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CRONOLOGIA

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GRECIA (469 - 399 a.C.)

SOCRATE

469 a.C. - Nasce in Atene.
432-429 - Partecipa alla campagna militare di Potidea.
424 - Partecipa alla campagna militare di Delio.
422 - Partecipa alla campagna militare di Anfipoli.
406 - Si oppone all'ingiusta condanna a morte degli strateghi della battaglia delle Arginuse.
399 - Al principio dell'anno, accusato di irreligiosità e di corruzione dei giovani, è processato ed è condannato a bere la cicuta.


Atene - La prigione di Socrate (seduto l'autore di Cronologia)

Del pensiero di Socrate, il filosofo che forse ha segnato la svolta più decisiva nella storia della filosofia greca e quindi dell'intera cultura occidentale, noi non abbiamo conoscenza diretta precisa.
Egli visse in Atene dal 469 al 399 a.C. e morì in seguito a una sentenza capitale emessa nei suoi confronti.

LA VITA

Della sua vita sappiamo parecchie cose: che era sposato, che aveva dei figli e che era nato in Atene da una famiglia, diremmo oggi, di ceto medio. Suo padre, Sofonisco, era scultore e sua madre, Fenarete, era levatrice. Sappiamo che visse in semplicità, senza svolgere una determinata attività pratica, tutto preso dalla sua missione di risvegliatore di anime. Non fu un filosofo nel senso tradizionale del termine. Infatti non scrisse nulla e non diede forma sistematica al suo pensiero. Il suo filosofare nasceva dal dialogo, dal colloquio vivo e diretto con i suoi concittadini.
Socrate, non lasciò mai la sua città se non per compiere, in tre diverse occasioni, il suo dovere di soldato. Dimostrò sempre indipendenza e serena dignità di fronte al potere politico, sia all'epoca dei trenta tiranni imposti agli Ateniesi dagli Spartani, dopo la sconfitta finale di Atene nella guerra del Peloponneso, sia quando tornarono al potere i democratici nel 401. E fu proprio la restaurata democrazia a essergli fatale. Con le sue mordenti allusioni e le sue critiche ironiche Socrate mise certamente in risalto la vuotaggine, l'ignoranza, l'avidità, la disonestà di molti uomini politici.

Era certo per molti un personaggio scomodo con la sua mania di frugare nelle anime e di scoprire, al di là delle belle apparenze, i veri moventi delle azioni umane.
Nel 399 Socrate venne accusato pubblicamente dal poeta tragico Meleto, dall'uomo politico Anito e dall'oratore Licone di corrompere i giovani con i suoi discorsi e di non credere negli dei della città. Socrate avrebbe potuto salvarsi. In fondo i suoi nemici si sarebbero accontentati di una sua espulsione dalla città. Ma egli non volle piegarsi, non volle riconoscersi colpevole. La sua era stata una missione morale ed egli non poteva ripudiarla. Egli anzi - proclamò a un certo punto - aveva meritato dalla città di venire mantenuto a spese dello Stato. I giudici s'irritarono e lo condannarono a morte. Queste sarebbero state, secondo Platone, le ultime parole pronunciate da Socrate al processo: "E' ormai è tempo di andar via. E io vado a morire, voi continuerete a vivere. Chi di noi due si volga, tuttavia, verso condizione migliore, è cosa oscura a tutti, meno che a Dio".
Gli amici cercarono di farlo fuggire dalla prigione ma egli rifiutò. Era vecchio, aveva vissuto degnamente tutta la sua vita in Atene, non voleva andare peregrinando ìn terra straniera. Eppoi aveva passato tutta la vita sotto la protezione delle leggi della città. Non gli pareva bello violarle ora che si rivolgevano a suo danno. La sentenza non venne eseguita subito: per motivi religiosi l'esecuzione venne rinviata d'un mese. Socrate poté ricevere i suoi amici e riprendere i suoi dialoghi fino all'ultimo giorno.


Un ottimo testo su Socrate, è quello di WILL DURANT, nella sua "Storia della Filosofia" (New York, 1926 - Pubblicata poi in Italia dalla "Genio" con il titolo "Gli eroi del pensiero")

"Se giudichiamo dal busto rimasto tra i cimeli della scultura antica, Socrate fu tutt'altro che bello. La testa calva, con un faccione rotondo, occhi infossati e sbarrati, il naso largo e bitorzoluto - vivente testimonianza di numerosi simposii - quella testa pare più di un facchino che del filosofo famoso fra tutti. Ma se noi osserviamo a lungo quel busto, vediamo, sotto l'asprezza della pietra, qualcosa della umana grandezza e della modesta semplicità che resero questo pensatore alla buona uno dei maestri più amati dalla gioventù ateniese. Sappiamo pochissimo di lui, eppure lo conosciamo assai più intimamente dell'aristocratico Platone e del riservato e scolastico Aristotele. Dopo duemila anni vediamo ancora la sua goffa persona avvolta sempre nella stessa tunica sgualcita, passeggiar calmo per l'agora, insensibile alle chiacchiere politiche, tormentando di domande il suo paziente ascoltatore, raccogliendo attorno a sè la gioventù e le persone colte, per poi attirarle in un angolo ombroso del portico, dinanzi al tempio, e insistere perché chiariscano le loro parole.

