VILLA EMMA

testimone dei fatti e fonte storica

GIAMBATTISTA MOREALI
NONANTOLA
A proposito di “La fuga degli innocenti”, recente filmato televisivo ispirato all’episodio di salvataggio degli Ebrei ospiti nella Villa Emma di Nonantola nel 1942 e nel 1943, in pieno conflitto mondiale.

GIAMBATTISTA MOREALI
NONANTOLA
Nonantola, 20 febbraio 2004
Alla spettabile Redazione di “La Repubblica”.
Nella pagina di Spettacoli e Televisione del 1° dicembre 2003 “La Repubblica” ha pubblicato uno scritto di Silvia Fumarola in cui s’illustra “La fuga degli innocenti”, un filmato televisivo ispirato all’episodio di salvataggio degli Ebrei ospiti nella Villa Emma di Nonantola nel 1942 e nel 1943, in pieno conflitto mondiale.
Quell’articolo descrive il signor Marco Silberschatz come un imbroglione... un truffatore falsario senza ideali… chiuso in un cappottone da gangster, i capelli lucidi di brillantina. Forse la vostra inviata ha creduto che egli sia un personaggio inventato dagli autori del film e non sa che Marcus Silberschatz, Shocky Marco per i suoi amici, era divenuto popolare a Nonantola come Marco ed era uno di quegli ebrei perseguitati, in fuga dalla persecuzione nazista. Io e mio fratello, Giancarlo Moreali, lo conoscevamo bene. Egli era amico di nostro padre, il medico Giuseppe Moreali e di don Ario Beccari (don Arrigo), annoverati fra i Giusti dei Gentili nel 1965, per aver salvato gli Ebrei di Villa Emma. Detto qui per inciso, fra i personaggi figuranti nel film non figura il medico, ma questo sarebbe un argomento abbastanza complicato ed irritante.
Marco Silberschatz frequentava la nostra casa durante la guerra nel 1942, nel 1943 ed anche appena finita la guerra nel 1945, quando ritornò a Nonantola, dove rimase fino al 1947, alloggiato in una casa vicina. Nel 1946 io ed alcuni amici nonantolani siamo stati ospiti alla festa di nozze di Marco a Villa Emma.
Egli non era affatto l’uomo disonesto descritto dagli autori del film. Era una figura importante, fra gli adulti che raccolsero attorno a s� un gruppo di ragazzi ebrei in fuga dai luoghi occupati dai nazisti, ed è stato spesso oggetto dei nostri discorsi nel rievocare quei tempi drammatici e indimenticabili. Senza di lui quei ragazzi avrebbero sofferto assai di più di quanto abbiano dovuto subire.
Parlava diverse lingue, spiccava per coraggio, vivacità, simpatia, iniziativa, esperienza di vita e generosità. Ebbe modo di aiutare anche qualche nonantolano. Per motivi che posso immaginare, qualcuno che non lo ha conosciuto ora disonora Marco Silberschatz e lo definisce un cialtrone ignorando tutto di lui. Noi sappiamo come s’era adoperato con sensibilità e con gioia affinch� un amico compagno di sventura, il povero professor Georg Boris Jochvedson, potesse vestire un abito nuovo ed elegante, adeguato alla dignità della sua carriera di musicista di gran valore, infelice e sofferente, stroncato dalla persecuzione nazista. Nel 1947, alla morte di Boris, Marco, che era un uomo bravo e buono, fece erigere una bella stele di granito nel cimitero ebraico di Merano “in memoria del nostro caro Boris”. Essi sono entrambi vittime ed eroi sconosciuti.
Ora Marco giace sepolto in terra di California e non può reagire alla calunnia. Sua moglie è morta da poche settimane. Mi addolora che si manchi di rispetto alla memoria di Marco, alla sua persona ed alla sua dignità e che egli sia discriminato in modo impietoso per un cappotto “da gangster”, assai improbabile, e per “i capelli lucidi di brillantina”, ahimè! alquanto anodini.
Io penso che il signor Marco Silberschatz sia stato trattato in modo ingiustamente lesivo e che ciò non faccia troppo onore a chi si accosta all’episodio di Villa Emma senza gran cognizione dei fatti e delle persone, però credo che i motivi di questa lettera possano essere compresi, giustificati ed accolti nello spirito giusto.
Porgo rispettosi saluti.

GIAMBATTISTA MOREALI


Dott. Giambattista Moreali
Via Piave 7 – 41015 NONANTOLA (Modena) tel. 059/549029

Giambattista Moreali
Nonantola

Nonantola, 20 febbraio 2004

Carissima Tilla, carissimo Arnie,
vi invio una copia dell’articolo apparso sul quotidiano “La Repubblica” del giorno 1 dicembre 2003. In esso sono contenute le solite inesattezze dei giornali a proposito di Villa Emma. Mi fa male vedere come è trattato il povero Marco. E’ una cosa molto indegna. Ho inviato una smentita a “la Repubblica” e vi allego il testo.
Affinch� possiate capire meglio vi do qui la traduzione in inglese ed in tedesco delle parole che forse non conoscete.
Vi saluto caramente, vi ricordiamo sempre.
Titta e Leida

Imbroglione = deutsch: Gauner,Betriger
engl. cheat, swindler, trickster
Cialtrone = deutsch: schamlose Person, schlampiger Kerl, Pfuscher, Stuemper
engl. slove, ruffian, rascal, scoundrel, rogue
Falsario = deutsch: Luegner, Falscher, Falschmuenzer
= engl. forger, counterfeiter
Senza ideali = deutsch: ohne Ideal, ohne Munsterbild, ohne Herzenswunsch
= engl. devoid of ideals, destitute of ideals
Cappottone = deutsch: grosser Paletot, weiter Mantel
= engl. greatcoat
Brillantina = deutsch: Pomade
engl. brilliantine
Capelli = deutsch: Haare
engl. hair


Questo, in sintesi sarebbe stato il povero signor Marco Silberschatz! Pare impossibile, ma qualcuno si prende ogni tipo di libertà.


GIAMBATTISTA MOREALI
NONANTOLA


Nonantola, 23 giugno 2003
Nonantola, 04 luglio 2003
Gentilissimo signor Follain,
ho gradito la sua lettera e la prego di perdonarmi, se la mia risposta le giungerà assai tardi, perch� l'idea di scrivere ancora un libro su Villa Emma è buona, e mi piace molto, ma prima io voglio valutare con attenzione come potrei descrivere una situazione talmente intricata che non si riesce a risolvere con la semplice descrizione dei fatti, sia pure disposti con grande scrupolo ed in preciso ordine cronologico. Qui tenterò di dare qualche idea delle cose quali si sono verificate nella realtà, però io ritengo che soltanto un'opera molto attenta alle singole persone, e molto rispettosa dei fatti, potrebbe ricostruire in modo degno un episodio così affascinante e non bene indagato nei suoi aspetti peculiari, tali che ormai purtroppo sfuggono alla sensibilità d’oggi. Ciò spiega l'insufficiente approssimazione di tanti scritti su Villa Emma, lacunosi e disseminati d’invenzioni sconvenienti e irriverenti: quasi che la storia fosse “un attaccapanni, cui appendere il cappello”, alla stregua d’Alessandro Dumas, e dei suoi moschettieri.
Per il semplice fatto naturale che le parti formano un tutto unico, io sono certo che molti particolari narrati con negligenza, o inventati, formano un falso e, quanto al nostro tema, io ho anche l'impressione molesta che, senza parere, in qualche alta sede si stia lavorando ad un nuovo mito, su cui lucrare meriti ed utili in denaro mediante qualche artificio d'immagine. Tra i miei amici di Villa Emma, che pure subirono violenza grave, vi è chi ritiene giusto e vantaggioso che si richiami spesso l'attenzione del pubblico sulle loro gravi peripezie, e che ciò si faccia in tutti i modi, e con ogni mezzo, senza porre moltissima attenzione nei singoli casi. Dal loro punto di vista, ciò che conta maggiormente è la cassa di risonanza dei "media" - come se atti e persone messi in disparte non avessero qualche valore - quando, invece, anche l'offesa contro l'amor proprio delle persone è azione violenta. I miei amici, purtroppo, lo sanno bene. Quanto al resto, i tentativi di manipolare la verità evocano sempre sospetti d’oppressione tirannica, od almeno d’espediente equivoco. Soltanto la verità rende liberi - mentre la menzogna rende schiavi - e perciò, quando si tratta della memoria di persone che rischiarono la vita per la libertà di tutti, occorre accostarsi con rispetto, e attenersi al vero. Ormai, riguardo a Villa Emma, la stampa ostenta titoli in termini onirici e fiabeschi. Il sogno e la favola prevaricano su altre categorie, e così si giunge a trattare la gente a misura di una massa trasognata e distaccata dalla realtà. Al punto tale che la disinformazione toglie di mezzo l’informazione, come la cattiva moneta caccia quella buona. A Nonantola, gli ebrei di Villa Emma vissero relativamente tranquilli, sebbene talora turbati da dissidi interni inevitabili. Nei tentativi di ricostruzione dei fatti che si svolsero per impedire che fossero presi e deportati, è sempre prevalente la narrazione delle loro sventure, mentre le condizioni delle persone che li aiutarono sono lasciate molto in disparte, nell’ombra perenne delle faccende insignificanti. Io voglio tuttavia rilevare che dei ragazzi ebrei presero il nome di Villa Emma giusto perch� in questo piccolo luogo negletto avvenne per loro una salvazione straordinaria, durante la persecuzione. Erano settantatr� gli ebrei, ragazzi e adulti, che incontrarono i loro salvatori. Ora, poich� quel salvamento si deve a profondo rispetto ed amore per la dignità d’ogni singola persona messa in salvo, io chiedo che si abbia uguale rispetto ed amore anche per la dignità delle persone che aiutarono i perseguitati.
Quest’episodio singolare si è potuto verificare grazie all’opera di persone piene di valore e degne d’essere ricordate per ciò che hanno fatto, però si devono mettere in risalto anche le circostanze in cui dovettero prodigarsi, e che finora sono state trascurate dai vari ricercatori. L’opera di quelle persone si svolse in mezzo ad eventi eccezionali, proprio nei giorni in cui lo stato italiano affrontava il momento più difficile della sua storia, quand’era in corso una gravissima crisi nazionale dagli effetti devastanti.
Non tutti gli aspetti più importanti che determinarono quel salvataggio sono stati portati alla luce, perciò io ritengo essenziale che si faccia tutto il possibile affinch� siano conosciuti. Intervennero anche particolari elementi psicodinamici di forte rilievo che spinsero gli individui ad agire e che costituiscono la risposta a quanti si chiedono con ragione come mai, proprio a Nonantola, si sia verificato quest’evento di fratellanza umana così unico e atipico.
