare che studi� le condizioni del Sud d'Italia nel
primo decennio del '900, arriv� a una nuova definizione di mafia. La mafia non
� un'associazione. Non era nemmeno in sul principio un fenomeno criminoso. Era
l'esagerazione del sentimento di s�, del principio di non tollerare offese,
della deliberata volont� di ripararle a qualsiasi costo e in modo terribile
senza ricorrer mai alla Giustizia pubblica... Ma piano piano la mafia pass� a
significare una condizione di spirito di carattere moralmente riprovevole, e
riprovato e deplorato dagli stessi Siciliani che della mafia sono le principali
anzi le uniche vittime.
Mafia � un atteggiamento per il quale
una persona non solo rintuzzer� le offese a qualunque costo senza ricorrere
alla Giustizia; ma cercher� di imporsi nel qualsiasi ambiente ove si trovi,
cercher� di trarne il massimo vantaggio personale, anche a danno altrui,
ricorrendo alle minacce, ed offrendo i propri interessati servizi, n�
rifuggendo, ove � necessario, dal delitto dalle conseguenze penali del quale sa
con infinita arte tenersi immune, fidando sullo stesso principio di omert�, che
un po' per abitudine un po' per paura di passar per spie, o di venir colpiti
dalla vendetta dei denunciati, per poca fiducia insomma nella Giustizia pu�
dirsi comune in Sicilia anche alle persone oneste12.
Le considerazioni di Lorenzoni si basavano sugli studi del famoso antropologo
siciliano Giuseppe Pitr�, che nella sua celebre opera Usi e costumi,
credenze e pregiudizi del popolo siciliano, aveva descritto la mafia come
"la coscienza del proprio essere, l'esacerbato concetto della forza
individuale, l'unica sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto di interessi e
di idee: donde la insofferenza della superiorit�, e, peggio ancora, della
prepotenza altrui"13.
Arriviamo cos� a un terzo elemento presente nella definizione di mafia e
mafioso. Il mafioso � tale in quanto non solo usa la violenza privata e si
associa con altri mafiosi, ma anche perch� trova nella cultura o sub-cultura
siciliana una legittimazione del suo comportamento. La mafia � quindi prodotto
della tradizione siciliana e, tranne per gli eccessi violenti, non dovrebbe
essere giudicata con severit� o come fenomeno criminale. Tale tesi ha trovato
molti sostenitori nel corso degli ultimi due secoli. Tra i tanti, � doveroso
citare il famoso discorso tenuto dall'ex Presidente del consiglio Vittorio
Emanuele Orlando (nato a Palermo) dopo la prima guerra mondiale per raccogliere attorno a s�
tutte le forze produttive italiane ed evitare il crollo del sistema politico.
"Ora io vi dico che se per mafia
si intende il senso dell'onore portato fino all'esasperazione, l'insofferenza
contro ogni prepotenza e sopraffazione, portati sino al parossismo, la generosit�
che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedelt� alle amicizie, pi�
forte di tutto, anche della morte, se per mafia si intendono questi sentimenti e
questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta
di contrassegni indivisibili dell'anima siciliana e mafioso mi dichiaro e sono
fiero di esserlo!"14
Gli stessi argomenti, anche se in un contesto completamente differente, furono
usati dal presidente della prima Commissione Parlamentare Antimafia, Donato
Pafundi, che, in un'intervista rilasciata al Giornale di Sicilia nel 1966, defin�
la mafia come uno "stato mentale che pervade tutto e tutti, a tutti i
livelli". Vi � da aggiungere che il termine omert� viene utilizzato anche
nella legge italiana nell'articolo del codice penale che definisce il reato di
associazione mafiosa. In tal senso, l'elemento che contraddistingue un mafioso
da un comune criminale � l'omert� intesa come elemento culturale tipicamente
siciliano e collante che consente ai mafiosi di associarsi in modi e forme
differenti dagli altri criminali. Un notevole contributo per studiare e
identificare i mafiosi � stato offerto da quelle scienze sociali come la
sociologia e l'antropologia che hanno focalizzato l'attenzione sul ruolo svolto
dalla mafia nella societ� siciliana. Tradizionalmente la figura del mafioso �
stata collegata alle condizioni di arretratezza dell'isola. Leopoldo Franchetti,
in una delle prime acute analisi sociali del fenomeno nel 1876, sottoline� come
il sistema feudale preunitario in Sicilia si fosse retto sull'uso della violenza
privata da parte dei baroni.
