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CRONOLOGIA

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GRECIA (427- 347 a.C.)

PLATONE
(seconda parte)


LA SOLUZIONE POLITICA

Automaticamente, senza ipocrisia di votazioni. La democrazia significa una perfetta uguaglianza di possibilità, soprattutto per quanto concerne l'istruzione, e non la rotazione di un Tom, di un Guglielmo o di un Enrico qualunque nei pubblici uffici. Ogni uomo deve avere un'uguale possiblità di rendersi idoneo ai complessi doveri dell'amministrazione; ma soltanto coloro che hanno provato il proprio spirito (o, nella nostra favola, il proprio metallo), e sono emersi da tutte le prove col segno dell'idoneità, saranno eleggibili a governare. Gli ufficiali pubblici non verranno eletti per votazione nè combriccole segrete, che tirano i fili delle finalità democratiche, ma secondo il proprio valore, dimostrato nella democrazia fondamentale di una razza capace. E nemmeno sarà possibile tenere un ufficio senza una preparazione tecnica, ne coprire un'alta carica senza aver prima occupato con onore una carica secondaria (Gorgia, 514-5).

Questa è aristocrazia? Ecco, non dobbiamo spaventarci del nome, se la realtà - che essa definisce - è buona; le parole sono gli strumenti degli uomini saggi, e non hanno valore proprio; sono la moneta degli stupidi e dei politicanti soltanto. Vogliamo esser governati dai migliori, ecco che cosa significa aristocrazia; non abbiamo forse anelato e supplicato, come Carlyle, di esser governati dai migliori?

Ma noi siamo giunti a credere ereditarie le aristocrazie: orbene, mettetevi in mente che questa aristocrazia platonica non è di quella specie; si potrebbe quasi chiamare un'aristocrazia democratica. Giacché gli uomini, invece di eleggere ciecamente il minore dei due mali, presentati loro come candidati da comitati elettorali, saranno essi stessi, singolarmente, i candidati; ed avranno un'uguale probabilità di successo in questa elezione degli uomini colti agli uffici pubblici. Qui non esistono caste, ne posizioni o privilegi ereditari, nè impedimenti all'intelligenza dei poveri; il figlio del governante incomincia allo stesso livello e riceve lo stesso trattamento e approfitta ugualmente dell'occasione offertagli, come il figlio del lustrascarpe: se i1 primo è uno stupido, cade alla prima prova; se il secondo è intelligente, gli si apre dinnanzi la strada per giungere al governo dello Stato" (423).

"Una via sarà sempre aperta a qualunque intelligenza, non importa ov'essa sia nata. Ecco la democrazia della scuola, centomila volte più onesta e più efficace di quella delle votazioni.
Così, «trascurando ogni altro interesse, i governanti si dedicheranno totalmente alla conservazione della pace nello Stato, facendo di questo scopo il proprio dovere e non intraprendendo nulla che non sia consono a questo fine » (395).

" Essi saranno insieme il potere legislativo, l'esecutivo e il giudiziario; neanche le leggi potranno legarli a un dogma, di fronte a circostanze mutate; il governo di questi eletti sarà un'intelligenza duttile non soggetta ad alcun precedente.
Ma come può avere un'intelligenza duttile un uomo di cinquant'anni? Non sarà egli mentalmente fossilizzato dalla routine? Adeimante (rammentando certo qualche calda discussione fraterna in casa di Platone) osserva che i filosofi sono stupidi o furfanti, i quali regnerebbero scioccamente o egoisticamente, oppure in ambedue i modi. « I cultori « della filosofia, che ne continuano lo studio, non solo in gioventù come mezzo di cultura, ma come occupazione della loro età matura - diventano, nella maggior parte de' casi, esseri strani, per non dire dei «perfetti furfanti"; e nel miglior dei casi, esseri inutili al mondo, proprio «per effetto di quello studio che tu vanti» (478).

Ecco una rappresentazione abbastanza chiara di qualche occhialuto filosofo moderno; ma Platone osserva che ha evitato questo pericolo, dando ai suoi filosofi la pratica della vita insieme all'erudizione della scuola; ch'essi saranno, dunque, più uomini d'azione che esclusivi uomini di pensiero - esseri fatti maturi ai sommi doveri e di nobile tempra da una lunga esperienza e dal cimento. Per filosofia, Platone intende una cultura attiva, la saggezza che s'unisce al concreto fervore della vita; per filosofo non intende un metafisico isolato dal mondo e malpratico; Platone «è l'uomo che meno assomiglia a Kant, la qualcosa è (con ogni rispetto) un gran merito» (Faguet, pag 10).
Questo per ciò che riguarda l'incompetenza; per la disonestà possiamo provvedere inaugurando tra i reggitori un sistema di comunismo.

