SCHEDE BIOGRAFICHE
PERSONAGGI
ALESSANDRO PAVOLINI (1 di 2)

PAVOLINI - LA MINCULPOP - IL PROCESSO DI VERONA - 

Il colto e raffinato gerarca fascista fin� fucilato a Dongo

 Il dottor 

  PAVOLINI  

di PAOLO DEOTTO

Stiamo guardando una fotografia scattata a Milano nella primavera del 1944. E' il plumbeo periodo della Repubblica sociale, lo stato voluto da Hitler e presieduto da un duce spento, lo stato a cui negò il riconoscimento anche la Spagna franchista, che pur verso il fascismo aveva grossi debiti di gratitudine.

La foto ritrae alcuni militi della Brigata nera "Aldo Resega", con il loro comandante, Vincenzo Costa. Vicino al comandante c'è un uomo piccolo di statura, coi baffetti, che indossa una strana divisa, un misto di uniforme militare e tenuta ginnica. I calzoni a sbuffo infilati negli stivali, un maglione nero con la lampo, un cappellino a visiera, un cinturone con la pistola infilata dentro alla bravaccia, senza neanche una fondina. Quest'uomo, che potrebbe sembrare uno dei tantissimi armati del guazzabuglio che fu l'organizzazione militare della RSI, è Alessandro Pavolini, classe 1903, segretario del Partito Fascista Repubblicano, comandante generale delle Brigate Nere, già ministro della Cultura Popolare (la famosa MILCUPOP) dal 1939 al 1943, scrittore e giornalista apprezzato in Italia e all'estero, forse il più "irriducibile" dei fascisti del crepuscolo.

Perch� ci siamo fermati su questa fotografia? Perch� fa specie vedere un uomo, il cui livello intellettuale e culturale fu da tutti riconosciuto, ridotto quasi ad una tragica maschera di guerriero da rivoluzione messicana. Fa ancora più specie ove si pensi che questa riduzione da nessuno fu imposta, ma fu una libera scelta dell'interessato. E in quell'uniforme sciatta e un po' ridicola ci sembra di vedere il simbolo dell'enigma e della tragedia che fu quest'uomo, Alessandro Pavolini, gerarca poco studiato, che non ha potuto lasciare memoriali, perch� la sua avventura finì a Dongo il 28 aprile del 45, quando venne fucilato dai partigiani.

Federale di Firenze a 26 anni, deputato a 31, ministro a 36, Pavolini non fu mai uno dei tanti profittatori del regime. Non si mosse per danaro, o per tornaconto personale. Ma a un certo punto quest'uomo imboccò la strada del suicidio: non il suicidio veloce di chi si spara una revolverata in testa, ma quello fatto giorno per giorno, con scelte ingiustificabili, almeno sotto il profilo del buonsenso, in un uomo intelligente. E il suicidio è sempre segno di una malattia: malattia di un uomo, o malattia di un'epoca, che vide, assieme al proliferare di profittatori, avventurieri, sadici, doppiogiochisti, anche il sacrificio inutile di una generazione ingannata, illusa, fondamentalmente tradita.

UN RAGAZZO MOLTO PER BENE

Alessandro Pavolini nasce a Firenze il 27 settembre del 1903. E' di ottima famiglia altoborghese: suo padre, Paolo Emilio, che diventerà anche Accademico d'Italia, è un indianista e orientalista di fama internazionale. Alessandro fin da giovanissimo manifesta la sua vocazione per l’attività letteraria. A dodici anni fonderà un giornaletto scolastico in cui scriverà articoli interventisti. E' studente brillante, si laurea in Giurisprudenza e in Scienze Politiche, frequentando due atenei, quello di Firenze e quello di Roma. E proprio a Roma, per ragioni di studio, il giovanotto si trova nel giorno "fatale" del 28 ottobre del 1922. Si accoda alle colonne fiorentine di camicie nere per la parata finale, quando Mussolini ha già ricevuto la nomina a Primo Ministro: e la sua marcia su Roma è tutta qui.