Tornando al proposito di scrivere un libro nuovo, l'episodio di Villa Emma può essere ricostruito, nelle sue vere dimensioni, soltanto dopo uno studio scrupoloso dell'ambiente politico e sociale, in cui esso si è verificato, senza trascurare le caratteristiche delle persone che vivevano in quella condizione, in un momento drammatico della storia. Il requisito essenziale è riuscire a cogliere il senso del vivere nelle pieghe di un mondo provinciale quasi sconosciuto, ormai scomparso e sempre pieno di ricordi dolorosi. Perfino il paesaggio ed il clima, che influiscono tanto sul carattere degli uomini e delle culture, oggi sono cambiati; senza dire del tenore di vita, del grado d’istruzione e delle tecnologie. D'altra parte, non serve molto raccogliere una gran quantità di dati e tenerli separati dalle situazioni esistenti di ciascuno, tralasciando i precedenti ed i moventi rilevanti da cui dapprima quest’episodio ebbe forma, ed in seguito fu messo in atto. Purtroppo non vi sono molte fonti letterarie da cui si possa trarre un'idea della fatica, del dolore e del piacere del vivere quotidiano nella provincia emiliana del 1943, quando già oggi nella nostra coscienza collettiva si sono verificate numerose e vaste rimozioni della memoria storica. Del resto, fuori di qui, non interessa più di tanto conoscere in che modo si vivesse in quei tempi fra le Alpi e la linea gotica. Spesso ai narratori italiani ciò interessa ancor meno, eppure i fatti di Villa Emma sono intessuti d’elementi degni di un vero romanzo, senza nulla aggiungere alla realtà. L’aggiunta di creazioni di fantasia costituirebbe anzi una menomazione ed una sconfitta.
Il titolo del pezzo che mi ha inviato - La casa dei segreti - è bello, romantico, e le parole di Bertoni -If you talk, I'll kill you!- fanno pure buon’eco alla "Lucrezia" di Donizetti -Guai se ti fugge un motto!- ma troppo melodramma è una iattura infinita, ed io voglio sperare che non sia il nostro destino definitivo. La nostra gente di campagna è di presenza piuttosto rude, però nella sostanza non è truce. Il padre che ammonisce ringhioso -S t al dìi, a t maz!- non cova intenzioni omicide, però è un genitore piuttosto preoccupato: in un momento solenne, attinge l'iperbole più efficace, necessaria e pregnante d’umori. Suo figlio lo sa. Per via del paradosso, i nostri campagnoli si salutano ancora con manate sulle spalle e con calorosi auguri di male.
Ora, nonostante la mia osservazione, voglio che mi creda davvero ben disposto verso di Lei, e senza malizia o rancore. Io cerco soltanto di spiegare, anche a me stesso, quanto sia davvero difficile farsi un'idea esatta del fatto di Villa Emma, luogo dove per altro non si celavano speciali segreti, anzi, certe volte sarebbe stato bene evitare imprudenze, ad impedire guai.
Per avere un quadro ben chiaro degli avvenimenti, occorre tener presente anzitutto che il 25 luglio e l’otto settembre del 1943 sono date fondamentali. Esse segnano la fase storica fra la caduta di Mussolini e l'armistizio con gli Alleati. Quei quarantacinque giorni di Badoglio furono pieni d’avvenimenti drammatici per tutti.
Dopo la caduta di Mussolini, in alcune città ci furono moti di libertà repressi nel sangue e violenti bombardamenti aerei alleati. Il 30 luglio Roma fu dichiarata “città aperta”. Fu proibito riunirsi in più di tre persone, fare sciopero, uscire di notte.
A quei tempi, in provincia di Modena c'erano due campi di prigionia che nell'insieme ospitavano circa seimila prigionieri di guerra britannici: il n° 73 era a Fossoli di Carpi, mentre il n° 46, riservato agli ufficiali, era alla Crocetta di Modena, sulla Via Nonantolana. Durante le belle giornate, ci si poteva imbattere nelle compagnie di prigionieri in ordine di marcia sulla via che porta a Nonantola, con quattro soldati italiani di scorta, due in testa, due in coda, fucile in spalla, che andavano di conserva, a buona distanza. Nelle vicinanze del campo si aggiravano spesso i ragazzini della Crocetta, animati dalla speranza di raccogliere almeno una scatoletta di carne lanciata fuori da qualche prigioniero, assai umano e molto previdente. La notte fra il giorno 8 e il 9 settembre i tedeschi avevano occupato i campi, ma nel trambusto la sorveglianza si era allentata. Molti prigionieri fuggirono e si sparsero per la campagna vicina, alcuni di loro giunsero anche a Nonantola. Ci fu un passaparola tempestivo, molte persone si mobilitarono e anche mio padre e don Arrigo, collegati ad Arturo Anderlini di Modena, operarono nell'aiuto ai prigionieri. Rimasero in possesso di portafogli e carte personali, che consegnarono agli Alleati dopo la guerra. Purtroppo Arturo Anderlini fu catturato il giorno 8 gennaio 1944 e fu fucilato assieme ad Alfonso Paltrinieri di S. Felice sul Panaro.
Questo è uno degli aspetti della vasta e lunga attività di salvamento, che comprese anche i ragazzi di Villa Emma e poi ancora altri ebrei provenienti da ogni parte. Giungevano, a pochi o ad uno per volta, diretti alla Villa in cerca d’aiuto, e la trovavano deserta, chi li aveva preceduti era già fuggito al sicuro, in Svizzera.
Nello stesso tempo, per mio padre e i suoi amici, cominciò anche l'attività clandestina d’appoggio al movimento armato per la liberazione d'Italia. A tavola, nostro padre ci raccontava le novità di quel lavorìo segreto. I nostri genitori erano separati, io e mio fratello eravamo la sua famiglia. Soggiogati, orgogliosi, noi ascoltavamo in silenzio le espressioni emozionanti della sua grande passione civile e le confidenze del suo muoversi clandestino. Talvolta, quand’era il caso, ci prestavamo al bisogno.
Per fortuna, nelle prime settimane, l'incertezza e la confusione che seguirono l'otto settembre del 1943 crearono anche condizioni favorevoli per sfuggire all'attenzione degli usurpatori.
Molti italiani si erano illusi che la guerra fosse finita e restavano dubbiosi sul volgere delle cose, pur vedendo che il tedesco da varie settimane era accampato dovunque, dopo i rovesci militari in Africa Settentrionale. Fino a quel momento, formale alleata ed ospite, la Wermacht non aveva avuto alcun’autorità sulle cose italiane ed aveva evitato di violare la nostra sovranità, ma si teneva pronta a mettere in atto i piani segreti disposti in previsione dell'uscita dell'Italia dalla guerra.
A Nonantola erano attestati reparti d’artiglieria contraerea della 65° divisione tedesca. Nella mattinata del 19 luglio del ‘43 una batteria piazzata a Rubbiara abbatt� un Liberator sulla rotta di ritorno dal bombardamento di Bologna. Quel giorno, Leo Kofler (Ehud, Arieh Kofler), era in gita ciclistica a Bologna, assieme ad altri ragazzi di Villa Emma. Si erano trovati vicini agli scoppi delle bombe nei pressi della stazione. Tornarono ancora sconvolti dalle emozioni.
L'armistizio dell'otto settembre colse di sorpresa le forze armate italiane ed esse, impreparate, dovettero cedere all'immediata risposta tedesca d’occupazione militare.
Uno di quei giorni, l’anziana fantesca della caserma dei carabinieri reali - una figura di donnina minuta che pareva uscita dal mondo della fantasia - corse a chiamare mio padre, tutta trepidante d’ansia e affannata, perch� il comandante era molto agitato. In borghese, egli sedeva sul gradino del focolare, in cucina: privo d’ordini, angosciato, in lacrime, era sul punto di lasciare il posto. Mio padre fu severo. Gli rammentò il dovere di non abbandonare la popolazione, evocò la propria incerta autorità di capitano medico in congedo, e ordinò al sottufficiale di rimettersi in divisa, o l’avrebbe accusato di diserzione, a guerra finita. Il maresciallo si calmò, rivestì la divisa e rimase al suo posto.
Col passare dei giorni, circolavano notizie dubbie, senza riscontro ed illusorie, di reazioni armate e di resa in varie parti d'Italia, di sbarchi alleati in Toscana e altrove, ed intanto si assisteva quasi increduli al crollo dello stato. Dal passo del Brènnero scesero altre truppe tedesche a dare man forte.
Gravata da centinaia di sfollati di città, la popolazione continuava a lavorare con impegno, e nello stesso tempo si prodigava a dare aiuto e rifugio agli sbandati italiani che tornavano a piedi, stremati, da ogni dove, schivando le strade e per lunghe odissee, bisognosi di cibo e di vestiario. Nel clima angoscioso di tanti eventi pot� svolgersi anche l'immediato salvataggio degli ospiti di Villa Emma. Questi, nella loro disgrazia, non ebbero quasi modo d’accorgersi del dramma che intanto stava travolgendo anche gli italiani. Finora però, nessuno degli scritti su Villa Emma ha affrontato in pieno l'insieme delle gravissime circostanze in cui si dibatteva la popolazione. Si è quasi indotti a pensare che gli scrittori interessati a Villa Emma non si siano curati della gravissima crisi militare e istituzionale che aveva travolto l’Italia, e parrebbe che non vi sia più nessuno, ormai, capace di tenerne conto in modo adeguato e degno.
Ogni tanto la stampa torna a riesumare il caso di Villa Emma, però l’intero episodio rimane ancora difficile da ricostruire, nelle cause e nei significati, e suscita stupore perch� appare avvolto in un'aura di stranezza rarefatta, proprio a causa d’opinioni errate preconcette e d’informazioni incomplete. Forse soltanto un'importante opera d'arte, ispirata, e sorretta da cognizioni approfondite, può riportare alla luce la verità degli avvenimenti e scuotere le coscienze. In ogni caso, dopo sessant'anni di svogliatezze, è ora che siano rievocati gli aspetti unici di questo caso straordinario, senza nessun’aggiunta d’invenzioni o contaminazioni, ma con fedeltà, con rispetto e con affetto. Si sono fatti, anche con fini lodevoli d’edificazione, libri, articoli e servizi televisivi che non colgono il senso giusto delle cose, tuttavia l'episodio straordinario di Villa Emma resta ancora chiuso in un limbo nebuloso di luoghi comuni, mal dissimulati sotto il pretesto troppo comodo e generico delle malefatte del regime fascista, di cui le nuove generazioni conoscono davvero poco, o nulla.
Sono convinto che occorra un lavoro indefesso, sorretto da forte ispirazione e da grande energia creativa, per riuscire a restituire con stile vigoroso e con fedeltà il senso epico dei fatti quali si sono svolti, e a dare la voce della verità al dolore degli innocenti, al travaglio delle persone inermi che fecero quanto era possibile per resistere in quelle condizioni e per dare aiuto a chi era in pericolo.
Ora può essere venuto il momento dello “scandalo della verità e dell'onestà”. Si presenta infine l’occasione di liberarsi da una certa soggezione intellettuale e di affermare, senza timore di smentita, che il salvamento degli ebrei di Villa Emma si deve soprattutto alla forte amicizia che legava i due coraggiosi che furono insigniti in Israele con il titolo di Giusti fra i Gentili, nel 1965: don Arrigo Beccari e il dottor Giuseppe Moreali. Un parroco ed un medico di campagna, affiancati l’uno all’altro di fronte all’oppressione, alla povertà e al dolore, a costituire una conferma soltanto apparente di un modello tradizionale e scontato. Uomini di grande intelligenza e di carattere eccezionale, di rara levatura morale, di vasta cultura e di mentalità molto moderna, spiccavano per la loro personalità rilevante, tutta particolare. Vivevano umili fra gli umili, figli tipici di un ambiente e di una società contadina ancora compenetrata d’umanesimo cristiano e di pietà antica.