« In primo luogo, nessuno di essi dovrebbe posseder nulla all'infuori dello strettamente necessario; ne dovrebbe avere una casa privata munita di cancelli e chiavistelli, chiusa a chi volesse entrarvi; i loro viveri dovrebbero esser soltanto quelli concessi ai bravi soldati (che sono « uomini temprati e coraggiosi"); dai cittadini riceveranno, per contratto, uno stipendio fisso, sufficiente a provvedere alle spese di un anno e non più; mangerebbero in comune e vivrebbero assieme, come soldati dal campo. Diremo loro che Dio li ha fatti d'oro e d'argento; il metallo più nobile è dentro di essi e, perciò, non han bisogno dei rozzi beni terreni, conosciuti col nome di oro; che non debbono insudiciare il divino metallo interno mescolandolo al metallo terreno, giacché questo è il più vile ed è stato la fonte di molte azioni indegne; solo quello che è dentro di essi è puro. Ed essi, soli, tra tutti i cittadini, non possono sprecare nè argento, nè oro, nè vivere con oro e argento sotto lo stessso tetto, nè indossarli o libare da essi. Questa sarà la loro salvezza e la salvezza dello Stato. Se dovessero mai possedere case, o terre, o danaro proprio, -diventerebbero direttori di aziende o agricoltori, invece di custodi della cosa pubblica; nemici e tiranni, invece che alleati degli altri cittadini; odierebbero e sarebbero odiati; congiurerebbero e sarebbero vittime di congiure; trascorrerebbero la loro vita avendo più terrore dei nemici intimi che degli esterni, e l'ora della rovina loro e di tutto lo Stato sarebbe prossima » (416-17).

Questo sistema renderebbe inutile, se non pericoloso ai reggitori governare come una cricca che cerchi il bene della propria classe, piuttosto che quello di tutta la comunità. Essi saranno immuni dal bisogno; il necessario ai modesti agi di una nobile esistenza sarà lororegolarmente assicurata, senza le cure assillanti e astidiose imposta dalle esigenze economiche della vita. Ma, per la stessa ragione, esssi resteranno inaccessibili alla cupidigia e alle sordide ambizioni; avranno sempre il puro necessario dei beni del mondo, e non più; saranno come medici che stabiliscono ed accettano essi stessi un regime dietetico per la nazione. Mangeranno insieme, come uomini consacrati; dormiranno insieme ciascuno sotto la propria tenda, come soldati giurati alla semplicità.

«Gli amici devono avere ogni cosa in comune» - come Pitagora soleva dire (Leggi, 807). Così l'autorità dei reggitori sarà sterilizzata e il loro potere reso innocuo; la loro unica ricompensa sarà l'onore e la coscienza di servire la comunità. Ed essi saranno tali, perché sin dall'inizio avranno acconsentito ad una carriera materialmente tanto limitata; saranno tali, perché alla fine del loro strenuo tirocinio avranno imparato a valutare l'alta reputazione dell'uomo di Stato più dei lauti emolumenti dei politicanti in cerca d'impieghi o dell'« uomo economico ». Al loro avvento, le battaglie politiche dei partiti cesseranno.
Ma che cosa diranno le loro mogli di tutto questo? Saranno esse contente di rinunciare alla vita lussuosa e ad un cospicuo consumo di beni? I reggitori non avranno moglie. Vivranno in regime comunista di donne, come di beni. Essi debbono essere liberati non solo dai propri egoismi, ma anche dall'egoismo della famiglia; non debbono esser costretti all'ansiosa cupidigia di mariti stimolati; essi non debbono essere devoti a una donna, ma alla comunità. Persino i loro figli non saranno specificatamente e distintamente i loro, tutti i figli dei reggitori verranno tolti alle madri al momento della nascita ed allevati in comune; la loro paterntà andrà perduta nella ressa (60). Tutte le madri dei reggitori avranno cura di essi; la fraternità umana, entro questi limiti, non sarà più una frase, ma un fatto; ogni ragazzo sarà fratello di ogni altro ragaJzo, ogni fanciulla una sorella, ogni uomo un padre ed ogni donna un madre.

Ma d'onde verranno tutte queste donne? I reggitorne cercheranno, senza dubbio, qualcuna nelle classi industriali e militari, qualche altra diverrà di diritto membro della classe dei reggitori. Non esisterà, infatti, nessuna carriera di sesso in questa comunità, e meno che mai nella cultura. La giovinetta avrà le stesse possibilità intellettuali del ragazzo, la stessa probabilità di ascendere alle più alte cariche dello Stato.

Quando Glauco osserva (453 e s.) che questa ammissione della donna a qualsiasi ufficio - purché abbia superato le prove - viola il principio della divisione del lavoro, viene acutamente risposto che la divisione del lavoro deve avvenire secondo le attitudini e le abilità, non secondo il sesso. Se la donna si dimostra capace di amministrare la cosa pubblica, lasciatela governare; se un uomo si dimostra capace soltanto di lavare i piatti, lasciate che egli adempia l'ufficio che la Provvidenza gli ha assegnato.
La donna in comune non significa unione indistinta; si avrà, invece, una vigilanza eugenica su tutte le relazioni riproduttive. Il principio che regge la riproduzione degli animali assume qui la sua importanza se ottniamo splendidi risultati, curando la riproduzione del bestiame, selezionando le razze migliori, e prendendo i migliori esemplari d'ogni razza, perchè non dovremmo applicare i medesimi principi alla riproduzione del genere umano? (459).