I richiami allo squadrismo che Pavolini farà poi, nel periodo repubblichino, sono di tipo puramente intellettuale e morale: squadrista, nel senso effettivo e violento del termine, non fu mai. Del resto, tra lui e l'armata brancaleone che "marciò" su Roma c'era un abisso: lo stesso abisso che separava i due tronconi del fascismo a Firenze, quello popolare di Tullio Tamburini (che aveva tra i suoi fedeli anche elementi come Amerigo Dumini), e quello aristocratico e altoborghese, guidato da Dino Perrone. Compagni che, pur con i suoi poco onorevoli precedenti (famoso come donnaiolo, ex-ufficiale di cavalleria, era stato degradato per debiti di gioco), aveva pur sempre un titolo di marchese, pur se la sua fama di "viveur" lo rendeva popolare anche tra i ciompi di Tamburini.

IN POLITICA CON I FASCISTI

Fu la parte aristocratica a prevalere, ed infatti il federale di Firenze sarà un altro marchese, Luigi Ridolfi. E fu proprio quest'ultimo a introdurre Pavolini nella politica attiva , chiamandolo al suo fianco nel 1927 come vice-federale. Era una naturale cooptazione tra personaggi della Firenze-bene, chiusa ed esclusiva, in cui l'emergente giovanotto, elegante, ottimo giocatore di tennis, brillante conversatore, aveva il suo giro di amici (tra cui anche Carlo e Nello Rosselli). Collaboratore di riviste letterarie, scrittore di saggi politici, si cimentò anche nel romanzo e nel 1928 ottenne un primo buon successo con "Giro d'Italia".

Nel 1929 il marchese Ridolfi lascia la carica di federale, passando il testimone a Pavolini che diviene così, a soli ventisei anni, la massima autorità fascista di Firenze. Fu un federale anomalo: mentre il fascismo procedeva sulla strada del totalitarismo, entrando in tutta la vita degli italiani, regolandola dalla nascita alla morte, mentre Achille Starace, segretario nazionale del partito, imperversava con i suoi alluvioni di buffonate (fu uno dei più infaticabili creatori di uniformi sempre più complesse e, fanatico dello sport, impose all'Italia, gerarchi in testa, un salutismo a dir poco ridicolo), mentre il regime diveniva sempre più appannatore delle coscienze, Pavolini manteneva una sorta di aristocratico distacco, convinto di una supremazia comunque indiscutibile della cultura e dell'arte.

Firenze, con Pavolini federale, conobbe un grande impulso alle manifestazioni artistiche e di costume. La mostra degli artigiani di Ponte Vecchio, l'annuale rievocazione della partita di calcio in costume, innumerevoli mostre d'arte, furono tra le molte iniziative di questo gerarca. Un'altra delle sue creature, il "Maggio musicale fiorentino" è tutt'oggi una delle più importanti rassegne artistiche a livello internazionale. E' sempre in questo periodo che Pavolini fonda anche una rivista settimanale, "Il Bargello", ufficialmente organo della federazione giovanile fascista, di fatto rivista letteraria: il federale non chiede la tessera ai suoi collaboratori, convinto com'è che l'arte sia sufficiente a distinguere l'individuo.

TENDENZA ALLA FRONDA

Non si tratta ancora di fronda, ma comunque è già un grande atto di distinzione rispetto alla corsa al consenso: non scordiamoci infatti che ormai, come notavamo sopra, il fascismo era dittatura consolidata. Mussolini, dopo il delitto Matteotti, dopo le intemperanze delle squadre d'azione (che proprio a Firenze avevano creato gravi disordini sul finire del 1924), col discorso del 3 gennaio del 25 aveva posto le basi per quella conquista dello Stato di cui la marcia su Roma non fu che un episodio. Quando Pavolini inizia ad assumere le prime responsabilità politiche (nel 27, come vedevamo sopra) il fascismo è ormai consolidato come partito-stato, il bavaglio alla stampa è già imposto, sono già state emanate le norme sulla revisione dei passaporti, sulla cittadinanza, è già stato istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, è già stata abolita l’elettività nelle amministrazioni dei comuni con meno di 5000 abitanti (ed entro il 1929 il "podestà" di nomina governativa sarà imposto a tutti i comuni d'Italia). In questo clima in cui, con antico vizio nazionale, i consensi aumentavano via via che aumentava la potenza del vincitore, Pavolini si distingue appunto come elemento anomalo, anche se non si porrà mai in chiara antitesi con il Duce, anche se non aspirerà mai a guidare una sorta di "opposizione interna" sul tipo di quella del ras di Cremona, il bollente Roberto Farinacci. Pavolini fascista è sostanzialmente pavoliniano. Per la sua estrazione sociale, non può che essere ai vertici della società, e la società è fascista. Per la sua preparazione culturale (che lo distanzia di molto dalla media dei gerarchi fascisti) e per le sue doti non può che essere un isolato.