A rappresentare quel mondo contadino non servono figure tratte da campionari antropologici improbabili, e neppure personaggi di maniera posticci, melensi, nevrotici, gigioni, indegni di quell’epopea oscura. Ognuno qui era ben compreso nei propri compiti, tutti sostenevano grosse fatiche e disagi per campare, tutti affrontavano responsabilità e pericoli senza remore, senza perdersi d'animo. Proprio per questo modo d’essere autentico e genuino, mentre vestivano da prete un amico ebreo e lo fotografavano per contraffare un documento, s'impegnavano con la più schietta allegria, divertiti e propensi al paradosso.
Nell’autunno del 1943, un drappello di ciclisti della nuova guardia repubblicana fascista, in giro dimostrativo sul territorio, si fermò a Nonantola nelle prime ore del pomeriggio. Fece sosta sotto il portico dell’antico palazzo Borsari, già sede della casa del fascio. Nel 1936, sotto quel portico era stata murata una gran lapide celebrativa dell’impero fascista. L’ufficiale al comando del drappello osservò che la superficie della lapide era costellata di pallottole d’argilla rinsecchita. Erano i chiari esiti di un gioco estivo dei ragazzini del paese, soliti a dilettarsi con l’argilla raccolta dall’argine del vicinissimo Canal Torbido, che da secoli costituiva un’ansa protettiva attorno a Nonantola e che in quel punto passava proprio sotto il palazzo. Quel fango, spiaccicato per trastullo, suscitò lo sdegno del comandante. All’istante, chiese chi fossero i tre antifascisti più in vista del paese e, lì per lì, fu inviato un messo che convocasse sul luogo il dottor Giuseppe Moreali, medico condotto, il signor Antonio Trotti, commerciante di calzature, ed il signor Aldo Orsi, tabaccaio. La rete dei delatori fascisti era ancora attiva e davvero efficiente. Trotti ed Orsi erano gli amici cui, la notte del 25 luglio, mio padre, io e mio fratello, eravamo corsi a portare la gran notizia della caduta di Mussolini. Dalle finestre aperte, nella notte estiva risuonò a lungo la voce della radio che ripeteva l’annuncio, scandito con la voce delle grandi occasioni. Nei giorni seguenti, il signor Trotti ed alcuni altri, muniti di scala e di strumenti idonei, erano saliti a scalpellare via il simbolo del fascio littorio murato sulla parete della casa di fronte a quella di Trotti.
Col pretesto di una responsabilità morale per il dubbio sfregio al ricordo dell’impero, quei tre, convocati seduta stante, dovevano salire a lavare quella lapide infangata.
Un reduce della guerra venne a cercare mio padre picchiando alla porta col bastone. Non voleva credere che mio padre fosse in visita dai suoi pazienti, e se n’andò soltanto quando io l’invitai a salire in casa per verificare. Per un puro caso, mio padre non subì quella prova umiliante, ma Antonio Trotti ed Aldo Orsi, tra il dileggio dei militi, salirono sulla scala a pioli con lo straccio ed il secchio d’acqua e lavarono la lapide dell’impero.
Quella stessa sera, il temibile Ascanio Boni, comandante il presidio militare fascista di Nonantola, chiamò in caserma le tre persone che erano state convocate per la lapide dell’impero.
Di fronte alla scrivania d’Ascanio Boni, mio padre sedeva tra gli altri due, ancora pallidi per la grave umiliazione. Il Boni espresse rincrescimento per l'accaduto e riversò ogni responsabilità sul comandante della guardia repubblicana. Affermò che il fascismo repubblicano era assai diverso dal primo, riconobbe che i tre erano ottimi cittadini e propose che s’iscrivessero al fascio repubblicano. Nel personaggio, non era chiaro il limite fra il cinismo e l’ironia.
E’ molto probabile che tutto l’episodio sia stato il frutto di una messa in scena premeditata. Mio padre parlò anche per i suoi amici. Respinse le proposte del Boni, si disse favorito dalla sorte per non essersi trovato in casa. Non aveva lanciato quell’argilla e perciò, se fosse stato presente, non avrebbe mai lavato quella lapide.
Nel maggio del 1944, quando vi furono azioni partigiane nei territori vicini, i fascisti di Nonantola compilarono un subdolo richiamo alla popolazione del paese affinch� s’astenesse da fatti violenti e convocarono sette fra gli antifascisti più in vista, perch� lo firmassero. Redatto ad imitazione della prosa mussoliniana, e senza alcun pudore, il testo attribuiva la guerra alla “fatalità della storia”, auspicava “una tregua ad ogni violenza”, nell’attesa fiduciosa di un ritorno cristiano ed umano verso “un’eterna verità d’amore e di fratellanza” e di una pace degna.
I sette, presi di mira, si sentirono in prima linea, vessati dai persecutori, ma compresero anche che questi ormai erano ridotti a malpartito. In breve, presero consiglio e firmarono l’insidioso appello dall’apparenza pacifista ed umanitaria. Il manifesto finì affisso ai muri del paese e non ebbe effetti di sorta.
Da gran tempo quei sette erano in testa alle liste degli antifascisti sorvegliati e guardati con sospetto. Tre di loro erano stati chiamati a lavare la lapide dell’impero. Il nome del dottor Giuseppe Moreali era in testa a quei sette nomi. Qualcuno oggi potrebbe anche affermare che fu una situazione piacevole, divertente, invidiabile e scevra di pericoli. Ci sono persone capaci di grandi sciocchezze.
Purtroppo, in diversi libri sulla Villa trovo bizzarrie, storture, invenzioni moleste che alterano la verità e la corretta memoria dei fatti e di persone degne di rispetto. E' vero che chi crede di cantar vittoria spesso si arroga il diritto di raccontare i fatti a suo modo, ma gli scrittori sono chiamati al dovere assai grave di non adattare la verità alle pretese del potere, troppo sovente disposto ad abusare di ciò che è vero per fini impropri.
Vedendo come vanno le cose, io sono costretto all’amara consolazione che, se non altro, ora nostro padre non assiste più alle continue profanazioni disinvolte che snaturano gli avvenimenti. Verso la fine della sua vita, l'ho visto vacillare nell’impeto dell’indignazione, piegarsi al peso dell'ingiustizia e soffrire fino al crollo della salute e alla morte. Egli morì da cristiano. Perdonò a tutti.
Fino al 1964 la sventura degli ebrei di Villa Emma era conosciuta soltanto dalle persone che li avevano frequentati e, fino a non molto tempo fa, poche altre persone ne erano al corrente. A Nonantola quei fatti non sono schiettamente popolari neppure oggi. Dopo che sono stati resi noti dai “media”, si è verificato un atteggiamento di velato distacco perch� gli ebrei sono ritenuti ricchi e protetti dall'America, e qui da noi la lotta di classe è molto sentita.
Qui ogni appiglio diviene rigido strumento di lotta politica. Nella valutazione ufficiale dei fatti di Villa Emma, oggi prevale la forte repulsione verso il nazismo ed il fascismo, mentre si tende a convogliare l’interesse per gli ospiti di Villa Emma e per il loro salvataggio entro un progetto interculturale.
Così, di volta in volta, celebrazioni ricorrenti propongono, in modo crudo e inevitabile, la questione sociologica del merito degli individui. In modo traumatico e fatale, si rimettono in giuoco persone sventurate, chiamate a dimostrare d’essere state vittime di una situazione pericolosa, e persone di buona volontà, chiamate a dimostrare di meritare il riconoscimento che premia quanto fecero per aiutare il prossimo. Questa esposizione contorta descrive un aspetto moderno dell'antico fenomeno sociale dell'invidia. Tecniche idonee ad innescare fenomeni del genere sono sempre in auge.
Io so invece, con certezza, che il dottor Giuseppe Moreali, don Arrigo Beccari, don Ennio Tardini, Primo Apparuti, e altri degni quanto loro d’essere ricordati per sempre, non avevano l’attitudine a cercare la gloria e gli onori del mondo. Non erano interessati a quei fini ed in verità non avevano neppure il tempo di pensare ad onori e gloria, perch� avevano altro nella mente e nel cuore. In modo rappresentativo, dopo la guerra, il furgone della scuola fondata da don Arrigo per i ragazzi di campagna portava l'impresa di un motto sublime, Amor mi muove. La potenza di quel motore era condizionata da un’energia astrusa e metafisica. Il teatrino “Aurora” di quella scuola, invece, si fregiava del motto corrosivo di Paolo, La verità vi farà liberi, ed ancora Dante: Fatti non foste a viver come bruti – ma per seguir virtute e conoscenza.
Ad un certo punto, i rischi dell’attività clandestina divennero tali che mio padre si propose di cancellare tutti i crediti acquisiti nella sua professione privata, se fosse uscito incolume dalle traversie della guerra e della lotta di liberazione. Egli fu fedele al proposito. Quanto ai suoi amici preti in prigione, egli non venne mai meno ai doveri dell'amicizia e quando essi furono liberati si adoperò per festeggiare come conveniva. La stima, l'ammirazione, la fiducia reciproca e l'entusiasmo li accompagnavano nell’azione, essi erano sempre rivolti oltre il contingente e quando riuscivano erano divertiti e soddisfatti. Non si vantarono mai d’aver aiutato persone in pericolo, o d’altro. Per loro c'era sempre un’impresa nuova da portare a buon fine ed erano sempre tesi al buono e al bello. Il dottor Giuseppe Moreali, nonostante ciò che si potrebbe pensare, non era affatto “un uomo di sagrestia”.
Nessuno ha notizia degli altri ebrei che furono aiutati, con rischio sempre più grave, nei mesi successivi alla fuga degli ebrei di Villa Emma da Nonantola. A Nonantola giungevano sempre nuovi fuggitivi ebrei, in cerca dell’ufficio d’assistenza di Villa Emma. Sospinti dalla necessità, giungevano da lontano, ma non sappiamo quanti fossero, nessuno ne teneva il conto. Essi non erano uniti da un legame di gruppo, come i profughi della villa, e dopo la guerra si dispersero ovunque. Di loro non abbiamo più saputo nulla, forse non possono neppure ricordare i luoghi dove sostarono e le persone che li soccorsero ed ormai è difficile che qualcuno di loro sia ancora in vita. Noi abbiamo descritto questi casi ai cronisti che sono venuti a raccogliere notizie sul caso di Villa Emma, tuttavia il nostro dire non è stato colto con tutta l’attenzione necessaria, perch� ne sono uscite persino fantasie incredibili di una vera e propria stamperia clandestina ed altre piacevoli castronerie.