L'istituzione del diritto positivo
dopo l'Unita d'Italia e la conseguente abolizione del precedente sistema feudale
non rappresentarono la fine di questa violenza privata poich� il nuovo Stato
italiano non fu abbastanza forte per avocare a s� il monopolio della forza. Di
conseguenza, la violenza privata perse la sua funzione sociale e divenne un
strumento di conquista di potere e di ricchezza per un gruppo spregiudicato di persone,
ovvero i mafiosi. Sebbene i mafiosi rappresentassero una classe estremamente
dinamica in grado di operare una scalata sociale attraverso l'uso della forza,
la mafia venne presto inquadrata come fenomeno di arretratezza legato
all'incapacit� dello Stato italiano di operare le necessarie riforme politiche
e sociali per avviare lo sviluppo democratico e capitalistico.
In particolare la
scuola marxista italiana, in primo luogo nella figura dello storico Emilio
Sereni, ha messo in relazione l'origine della mafia con il latifondo, cio� la
struttura portante dell'economia siciliana. Il latifondo era caratterizzato
dall'assenza del proprietario, il quale viveva solitamente di rendita e affidava
la gestione del feudo ad un affittuario, il gabelloto, ed ad altre figure
minori come il campiere, ovvero una guardia privata, i quali, a loro
volta, si garantivano un profitto sicuro sfruttando il lavoro dei contadini. I
mafiosi andrebbero individuati proprio nelle figure del gabelloto e del campiere,
ovvero coloro che, speculando sul lavoro dei contadini, assicuravano la
sopravvivenza di questa struttura feudale.
Gli studi citati dei sociologi e
antropologi Hess, Blok e Schneider negli anni '70 riproposero in nuovi termini
l'idea della mafia come fenomeno di arretratezza. Il mafioso venne definito come
"mediatore sociale", ovvero come figura privata che attraverso un uso
illegale della violenza si sarebbe sostituito allo Stato nelle funzione relative
all'uso della forza, come la pacificazione dei conflitti o la compensazione
della giustizia fra le parti. In altri termini il mafioso sarebbe stato una
sorta di giudice e poliziotto che opera in una societ� arretrata dove lo Stato
italiano non � in grado di intervenire, anche a causa delle precarie condizioni
delle vie di comunicazione, e dove la subcultura dell'omert� giustifica il
comportamento violento dei mafiosi. Se la mafia � l'espressione
dell'arretratezza, la modernizzazione, ovvero le riforme politiche e sociali,
dovrebbero rappresentare l'antidoto. Cos� pensava per esempio Napoleone
Colajanni quando proponeva nel secolo scorso la riforma elettorale come
soluzione del problema e cos� pensavano anche gli stessi Hess e Blok quando
consideravano i nuovi mafiosi degli anni '50 e '60, che avevano importato le
moderne tecniche violente dei gangster americani, come qualcosa affatto diverso
dalla mafia tradizionale e destinato a diventare puro crimine. Tuttavia le tesi
che prevedevano l'estinzione dei mafiosi furono presto smentite.
Anzi, le riforme politico-sociali
quali la riforma della terra, il suffragio universale e l'istituzione della
Cassa del Mezzogiorno per promuovere lo sviluppo capitalistico nel Sud,
contribuirono a rendere i mafiosi ancora pi� ricchi e potenti. La
modernizzazione non si rivel� affatto nemica della mafia, la quale invece,
dimostrando sorprendenti capacit� di adattamento, fu in grado di resistere a
qualsiasi cambiamento. Di fronte a questa camaleontica abilit�, le scienze
sociali cambiarono obiettivo e cominciarono a considerare i mafiosi non pi�
come prodotto dell'arretratezza, ma, al contrario, del cambiamento. In tal senso
il sociologo Pino Arlacchi coni� il termine "mafia imprenditrice"
agli inizi degli anni '80, rifacendosi a una categoria schumpeteriana
dell'imprenditore innovatore. Secondo Arlacchi, il mafioso di fronte ai
mutamenti avvenuti in Sicilia a partire dagli anni '50 cominci� a cambiare
mentalit� e, lasciando da parte la subcultura dell'omert� tipica della societ�
precapitalistica, svilupp� una nuova etica per cui l'onore coincideva con la
ricchezza. L'accumulazione di capitali divenne uno scopo di vita. Il tutto senza
per� rinunciare all'uso illegale e privato della violenza. Ne deriv� una nuova
figura di mafioso a met� tra un abile e spregiudicato imprenditore, capace di
riprodurre i suoi capitali in vari settori e in particolare nell'edilizia, e uno
spietato killer che rimuove con la minaccia e la violenza ogni ostacolo si pone
di fronte al processo di arricchimento15.