E’ un isolato che però si è fatto un nome e a Firenze è divenuto estremamente popolare: nel 1932 viene chiamato a far parte del Direttorio Nazionale del Partito, iniziando così" le sue frequentazioni a Roma, dove si trasferirà nel 1934, eletto deputato. E nella capitale Pavolini incontrerà un altro giovane "emergente" del fascismo, con cui stringerà una grande amicizia: GALEAZZO CIANO.

UN’AMICIZIA DAL FUTURO TRAGICO -
Un incontro che segnerà profondamente la vita di Pavolini perch�, come vedremo più avanti, Ciano divenne poi la vittima sacrificale nell'agonia del regime, avendo come carnefice proprio il suo più caro amico. Ma nel 1932 Ciano è lanciatissimo: da due anni ha sposato Edda Mussolini, è quindi genero del Duce, una posizione di enorme vantaggio per valorizzare le doti di intraprendenza e di intelligenza che, comunque, il giovanotto mostra di avere, oltre ad essere (il che non guasta mai) "figlio d'arte": suo padre Costanzo è una delle figure più eminenti del fascismo, nonch� eroe della Grande Guerra. Anche Ciano, che è coetaneo di Pavolini, ha fatto qualche esperienza giornalistica giovanile, dedicandosi poi alla carriera diplomatica, nella quale brucerà le tappe, divenendo, trentatreenne, ministro degli esteri. Anche Ciano, come Pavolini, è una figura "anomala", anche se la sua posizione familiare gli consente, al più, un moderato scetticismo, non certo un'opposizione al Duce.

Pavolini deputato, grazie alla sua fama di scrittore e di organizzatore culturale, viene chiamato a presiedere la Confederazione Professionisti ed Artisti. E con questa carica istituisce i "LITTORIALI", una specie di olimpiade della cultura e dell'arte, che diverranno presto anche il luogo di espressione di quel poco di fronda e di dissenso che era possibile in Italia. Non mancano, da parte dei fascisti più ortodossi, le lamentele per il carattere spesso ambiguo dei Littoriali, nei quali si metteranno in luce anche alcuni futuri antifascisti, e queste lamentele ne alimentano delle altre, quello sullo snobismo di Pavolini, visto da molti gerarchi come l'uomo presuntuoso, che si bea di se stesso, non nascondendo (ad esempio) il suo profondo disprezzo per ACHILLE STARACE, il segretario del Partito, ingenuo e ignorante, tutto teso nello sforzo di essere più mussoliniano di Mussolini.

L’AVVENTURA MILITARE IN AFRICA -
La carica consente a Pavolini anche di scrivere sul giornale più importante, il Corriere della Sera, lasciando il Popolo d'Italia, giornale mussoliniano per eccellenza, ai mestieranti del regime o ai giovani alle prime prove. Ma il livello dei suoi scritti è sempre alto. Pavolini è arrivato al "Corriere" perch� è diventato un gerarca importante: ma comunque fornisce al "Corriere" ottimo materiale. Lo scrittore e giornalista, presidente della Confederazione professionisti ed artisti, sente però il richiamo dell'avventura militare e parte volontario per la guerra d'Africa: proprio col suo amicissimo Galeazzo Ciano comanderà una squadriglia aerea cui viene dato il nome di una squadra d'azione famosa a Firenze ai tempi della marcia su Roma: la Disperata. Durante la guerra Pavolini trova anche il tempo di mandare corrispondenze al Corriere della Sera, e dall'esperienza bellica in Africa trarrà il suo secondo libro: "La Disperata".