Quegli ebrei fuggitivi ricevevano assistenza, cibo ed aiuto nelle stanze di don Arrigo e di don Ennio Tardini, cui si giungeva attraverso la gran sala occupata dalla Feldpost germanica N° 24960, nel cuore del Seminario Abbaziale. Rifocillati e avviati a luoghi più sicuri, erano muniti di documenti contraffatti, compilati sui moduli originali dello Stato, sottratti all'anagrafe del comune e corredati di foto e di timbro a secco in modi sempre avventurosi e creativi. In certi casi, mio padre s’inventava anche convincenti certificati di malattia. Quelli sono i documenti falsi di cui si vocifera a sproposito. Dato che imprimere quel timbro a secco rudimentale richiedeva molta forza fisica, si affidava il compito ad Aristide Barani, un amico capomastro. In seno a vicende drammatiche, a volte c'erano anche aspetti grotteschi che comportavano commenti salaci e franche risate. Per la firma del podestà di Larino, mio padre inseguiva una sua fantasia sottile e si firmava col nome illustre di Lorenzo Ghiberti, lo scultore delle Porte del Paradiso nel battistero di Firenze; oppure si firmava Salvatore Esposito, una finezza riposta.
L'attività d’aiuto clandestino doveva svolgersi di notte, e richiedeva sempre maggiore impegno, mentre il lavoro diveniva sempre più pesante. Ricevettero documenti contraffatti anche modenesi implicati nelle leggi razziali ed antifascisti in pericolo d’essere presi.
Nello stesso tempo, stava crescendo il movimento clandestino della lotta armata per la liberazione dell'Italia, e ciò accresceva i rischi. La forte tensione degli animi spingeva molti a fumare quasi di continuo, nonostante il razionamento, grazie all’attitudine generosa e fraterna delle persone che non fumavano. Nella mia mente il ricordo di quei tempi è legato anche alle volute azzurrine del fumo di sigaretta nel tempo di guerra. Si fumava di tutto, era scoppiata una specie di smania collettiva per il fumo di tabacco.
Un brutto giorno, un giovane catturato dai fascisti confessò di aver avuto documenti falsi da don Ennio, nel Seminario di Nonantola. Don Arrigo e don Ennio furono arrestati e percossi. Don Arrigo fu condannato a morte. L'arrivo degli Alleati fu tempestivo per rimetterlo in libertà quand’era ancora detenuto.
Di questi accadimenti la gente ha sempre conosciuto ben poco, ma ora non sa quasi più nulla: se ne parla sempre meno, son passati più di sessant'anni. D'altra parte mio padre non amava clamori e pubblicità. Per se stesso dispose esequie modestissime, egli volle essere sepolto nel suo paese natio e desiderò soltanto d’essere dimenticato. Oggi, proprio per quel suo ultimo desiderio, io mi sono indotto a scrivere di lui perch�, di lui e di altri, si pubblicano cose di pura invenzione e ciò lo ferisce ancora una volta. Qualcuno progetta anche narrazioni filmiche basate su Villa Emma, ed è già cominciata una campagna di preparazione sui quotidiani. Temo risultati deludenti, se si procederà con la solita sufficienza, il clima trasognato dei titoli di stampa, inadeguato alla serietà dell'argomento, non è di buon auspicio. Nel libro più recente, mio padre è menzionato 37 volte. Lui, Giusto delle Nazioni e laureato con lode, è citato in quel libro come "dottore" una sola volta su 37, il minimo possibile, nella ragione esatta del 2,7%. Di conseguenza, in quelle pagine egli figura degradato e depauperato della sua qualifica più pertinente nella misura del 97,3%, con un sarcasmo che, se oggi fosse vivo, gli ricorderebbe troppo bene i soprusi del regime fascista. Mio padre era un uomo all’antica e non aveva potuto imparare quanto tempo faccia perdere l’osservanza delle buone tradizioni accademiche. Oggi, d'altra parte, i suoi quarant'anni di vita passati al servizio della salute di tutti si possono considerare un passatempo grazioso.
Nella prima guerra mondiale, Giuseppe Moreali aveva passato il suo tempo tra gli orrori dell’epidemia di colera in Friuli e, dopo più di un anno di lazzaretto, aveva conosciuto le atrocità degli ospedaletti militari di prima linea. Furono tali che, durante la lunga malattia che lo portò alla morte, ogni notte quei poveri cadaveri, quelle carni lacere, quei bagni di sangue e quei mucchi d’arti umani smembrati gli tornavano alla mente e lo lasciavano angosciato. A causa di questi fatti orrendi egli aborriva la guerra dal profondo. Non volle avere l'onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto, assegnata ai reduci di quel conflitto, perch� aveva visto scorrere fiumi di sangue, e morire schiere di giovani uomini nel fiore dell’età. Davanti al pericolo, davanti al ferito ed al sofferente egli fu sempre di contegno freddo e lucido, professionale ed ammirevole.
L'esperienza di guerra e una preparazione di prim'ordine negli istituti universitari gli consentirono di vincere alcuni concorsi pubblici, ma intanto nella vita politica italiana si stava instaurando il metodo del sopruso fascista. Egli era retrocesso nella scala dei meriti e respinto per mancanza del requisito principale, la tessera del partito fascista: ma egli aveva l'attitudine a manifestare liberamente il suo dissenso politico e non temeva le intimidazioni dei fascisti o le loro minacce.
Orgoglioso di potersi dire uomo libero, rifuggiva dall'iscriversi ai partiti. Gli ripugnava ogni forma di favoritismo, gli piacevano "le cose fatte alla luce del sole". Per le ingiuste retrocessioni nei concorsi andò quindi a protestare personalmente, a viso aperto, a colloquio con Temistocle Testa, personaggio famoso, posto a capo del fascismo modenese di allora. Il coraggio è inviso ai violenti e perciò egli fu subito classificato "antifascista pericoloso".
Nel 1925 egli concorse per un posto di medico nella seconda condotta di Nonantola, dove era sindaco l'avvocato Gino Friedmann: un liberale che aveva un gran prestigio personale, promotore d’opere molto importanti per l’economia locale. Era ebreo.
In virtù dei titoli accademici e secondo gli esami di rito, mio padre vinse anche questo concorso, ma i consiglieri fascisti pretendevano di cambiare la graduatoria, ricorrendo allo sperimentato espediente della mancanza dei requisiti politici. Il sindaco Friedmann rifiutò di prestarsi all'ingiusta manovra e minacciò le dimissioni. Grazie a lui, la popolazione ebbe un nuovo medico, bravo, di grande valore. Dopo tante discriminazioni, mio padre superò la barriera del veto politico in un modo inaspettato e ottenne la condotta medica di Nonantola soltanto in virtù dell’onestà, del prestigio e del coraggio del sindaco, l’avvocato Gino Friedmann.
Mio padre conobbe mia madre, figlia dell’altro medico del comune, il dottor Lorenzo Montorsi, soltanto dopo aver vinto la condotta di Nonantola. Non occorre elaborare ipotesi di nepotismo.
Ciò che ho esposto sinora getta soltanto uno spiraglio di verità su molti fatti e sullo sfondo d’alto dissenso e di disagio che spinse singole persone, inermi e coraggiose, ad aiutare gli ebrei di Villa Emma. Oggi però i motivi profondi di quel contrasto d’ideali sono stati travolti dal sopravvento di passioni e d’interessi che ne hanno offuscato i significati ed i fini di rinnovamento spirituale, tuttora necessario, ma ancora assai lontano. Resta che, in quel momento difficile, persone di fedi assai diverse si trovarono concordi ad agire in difesa del patrimonio comune di civiltà.
A questo punto le mie divagazioni superano già di molto i limiti di una comune lettera, ma io spero che possano servire a dare un’idea corrispondente alle situazioni, alle persone, ai fatti, anche se capisco che mi assumo un compito forse troppo difficile. Intanto continuano ad emergere ricordi.
Mio padre rimase sempre inviso ai fascisti che l’avevano avversato in consiglio comunale. Tra loro c’era uno dei fondatori del fascio di combattimento di Nonantola, capitano d’azione, centurione della milizia fascista. La mattina del 9 marzo del 1933 egli attese mio padre lungo le scale del palazzo del Comune, lo accusò con arroganza d’atteggiamenti antifascisti, l’insultò gravemente e lo minacciò di percosse, com’era proprio dello stile fascista: era un vero agguato. Mio padre rispose che non temeva le vie di fatto. Il fascista lo colpì con un pugno, ma egli reagì fulmineo e l’aggressore, colpito al volto, lacero nelle vesti e sanguinante, ebbe la peggio. L’episodio conseguiva ad una spiata. Il podestà fascista reagì con severità, mio padre si difese ed espose le proprie ragioni con una lettera. Due ufficiali della milizia recapitarono a mio padre, ufficiale in congedo, un cartello di sfida a duello, una trappola che celava un’insidia: il codice militare in vigore proibiva il duello, ma puniva severamente l’ufficiale che rifiutava di battersi. Due ufficiali in congedo del regio esercito furono i padrini di mio padre e la vertenza finì con il verdetto del giurì d’onore. Dopo l'esame dei fatti, esso stabiliva che non al fascista, bensì al dottor Moreali, offeso grave, sarebbe spettato di lanciare la sfida; ma poich� nella fattispecie c’era stato un immediato spargimento di sangue, sentenziava altresì che, secondo il codice cavalleresco, il duello era già avvenuto ed i conti erano chiusi.
Da allora in poi, tutta Modena ebbe per certo che il dottor Giuseppe Moreali non era fascista. Per anni, egli fu chiamato presso la polizia politica di Modena a subire severe minacce e intimidazioni per critiche ed opinioni espresse in pubblico e riferite ai servizi dai delatori locali. L’aspro umorismo del verdetto di quel giurì d’onore non fu risolutivo. La vendetta giunse più tardi, studiata, fredda, bassa, crudele, distruttiva, indegna.
Alla caduta di Mussolini il motto di mio padre fu subito: “Chiamatemi dottor Felice!”. Da quel giorno e fino alla fine della guerra egli operò nella lotta clandestina per l’Italia libera e democratica. Nell’aprile del 1945, appena Nonantola fu libera, nella folla davanti al municipio, tra jeep e carri armati americani, due ragazze lo accolsero festose ripetendo con gioia: “Ora può chiamarsi dottor Felice!” e intanto gli offrivano una bracciata di rami fioriti di bianco.
Egli aveva avuto anche la cura dei partigiani, ammalati o feriti, nascosti nella campagna attorno al paese, anche nella zona assai vasta affidata al mio nonno Lorenzo, dov’era più alto il rischio d’attirare l’attenzione dei curiosi e delle spie, in un mondo rurale dove da sempre le presenze insolite destano curiosità e allarme. In quei tempi di frequenti mitragliamenti aerei, i medici del paese andavano in bicicletta, portando con s� un’appariscente cassetta di legno molto scomoda, tutta bianca, segnata da una croce rossa, grande ed inconfondibile, fornita dal comune per il pronto soccorso dei feriti.
Verso la fine della guerra, l’attività clandestina si fece assai pericolosa. Egidio Giovannoni, capo dei comunisti nonantolani, suggerì a mio padre di rifugiarsi in montagna con i partigiani, ma egli si sentiva legato al dovere preciso di non abbandonare la popolazione e preferì restare a Nonantola, al suo posto di medico condotto.