Il sociologo Umberto Santino, ha definito la mafia come un sistema di violenza
ed illegalit� finalizzato all'accumulazione del capitale e all'acquisizione e
gestione di posizioni di potere. La violenza mafiosa pertanto non rappresenta un
incontrollato istinto omicida, ma risponde a una precisa e razionale logica di
guadagno16.
Ancora l'ex Presidente della
Commissione Parlamentare Antimafia, Luciano Violante, ha sostenuto che la mafia
� "un'organizzazione utilitarista" che tende ad ottenere il massimo
dei risultati con il minimo dei costi possibili17.
L'idea del mafioso imprenditore e affarista non esaurisce tuttavia il panorama
delle definizioni di mafia. In particolare la chiave interpretativa che spiega
attivit� della mafia termini di razionale e oculata riproduzione del capitale
si � dimostrata limitativa di fronte alla violenza mafiosa contro lo Stato
negli anni '80 e '90. Bisogna infatti ricordare come in questi due decenni i
mafiosi siciliani hanno improvvisamente cambiato strategia nei confronti dello
Stato, passando da un relativo clima di statu quo, che durava sin dalle
origini dello Stato, a un attacco terroristico frontale che, per determinazione,
risulta simile a quello delle Brigate Rosse. In altri termini la mafia siciliana
ha cominciato a colpire con spietata determinazione i membri dello Stato che
intendevano contrastare la sua crescita criminale e quella parte della classe
politica non pi� desiderosa di collaborare con i mafiosi.
Come � tragicamente
noto, la lista degli "omicidi eccellenti" si allung� di anno in anno
di nomi di poliziotti, carabinieri, giudici, politici e giornalisti. A questo si
deve aggiungere l'attivit� terroristica mafiosa svolta al di fuori della
Sicilia, come dimostrano le indagini dei magistrati sulle stragi di Bologna
(1980), del rapido 904 nella Val di Sambro (1984) e persino il sequestro e
l'omicidio Moro (1978). L'apice della tensione fu raggiunto nel biennio 1992-93,
dopo che la Corte di Cassazione conferm� le pesantissime condanne inflitte ai
mafiosi dal maxi-processo di Palermo.
La risposta dei mafiosi fu terribile,
e si concretizz� nelle stragi di Capaci e via D'Amelio dove persero la vita i
giudici Falcone e Borsellino, nell'omicidio di Salvo Lima, il discusso politico
siciliano legato ad Andreotti, e nelle autobombe a Firenze, Milano e Roma. �
altrettanto noto che l'arrogante sfida mafiosa venne duramente punita dallo
Stato che, attraverso una legislazione di emergenza che prevedeva condanne pi�
severe per i mafiosi, l'istituzione di reparti antimafia come la DIA (Direzione
investigativa antimafia) e la DNA (Direzione nazionale antimafia) e l'utilizzo
dell'Esercito in Sicilia, riusc� nel giro di un anno ad arrestare i pi� noti
capimafia come Tot� Riina e Nitto Santapaola e sequestrare gran parte dei loro
capitali.
