I GRANDI DISASTRI IN ITALIA
Sezione a cura di Michele Squillaci e Francomputer
( e altri liberali contributi di scrittori e giornalisti )


Anno 1347-1348

*** LA TERRIBILE PESTE NERA
VITTIME: META' DELLA POPOLAZIONE ITALIANA


LA MORTE A CAVALLO CHE FLAGELLA


Nel mese di ottobre 1347, 12 navi mercantili genovesi giungono nel porto di Messina, con a bordo alcuni marinai morti ed altri in fin di vita. Le navi provengono dalla citt� di Caffa, in Crimea, dove i genovesi hanno costituito una base commerciale.
La citt� � assediata da quasi tre anni dai tartari guidati da Khan Djanisberg, anche se alcune navi riescono ad entrare ed uscire dal porto, consentendo agli assediati di resistere per lungo tempo.

Alla fine del mese di settembre si diffonde improvvisamente tra l'esercito tartaro un morbo letale che fa strage di soldati, allentando notevolmente la morsa dell'assedio.
Ben presto, per�, la malattia raggiunge anche i cittadini di Caffa che muoiono a migliaia.
I marinai genovesi, che riescono a sottrarsi all'assedio e a partire dalla citt�, sono ancora sani ma hanno gi� contratto il morbo. Conducono le loro navi fino alle coste del Mediterraneo, toccano terra nel porto siciliano, ma vi giungono già più o meno tutti con i virulenti sintomi della malattia.
I malati presentano degli strani rigonfiamenti all'inguine e sotto le ascelle, di colore nero, trasudanti sangue e pus.
Anche il resto del corpo � pieno di macchie nere, causate dall'emorragie interne che provocano dolori lancinanti e portano alla morte entro 5 giorni. In altri casi la febbre molto alta e l'emorragia polmonare provocano il decesso in sole 24 ore.
E' la peste bubbonica che mette piede sul continente europeo dopo essersi diffusa nel medio e nell'estremo oriente.
La malattia si presenta in due forme: una che inquina il sangue e viene trasmessa per contatto, con i sintomi dei bubboni e delle macchie nere, l'altra, pi� violenta, che interessa le vie respiratorie, quindi si trasmette pi� facilmente per via aerea.
Quando gli abitanti di Messina si accorgono che gli improvvisi casi di morte sono da ricollegarsi all'arrivo delle galee genovesi, le cacciano immediatamente dal porto e dalla citt�, spingendole verso altri lidi con il loro carico di morte. Ma è ormai troppo tardi per la Sicilia e per tutti gli altri paesi ignari del carico di morte che porta con se la nave

In tutta Europa si diffonder� il contagio mortale per campagne, paesi e citt�. Molti piccoli centri verranno completamente spopolati, rimanendo deserti.
La peste provoca dei cambiamenti nella stessa compagine sociale. Perfino nei rapporti d'affari. Gli uomini, incontrandosi, provano paura e sfiducia reciproca. Cosicchè vengono messe in pericolo non solo le attivit� economiche e sociali ma anche le amicizie e i legami parentali e familiari. Tutti prendono delle distanze da tutto e da tutti.
Si affievoliscono sensibilmente la solidariet�, la compassione ed il rispetto verso il prossimo.
Il terrore di contrarre il morbo tocca anche sacerdoti e religiosi, dopo che alcuni di essi muoiono rapidamente per essersi accostati ai malati assolvendo al loro compito spirituale.
Molte abitazioni rimangono piene di cadaveri senza che neppure i familiari abbiano il coraggio di dar loro sepoltura per non infettarsi.
Fino al 1350 sulla popolazione di tutta Europa si poser� un'oscura ombra di morte, che riempir� la vita di una paura continua, in un agghiacciante
reciproco sospetto.
Gli uomini pi� acculturati o pi� intraprendenti tenteranno di reagire con i metodi di prevenzione e le cure pi� impensate e, talvolta quelli di potere scatenano una caccia crudele ai presunti colpevoli.
Alla fine -passata la grande tragedia- la societ� medievale riuscir� a risorgere anche se un po' diversa.
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UNA TRAGEDIA che colpi' l'Europa tra il 1347 ed il 1350.
In Italia raggiunse l'apice nel 1348 causando sconvolgimenti che cambiarono radicalmente l'esistenza dei sopravvissuti.