Finita la guerra, non volle incarichi di partito ma, animato da forte senso civico e da preciso spirito giuridico, preferì essere il presidente della commissione che istruiva le pratiche d’epurazione ed agì con coscienza e con onore. Alle elezioni per l’assemblea costituente, in clima di forte tensione politica, fu chiamato dal tribunale a reggere la responsabilità di tutti i seggi elettorali del comune. Alle prime elezioni del parlamento gli fu offerto il laticlavio di senatore, se avesse accettato la candidatura per il partito comunista. Egli rifiutò. Nel 1964 accettò, insieme a don Arrigo Beccari, la medaglia dei Giusti, soprattutto per il suo significato umanitario, molto confacente alla professione di medico, di cui era orgoglioso. Non volle per s� altre onorificenze perch� detestava l’idea di doversi trovare, in certi casi, in compagnia di persone di cui aveva temuto l’arroganza, quando vestivano da fascisti.
All’interno di tutte queste vicende vi sono stati lunghi travagli e vi sono ancora sofferenze, mai sopite, che non è gradevole rievocare, tuttavia desidero portare ancora la mia attestazione, soprattutto perch� nulla si deve affermare che non sia vero: la menzogna è sempre strumento d’ingiustizia e di schiavitù, e nello sfruttamento tendenzioso delle vicende altrui si cela una forma insidiosa di schiavismo. Giornalisti e scrittori sono venuti presso di noi diverse volte per raccogliere informazioni su Villa Emma. I nostri colloqui con loro sono sempre stati molto amichevoli, ispirati alla ricerca della verità, ed abbiamo sacrificato molto tempo per aiutarli, con spontaneo spirito di servizio, ma con effetti assai deludenti.
Uno scrittore forestiero, con cui ho avuto assai colloqui, e prolungati, viene ora pubblicando una sua ricostruzione dettagliata circa le vicende dei ragazzi ospiti di Villa Emma, corredata di un lungo apparato di citazioni. Nelle pagine in cui sono trattati avvenimenti che io conosco in modo molto vago non rilevo materia su cui eccepire, ma quando la narrazione si avventura nell’episodio nonantolano, mi scontro con incongruenze e bizzarrie inaccettabili. Molte stranezze riguardano mio padre. Nell’originale vulgata oltremontana si legge che la questura di Modena conosceva le idee politiche di Moreali e s’insinua che essa evitò di segnalarle al ministro dell’Interno forse per la sua elevata posizione sociale: un bel rècipe di candore sospetto, ma di sapore amaro, mal dissimulato nell’umore dolciastro di un forse. “Forse” velenoso quanto basta. Io, invece, penso che non si debbano propinare opinioni, congetture, pareri, credenze, ipotesi, supposizioni e sospetti, come se fossero fatti storici. Sono convinto che l’incertezza può gettare ombra nell’animo di chi non sa, e che i pareri non richiesti sono spesso nascostamente tendenziosi, perch� si prestano a considerazioni torbide e a fini non limpidi.
Guarda caso, in tutta la dettagliata ricostruzione non vi è una sola asserzione tendenziosa, riguardo a fascisti nonantolani. E’ un fatto assai singolare, molto simile ad uno sberleffo, e qui rinuncio ad ogni commento. Nel libro è riportato un solo episodio negativo nei confronti di un fascista, ma è preso da uno scritto di Giuseppe Moreali, tosto menzionato.
Il vecchio dottor Giuseppe Moreali, quello che reagì all’agguato, quello che fu sfidato a duello, non è più vivo da oltre vent’anni, e tutti possono star sicuri e tranquilli, perch� giace. Oggi si può liberamente affermare che, nel ricordo del signor Josko Indig, egli era di bassa statura e di corporatura esile, calvo, con uno sguardo tranquillo. Sono particolari gratuiti, di nessun rilievo, e senz’altro non sono importanti quanto il naso famoso di Cleopatra. Non hanno alcun peso nelle cause che determinarono gli eventi di Villa Emma, però è un fatto scontato che, fin dall’antico Egitto dei Faraoni, le figure gigantesche significano la potenza dei personaggi, mentre, più vicino a noi, nelle miniature medievali e nelle caricature dell’evo moderno, la bassa statura dei vinti continua ad essere un mezzo intuitivo, rapido ed efficace per sminuire le persone. D’altra parte, se davvero occorre far conoscere qualche dato antropometrico, io sono una fonte vivente, di facile accesso, competente, attendibile e documentata: mio padre era più alto di Josko Indig, misurava un metro e settantadue centimetri, corrispondeva al tipo di struttura media o atletica secondo Kretschmer, ed aveva lo sguardo vivacissimo, quanto mai penetrante, ancor impresso nella memoria di quanti lo conobbero. Era calvo, come Ippocrate, e teneva i capelli rasati.
In realtà, la figura del dottor Giuseppe Moreali è sminuita ed umiliata per gli effetti combinati di una pulsione freudiana e di una chiusura politica. Ciò è tanto più vero quanto più lo si voglia negare: chi è leale sa come deve comportarsi, affinch� le sue intenzioni appaiano subito limpide e sincere. Non si può credere a chi invoca sempre la propria ignoranza dei fatti e la propria buona fede per giustificarsi, specialmente se professa la ricerca della verità.
E’ probabile che personaggi del passato regime, rimasti sulla scena politica, abbiano continuato a vedere un ostacolo virtuale nel prestigio e nell’autorevolezza di Giuseppe Moreali. Ritenendo di non poter competere con lui a causa di un passato di cui egli era un testimone inattaccabile, hanno mantenuto contro di lui un loro abituale fuoco d’interdizione sul fronte politico. La sua mancanza fu di non essersi mai aggregato ad altri. In ambienti paesani influenti si mormorava, che talvolta il dottor Giuseppe Moreali assumeva posizioni da “presidente della repubblica”. Era una bandiera pulita.
Circa l’illazione preconcetta su mancate segnalazioni poliziesche agli uffici centrali, vale la pena di ricordare che durante il fascismo Mussolini tenne sempre il ministero dell’Interno e che ogni mattina egli esigeva sulla propria scrivania i rapporti scritti di tutti gli avvenimenti italiani, su cui formulava commenti e ordini, di suo pugno. Il clamore dello scontro sanguinoso tra un centurione della milizia ed un oppositore borghese non poteva passare inosservato, soprattutto perch� riguardava uno tra i fondatori del fascio di Nonantola, capitano d’azione della prima ora, ufficiale della milizia e, quindi, agente dell’OVRA. Nell’alto cielo delle temperie oniriche, aleggiano sogni di segnalazioni poliziesche mancate.
Quanto all’elevata posizione sociale che avrebbe protetto il dottor Giuseppe Moreali, è lecito chiedersi come mai egli potesse esser favorito nelle note informative della polizia politica, quando poi non godeva d’altrettanto favore presso la pubblica amministrazione, giacch� aveva anche vinto dei concorsi, con buona pace di tutti. Devo aggiungere una cosa risaputa: a quei tempi non c’era arte più misera e più guasta del medico in condotta e, quanto a ciò, lo scrittore oltramontano, nel descrivere l’economia locale di quel tempo, ha tracciato uno scenario che permette d’immaginare le vette sociali a portata di un medico condotto, a Nonantola, durante il fascismo.
Nel 1933 mio padre contrasse un debito per comprare la casa e la riattò in parte. Estinse il debito dopo la guerra e la casa fu riattata del tutto dopo la sua morte. Lo stesso scrittore afferma che, prima del 1942, il dottor Moreali aveva comprato un fondo rustico nei pressi di Villa Emma. Non è vero. Il fondo di cui si parla non era tanto vicino alla villa e mio padre ereditò i tre quarti di quel terreno nel 1947. Ancora circostanze di poco conto, però è un vero peccato che, senza la chiarezza e senza la certezza dei particolari, su molti ricordi tardivi dei fatti di Villa Emma, si proietti in modo deprecabile l’ombra fallace dell’approssimazione. Io penso ai male informati, che hanno parlato con noi, e osservo che la mancanza di rigore è in funzione dell’assunto inverosimile di un merito esteso a tutti. Essa sminuisce la preminenza dei protagonisti, che pure fu tale da spingere gli involontari ospiti di Villa Emma, e lo stato d’Israele, a rendere ufficiale il loro riconoscimento solenne nel 1965.
Si pretende ora che più di diecimila persone, disseminate in 55,4 chilometri quadrati occupati militarmente dalla Wehrmacht, abbiano preso parte in massa al salvataggio segreto di una settantina di persone per sottrarle alla persecuzione ed alla morte.
In media, almeno 137 persone sarebbero state impegnate a proteggere ogni singolo ebreo, fidando ciecamente di evitare le spiate dei fanatici e le chiacchiere dei curiosi, in momenti in cui era pericoloso attirare l’attenzione.
Qualcuno, in vena d’amenità edificanti, s’è inventato perfino che la sera dell’armistizio il rettore del seminario si diede a suonare le campane a distesa, per convocare il popolo in abbazia, e proclamò alla folla accorsa che c’era l’urgenza di salvare “i cuccioli” ebrei. Sembrerebbe il soggetto di una favola dei cartoons, però la metafora etologica è estranea alla Chiesa ed alla cultura del tempo. Il richiamo a “piccoli cani” e ad “uomini inesperti”, insito nelle diverse accezioni di “cucciolo”, è infelice.
Per farsi un’idea conforme alla realtà nonantolana di quel tempo, si devono indagare dati fondamentali e concreti, che comprendono l’estensione del territorio, il numero d’abitanti e la densità della popolazione, le condizioni economiche, il livello d’istruzione, la cultura, il tenore di vita, i mezzi di trasporto, le fonti d’informazione, il morale della gente, il regime politico, lo stato d’occupazione militare del territorio, e lo stato di crisi di tutte le istituzioni. Senza la giusta rappresentazione di questi dati, l’episodio effettivo di Villa Emma dà luogo ad una confabulazione piuttosto vaga e artificiosa, ricca d’invenzioni e di creazioni fantastiche, come capita a persone la cui memoria è lesa, e che costituisce un autentico tradimento degli esseri umani che vissero in quel dramma. Nel trattamento usuale, le persone che videro nei perseguitati il volto di fratelli, di sorelle, di figli, e li sottrassero al pericolo, figurano come anime morte, diventano convenzioni anonime, prive d’originalità individuale. La fiaba s’arricchisce talvolta di un affascinante formulario di panzane, orecchiate sul linguaggio degli specialisti, ed il caso della Villa Emma è propinato secondo la regola, come oggi conviene. Nessuno interferisca con gli addetti ai lavori.
Dopo lunga riflessione, io sono convinto che, nonostante tutto, l’essenza fondamentale e più riposta da cui scaturirono i fatti di Villa Emma sia ancora in gran parte intatta. Essa fatica a manifestarsi appieno, ma ciò è proprio della sua natura e della sua funzione, ed attiene alle categorie elevate dello spirito: tutti gli episodi che riguardano Villa Emma sono fenomeni generati dal seno della nostra grande e misconosciuta civiltà contadina. Da essa noi possiamo trarre insegnamento ancora oggi, e questo può essere il senso vero ed importante di una benemerenza e di un riconoscimento che ora si vogliono estesi alla comunità nonantolana, in cui erano ben vivi, ed in cui si espressero, i valori di quell’arcana e profonda cultura.