Come conciliare il terrorismo mafioso con la presunta razionalit�
imprenditrice? Quale ruolo poteva avere la logica utilitarista, secondo cui la
mafia farebbe il minimo per ottenere il massimo, con la scriteriata decisione di
attaccare lo Stato? Evidentemente gli elementi a disposizione per comprendere
che cos'� la mafia non erano sufficienti. La violenza, l'associazione, la
subcultura, la funzione sociale in chiave di arretratezza o modernizzazione, per
quanto rappresentino fondamentali elementi della fenomenologia mafiosa, non
esauriscono la complessit� del fenomeno. Per far completa luce sull'attivit�
terroristica dei mafiosi il Parlamento e la Commissione Parlamentare Antimafia
hanno finalmente focalizzato l'attenzione sul rapporto mafia politica. Non si
tratta certo di una novit� in quanto tale rapporto � sempre stato sospettato
sin dai primi anni dello Stato italiano, quando il parlamentare Tajani accus�
il governo di far uso spregiudicato dei mafiosi in Sicilia.
Il processo alla fine del
diciannovesimo secolo per l'omicidio Notarbartolo, che fu uno dei pi�
importanti membri dell'establishment siciliana, port� a galla un cos�
incredibile livello di collusione tra politici e mafiosi che il locale comando
militare proib� agli ufficiali dell'esercito di essere presenti in aula18.
Ancora si potrebbe ricordare come Andrea Finocchiaro Aprile, leader del
movimento separatista siciliano, nel 1944 sostenne in un comizio che "se la
mafia non ci fosse bisognerebbe inventarla"19.
Il livello di collusione tra mafia e politica raggiunse un nuovo livello alla
fine della seconda guerra mondiale quando le autorit� americane prima e quelle
italiane poi formalmente riconobbero il potere dei mafiosi, assegnandogli
cariche come, nel caso di Calogero Vizzini, quella di sindaco di Vizzini. La
compenetrazione mafia politica fu poi agevolata dall'enorme afflusso di capitali
provenienti da istituzioni statali come le Cassa del Mezzogiorno che spesso
aiutarono a finanziare i progetti di speculazione edilizia che i mafiosi,
improvvisatisi imprenditori, compirono con la piena complicit� delle autorit�
locali. Il dibattito su questo complesso intreccio � stato sempre
caratterizzato da grandi polemiche soprattutto perch� l'opposizione ha indicato
la Democrazia Cristiana come diretta responsabile della protezione dei mafiosi,
mentre l'ex partito di maggioranza, a sua volta, ha accusato i suoi critici di
faziosit� e di voler strumentalizzare il problema per destabilizzare lo Stato.
Con buon livello di approssimazione, si potrebbe ridurre il dibattito a tre
posizioni differenti.
La prima linea interpretativa tende a
definire come occasionale il rapporto tra mafiosi e politici e comunque a
presentarlo come fenomeno da iscriversi nella tendenza di tutti i sistemi
politici delle democrazie ad usare la corruzione per legittimare la loro
esistenza. � questa per esempio la linea di difesa adottata pi� volte dagli
esponenti dei
partiti di governo di fronte alle interrogazioni parlamentari che chiedevano
conto dell'operato dei politici della maggioranza in Sicilia. La seconda
posizione tende invece a interpretare il rapporto tra mafia e politica come
alleanza strategica in chiave anticomunista, sviluppatasi durante la Guerra
Fredda, in sintonia con la dottrina della NATO che considerava il comunismo come
la pi� grande minaccia per la democrazia. In tal senso i partiti di
maggioranza, con l'implicito consenso degli Stati Uniti, avrebbero sospeso
parzialmente i valori democratici e, attraverso la corruzione o spregiudicate
alleanze con gruppi extra-istituzionali come la mafia, impedito il passaggio
dell'Italia al blocco comunista.
Questa posizione � stata per esempio espressa
dal filosofo Emanuele Severino, il quale ha interpretato l'esistenza della mafia
come un prezzo che la democrazia italiana ha dovuto pagare per evitare la
"dittatura del proletariato"20.