Erano una folla multicolore tutti quei giovani che gli si serravano attorno e lo aiutavano a creare la filosofia europea. V'erano giovani facoltosi, come Platone e Alcibiade, che gustavano la sua sarcastica analisi della democrazia ateniese; v'erano socialisti, come Antistene, che amavano la noncurante povertà del maestro; v'erano persino un paio di anarchici, come Aristippo, i quali aspiravano a un mondo in cui non vi sarebbero stati né padroni ne schiavi, e tutti si fossero sentiti liberi e senza fastidi di sorta, come Socrate.
Tùtti i problemi che agitano la società umana moderna e dànno luogo alle interminabili discussioni della gioventù, animavano pure quella piccola coorte di pensatori e di conversatori, i quali sentivano, col loro
maestro, che la vita senza raziocinio sarebbe indegna dell'uomo. Ogni scuola del pensiero umano ebbe colà il proprio rappresentante e forse la propria origine.
Forse nessuno sapeva come il maestro vivesse. Non lavorava mai, né si preoccupava dell'indomani. Mangiava, quando i suoi discepoli lo pregavano di onorar la loro tavola. Essi dovevano amare assai la sua compagnia, poiché egli mostra palesi i segni della prosperità fisiologica. Non era altrettanto bene accolto in casa sua, poiché trascurava moglie e figli; dal punto di vista di Santippe, egli era un ozioso fannullone, che portava alla propria famiglia più fama che pane. Santippe amava parlare quanto il suo Socrate, e sembra che i due abbiano avuto tra loro dialoghi, che Platone dimenticò di tramandarci. Eppure anche Santippe lo amava non potè esser lieta di vederlo morire, anche se settantenne.

Ma perché i suoi alunni gli erano tanto devoti? Forse perché egli era un uomo, oltre che un filosofo; aveva salvato, in battaglia, la vita di Alcibiade, con grave rischio della propria; sapeva bere come un gentiluomo, senza timore e senza eccessi. Ma non v'è dubbio, essi amavano più di tutto in lui la modestia della sua saggezza: egli non pretendeva di esser saggio, ma di cercar la saggezza con amore; egli era un dilettante della saggezza, non un professionista di essa. Si disse che l'oracolo di Delfo, con un buon senso non comune, lo avesse proclamato il più saggio dei Greci; ed egli aveva interpretato questo responso dell'oracolo come approvazione dell'agnosticismo, che fu il punto di partenza della sua filosofia: «So una cosa sola, e cioè che non so nulla».
La filosofia incomincia là dove s'impara a dubitare - specialmente a dubitare delle proprie credenze più inconcusse, de' propri dogmi e dei propri assiomi. Chi sa come queste credenze divennero certezza in noi, se non le creò furtivamente qualche recondito desiderio, dando a se stesso la veste del pensiero! Non esiste vera filosofia, fin che la mente non si volge attorno ad esaminare se stessa. Gnothi seauton, diceva Socrate: «conosci te stesso».

Naturalmente, v'erano stati altri filosofi prima di lui; uomini forti come Talete ed Eraclito, ingegnosi come Parmenide e Zenone ed Elea, profeti come Pitagora ed Empedocle; ma, per la maggior parte, erano stati dei filosofi fisici: essi avevano ricercato la phisis, o natura delle cose esterne, le leggi e la sostanza del mondo materiale e mensurabile. Sta bene - diceva Socrate ma c'è un soggetto assai più degno per i filosofi, di tutti i vostri alberi e le vostre pietre e persino delle vostre stelle; c'è la mente umana. Che cos'è l'uomo e che cosa può egli divenire?
Così egli continuò a scrutare l'anima umana, facendo ipotesi e discutendo certezze. Se l'uomo parla troppo facilmente di giustizia, egli osserva calmo, to tí? - che cosa vuol dire? Che cosa volete dire con le vostre parole astratte, che tanto facilmente vi servono a risolvere i problemi della vita e della morte? Che cosa intendete per onore, virtù, morale, patriottismo? E che cosa vedete in voi stessi?
Questi erano i problemi morali e psicologici che Socrate preferiva discutere. Qualcuno che non sopportava questo «metodo socratico», e non voleva saperne di definizioni precise, di concetti chiari e di analisi esatte, osservava che egli domandava più di quel che non rispondesse e lasciava la mente umana più confusa di prima. Ad ogni modo, egli lasciò alla filosofia due risposte ben definite a due dei nostri problemi più difficili: Qual è il concetto della virtù? E qual è lo stato migliore?