A quei tempi, la distribuzione dell’energia elettrica era limitata quasi soltanto alle case del capoluogo, e superava di poco i limiti del castello medievale. Per avere la luce elettrica, gli ospiti di Villa Emma dovettero allacciarsi alla rete urbana attraverso il contatore della casetta del custode, con risultati precari. La popolazione era sparsa quasi tutta in campagna, dove le case erano prive d’elettricità e l’illuminazione era a petrolio. L’unico mezzo di riscaldamento era il fuoco di legna ed in paese usavamo i fornelli a carbone dolce, per la cottura dei cibi. Gli apparecchi radio erano piuttosto rari e, di questi, non tutti erano predisposti per ricevere le onde corte, su cui operavano Londra, Mosca e la Voce dell’America. Queste divennero popolari dopo il 1943, quando la gente, affamata di notizie, si mise a costruire apparecchi a cristallo di galena, che funzionano senza consumo d’energia.
La popolazione era sparsa quasi tutta in campagna, dove non giungeva la rete elettrica, e dove le case erano illuminate a petrolio, che era razionato; perfino le candele steariche erano razionate. La maggior parte della gente lavorava in campagna per tutto il santo giorno, dall’alba al tramonto. Le scuole del comune erano formate dalle sole cinque classi elementari. Pochi giovani frequentavano le scuole superiori di Modena e, durante l’anno scolastico, ogni mattina, andavano in città con il treno. Gli operai che lavoravano nelle fabbriche di Modena andavano in treno od in bicicletta. D’inverno il cinema funzionava quattro sere la settimana. La domenica, anche di pomeriggio. I film di prima visione si proiettavano solo a Modena. Si vendevano pochissimi giornali, i telefoni erano rari. I due medici e le due levatrici non avevano telefono e d’altra parte in paese avrebbero potuto comunicare soltanto con pochissime persone. I mezzi di trasporto più diffusi erano la bicicletta, il biroccio, il calesse. Poche persone possedevano la motocicletta, pochissime avevano l’auto e tra queste la maggioranza aveva subito la requisizione delle gomme, destinate agli usi militari. Gli autocarri erano vecchi e scarsi, il carburante era caro e razionato. Nel 1943 ai medici condotti, per fare le visite a casa dei malati, toccava un buono di dieci litri di benzina, una sola volta al mese. Per fare il rifornimento, si doveva andare a Modena. Mio padre e mio nonno andavano a visitare i pazienti pedalando, in bicicletta. A volte, percorrevano anche cento chilometri in un giorno. Verso la fine della guerra, nelle giornate di cielo scoperto, anche l’uso saltuario dell’auto era divenuto impossibile perch� gli aerei alleati mitragliavano tutti i veicoli.
Per l’uso nostrano di coltivare la vite maritata all’olmo, il territorio di Nonantola era molto ricco d’alberi ed il paesaggio somigliava ad un’ordinata foresta del clima temperato, ricca di siepi e di frutteti, interrotta da radure coltivate a prato, a cereali, ad ortaggi e a legumi. La valutazione delle distanze è condizionata dal tempo che occorre per raggiungere i luoghi e dalla percezione dell’orizzonte visibile, perciò, a quei tempi, i luoghi del territorio sembravano assai più lontani di quanto appaia a noi oggi e la maggior parte della gente di campagna aveva soltanto un vago sentore della presenza d’ebrei a Villa Emma. Le notizie correvano di bocca in bocca, diffondendosi per sentito dire e il fatto che ci fosse un certo numero d’ebrei nei dintorni costituiva un evento curioso, un dato di scarso rilievo, uno dei tanti portati dalla guerra. Fare commenti ed esprimere opinioni era pericoloso: ovunque c’erano spie d’ogni ceto che riferivano all’autorità fascista discorsi e comportamenti sospetti. Non bisogna dimenticare che il salvataggio dei perseguitati si svolse e fu portato a termine in condizioni di segretezza, per il timore di qualche delatore. Purtroppo, c’erano anche delazioni nefande.
In quell’ambiente avvenne il salvamento degli ebrei di Villa Emma, quando cadde il regime fascista ed il filo esile delle loro vite si trovò ad un tratto nelle mani di persone inermi. Tutti coloro che prestarono soccorso erano persone d’autentica origine popolare. Erano tutti discendenti di contadini e d’artigiani, ed erano ancora tutti profondamente radicati nella nostra grande, antica civiltà contadina. Il prete ed il bracciante, l’operaio ed il medico, l’artigiano ed il coltivatore, in un momento in cui non c’era nessuna struttura pubblica che potesse intervenire, risposero alle pulsioni profonde, connesse al senso del sacro, che sono proprie dell’indole contadina, e salvarono quelle vite. Il loro diverso livello sociale era semplicemente la condizione in cui ognuno si trovò ad agire e perciò, nello studio di questo caso, alle ricerche dello storico si dovrebbero affiancare le ricerche dello psicologo, del sociologo e dell’antropologo. Più di tutto sarebbe necessaria un'opera che attingesse a valori universali, condotta con rigore, non rivolta al vantaggio esclusivo delle fabbriche di sogni. Non vedo però come sia ormai possibile condurre ricerche affidabili, per i dati che possono esser raccolti e per le conclusioni che se ne potrebbero trarre, dopo che è passato tanto tempo dagli eventi. Passerà ancora qualche anno e poi di Villa Emma si potrà favoleggiare scientificamente quanto si vuole, se già oggi si può sorvolare sulle fonti ed equivocare sui significati.
Fino ad oggi, in numerosi incontri con agenti dell’informazione, io e mio fratello abbiamo speso molto del nostro tempo a raccontare con passione, e anche a commuoverci, nel rievocare e nello spiegare le situazioni, nel mettere a punto il ricordo ed il valore delle cose che è giusto conoscere. Ci siamo prestati con entusiasmo e con buona volontà, ma tutto ciò che è stato pubblicato contiene grosse inesattezze, errori evidenti, cose ridicole e inverosimili, esibite senza rispetto per la verità. Nelle pubblicazioni su Villa Emma si trovano troppe stranezze e bizzarrie su cui non si può essere indulgenti. Nessuno può pretendere che si creda a racconti o a descrizioni di fantasia, che non corrispondono alla conoscenza personale e diretta dei fatti, e che sono contro la logica. Gli esempi da citare sono molti. Un centro abitato di provincia come Nonantola, che non spicca fra gli altri per il numero d’abitanti e neppure per la capacità di adempiere a molteplici servizi e funzioni della vita sociale, è pervenuto di colpo alla qualifica ambita di “città”, con la sua brava “città vecchia”. Per motivi d’immagine, pare di capire. Altrove, la Via Guglielmo Marconi, su cui s’affacciano il palazzo del Comune, il Museo Diocesano e case senza pretese, è definita con affettazione “piazza” ed il semplice andito tripartito ad architrave, aperto da poco per sboccare dalla via in Piazza della Liberazione, è pervenuto alla dignità di “arco”. E’ degno di nota il chiapparello dei fossati invisibili: fossati molto particolari che, quando sono coperti d’asfalto, non attraversano la città e invece, quando sono aperti, l’attraversano. Il “fascio di combattimento” di Nonantola fu fondato nel 1921. Ebbe sede nel vecchio Palazzo Borsari, che diventò “casa del fascio”. Ora sta scritto che la sede dal partito era in una casa, d’epoca fascista, deprecabile esempio d’architettura del regime. E’ inutile cercare questa casa littoria, che non è mai esistita. Il dignitoso vecchio padano Palazzo Borsari è stato abbattuto nel 1963.
Nello stesso libro, lo stabilimento industriale per la lavorazione dei prodotti agricoli, uno dei più importanti d’Italia, è riconosciuto “di qualche importanza” e se la cava senza lode e senza onore. Produceva vino, mosti, concentrati, marmellate e conserve, esportati dappertutto, ma specialmente in Germania. Fu visitato come vanto dell’economia italiana da personaggi politici stranieri, anche dal ministro degli esteri giapponese Matsuoka, in visita ufficiale. Durante la guerra, quando lo stabilimento della ditta Cirio di Pomigliano d’Arco fu bombardato, tutta la lavorazione delle arance fu affidata allo stabilimento di Nonantola. Furono migliaia di quintali d’arance: ogni mattina, i viaggiatori del primo treno per Modena raccoglievano le buonissime arance cadute dai vagoni lungo i binari e, all’arrivo del nostro treno, i pavimenti della stazione di Modena erano cosparsi di bucce, fin che durò la cuccagna. Nonantola è uno dei primissimi luoghi ove ebbe inizio l’industria agro-alimentare in Italia, nel secolo scorso.
L’industria casearia, che produce il parmigiano-reggiano conosciuto in tutto il mondo, e l’allevamento dei suini per l’industria dei salumi, non sono neanche ritenuti meritevoli di menzione, però in compenso è menzionata la coltivazione del vino, una graziosa amenità che ricorda un primo d’aprile famoso, quando fu annunciata la perdita delle piantagioni dei maccheroni, a causa del maltempo.
Si legge anche un’affermazione che fa colpo: durante il fascismo, a Nonantola c’era il latifondo, la terra, in prevalenza, era in mano ad aristocratici modenesi. Tralasciando gli scherzi, in economia si definisce “latifondo” una gran possessione di terreno appartenente ad un solo proprietario, tenuta a cultura estensiva e a pascolo, come già nella campagna romana e nel meridione. E’ una forma d’agricoltura recessiva e basta la presenza di un’industria conserviera per dimostrare assurdo ogni riferimento al latifondo. I tenimenti ed i poderi dell’Emilia, dove la coltivazione è progredita, intensa, redditizia, con case, stalle, magazzini, caseifici, non sono latifondi. Con la sua superficie di 5540 ettari, ivi compresi 750 ettari di beni agricoli comuni, il territorio di Nonantola avrebbe potuto ospitare appena cinque latifondi grandi quanto quelli meridionali, oppure soltanto diciotto latifondi piccoli. Da noi, invece, la proprietà fondiaria era molto più suddivisa, e d’altra parte è anche superfluo discettare di latifondi perch� il nostro frazionamento fondiario risale all’epoca romana, come testimoniano il reticolato della centuriazione dell’agro antico, i reperti archeologici e la toponomastica. E’ pur vero che in polemica, forzando i significati, il ricco proprietario terriero può anche essere chiamato latifondista, ma lo storico deve evitare le forzature e deve stare attento all’uso delle parole.
Lo stesso ricercatore afferma che mio padre era stato ufficiale medico durante la prima guerra mondiale, trascurando che, quando l’Italia entrò in guerra, nel maggio del 1915, Giuseppe Moreali aveva appena diciannove anni ed era studente del primo anno di medicina, e perciò è impossibile che potesse essere ufficiale e medico.