Infine alcuni studiosi hanno osservato come il rapporto mafia politica, sebbene
si sia rafforzato dopo la seconda guerra mondiale, trovi la sua origine in tempi
ben pi� lontani quando ancora non esitava una contrapposizione mondiale tra
paesi liberal-capitalisti e comunisti. Di conseguenza i patti tra mafiosi e
politici, pi� che iscriversi nella logica della Guerra Fredda, andrebbero
considerati come forma mentis del sistema politico italiano, come una
normale opzione della politica del nostro paese. In questa ottica lo Stato
italiano avrebbe sempre avuto una doppia dimensione per cui allo Stato di
diritto, che si occupa di far rispettare i diritti dei cittadini e punire i
violatori della legge, si sarebbe affiancato uno "Stato occulto" che
ricorre a canali non istituzionali, come appunto la mafia o il terrorismo, per
legittimare la sua esistenza.
Tale fenomeno dello sdoppiamento dello Stato si
sarebbe aggravato con la Guerra Fredda, quando l'esigenza di impedire una svolta
comunista avrebbe giustificato qualsiasi manovra politica occulta. Il politologo
Giorgio Galli, a tal proposito, ha proposto una controstoria politica
dell'Italia partendo proprio dalla sua dimensione occulta. In tale storia,
l'alleanza tra politici e crimine organizzato, cementificatasi negli anni '70,
rappresenterebbe una svolta di cui l'omicidio Moro ne sarebbe la immediata
conseguenza21.
Ritornando ora alle domande iniziali su cos'� la mafia e i mafiosi, confortati
da questa panoramica sulle principali traiettorie interpretative, possiamo fare
alcune considerazioni. Un individuo che usa la violenza privata per acquistare
ricchezza e potere pu� essere definito un criminale, ma non necessariamente un
mafioso.
O, se vogliamo dirlo in modo
differente, un mafioso non � un criminale tout court. Il fatto che
questo individuo costituisca un'organizzazione con altri criminali ancora non
risolve il problema dato che la mafia non � una semplice associazione a
delinquere. Se cos� fosse dovremmo parlare di mafia anche nel caso delle bande
di rapinatori o di sequestratori, ma � fin troppo evidente che ci troviamo di
fronte a due fenomeni qualitativamente differenti. La subcultura della violenza
e dell'omert� fornisce, secondo la legge italiana, quell'elemento necessario
affinch� un'associazione a delinquere possa essere definita come mafiosa.
Tuttavia si potrebbe obiettare che, primo, i mafiosi siciliani non sono gli
unici ad agire in un contesto dove esiste questa subcultura e, secondo, i codici
culturali non sono rispettati dato che, come sostiene Arlacchi, il mafioso
individua l'onore nella ricchezza, esattamente come un comune imprenditore della
societ� capitalista.
Molto pi� banalmente si pu� osservare che un gruppo di
criminali associati che condividono una comune visione del mondo non possono
automaticamente definirsi mafiosi, pena il rischio di far rientrare nel termine
mafia fenomeni del tutto diversi come il banditismo sardo. Si � poi detto che
la capacit� imprenditoriale dei mafiosi di per s� non arriva a spiegare in
toto il loro operato, per cui anche l'idea del criminale-manager non fornisce
una definizione esaustiva. A questo punto la peculiarit� del mafioso non pu�
che essere individuata nel rapporto mafia-politica, e in particolare nella
condizione di impunit� di cui gode il mafioso. Solo qui troviamo l'unico
elemento che lo rende diverso da un comune criminale. Il criminale associato,
che combina violenza e capacit� imprenditoriali e che sfrutta la tradizione
locale per legittimare il suo potere, rappresenta una particolare categoria di
criminale, ma � solo dopo aver goduto di una condizione di impunit� a causa
della debolezza o complicit� dello Stato che potr� diventare potenzialmente un
mafioso.
In sostanza il fenomeno della mafia ha
sviluppato diverse caratteristiche legate all'ambiente siciliano e all'influenza
dell'ambiente circostante, ma la sua origine non pu� essere compresa senza
esplorare il suo rapporto con lo Stato. Si potrebbe dire che la sua stessa
esistenza dipenda da questo ambivalente legame, per cui senza lo Stato italiano
non avrebbe senso parlare di mafia. Un Tot� Riina che usa la violenza privata
in un sistema anarchico privo di Stato andrebbe definito come una sorta di
bandito o di signore feudale; la stessa persona in un sistema dove vige lo Stato
di diritto andrebbe chiamato assassino o criminale; ma � solo in un sistema
dove lo Stato ne tollera la presenza che Tot� Riina diventa un mafioso. E'
all'interno della complessit� del rapporto istituitosi tra il mafioso e autorit�
che si origina la mafia. Di conseguenza la comprensione del fenomeno rimanda a
una serie di questioni aperte, in primis perch� lo Stato ha accettato o
non � stato in grado di contrastare efficacemente l'attivit� e l'esistenza dei
Riina e degli altri mafiosi.