Non vi erano argomenti più vitali di questi per la gioventù ateniese di quella generazione. I Sofisti avevano distrutto la fede di quei giovani negli dèi e nelle dee dell'Olimpo, e nel codice morale, sanzionato dal timore degli uomini per quelle innumerevoli deità onnipresenti: non c'era alcuna ragione apparente per cui un uomo potesse agire come voleva, fin che si mantenesse nei limiti stabiliti dalle leggi. Un individualismo disgregatore aveva svigorito il carattere ateniese e lasciato infine la città in preda agli Spartani, educati severamente. E quanto allo Stato, che cosa poteva esservi di più ridicolo di quella democrazia retta dalla folla sotto l'impero della passione, di quel governo dominato da una società agitata da continue discussioni, di quei sommari procedimenti con cui i condottieri venivano eletti, licenziati e giustiziati? Di quel superficiale avvicendamento alfabetico di semplici contadini e mercanti nella suprema corte dello Stato? Come poteva svilupparsi in Atene una nuova morale secondo natura, e in qual modo si poteva salvare lo Stato?
Le due risposte a queste domande diedero appunto a Socrate la morte e l'immortalità. Gli anziani lo avrebbero onorato, se avesse tentato di restaurare l'antica fede politeista; se avesse condotto il suo seguito di anime libere ai templi e ai boschetti sacri e le avesse indotte a offrir ancora sacrifici agli dèi de' loro padri.
Ma egli sapeva che quella era una politica senza scopo e suicida, un regresso, invece di un progresso, verso e non «oltre le tombe». Aveva la propria fede religiosa, credeva in un Dio solo e sperava, nel suo modesto modo di vedere, che la morte non distruggesse completamente il suo essere; ma sentiva che un codice morale duraturo non poteva basarsi su una teologia tanto incerta. Se si era capaci di erigere un sistema morale assolutamente indipendente dalle dottrine religiose, che potesse valere tanto per l'ateo che per il teista, le diverse teologie potevano avvicendarsi senza disgregare quel cemento morale, il quale fa di individui voltivi, cittadini pacifici di una comunità.

Se, per esempo, buono voleva dire intelligente, e virtù significava saggezza; se si poteva insegnare agli uomini a vedere chiaramente i propri interessi, a prevedere da lontano i risultati delle proprie azioni, a criticare e coordinare i propri desideri, sottraendoli ad un caos annientatore, per disporli in un ordine armonico, fattivo e creatore - tutto questo, forse, avrebbe dato all'uomo coltivato e lontano dallo stato di natura quella morale che per l'ignorante si basa su precetti consueti e sul controllo esteriore. Forse ogni colpa è errore, visione parziale, assurdità? L'uomo intelligente può avere i medesimi impulsi violenti e antisociali come l'ignorante, ma senza dubbio avrà un maggior controllo e meno spesso correrà il rischio d'imitare la bestia. E in una società governata con intelligenza - la quale rendesse all'individuo, in ampiezza di poteri, più di quello ch'essa gli togliesse in libertà limitata - il benessere del singolo individuo dipenderebbe da un retto regime sociale, e sarebbe solo necessaria una chiara visione delle cose per assicurar la pace, l'ordine e la buona volontà.

Ma' se il governo è di per se stesso un caos e un'assurdità, se ordina senza aiutare e comanda senza guidare, com'è possibile persuadere un individuo, in un simile reggimento, a obbedire alle leggi e confinare il proprio egoismo entro la cerchia del bene comune? Non c'è da meravigliarsi se un Alcibiade si erge contro uno Stato che non ha fiducia nel valore dei cittadini e onora il numero più della sapienza. Nessuna meraviglia che esista il caos dove non esiste il pensiero, e che la folla decida precipitosamente e senza discernimento, per pentirsi poi delle proprie decisioni e desolarsene.