Non basta educar bene il bambino; egli dev'essere concepito bene, da genitori scelti sani; «la puericultura dovrebbe incominciare prima della nascita » (Leggi, 789). Perciò nessun uomo e nessuna donna debbono procreare se non in perfetta salute; sposo e sposa dovranno presentare ,il proprio certifica1Q-di-buona costituzione= sica (Leggi, 772). Gli uomini procreeranno soltanto quando avranno raggiunto il trentesimo anno e non dopo il quarantacinquesimo; le donne, già ventenni, e non dopo i quarant'anni. Gli uomini che non avranno ancora sposato a trentacinque anni, ne scapiteranno in felicità (Leggi, 771). I procreati da unioni licenziose, o i deformi, verranno abbandonati e lasciati morire. Prima e dopo l'età stabilita per la procreazione, il connubio sarà libero, a condizione che la creatura venga fatta abortire.
Concediamo questo permesso, con l'ordine perentorio agli interessati di far tutto il possibile per evitare che qualsiasi embrione veda la luce; e se qualcuno trovasse mai la via del mondo, essi debbono capire che la creatura nata da un simile connubio non può essere mantenuta in vita e debbon provvedere in conseguenza» (461). È proibito il matrimonio tra consanguinei, come causa di degenerazione (310).

«Gli esemplari migliori dei due sessi dovrebbero unirsi tra loro il più spesso possibile, così gli inferiori tra loro; e ciascuno deve allevare le proprie creature, e non quelle degli altri; chè questo è l'unico modo per mantenere la prole in buone condizioni. I nostri giovani più forti e migliori, oltre agli altri onori e compensi loro concessi, dovrebbero avere anche quello di un maggior numero di connubi; poichè questi padri dovrebbero avere il maggior numero possibile di figli » (459-60).

Ma la nostra società eugenica dev'essere protetta non solo dalle malattie e dalla decadenza fisica, ma anche dai nemici esterni. Essa deve essere pronta, se necessario, a muovere in guerra vittoriosa. La nostra comunità modello sarebbe, naturalmente, pacifica, poichè manterrebbe la popolazione nei limiti consentiti dai mezzi di sussistenza; ma gli stati limitrofi, non costituiti allo stesso modo, considererebbero la disciplinata prosperità della nostra Utopia come un invito a incursioni e rapine. Quindi, pur deplorando questa necessità, saremo costretti ad avere, nella nostra crasse media, un numero sufficiente di soldati ben istruiti, che vivano una vita semplice come i reggitori, consumando il puro necessario, concesso loro dai « mantenitori e antenati », cioè dal popolo. Nello stesso tempo, sarà obbligatorio evitare ogni causa di guerra. La causa prima è l'eccesso di popolazione (373); la seconda è il commercio estero, con le sue inevitabili dispute che lo ostacolano. Infatti, il commercio in concorrenza è una forma di guerra; «pace è soltanto una parola» (Leggi, 622).

Sarà bene, dunque, situare il nostro Stato ideale verso l'interno, in modo che esso debba essere escluso da ogni rapido sviluppo di scambi con l'estero. «Il mare colma un paese di mercanzie, di danaro e di traffici, alimenta nella mente umana abitudini di avidità economica e di slealtà, tanto nelle relazioni interne come nelle esterne» (Leggi, 704-7).
Il commercio estero richiede una flotta numerosa per la sua protezione; e il navalismo è altrettanto nocivo del militarismo. «In ogni caso poche persone son causa di guerra, e la maggior parte degli uomini sono solidali tra loro» (47I).

Il maggior numero di guerre è costituito dalle più indegne - le guerre civili, tra Greci e Greci; che i Greci formino una lega della nazione panellenica, unendosi tra loro, per impedire che «tutta la razza greca cada un giorno sotto il giogo di popoli barbari » (469).

La nostra struttura politica avrà così ai suoi fastigi un'esigua classe di reggitori, protetta da un gran numero di soldati e « ausiliari », e poggerà sulla solida base d'una popolazione commerciale, industriale e agricola. Quest'ultimo ceto o classe economica conserverà la proprietà privata, ed avrà matrimoni e famiglie private. Ma al commercio e all'industria darà norme lo Stato, per evitare un'eccessiva ricchezza o povertà personali: chiunque diventi possessore di una fortuna quattro volte maggiore della media fortuna degli altri cittadini, deve rinunciare all'eccedenza a favore dello Stato (Leggi, 920).