Non � possibile fornire qui risposte adeguate al
problema. Si pu� solamente ricordare un aspetto della lotta antimafia che pu�
valere come monito per il futuro. Come detto, dopo le stragi di Capaci e via
D'Amelio, lo Stato ha sferrato dei durissimi colpi contro la mafia e
apparentemente � riuscito a rompere il legame di complicit� che univa i
mafiosi ai politici. Tuttavia va detto che tale successo � stato ottenuto
attraverso una legislazione d'emergenza che, in qualche misura, ha sacrificato
parte dei diritti e delle garanzie di tutti i cittadini. Di conseguenza, questa
legislazione non pu� rappresentare la "normalit�" in un sistema
democratico ed � destinata a cessare in un futuro prossimo.
A quel punto, una
volta tornati alla normalit�, � lecito chiedersi che cosa ne sar� dei
mafiosi, se saranno scomparsi o se potranno tornare potenti e arroganti come
prima. E' naturale auspicarsi che si avveri la prima ipotesi, ma se cos� non
fosse, inevitabilmente, dovremo tornare ancora una volta alla domanda iniziale:
che cos'� la mafia e chi sono i mafiosi?
NOTE
1 La mafia
durante il fascismo, C.Duggan, Soveria Mannelli (CZ) 1986.
2 Il delitto come impresa, Citazione in
R.Catanzaro, Padova, 1988, p.6.
3 ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO, L'inchiesta sulle
condizioni sociali ed economiche della Sicilia (1875-1876), Bologna, 1968,
p.1137.
4 Una certa reciprocit� di favori,
P.Pezzino, Milano, 1990, p.102
5 Ibid., p.99.
6 L'inchiesta sulle condizioni sociali ed
economiche della Sicilia (1875-1876), Relazione Bonfadini in ARCHIVIO
CENTRALE DELLO STATO, op. cit., p.1137.
7 Storia della mafia, S.Lupo, Torino 1993,
p.107.
8 Ibid., p.81 ss.
9 La maffia, G.Alongi, Torino 1886;
A.Cutrera, La mafia e i mafiosi. Studio di sociologia criminale,
Palermo 1900.
10 Mafia. Le origini e la struttura,
H.Hess, Roma-Bari 1984, (ed. or. 1970); A.Blok, La mafia in un villaggio
siciliano. 1860-1960. Imprenditori, contadini, violenti,
Torino 1986, (ed. or. 1974); J.Schneider - P.Schneider, Classi sociali,
economia e politica in Sicilia, Soveria Mannelli (CZ) 1989, (ed. or.
1976).
11 La mafia e l'omert� in "Polis",
G.Lorenzoni, anno I, n.2, 1987, p.337.
12 Ibid, p.336.
13 Usi e costumi, credenze e pregiudizi del
popolo siciliano, G.Pitr�, vol.II, Palermo 1889, p.292.
14 Stato violenza societ�, P.Pezzino, in
M.Aymard - G.Giarrizzo (a cura di), La Sicilia, Torino 1987, p.973.
15 La mafia imprenditrice, P.Arlacchi,
Bologna 1983.
16 La mafia interpretata, U.Santino,
Soveria Mannelli 1995.
17 Non � la piovra, L.Violante, Torino
1994, p.17
18 Storia della mafia, S.Lupo, op. cit.,
p.69.
19 Storia della mafia, Citato in
S.F.Romano, Milano 1964, p.232.
20 Meglio mafiosi che rossi? C'era una volta il fattore
K, E.Severino, in "Corriere della sera", 28 luglio 1992.
21 Affari di Stato, G.Galli, Milano 1991.
di Francesco Marelli
(Universit� di
Leeds, School of History - Inghilterra)
Ringrazio per l'articolo
concessomi gratuitamente
dal direttore di