Finita l’avventura africana, mentre Ciano diviene Ministro degli Esteri, Pavolini, che è ormai entrato definitivamente nelle grazie di Mussolini, diventa una specie di "inviato speciale" del regime. Viaggia in tutto il mondo, inviando al "Corriere" corrispondenze che poi raccoglierà in volume.

Sono probabilmente gli anni migliori di Pavolini, che può dare il massimo sfogo alla sua passione giornalistica, che riceve apprezzamenti anche dai colleghi della stampa estera, che vive insomma cavalcando il fascismo, con la coscienza del fatto che è il regime ad avere bisogno di lui, mentre lui stesso ha le doti che gli darebbero comunque il successo anche senza il fascismo. In questo periodo inizia la sua relazione con l'attrice DORIS DURANTI, una delle "maliarde" del cinema italiano, concorrente di Clara Calamai in un certo ritorno al cinema muto (nel senso che una bella donna che si spoglia non ha in genere bisogno di pronunciare molte parole).

MINISTRO DELLA CULTURA POPOLARE

Il 31 ottobre 1939, in uno dei molti rimpasti governativi in cui alcuni ministri apprendevano il giorno dopo, dalla stampa, che "le loro dimissioni erano state accettate da S. M. il Re e Imperatore", Alessandro Pavolini (che di lì a poco darà alle stampe con successo il suo ultimo romanzo, "Scomparsa d'Angela") diventa Ministro della Cultura Popolare: è il vero potere, probabilmente la posizione più importante dopo quella del duce.

Per chiarire questa affermazione, conviene fermarsi un attimo sulla natura e le attribuzioni di questo ministero. Il Ministero della Cultura Popolare, istituito il 1° settembre del 1937, come sviluppo del sottosegretariato alla Stampa e del successivo Ministero della Stampa, è la più poderosa arma del Partito Fascista per il controllo delle coscienze degli italiani. Già da diversi anni il regime, con le norme definitive sull'Ordine dei Giornalisti e sull'Albo Professionale (a cui devono essere iscritti obbligatoriamente i direttori responsabili delle testate) ha iniziato il controllo della stampa, efficacemente spiegato dallo stesso Mussolini il 10 ottobre del 28 ad un raduno dei direttori di giornale: "il giornalismo italiano è libero perch� serve soltanto una causa e un regime: è libero perch�, nell'ambito delle leggi del regime, può esercitare, e le esercita, funzioni di controllo, di critica, di propulsione". Possiamo notare un concetto di libertà a dir poco originale. D'altra parte il Duce, giornalista egli stesso, aveva intuito l'importanza vitale, per la gestione del potere, del controllo di quelli che oggi chiamiamo "mass-media".

E infatti il Ministero della Cultura Popolare è strutturato in sei direzioni generali, per la stampa estera, per quella nazionale, per la propaganda, per il cinema, per il turismo e il teatro, più una per i servizi amministrativi. Sotto la sua vigilanza operano, tra gli altri, l'EIAR (l'attuale RAI), la SIAE (Società Italiana Autori ed Editori) ed altri enti, tra cui addirittura anche l'Automobile Club. Inizia per i giornali la stagione delle famose "veline", ossia, senza eufemismi, delle direttive su cosa scrivere e cosa tacere, oppure sul come fornire determinate informazioni.

CANE DA GUARDIA DELLA STAMPA
La base giuridica per il bavaglio alla stampa è rappresentata dall'art. 5 del R.D. 26/2/28 num. 384, che al secondo capoverso recita: "Non possono in alcun caso essere iscritti (all'Albo dei Giornalisti) e, qualora vi si trovino iscritti devono essere cancellati, coloro che abbiano svolto attività in contraddizione con gli interessi della nazione". Le domande di iscrizione sono prese in esame da una commissione composta di cinque membri, nominati dal Ministro della Giustizia, di concerto con quelli per l'Interno e per le Corporazioni. La commissione esprime il giudizio dopo aver ricevuto dalla Prefettura un'attestazione sulla "condotta politica" del richiedente.