Il comunismo dei reggitori non é applicabile alla classe economica; il carattere che distingue quest'ultima e un potente istinto di conquista e competizione; qualche anima nobile sarà esente da questa febbre di possesso e di lotta, ma la maggior parte degli uomini ne è conquisa; essi hanno fame e sete non di integrità, nè di onore, ma di ricchezze moltiplicate all'infinito. Orbene, coloro che si dànno interamente alla conquista del danaro non sono adatti a reggere uno Stato; e tutto il nostro piano riposa sulla speranza che, se i reggitori governano bene e vivono semplicemente, l'uomo economico sarà ben contento di lasciar loro il monopolio dell'amministrazione, essendo sicuro d'avere esso in mano il monopolio della ricchezza. Insomma, la società perfetta dovrebbe esser quella in cui ogni classe ed ogni unità accudisse al lavoro cui natura e attitudini l'hanno chiamata; in cui nessuna classe e nessun individuo venisse in conflitto con le altre, ma tutti cooperassero a proprio modo per produrre un benessere efficiente ed armonico (433-4). Ecco lo Stato ideale.

LA SOLUZIONE ETICA

Ed ora la nostra digressione politica è finita, e possiamo finalmente rispondere alla domanda iniziale:
c he cosa è la giustizia? Esistono soltanto tre cose degne in questo mondo: - giustizia, bellezza e verità; e forse nessuna delle tre può essere definita. Quattrocento anni dopo Platone, un procuratore romano di Giudea domandò, sconfortato: «Che cos'è la verità?». E i filosofi non hanno ancora risposto, nè ci hanno detto che cosa sia la bellezza. Ma per la giustizia, Platone tenta di dare una definizione. Egli dice: «Giustizia vuol dire avere e fare ciò che si può» (433).

Questa risposta non ci soddisfa: dopo tanto lunga attesa, ci saremmo aspettati una risposta infallibile. Che cosa significa una tale definizione? Semplicemente questo: che ognuno riceverà l'equivalente di ciò che produce, e adempirà alle funzioni i cui e capace. uomo giusto e quello che occupa il posto adatto per lui, che fa del suo meglio e dà l'equivalente perfetto di ciò che riceve. Una società di uomini giusti sarebbe, perciò, una comunità di uomini sommamente armonica ed efficiente; ogni elemento occuperebbe il proprio posto e adempirebbe alla propria funzione, come ogni strumento in un'orchestra perfetta. La giustizia, in una società, sarebbe come quell'armonia di relazioni, per cui i pianeti seguono il proprio movimento con ordine (il loro moto musicale, come direbbe Pitagora). Organizzata così, una società può sopravvivere; e la giustizia vi riceve una specie di sanzione darwiniana. Là dove gli uomini non occupano il loro posto naturale, dove l'affarista soggioga l'uomo di Stato, oppure il soldato usurpa il trono - là è distrutta la coordinazione delle parti, l'unione si disgrega, la società si disgrega e si dissolve. Giustizia è coordinazione effettiva.

Ed anche nell'individuo la giustizia è coordinazione effettiva, funzionamento armonico de' vari elementi nell'uomo, che occupano ciascuno il proprio posto e dànno un contributo cooperativo alla sua condotta. Ogni individuo è un cosmos e un caos di desideri, emozioni e idee; se questi sono coordinati armoniosamente, l'individuo sopravvive e fa buona riuscita; se essi perdono il proprio posto e la propria funzione, se l'emozione vuol diventare la luce dell'azione e il suo calore (come nel fanatico), oppure se il pensiero diventa esso il fuoco dell'azione e la sua luce (come nell'intellettuale) - e incomincia la disintegrazione della personalità, la decadenza s'avanza inevitabile come la notte. La giustizia è taxis kai kosmos - ordine e bellezza -- delle parti dell'anima; essa è per l'anima ciò che la salute è per il corpo. Ogni male è disarmonia: tra uomo e natura, oppure tra uomo e uomo, o tra l'uomo e se stesso.

Così Platone risponde a Trasimaco, a Callicle e a tutti i futuri seguaci di Nietzsche: la giustizia non è soltanto forza, ma forza armonica. Essa è rappresentata dai desideri e dagli uomini devoti a un ordine che costituisce l'intelligenza e l'organizzazione; giustizia non è diritto del più forte, ma l'effettiva armonia del tutto. E' vero che l'individuo, il quale abbandona il posto a cui la natura e le sue stesse attitudini lo designarono, può per un certo tempo averne profitto e vantaggio; ma una nemesi inesorabile lo perseguita, come disse Anassagora delle Furie, che inseguono ogni pianta quando esca dalla propria orbita; il terribile randello della natura e delle cose respinge lo strumento refrattario al suo posto, alla sua condizione e alla sua nota naturale. Il Tenente còrso può tentar di governare l'Europa con un dispotismo protocollare, più adatto ad un'antica monarchia che ad una dinastia sorta improvvisamente; ma egli finisce in prigionia su una roccia in mezzo al mare, riconoscendo tristemente di essere «uno schiavo della natura delle cose». L'ingiustizia suol palesarsi.