A proposito del professor Boris Jochvedson (Georg Boris), lo scrittore afferma che il professore, tornato a Nonantola nell’estate del 1945, avendo riallacciato la sua vecchia amicizia, frequentava la nostra casa per suonare il pianoforte insieme a mio padre. Nelle note a corredo del libro è indicato, a sostegno, un breve scritto in cui Giuseppe Moreali racconta testualmente: “Il prof. Georg Boris Jochvedson… divenne in seguito ospite abituale di casa mia, dove spesso in mia assenza passava ore ed ore a suonare il pianoforte”. Con suo gran rammarico, mio padre non suonava il pianoforte, e non aveva il dono dell’ubiquità.
Non è l'unica meraviglia. Un autore nostrano racconta un episodio violento. Poco dopo il 25 luglio del 43, un gerarca fascista fu picchiato e gettato giù da un ponte, in fondo ad un corso d’acqua. Incurante d’Archimede, quel corpo umano “galleggiava sul fondo”.
Durante i quarantacinque giorni di Badoglio, quel gerarca, uno dei fascisti di Nonantola che più avevano assillato mio padre, era stato malmenato da una persona, per rancori politici, e fatto cadere in fondo alla Fossa Signora, dove stagnava in quel momento circa mezzo metro d’acqua. Per puro caso, io e mio padre ci trovammo a passare di lì e lo vedemmo con l’acqua alla cintola, aggrappato alla sponda. Non dava segni di vita. Scendemmo a prenderlo, con difficoltà, e a fatica lo trascinammo su per la ripa in forte pendio fino al margine della strada. Con parole prese dal racconto di mio padre, lo storico dimentico d’Archimede ha creduto bene di tramandare che il malcapitato fu tirato all’asciutto da Marco Silberschatz, uno dei capi di Villa Emma. Lo stesso episodio ha sedotto anche un altro storico, che non parla di Marco, ma cita Josko Indig come presente al fatto. Io, che ero sceso per primo, davanti a mio padre, ad issare quella persona e trascinarla fino al ciglio della strada, vidi attorno a noi soltanto diversi ragazzini ed un piccolo gruppo d’uomini che osservavano le cose da lontano, davanti all’Osteria della Stazione. Intanto, passava sulla via provinciale un muratore che spingeva un carretto con certe tavole di carpenteria. Ad un cenno di mio padre, si avvicinò ed il malcapitato fu adagiato su quelle tavole. Il carretto fu poi spinto fino all’ambulatorio comunale in tutta fretta, seguito da un codazzo di ragazzini e da alcune donne di famiglia. Nell’ora canicolare, il piccolo crudo corteo passò quasi inosservato. Nella descrizione del fatto lasciata da mio padre mancano alcuni dettagli perch� io non ebbi modo di verificare il manoscritto prima della stampa. Dopo la medicazione, il ferito fu trasportato a casa sull’auto d’Umberto Guerzoni, autista di piazza, ma non sull’auto del comune, come scrive lo storico, equivocando, perch� l’“auto pubblica” non è “l’auto del comune”, è un “taxi”. A quei tempi il comune di Nonantola non possedeva automobili.
Nei racconti di coloro che furono a Villa Emma vi sono altri dati incongruenti: ricordi della “gran villa bianca”, oppure reminiscenze di una piccola fontana con un putto che fa pipì, simile al Manneken-Pis di Bruxelles. Il colore bianco e la fontanella sono forse effetti di un interessante fenomeno della memoria. La villa era giallo ocra, e non aveva una fontanella del genere. Penso che di certo mia madre ce l’avrebbe mostrata, perch� la villa era stata la dimora della sua infanzia. Di quella bellissima dimora e del suo meraviglioso parco aveva serbato un ricordo indelebile. Ne parlava ogni giorno ed amava portarci a visitare i luoghi della sua fanciullezza. Da lei non abbiamo sentito un minimo cenno di una fontanella così caratteristica.
Le pareti esterne di Villa Emma conservano ancora in gran parte il primitivo colore giallo d’ocra secondo il canone tradizionale. Nelle parti in cui è dilavato dalla pioggia, ormai traspare il grigiore dell’intonaco. Secondo uno storico, invece, la villa è tutta di color “grigio slavato”. Proprio in questi giorni, le pareti esterne della villa stanno per essere tinteggiate di nuovo. Oggi essa si presenta come un simulacro della bellissima dimora estiva dei signori Sacerdoti, ma non è il caso di paragonarla ad un palazzo di città. Il paesaggio di Nonantola è nobilitato dalla presenza di questo bellissimo edificio, elegante e fastoso, opera di un celebre architetto. Progettata per il soggiorno estivo, la villa era gelida d’inverno e mancava di comodità, ma a quei tempi grami il riscaldamento delle altre case non era migliore. Nelle abitazioni si faceva fuoco solo in cucina e gli altri ambienti delle case, tranne le stalle, d’inverno erano tanto gelidi che certe stanze fungevano da camera fredda per conservare i cibi. Per la notte, si scaldava il letto infilando uno scaldino di bragia sotto le coperte e ci si copriva con coltri pesanti e copripiedi. Dopo i grandi mutamenti economici del nostro tempo, quegli oggetti sono diventati inutili e sono scomparsi dall’uso generale.
In merito a Villa Emma, potremmo citare ancora molte altre cose divertenti e notevoli per la loro assurdità, ma noi non vogliamo concludere questa lettera con un elenco stucchevole, antipatico ed ingeneroso, che potrebbe farci credere fanatici, mossi da animosità gratuita verso la gente estranea ed indifesa che si occupa della storia nonantolana. Mio fratello Giancarlo ed io abbiamo riflettuto più volte su quest’aspetto della nostra posizione. In realtà, noi ci siamo sempre illusi che le nostre parole fossero riportate correttamente da chi ricorreva a noi. Ora siamo dell’avviso d’aver atteso moltissimo, forse troppo. Fino ad oggi, abbiamo sopportato, con pazienza e senza protestare, non solo le sfilacciature e le manipolazioni che si pretende di spacciare per verità, ma persino le distorsioni perpetrate anche con fini di speculazione politica ed ideologica, e con scopi di lucro, riguardo a fatti d’altissimo pregio morale che si prestano a sfruttamenti d’ogni tipo. Per altro verso, chi tratta argomenti delicati ed importanti, e conosce il proprio mestiere, sa benissimo evitare incidenti incresciosi per tutti, ma purtroppo la cupidigia e la brama di potere non si pongono limiti. La corsa per salire sul carro vincente continua senza fine, però, nella lotta accanita attorno al possesso esclusivo della storia, da manipolare con secondi fini, la verità, “eterna fugace dal campo dei vincitori”, se ne sta lontana. A noi non resta che protestare, vanamente.
Siamo sicuri che, dopo tanti anni trascorsi in silenzio, questo nostro tambureggiare moralistico può far sorridere di compatimento i personaggi scaltri ed esperti, coloro che sono sempre pronti a tacciare gli altri di vittimismo, o vuoi anche di fissazione interpretativa, oppure d’elucubrazione delirante, di meticolosità eccessiva, d’incapacità d’afferrare le essenze più sublimi celate nell’opacità dei fatti. Sono capaci d’accusare il prossimo anche di tutto quest’insieme di cose. Noi non sappiamo però come possano smentire le nostre osservazioni.
Nel 1983, in Israele, fu prodotto un film su Villa Emma. Mio fratello ed io fummo invitati alla proiezione d’anteprima nella sala di cultura di Nonantola. Era presente un addetto dell’ambasciata d’Israele, che tradusse a viva voce il commento parlato originale. Noi eravamo tra il pubblico con le nostre famiglie, l'animo pervaso di gioia, d’orgoglio, e di ricordi. All’inizio di quel film c’è una bella foto del dottor Giuseppe Moreali accanto a don Arrigo Beccari, e fu salutata da un applauso. Vi sono anche inquadrature d’alcune persone di Nonantola che rievocano i momenti drammatici dell’aiuto agli ebrei, ed insistono sulla gran paura provata. Vi sono persino soldati tedeschi che indossano l’elmetto dell’esercito americano ed anche preti secolari definiti “padri” come i membri degli ordini religiosi. Il seminario è preso per un monastero, bench� gli ultimi benedettini se ne siano andati da cinque secoli. Ne viene fuori l’immagine molto ingenua, strana ed approssimativa, di un’Italia vecchia, falsa e stereotipa, vista come un paese lontano, d’incerta cultura e tradizione. Il film, nonostante sia fatto con molta buona volontà e sia pieno di pecche e di bizzarrie, è abbastanza interessante.
Dopo la proiezione, i presenti s’incontrarono con i promotori dello spettacolo e noi Moreali ci rivolgemmo con riguardo all’addetto dell’ambasciata d’Israele per stringergli la mano, come nostro dovere, ma lo cogliemmo di sorpresa. Al nome di Giuseppe Moreali, Giusto fra le Nazioni dei Gentili, insignito per i fatti di Villa Emma con il riconoscimento più alto istituito in Israele per onorare coloro che non sono ebrei, il povero addetto, all’oscuro del caso, annaspò, smarrito. Nascose l’imbarazzo e s’eclissò, rapido. Ci lasciò lì perplessi, a meditare sulla mortificazione.
Da qualche mese ci assicurano che il comune di Nonantola ha dedicato al nome di nostro padre una via del paese, di fianco a Villa Emma, ed anche un piccolo parco, ai piedi della Torre dei Bolognesi, vicina al vecchio ambulatorio comunale dei medici condotti. E’ un riconoscimento che onora anche tutto il paese, e noi lo possiamo considerare molto lusinghiero, ma di sicuro l’apprezzeremmo ancor di più per esserne avvertiti, con il rispetto che si deve a queste cose. Noi crediamo che qualcuno avrebbe potuto informare la persone più interessate, i figli del dottor Giuseppe Moreali. Ora, a cose fatte, in posizione ambigua, trattati come puri strumenti passivi e figli di un dio minore, “forse”, noi ci sentiamo di nuovo davanti a quell’addetto d’ambasciata, e ci dispiace.
E’ difficile trovare il vero significato di questi piccoli casi, ed è facile prevedere che da molte parti, con degnazione, ci sarà elargito il viatico di moda, secondo lo spirito spigliato del nostro tempo: “Sulle cose di scarso valore, conviene sorvolare, è molto più importante pensare alla salute". Bella, cinica, ruspante, sembra la chiosa di un ambiguo ed elegante aforisma di Voltaire: “Il primo dei doveri è l’essere giusto, il primo dei beni è la pace dei nostri cuori”. Ironia ammirevole. Pochi si giovano del vecchio adagio: “male non fare, paura non avere”.