Non è volgare superstizione credere che nel mero numero sia la saggezza? Non è, invece, universalmente accertato che le folle sono più sciocche, più violente e più crudeli degli individui presi separatamente? Non è una vergogna che gli uomini debbano essere governati da retori, i quali «continuano le loro lunghe arringhe, come pentole di rame che, appena percosse, seguitano a risuonare, fin che una mano vi si posi sopra?" (Platone, Protagora, par.329).
Certamente, governare uno Stato è cosa a cui l'intelligenza umana non basta mai e per la quale è necessario il libero contributo delle menti più sottili. Come può una società salvarsi ed esser forte, se non è retta dagli uomini più saggi?
Immaginate la reazione del partito popolare di Atene a questo vangelo aristocratico, in un tempo in cui la guerra pareva esigere che ogni critica tacesse, mentre la minoranza benestante e colta stava preparando una rivoluzione. Immaginate che cosa ne pensasse Anito, il capo democratico, il cui figlio si era fatto alunno di Socrate, ribellandosi agli dèi di suo padre e dileggiando il padre stesso. Non aveva Aristofane predetto proprio questo riubltato dalla speciosa sostituzione di un'intelligenza antisociale alle antiche virtù? (Nelle Nuvole (423 av. Cr.) Aristofane aveva satireggiato Socrate e la sua «Bottega del pensiero», dove s'imparava l'arte di provare il proprio diritto, quantunque sbagliato. Fidippide batte suo padre, adducendo la ragione che il padre batte lui ed ogni debito va pagato. La satira dev'essere stata però abbastanza benevola, se troviamo spesso Aristofane in compagnia di Socrate. Essi eran d'accordo nel disprezzare la democrazia; e Platone raccomandò le Nuvole a Dionisio. Quando la commedia fu rappresentata, ventiquattr'anni prima della condanna di Socrate, non poteva aver avuto gran parte nel tragico dénouement della vita del filosofo).

Poi venne la rivoluzione e gli uomini combatterono per essa o contro di essa, strenuamente, fino alla morte. Quando la democrazia vinse, il fato di Socrate fu deciso: egli era il capo spirituale del partito ribelle, quantunque fosse stato personalmente pacifico; era la fonte dell'odiata filosofia aristocratica, il corruttore dei giovani, ebbri di diatribe. Come dicevano Anito e Mileto, era meglio che Socrate morisse.
Il mondo sa il resto della storia, poiché Platone la scrisse in una prosa più bella della poesia. Noi abbiamo la fortuna di poter leggere per nostro conto quella semplice e coraggiosa, se non leggendaria «apologia», o difesa, in cui il primo martire della filosofia proclamò i diritti e la necessità del libero pensiero, sostenne il valore di esso nei confronti dello Stato e non volle chieder grazia a una folla che aveva sempre disprezzato. La folla aveva pieni poteri di perdonargli; egli disdegnò di appellarsi ad essa. Fu una singolare conferma delle sue teorie il fatto che i giudici desiderassero di metterlo in libertà, mentre la folla sdegnata votò la sua morte. Non aveva egli rinnegato gli dèi? Guai a chi insegna agli uomini più di quanto essi possano imparare!

Così fu decretato ch'egli dovesse bere la cicuta. I suoi amici andarono a trovarlo in prigione e gli offrirono il mezzo di salvarsi: facilmente essi avevano corrotto tutti gli ufficiali che si interponevano tra lui e la libertà. Egli rifiutò. Aveva settant'anni (399 av. Cr.); forse pensò ch'era giunta la sua ora di morire e che mai avrebbe potuto morire si utilmente. «Fatevi coraggio -egli disse agli amici addolorati - e pensate che seppellite soltanto il mio corpo». «Appena pronunziate queste parole - dice Platone in una delle più grandi pagine della letteratura mondiale (Fedone, par. 116-118,) egli si alzò ed entrò nel bagno con Critone, che ci «ordinò di aspettare; e noi aspettammo, parlando... della immensità del nostro dolore; egli era per noi come un padre, di cui venivamo orbati, ed eravamo sul punto di passare il resto dei nostri giorni come orfani... Era prossima l'ora del tramonto, e molto tempo era già trascorso da quando egli era entrato nel bagno. Quando ne uscì, si sedette tra noi... ma non parlò molto. Subito dopo, il carceriere... entrò, si fermò accanto a lui, e gli disse : - A te, Socrate, che so essere l'uomo più nobile, più gentile e migliore di tutti coloro che mai passarono da questo luogo, non voglio imputare gli irati sentimenti di altri, che s'infuriano e mi coprono d'improperi, quando io, obbedendo alle autorità, li costringo a bere il veleno: sono anzi certo che non me ne vorrai; altri sono i colpevoli della tua morte, non io, come tu ben sai. Addio, dunque, e cerca di sopportare serenamente ciò che deve essere; tu conosci il dovere mio. - Scoppiò in lacrime, si volse ed uscì.
Socrate lo guardò e disse: - Ti ricambio l'augurio e farò quel che tu comandi. - Poi, voltandosi a noi, seguitò: Quant'è simpatico quell'uomo! Dacchè sono in prigione, è venuto a trovarmi sempre, ed ora guardate con quanta umanità e gentilezza egli soffre per me. Ma noi, Critone, dobbiamo fare ciò ch'egli dice: fammi portare la coppa, se il veleno è pronto; se non fosse pronto, prega il servo di prepararlo. - E Critone: -- Eppure il sole è ancora sulla cima dei colli, e molti han bevuto il veleno a tarda ora; e dopo che fu loro dato l'annuncio di morte, han goduto i piaceri del senso: non aver fretta, dunque, c'è tempo ancora.