Nulla di nuovo, nè di strano in questa concezione. E, invero, dovremmo sospettare, in filosofia, di ogni dottrina che si vanta di novità. La verità cambia le sue vesti frequentemente (come ogni bella signora), ma sotto i nuovi abiti, essa rimane sempre la stessa. In morale, non dobbiamo attenderci novità strabilianti: nonostante le interessanti avventure dei sofisti e dei nietzschiani, tutte le concezioni morali si aggirano sul bene della generalità. La moralità comincia dall'associazione, dall'interdipendenza e dall'organizzazione; la vita in società impone la rinunzia di qualche parte della libertà individuale all'ordine collettivo; e finalmente la norma di condotta individuale si risolve nel benessere del gruppo. La natura vuole così e la sua sentenza e sempre decisiva; un gruppo sopravvive nella competizione o nel conflitto con un altro gruppo, secondo la sua coesione e potenza, secondo l'attitudine de' suoi membri a cooperare ai fini comuni. E quale miglior cooperazione di quella per cui ognuno fa ciò che può far meglio? Questo il fine dell'organizzazione, a cui ogni società deve mirare, se vuole aver vita. Moralità - dice Gesù - è amore verso il debole; moralità - dice Nietzsche - è il coraggio del forte; moralità - dice Platone - è l'effettiva armonia del tutto.
Probabilmente queste dottrine debbono combinarsi per dar luogo ad un'etica perfetta; ma possiamo noi sapere quale di questi tre elementi è fondamentale?

CRITICA
(di Vill Durant)

Ed ora, che cosa dobbiamo dire di questa perfetta Utopia? E' essa realizzabile? E se non lo é, ha essa un aspetto pratico che possa servire alle necessità dei nostri tempi? Si é mai realizzata in qualche luogo o in qualche misura?
Almeno all'ultima domanda si può rispondere in favore di Platone. Per mille anni l'Europa fu governata da un ordine di reggitori assai simili a quelli presagiti dal nostro Filosofo.
Durante il Medioevo si usava classificare la popolazione della cristianità in laboratores (lavoratori), bellatores (soldati) e oratores (clero). L'ultimo gruppo, sebbene esiguo di numero, monopolizzava gli strumenti e le possibilità della cultura, e dominava con poteri quasi illimitati su metà del più potente continente del globo. Il clero, come i reggitori di Platone, era elevato al potere non per suffragio popolare, ma per le sue attitudini, come si dimostra negli studi e nell'amministrazione della Chiesa; per le sue tendenze ad una vita di meditazione e di austerità, e (si potrebbe aggiungere) per l'influenza delle famiglie sui poteri dello Stato e della Chiesa.

Nella seconda metà dell'epoca in cui il clero dominò, fu libero dai pesi familiari quanto Platone poteva desiderare; e in qualche caso sembra che esso godesse non poco della libertà sessuale da lui concessa ai reggitori. Il celibato era parte della struttura psicologica del potere clericale; poiché, da un lato, il clero non era ostacolato dall'angusto egoismo familiare, e dall'altro, la sua apparente superiorità di fronte agli allettamenti della carne accresceva il rispetto in cui era tenuto dai peccatori laici, e la facilità con la quale questi peccatori denudavano la propria vita al confessionale.

Gran parte della politica cattolica derivò dalle «bugie regali » di Platone, o subì l'influenza di esse: l'idea del Paradiso, del Purgatorio e dell'Inferno, nella loro forma medioevale, possono essere rintracciate nell'ultimo libro della Repubblica; la cosmologia della Scolastica deriva largamente dal Timeo; la dottrina del realismo (la realtà oggettiva delle idee generali) fu un'interpretazione della dottrina delle idee; persino il « Quadrivium » culturale (aritmetica, geometria, astronomia e musica) fu modellato sul curriculum tracciato da Platone. Grazie a questo corpo di dottrina, il popolo europeo fu governato col minimo concorso della forza; ed esso accettò questa forma di governo con tanta facilità, che per mille anni fu di notevole aiuto materiale ai suoi stessi reggitori e non chiese di aver voce nel governo.

E questa acquiescenza non era neppur limitata alla popolazione in generale: mercanti e soldati, capi feudali e autorità civili, tutti piegavano il ginocchio a Roma. Era un'aristocrazia di una sagacia politica non meschina; essa costituì probabilmente la più potente e meravigliosa organizzazione che il mondo abbia conosciuto.
I Gesuiti, che per un certo tempo governarono il Paraguay, erano governatori semi-platonici, un'oligarchia clericale, resa potente, in mezzo ad una popolazione barbara, dal possesso della scienza e della capacità. E, da principio, il partito comunista che imperò sulla Russia dopo la rivoluzione del novembre 1917, prese una forma che ricordava, in modo singolare, la Repubblica.
Esso era costituito da un'esigua minoranza, tenuta insieme dalla fede religiosa, che adoprava le armi dell'ortodossia e della scomunica, austeramente dedita alla propria causa, come avrebbe potuto esserlo qualunque santo, e che viveva un'esistenza frugale, pur regnando su metà del suolo europeo.
Tali esempi dimostrano che, entro i dovuti limiti e con le debite modificazioni, il disegno di Platone é realizzabile; e invero egli lo aveva attinto largamente a casi pratici, osservati ne' suoi viaggi. Era stato colpito dalla teocrazia egiziana: aveva trovato colà una grande civiltà antica, retta da un'esigua classe sacerdotale; e messala a confronto con le diatribe, la tirannia e l'incompetenza della Ecclesia ateniese, egli aveva sentito che il governo egiziano rappresentava una più alta forma statale (Leggi, 819).