Ora più, ora meno, sembra che la salute sia sempre in pericolo. Per quanto riguarda il rispetto della verità, persino su Internet, nel sito dello Yad Vashem, l’istituto che cura la memoria della Shoà, alla pagina su Villa Emma vi sono affermazioni strane che devono essere rettificate, soprattutto per il prestigio dell’organo responsabile nella diffusione e nella verifica dei dati trasmessi in rete. Gli ebrei di Villa Emma non erano affatto “un centinaio” ed essi non erano tutti adolescenti. In tutto, bambini, ragazzi e adulti, formavano un gruppo di settantatr� persone. Non si deve amplificare il numero dei salvati: sulla medaglia dei Giusti sta scritto che chi salva una vita salva il mondo intero. Il vero nome di don Beccari è “Ario”, senza alcuna implicazione ideologica, Arrigo è semplicemente un appellativo più popolare. Egli non insegnava nelle scuole pubbliche di Nonantola, ma insegnava nel Seminario Minore di Nonantola, un istituto d’istruzione dei chierici cattolici. Il Seminario Teologico ha sede a Modena. Don Arrigo non era il superiore del Seminario Minore, ma reggeva la chiesa di San Pietro in Rubbiara, una frazione di qualche centinaio d’anime. Il dottor Giuseppe Moreali non era medico capo, era semplicemente uno dei due medici condotti del paese (country doctor). La funzione d’ufficiale sanitario competeva a mio nonno, il dottor Lorenzo Montorsi, il più anziano dei due. La cordiale relazione con gli ebrei di Villa Emma riguardava soprattutto il medico, egli aveva frequenti occasioni di visitare gli ospiti di Villa Emma. Non è corretto adombrare lontane ipotesi d’intenzioni d’apostolato cattolico in quell’ambiente tutto ebraico, pervaso da tendenze laiciste.
Le truppe della Wehrmacht non occuparono Nonantola il giorno dell’otto settembre del 1943, perch� erano presenti in forze, in tutta l’Italia settentrionale, già da varie settimane. E’ molto dubbio che truppe delle SS fossero presenti a Nonantola in quel momento. Villa Emma è un edificio di una quarantina di stanze, e non può essere definita “appartamento”. A quei tempi il nucleo abitato del paese non si estendeva fino alla villa e vicino ad essa non c’erano truppe tedesche.
La sera dell’otto settembre del 1943, subito dopo l’annuncio dell’armistizio, io e mio fratello eravamo presenti, quando gli adulti che guidavano il gruppo di Villa Emma si rivolsero a nostro padre, chiedendo d’essere aiutati a nascondersi. Egli suggerì di rivolgersi al rettore del seminario con la mediazione di don Arrigo Beccari, di cui conosceva bene le idee ed i sentimenti. Rettore del seminario e Vicario dell’arcivescovo era monsignor Ottaviano Pellati. Data l’urgenza e la gravità delle circostanze, egli agì senza consultare il suo superiore diretto, l’arcivescovo di Modena e Nonantola. Ascoltò con calma le persone che gli esponevano il caso dei perseguitati. Portò la mano al petto, abbassò lo sguardo, chinò appena il capo. Disse: ”Vengano!” e concesse l’asilo della Chiesa. Senza commenti, mio padre evocava quell’ammirevole testimonianza di fede autentica e semplice.
Diversi anni prima, i fascisti avevano imposto di scegliere, fra alcune, una frase di Mussolini destinata a restare scritta, in evidenza, su una parete esterna del Seminario. Don Arrigo Beccari, pronto a raccogliere la sfida, col sorriso sulle labbra, aveva scelto: “Chi non è pronto a morire per la propria fede non è degno di professarla”.
Nel settembre del 1943 l’estate volgeva al termine ed occorreva affrontare la brutta stagione: gli indumenti forniti agli ebrei che si trovavano nascosti a Nonantola provenivano dal magazzino di Villa Emma, ben fornito e portato al sicuro, ed io credo che le vivande portate fuori del Seminario potessero essere a carico dalla Delasem. Occorre aver presente che i viveri erano razionati.
In quel tempo non vi fu irruzione di tedeschi in Seminario e quindi lo spergiuro del vicario monsignor Pellati non sussiste. E’ anche necessario tener presente che nel 1943 il modesto seminario abbaziale di Nonantola non era il fascinoso “monastero” benedettino del Medioevo. Il suo motto era “Humilitas”.
Don Arrigo Beccari non fu percosso dai tedeschi nel 1943, ma l’anno seguente, nel settembre del 1944, quando, in seguito ad una delazione, egli fu arrestato da miliziani fascisti assieme a don Ennio Tardini, messo in prigione e condannato a morte per fatti che non riguardano Villa Emma.
Mi rendo conto che, da anni, lo stato d’Israele deve affrontare situazioni assai più gravi ed urgenti di queste minuzie da emendare, ed oggi si trova di fronte a problemi enormi, senza alcun paragone con quanto ho appena esposto, tuttavia la memoria della Shoà deve essere tenuta viva in modo libero da errori, soprattutto nel ricordare i meriti delle brave persone che si opposero alla barbarie e che salvarono esseri umani, in pericolo di perdere la vita, a rischio della propria. Alterare la verità significherebbe anche mancare di rispetto ad uomini che si rifiutarono d’essere strumenti di un potere spietato, fondato sulla violenza e sulla menzogna. Chi ha assunto il compito di tramandare la memoria dei fatti non deve incorrere in contestazioni o smentite, se vuole evitare che la verità “s'involi in cielo”.
Nessuno ha smentito le bizzarrie, le stranezze, le invenzioni gratuite, le interpretazioni erronee, le omissioni perpetrate ai danni della corretta memoria della realtà nonantolana, di Giuseppe Moreali e di Villa Emma, e pertanto a me tocca di farlo, per non esser poi tacciato d’inettitudine, di dabbenaggine, d’eccessiva indulgenza, o d'oblio interessato, oppure d’omertà compiacente. Il mio silenzio sarebbe complice. Le distorsioni della verità che circolano ormai sono tali, e tante, che la verità storica si allontana e l’immagine del dottor Giuseppe Moreali n’esce alterata e priva del suo giusto rilievo. In sostanza, continua, a suo danno, un nefando scadere di meriti, che è molto simile alle retrocessioni inflitte per mancanza di requisiti politici ai tempi del fascismo. Fino ad oggi, però, non c’è stata alcun’altra azione coraggiosa come quella dell’avvocato Gino Friedmann, nel 1925. Nell’insieme, non può sfuggire una certa analogia con la situazione degli scampati dalla Shoà, i quali temevano la reazione di stupore e d’incredulità in coloro che ascoltavano il racconto terribile della loro sofferenza. Primo Levi ne fu travolto tragicamente. Nostro padre ha subito esperienze analoghe che furono il tormento della sua vecchiaia, tanto che giunse a desiderare la morte e l’oblio. Per la sua tomba volle soltanto una scritta che ricordasse i suoi quarant’anni di condotta medica a Nonantola, ed il suo titolo di Giusto.
Oggi le distorsioni e le speculazioni cui noi assistiamo, e l’indifferenza con cui esse sono accolte, ci fanno persino dubitare che il segno della riconoscenza d’Israele sia conseguente ad errori di valutazione e pertanto io e mio fratello Giancarlo ci chiediamo quanto sia opportuno e dignitoso sopportare l’ombra di un onore tributato per equivoco. Non vi sono enti od organismi d’alcun genere schierati a sostegno del nome di Giuseppe Moreali e della verità di fatti ormai obsoleti. Noi, figli di Giuseppe Moreali, soli quanto lui, forti soltanto della buona fede e del buon diritto, sappiamo che egli non avrebbe esitato a rifiutare onori immeritati. Egli subì ingiustizie per tutta la vita, ed ora noi non vogliamo che la sua immagine finisca schiacciata tra gli ingranaggi di meccanismi non limpidi. E’ molto meglio che egli sia dimenticato, come ha chiesto a noi prima di morire.
Ogni salvazione, ogni salvato ed ogni salvatore, ha una storia sua. Nel periodo in cui gli ebrei di Villa Emma furono salvati, il dottor Giuseppe Moreali subiva il fascismo già da vent’anni e non aveva coperture, politiche o diplomatiche, indirizzate a racimolare qualsiasi merito, in previsione dell’ormai certa sconfitta militare e di un’immancabile resa dei conti. Ritengo che, in origine, l’esodo degli ebrei da Lesno Brdo a Villa Emma potrebbe essere stato pilotato accortamente dai servizi del ministero dell’Interno, nella necessità di costituire un dossier di titoli a parziale futura discolpa di personaggi del passato regime. Nel vortice della guerra, la persecuzione e lo sterminio degli ebrei diventava un fatto vieppiù enorme e intanto la sconfitta dell’Asse si profilava sempre più certa. Nei momenti di crisi, gli ostaggi divengono preziosi e ricercati, per salvarsi la pelle. Diversi indizi fanno pensare molto, ma questa sarebbe un’altra cinica storia. Oggi è venuta fuori addirittura la notizia di un piano “umanitario” escogitato per deportare gli ebrei italiani in Abissinia, dove avrebbero potuto avere una vita più sicura e dignitosa, in cambio della colonizzazione di una plaga assai lontana, dal clima assai gradevole, si dice. I meriti virtuali hanno un peso.
Ormai la mia lettera è giunta alla fine, ma l’argomento non è esaurito. Spero vivamente che la corsa disordinata e lunga nella cronaca del piccolo lembo della provincia emiliana, dove sono nato e dove vivo, non abbia recato troppa noia, o qualche incomodo. E’ ovvio che, in fondo, le cose del mondo siano simili e ripetitive sotto tutti i cieli, però la quasi infinita varietà di combinazioni che avvengono e l’immutabilità delle leggi che le governano le fanno apparire sempre diverse ed affascinanti.
Ho cercato di “trattenere la penna”, là dove urgevano parole alquanto pesanti. Con arte sopraffina, presso molte sedi, le smentite, le messe a punto, le critiche inattese sono sempre affabilmente snobbate e definite "fuori luogo". Io sono sicuro che qualche mente superiore le trovi anche farneticanti e sgradevoli, ingiuriose, cariche di livore, come avviene quando la malafede e l’ipocrisia vengono allo scoperto. Sacri penitenzieri, compunti ed intoccabili, fattorini e maestri di pensiero, curricoli illibati, invocherebbero anche un rigoroso controllo del linguaggio, non ammettendosi la facoltà di reagire con sdegno alle provocazioni da fatti ingiusti, e sollevando scandalo l’indignazione per l’ingiustizia. Negli ambienti aurei, ove regna ogni bontà, perfezione e felicità, in luogo del parlare comune si ricorre al linguaggio più attutito, il più soffice ed il più tecnico. Di regola, si finisce nella disinformazione ma, alla fine, molta gente capisce che cosa è.
Probabilmente Lei si chiederà perch� mi sia risolto a scrivere queste nostre cose proprio a Lei.
Da qualche tempo era necessario un intervento in merito a Villa Emma e Lei mi ha dato lo spunto. Nel breve incontro a casa mia, Lei notò che non avevo avuto peli sulla lingua, e fu acuto. Io l’intesi, e questo mio scritto, tutto irto di peli, è un risultato.
La saluto molto cordialmente e la prego di gradire i miei migliori auguri per Lei, per la sua famiglia e per la sua carriera, nella ricorrenza del nostro caro San Giovanni.
Suo obbligatissimo
GIAMBATTISTA MOREALI


Dottor Giambattista Moreali - Via Piave 5 - 41015 NONANTOLA
(MO) – Telefono 059/549029