Il "MINCULPOP", come veniva chiamato, divenne il regolatore delle coscienze degli italiani, stabilendo cosa si doveva sapere e cosa no. E se spigoliamo qua e là, dall'ottimo libro di Ricciotti Lazzero "Il Partito Nazionale Fascista" (Rizzoli, 1985), troviamo "veline" anche divertenti per quella mancanza di senso del ridicolo che caratterizza ogni dittatura e ogni censura. Qualche esempio: 28/6/35: vietato pubblicare le fotografie di Carnera a terra. 14/8/37: il Duce ha fatto un viaggio in Sicilia. Vietato pubblicare le foto che lo ritraggono mentre danza. 26/8/38: revisionare attentamente le foto di parate militari e premilitari: pubblicare solo quelle dalle quali risultano allineamenti impeccabili. 13/6/39: ignorare la Francia. Non scrivere nulla su questo paese. Criticare invece sempre e comunque l'Inghilterra. Non prendere per buona nulla che ci venga da quel paese. 13/7/39: vietato pubblicare foto di donne in costume da bagno. Eccetera eccetera. Potremmo continuare con mille esempi.

Ma torniamo al nostro protagonista, che il 31 ottobre del 1939 diventa il dominus di questo apparato col quale la Storia non esiste più, venendo sostituita da ciò che il Regime decide che deve essere filtrato, interpretando, ignorando, modificando o, se del caso, anche inventando. Tutto indurrebbe a pensare che Alessandro Pavolini, intellettuale che, come vedevamo sopra, non disdegnava di assumere posizioni centrifughe e molto personali, dovesse provare una naturale ripugnanza per uno strumento repressivo della libertà di espressione. Ma evidentemente Mussolini conosceva i suoi uomini, o almeno era capace di quelle intuizioni che si rivelano molto più efficaci del ragionamento.

VERSO LA METAMORFOSI FATALE -
E infatti Pavolini inizia con l'incarico ministeriale la sua metamorfosi, perch� diviene di fatto il principale responsabile dell'alluvione di bugie con il quale il popolo italiano viene avviato alle armi e ad una tragedia che non poteva essere peggiore. Quando il brillante giornalista fiorentino assume l'incarico ministeriale il mondo è ormai in fermento, perch� l'aggressiva politica hitleriana e le incertezze di Francia e Inghilterra sono già al punto di non ritorno; è chiaro che difficilmente l'Italia potrà mantenersi estranea (anche per la sua posizione geografica) alla bufera che sta per travolgere l'Europa. A differenza di altri paesi, in Italia la corrispondenza di guerra non è sottoposta alla censura militare: è sempre l'onnipotente Minculpop a indirizzare e a stabilire anche le terminologie: iniziano così le preparazioni in armi che sono "entusiastiche". Quando si parla di sconfitte alleate, non bisogna parlare di "catastrofi" per non svalutare le successive battaglie. Ben presto inizieranno anche gli "arretramenti sulle posizioni prestabilite" (eufemismo per indicare una ritirata dopo una sconfitta).

Tutto ciò in una nazione dove comunque tutto va bene, per cui alla cronaca nera si stabilisce che vada dedicata al massimo una colonna in quinta pagina. In Italia, viene ribadito dal Minculpop, non esistono suicidi, nè esistono problemi con il razionamento, perch� siamo pieni di inventiva e alternative valide, anzi, abbiamo addirittura dei vantaggi alimentari se, al posto del caffè, iniziamo ad usare vari surrogati le cui virtù erano state finora poco sfruttate. E se le città conoscono la tragedia dei bombardamenti, niente paura: la prima cosa da fare è stendere strisce di nastro adesivo sui vetri delle finestre, per impedirne lo scoppio, e queste strisce possono mettersi sia in orizzontale che in verticale, o addirittura possono essere l'occasione per formare disegni ornamentali. Noi ci occupiamo di storia e non vogliamo quindi troppo indugiare in indagini che esulano dal nostro campo. Ma una domanda urge inevitabilmente: come può un uomo di cultura divenire ad un certo punto l'organizzatore dell'inganno di tutta una nazione?