In Italia, egli aveva avvicinato, per un certo tempo, una comunità pitagorica, vegetariana e comunista, che, per intere generazioni, aveva predominato nella colonia greca, in cui essa viveva. A Sparta aveva veduto una piccola classe di governanti, i quali conducevano vita austera e semplice in comune, in mezzo a una popolazione soggetta; mangiavano tutti assieme, limitavano i connubi a fini eugenici, e davano al prode il privilegio d'aver molte mogli. Senza dubbio aveva udito Euripide patrocinare la comunità delle donne, la liberazione degli schiavi e la pacificazione del mondo greco per mezzo di una lega ellenica (Medea. 230; Framm., 655); indubbiamente egli conosceva qualcuno dei Cinici, che avevano promosso un forte movimento comunista in piena Sinistra socratica, come si direbbe oggi.

Insomma, Platone doveva sentire che, lanciando il suo piano, egli non preconizzava realtà impossibili, se i suoi occhi le avevano vedute.
Eppure, dai tempi di Aristotele ad oggi, la critica ha trovato molto da obiettare e da mettere in dubbio nella Repubblica. «Queste e molte altre cose», - dice lo Stagirita, con cinica concisione, - «sono state inventate parecchie volte nel corso dei secoli». E' bello davvero ideare una società, in cui tutti siano fratelli; ma voler estendere questa fraternità agli uomini dei nostri tempi vuol dire toglierle ogni valore e significato. Lo stesso si dica della proprietà comune; essa significherebbe diminuire la responsabilità; se ogni cosa appartiene a tutti, nessuno avrebbe più cura di nulla.

E infine, osserva il grande conservatore, il comunismo condurrebbe la gente a un'intollerante continuità di contatto; non lascerebbe posto all'isolamento o all'individualità; e presumerebbe virtù di pazienza e di collaborazione da santi, che distinguono solo una esigua minoranza.
"Non dobbiamo supporre un grado di virtù oltre la media delle persone comuni, e nemmeno una cultura che sia eccezionalmente favorita dalla natura e dalle circostanze; ma dobbiamo mirare ad una vita che la maggioranza possa condurre,, e alle forme di governo che gli Stati possano, in genere, raggiungere».

Così dice il maggiore e più sospettoso alunno di Platone; quasi tutti i critici posteriori battono sullo stesso tasto. Platone apprezzò troppo poco, si dice, la forza dell'abitudine acquisita dalla monogamia e il codice morale sanzionato su di essa; non tenne abbastanza conto della gelosia di possesso del maschio, se poté credere che un uomo può accontentarsi del possesso parziale di una donna; ridusse al minimo l'istinto materno, supponendo che la madre acconsentirebbe a che i suoi figli le fossero tolti ed educati in una spietata anonimia. E, soprattutto, dimenticò che, distruggendo la famiglia, egli distruggeva la grande nutrice della morale e la sorgente massima di quelle abitudini collaboratrici e comunistiche, che dovrebbero essere la base psicologica dello Stato; con un'eloquenza senza pari egli stroncò il ramo su cui sedeva.

Si può semplicemente rispondere a tutti questi critici ch'essi distruggono un uomo di paglia. Platone esclude esplicitamente la maggioranza dal proprio piano comunista; riconosce benissimo che solo pochi sono capaci della materiale abnegazione da lui proposta per la classe dei governanti; soltanto costoro chiameranno ogni collega fratello o sorella; soltanto i reggitori vivranno senz'oro, nè beni. La maggioranza conserverà tutte le istituzioni rispettabili: proprietà, danaro, lusso, competizione e qualunque altro bene privato cui essa aspiri. Avrà il matrimonio monogamico, come le piacerà, e tutta -la morale che deriva da esso e dalla famiglia; i padri conserveranno la propria moglie e le madri i propri figli al libitum et nauseare. Per quanto riguarda i governanti, essi non hanno tanto bisogno di una disposizione al comunismo, quanto d'un certo senso d'onore; la fierezza si deve sostenere, non la benignità.

In quanto, poi, all'istinto materno, esso non é molto forte prima che la creatura nasca ed anche cresca; la maggior parte delle madri accolgono il neonato con rassegnazione, piuttosto che con gioia; l'amore per il figlio é opera di sviluppo, non di un improvviso miracolo; cresce via via che il bimbo cresce, e scaturisce dalle penose cure che una madre ha per la propria creatura; l'amore conquista irrevocabilmente il cuore, non appena esso sia diventato l'incarnazione dell'ideale materno.