Socrate replicò: - Si, Critone, e coloro che hanno fatto così, hanno avuto ragione, poichè hanno pensato di trarre vantaggio dalla dilazione; io, però, ho ragione di non fare lo stesso, poichè credo di non guadagnarci nulla bevendo il veleno un po' più tardi; prolungherei una vita che non conta più nulla per me; non potrei che ridere di me stesso. Ti prego, dunque, di fare quello che ti ho detto e di non rifiutarmi questo favore. -
A queste parole, Critone fece un segno al servo; questi uscì per qualche tempo e ritornò col carceriere, che portava la coppa di veleno. Socrate disse : - Tu, mio buon amico, che sei pratico di queste cose, mi dirai come devo fare. - L'uomo rispose: - Dopo bevuto, bisogna camminare finchè le gambe si fanno pesanti, poi coricarsi, e il veleno agirà. - Così dicendo, egli porse la coppa a Socrate, il quale la prese con la maggiore semplicità, e senza minimamente cambiar di colore o alterare i propri lineamenti, guardando il carceriere diritto negli occhi, com'era suo costume, disse : - Che cosa diresti se libassi da questa coppa a un dio qualunque? Posso farlo o no? - L'uomo rispose : - Ne prepariamo, Socrate, appena quanto crediamo necessario al suo effetto. - Ho capito - egli disse - eppure debbo pregare gli dèi che mi concedano un buon viaggio da questo all'altro mondo. Mi sia, dunque, concessa questa preghiera. - Poi, portò la coppa alle labbra e serenamente, senza esitare, bevve il veleno.

Fino allora molti di noi avevano dominato il proprio dolore, ma quando lo vedemmo bere e ci accorgemmo, poi, che aveva bevuto il veleno fino all'ultima goccia, non potemmo resistere più a lungo; io stesso piangevo a calde lacrime, mio malgrado; mi coprii la faccia e piansi per me stesso, ché certo, io non piangevo per lui, ma al pensiero della mia disgrazia, per aver perduto un simile amico. E nemmeno fui io il primo, che Critone stesso, incapace di dominarsi, si era alzato e se ne era andato. Io lo seguii. Allora Apollodoro, che aveva lagrimato fino a quel momento, scoppiò in un grido, che ci avvilì. Socrate solo mantenne la sua calma: -- Che cos'è questo grido? - egli chiese. - Mandai via le donne, perchè non disturbassero così: ho sentito dire che un uomo dovrebbe morire in pace. State, dunque, tranquilli e abbiate pazienza. - A queste parole noi ci vergognammo e cessammo di piangere; egli continuò a camminare finchè le sue gambe cominciarono a mancargli, com'egli disse; allora si coricò supino, secondo quanto gli avevano suggerito.
Colui che gli aveva pòrto il veleno gli guardava ora i piedi, ora le gambe; dopo qualche minuto, gli premette forte un piede, chiedendogli se sentisse dolore, e Socrate rispose: - No. - Poi l'altro premette la gamba, e sempre più su, facendoci sentire che era fredda e irrigidita. Socrate si toccò e disse: - Quando il veleno arriverà al cuore, sarà finita. - Egli cominciava già a sentire il gelo della morte all'inguine, quando si scoprì la faccia (che aveva coperto) e disse: e queste furono le sue ultime parole: - Critone, guarda che son debitore di un gallo ad Esculapio; ti ricorderai di pagare questo mio debito? - Il debito sarà pagato -rispose Critone; - hai altro da dirmi? - La risposta non venne; ma due minuti dopo si notò sotto il lenzuolo un lieve tremito; il servo lo scopri: aveva gli occhi fissi; Critone gli chiuse gli occhi e la bocca.
Così finì l'amico nostro, che posso proprio chiamare il più savio, giusto e buono fra quante umane creature io abbia mai conosciuto".

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