IL RIBELLE PLAGIATO DA MUSSOLINI

E' francamente difficile immaginare un Pavolini succube del Duce. Troppo forte era la personalità del fiorentino per pensarlo come un docile strumento nelle mani di Mussolini. Viene più da pensare che con la Guerra Pavolini abbia trovato finalmente la sua dimensione. E se la guerra d'Africa (in cui comunque Pavolini si era comportato da valoroso) era stata veloce, limitata e di esito abbastanza scontato, qui invece ci si avvia, finalmente, ad una Guerra Totale, ad una sorta di lavacro sacrificale in cui confluiscono tutte le tensioni, le angosce, gli smarrimenti spirituali del novecento, il secolo del futurismo, ma anche del decadentismo, di D'Annunzio e di Nietzsche, del crollo delle certezze mai sostituite da altri punti fermi. La Guerra è quindi un fatto positivo in sè stesso, a prescindere dalle reali possibilità di vittoria, dal sacrificio che comporterà, dalle vite umane che spezzerà. E' un fatto estetico che trova in se stesso la sua ragion d'essere. Se Pavolini fu fascista pavoliniano, e comunque fascista anomalo, in tempo di pace, ora, in tempo di guerra, diviene fascistissimo. Perch� il Duce gli ha dato lo strumento che ancora gli mancava: la Guerra.

Non pretendiamo che la nostra analisi sia indiscutibile. Ci sembra però interessante proporre all'attenzione del lettore una valutazione di Pavolini su Hitler (espressa sul finire degli anni 30, quando il riarmo della Germania era completato e le mire belliche del dittatore tedesco erano chiare): "l'oscuro milite... che si oppone a tutto un mondo tramontante e a tutto un mondo mal neonato... un uomo solo, diverso fin nello stile mentale... apparizione nuova e sorprendente in mezzo alle facce lardose e sfocate della dirigenza democratica e a quelle sigillate, d'acciaio, del prussianesimo tradizionale e vetusto..."

L’INTELLETTUALE IN REGRESSIONE

Forse non scorgiamo già in questo giudizio un distacco dalla realtà delle cose? Pavolini si sofferma su valutazioni "filosofiche" della figura di Hitler, il quale rappresentava di sicuro una novità nel panorama politico; ma si trattava della novità che stava trascinando il mondo nella tragedia: e probabilmente anche questo, o soprattutto questo, fa parte del suo fascino, superando gli aspetti deteriori dell'uomo fondamentalmente ignorante, circondato da una corte di figuri senza scrupoli, di quello stesso stampo che avrebbe, qualche anno prima, disgustato l'esteta. Ma Pavolini è ormai la Guerra. E difende la Guerra contro ogni evidenza: infatti quando Pietro Badoglio, che non pot� o non volle distogliere il Duce dall'intervento a fianco dei tedeschi, ha finalmente, nel novembre del 1940, un risveglio di coscienza di fronte alla tragedia dei soldati italiani massacrati inutilmente in Grecia e si rivolge per uno sfogo proprio al Ministro della Cultura Popolare, questi fa una "spiata" in piena regola a Mussolini, che destituisce immediatamente il Maresciallo "disfattista" dalla carica di Capo di Stato Maggiore Generale.

Di menzogna in menzogna il popolo italiano vede aumentare il suo martirio; ormai è difficile tenere nascosta una realtà che è di sfacelo e il 5 febbraio del 1943 Mussolini tenta l'ultima carta per porre riparo al discredito in cui era ormai caduto il partito: un ampio rimpasto governativo, in cui le teste più illustri che cadono sono proprio quelle di Ciano (relegato a fare l'ambasciatore presso la Santa Sede) e di Pavolini (al quale viene assegnata la direzione del quotidiano "Il Messaggero").

Pavolini riprende così il suo vecchio mestiere di giornalista, portandovi tutto il suo impeto bellicista, e il Messaggero diviene subito un foglio di battaglia. Ma i tempi del redde rationem sono vicini. Il 25 luglio di quello stesso anno avviene l'incredibile: il Gran Consiglio del Fascismo si trasforma da assemblea di "yes-men" nell'organo che esautora Mussolini: l'ordine del giorno proposto da Dino Grandi ottiene, con diciannove voti, la maggioranza. Il giorno dopo il dittatore viene arrestato ed inizierà le sue peregrinazioni carcerarie che lo porteranno a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, mentre l'incarico di governo viene affidato al Maresciallo Badoglio.

Ringrazio per l'articolo
concessomi gratuitamente
il direttore di

  PAVOLINI il 28 APRILE 1943 > >


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