Altre obiezioni sono di carattere economico, più che psicologico. Si allega che la repubblica di Platone prevede la divisione di ogni città in due parti, e poi ce ne presenta una divisa in tre. Si può rispondere che la prima divisione è prodotta dal contrasto economico; nello Stato di Platone, i reggitori e le classi ausiliarie sono assolutamente escluse dalla partecipazione alla lotta per la conquista dell'oro e de' beni. Ma allora i reggitori avrebbero in mano i poteri senza che ne derivi loro alcuna responsabilità; e questo non condurrebbe alla tirannia? Affatto: essi hanno in mano il potere politico e la direzione, ma non il potere economico e la ricchezza. Se la classe economica non fosse soddisfatta del modo di governare dei reggitori, si rifarebbe sulle forniture alimentari, come il Parlamento controlla il potere esecutivo nelle cifre del bilancio. Orbene, se i governanti hanno potere politico e non economico, come possono mantenersi al governo? Harrington, Marx e molti altri non hanno forse dimostrato che il potere politico è un riflesso di quello economico, e diviene precario non appena il potere economico passa ad un gruppo di persone politicamente soggette, come avvenne con la classe media nel XVIII secolo?

Questa è un'obiezione davvero fondamentale, fors'anche fatale. Si potrebbe rispondere che il potere della Chiesa Cattolica Romana, la quale costrinse persino un sovrano a prostrarsi in ginocchio a Canossa, era basato, nei primi secoli della sua supremazia, sulla credenza dei dogmi più che sulla strategia della ricchezza. Può essere che il lungo dominio della Chiesa dipendesse dalle condizioni agricole dell'Europa: una popolazione di agricoltori è propensa al soprannaturale per la propria impotente dipendenza dal capriccio degli elementi, e per la propria incapacità di controllare la natura, incapacità che sempre induce al timore e, quindi, all'adorazione.

Quando si svilupparono l'industria e il commercio sorse un nuovo tipo di mentalità e di uomo, più realistico e terreno, e il potere della Chiesa cominciò a vacillare non appena entrò in conflitto con questo nuovo fatto economico. Il potere politico deve via via adattarsi al mutevole bilancio delle forze economiche. La dipendenza economica de' governanti di Platone dalla classe economica li ridurrebbe assai presto ad esecutori politici controllati da questa; nemmeno il possesso del potere militare eviterebbe a lungo questo risultato. Non più di quanto le forze militari della Russia rivoluzionaria poterono evitare che si sviluppasse un individualismo di proprietà fra i contadini, i quali avevano in pugno la produzione dei viveri, e quindi il destino della nazione.
Non di meno, in Platone questo rimarrebbe: che se anche la condotta politica dev'esser determinata dal gruppo economicamente dominante, è meglio che la politica sia amministrata da uomini preparati a questo ufficio, e non da gente che venga dal commercio, o comunque tratti la cosa pubblica senza alcun tirocinio nell'arte della politica.

Ciò che, soprattutto, si lamenta in Platone, è l'assoluta mancanza del senso di flusso e di mutamento che ebbe Eraclito. Egli desidera troppo di veder il quadro - che è sempre in moto - di questo mondo, ridotto ad un tableau fisso e tranquillo. Ama esclusivamente l'ordine, come ogni filosofo timido; è spaventato dalla turbolenza democratica di Atene e non ha alcuna fiducia dei valori individuali; divide gli uomini in classi come farebbe un entomologo con le mosche; e non si perita di usare la ciarlataneria de' preti per raggiungere i suoi fini. Il suo Stato è statico; potrebbe facilmente diventare una società antiquata, retta da ottuagenari, ostili ad ogni novità e gelosi di ogni cambiamento. È scienza pura senza arte; esalta l'ordine, così caro alla mentalità scientifica, e trascura del tutto la libertà, che è l'anima dell'arte; adora il nome di bellezza, ma elimina gli artisti, che soli possono creare o far risaltare la bellezza. È una Sparta o una Prussia, e non uno Stato ideale.

Eppure si deve proprio alla potenza e alla profondità della concezione platonica, se queste spiacevoli novità hanno trovato sì candida espressione. In fondo, egli ha ragione, non è vero? Il mondo ha bisogno di esser governato dagli uomini più saggi. È affar nostro ora adattare il suo pensiero ai nostri tempi e ai nostri limiti. Oggi dobbiamo inchinarci alla democrazia: non possiamo limitar il suffragio, come Platone proponeva; ma possiamo mettere delle restrizioni nell'assegnazione degli uffici pubblici e assicurare così quel miscuglio della democrazia e dell'aristocrazia, cui pare che Platone abbia mirato. Possiamo accettare a priori il suo principio, che, cioè, gli uomini di Stato debbano avere una preparazione specifica e profonda, come i medici. Potremmo istituire cattedre di scienza e amministrazione politica nelle nostre università; e quando queste cattedre avessero cominciato a funzionare, potremmo dichiarare inadeguati alla nomina ad uffici politici tutti coloro che non fossero laureati da queste facoltà. Potremmo anche dichiarare eleggibile ad un ufficio chiunque avesse ricevuto una cultura che ad esso prepari e, con ciò, eliminare interamente il complesso sistema di nomine, che è fonte di corruzione della nostra democrazia. L'elettore dovrebbe poter scegliere liberamente tra le persone idonee e capaci che si annunciano come candidate. In tal modo, l'elezione democratica sarebbe immensurabilmente più libera della nostra.

Una sola riforma sarebbe necessaria per rendere totalmente democratico questo progetto di restrizione degli uffici pubblici ai laureati in tecnica amministrativa; e cioè una perfetta uguaglianza di tutti di fronte al problema culturale, per cui. uomini e donne, indipendentemente dai mezzi economici de' genitori, potessero aprirsi la strada alla cultura universitaria e all'avanzamento politico.
Sarebbe facile far sì che i comuni, le provincie, e lo Stato offrissero borse di studio ai licenziati delle scuole superiori, i quali avessero dimostrato una certa attitudine e le cui famiglie fossero nell'impossibilità economica di far loro continuare gli studi. Ecco una democrazia degna del suo nome.

Infine, dobbiamo aggiungere che Platone capisce benissimo come la sua Utopia non sia perfettamente realizzabile. Egli stesso ammette di aver esposto un ideale difficile a raggiungersi; ma aggiunge che ha pure un certo valore dipingere il quadro del nostro sogno: l'importanza dell'uomo sta appunto nel poter immaginare un mondo migliore e volerlo attuare, almeno in parte: l'uomo é un animale che concepisce
utopie. «Guardiamo a non ciò che esisteva prima e che sarà dopo di noi, e aneliamo a ciò che non esiste".

Eppure non tutto resta pura utopia; più d'un sogno ha preso forma e consistenza, o ha messo le ali ed ha volato, come il sogno d'Icaro, che vede oggi gli uomini volare. Dopo tutto, se non abbiam fatto altro che dipingere un quadro, esso servirà di mira e di modello al nostro movimento e alla nostra condotta; quando ci basterà vedere il quadro e seguire la sua luce, l'Utopia troverà posto sulla terra. Tuttavia "un saggio di una simile città é stato creato in cielo, e chiunque voglia lo può ammirare e comportarsi di conseguenza. Se c'è o ci sarà nel mondo una tale città, non importa... egli si comporterà secondo le leggi di essa e non altrimenti» (592). Anche nello Stato imperfetto, il buono ubbidirà sempre alla legge anche se imperfetta.

Nonostante tutte queste concessioni al dubbio, il Maestro ebbe il coraggio d'arrischiarsi, quando gli si offri l'occasione di realizzare il suo piano. Nell'anno 387 a. C. Platone ricevette invito da Dionisio, governatore dell'allora fiorente e potente Siracusa, capitale della Sicilia, di andare a convertire in Utopia il suo regno; e il filosofo acconsentì, credendo, come Turgot, che fosse più facile educare un uomo solo, anche se re, piuttosto che un intero popolo. Ma quando Dionisio capì che, per realizzare quel piano, egli avrebbe dovuto diventare un filosofo, oppure cessare di essere re, si ricredette; e ne risultò una disputa feroce. La storia dice che Platone fu venduto come schiavo, e poi riscattato dal suo amico e alunno Anniceris; il quale, quando i seguaci ateniesi di Platone si offrirono di rimborsargli il riscatto da lui pagato, rifiutò la somma, adducendo che essi non dovevano essere i soli privilegiati ad aiutare la filosofia. Quest'esperienza da lui fatta (e un'altra simile, se dobbiamo credere a Diogene Laerzio), fu la causa del conservatorismo deluso che riscontriamo nell'ultima opera platonica, le Leggi.

Eppure, gli ultimi anni della sua lunga vita debbono essere stati abbastanza felici. I suoi alunni si erano dispersi ovunque e ovunque gli avevano reso onore. Viveva in pace nella sua Accademia, dov'egli passava da un gruppo all'altro de' suoi allievi, dando loro problemi e compiti da risolvere o su cui far ricerche, e chiedendo poi relazione e risultati de' loro studi. La Rochefoucauld disse che «pochi sanno invecchiare». Platone sapeva imparare come Solone e insegnare come Socrate, guidare il giovane avido d'apprendere e ispirare simpatia intellettuale negli amici. Poiché i suoi alunni amavano lui, com'egli amava loro; era il loro amico, come il loro filosofo e la loro guida.
Uno de' suoi allievi, che andava incontro al grande abisso del matrimonio, invitò un giorno il Maestro alla sua festa di nozze. Platone arrivò, onusto de' suoi ottant'anni; si unì, contento, all'allegra brigata. Ma, mentre gli altri passavan le ore ridendo e scherzando, il vecchio filosofo si ritirò in un angolo tranquillo della casa e sedette in una sedia a schiacciare un sonnellino. La mattina, a festa finita, gli stanchi crapuloni andarono a svegliarlo, e trovarono che, durante la notte, tranquillamente, senza disturbare nessuno, egli era passato dal suo sonnellino al sonno eterno.
Tutti gli Ateniesi lo accompagnarono alla tomba.

Lo pianse anche uno dei suoi migliori allievi. Un giorno parlando di questo strano alunno che veniva dal settentrione, e che scalpitava come un puledro che si ribella alla madre quando non ha più bisogno del suo latte. Tuttavia, Platone disse che era il Nous dell'Accademia, cioè, come dell'intelligenza personificata:

L'allievo era ARISTOTELE > > >

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