LA PESTE NERA.
MA POI VENNE IL RINASCIMENTO

di ENRICO BUTTERI ROLANDI

Verso la fine del XIII secolo si arrestò la crescita demografica che fino a quel momento aveva caratterizzato l'Europa ed ebbe inizio una grave crisi economica che si protrasse per circa un secolo e mezzo. Le cause principali di questa depressione, o almeno quelle più appariscenti, furono essenzialmente tre: le pestilenze, le guerre e i mutamenti climatici.

Per quanto riguarda il clima, in realtà gli esperti tendono ad escludere che nel periodo considerato si sia verificato un eccessivo raffreddamento rispetto al passato; sembra invece che semplicemente si sia registrato un inaspettato incremento delle precipitazioni, con piogge troppo abbondanti proprio in corrispondenza delle semine autunnali e primaverili e nei periodi immediatamente precedenti il raccolto. Si trattò di un elemento ulteriore che andò ad aggiungersi allo squilibrio già in precedenza creato dalla crescita demografica: la produzione dei terreni, coltivati ancora con tecniche arretrate, non era sufficiente a soddisfare il fabbisogno alimentare di tutta la popolazione.

Per quanto riguarda le guerre, esse portarono a saccheggi, incendi e devastazioni, oltre a sottrarre uomini alle attività lavorative e produttive. Mentre nelle epoche precedenti si era trattato di episodi saltuari che non avevano ostacolato comunque una rapida ripresa, nel XIV secolo si venne a creare una situazione anomala poiché diverse regioni europee furono teatro di operazioni militari praticamente senza sosta. Ad aggravare poi questa situazione critica, proprio in questo periodo si incominciò a fare frequente ricorso ad eserciti mercenari, in cui i soldati utilizzavano sistematicamente il saccheggio come strumento per alimentare ed integrare il loro compenso.
Per quanto riguarda le pestilenze, proprio nel XIV secolo si registrò la più diffusa e terrificante epidemia di tutti i tempi che non soltanto provocò con il suo passaggio migliaia di vittime, ma rimase endemica ricomparendo periodicamente ora in una regione ora in un'altra anche dopo l'intervallo di tempo compreso tra il 1347 ed il 1350 durante il quale la peste devastò l'intera Europa, raggiungendo l'acme in Italia nel 1348.

E' impossibile determinare quanti furono i morti provocati da questa sciagura, ma si può affermare che mai un contagio aveva provocato tanti danni: mentre in passato era stato possibile porre rimedio al brusco calo demografico attraverso un abbassamento dell'età di matrimonio e a nuove nascite, dopo la peste del 1348 il recupero fu ostacolato dal carattere frequente delle epidemie che fecero la loro ricomparsa a intervalli di circa dieci anni. Chi ha provato a fare una stima delle vittime ritiene che sia morta una percentuale compresa tra il trenta e il cinquanta per cento della popolazione.
La peste ebbe origine in oriente, con ogni probabilità in Cina, e si diffuse con grande rapidità, raggiungendo nella primavera del 1347 la prima città europea: si trattava di Caffa, in Crimea, che a quel tempo era un centro di commercio dei Genovesi. Nell'estate dello stesso anno l'epidemia aveva già colpito Bisanzio e quasi tutti i porti dell'Europa orientale. Dalle zone colpite numerose persone cercarono di emigrare e di raggiungere aree dove fosse possibile sfuggire al contagio, favorendo così inconsapevolmente la sua diffusione. Ben presto dunque la peste raggiunse i porti occidentali, in particolare la Sicilia, Genova, Pisa e Venezia, e di qui si diffuse in tutta l'Europa.

L'Italia fu il paese in cui il morbo si manifestò con maggiore violenza, lasciando segni indelebili e conseguenze che faranno sentire il loro peso anche nei secoli successivi, tanto che qualche storico ha avanzato la proposta di fissare proprio il 1348 come simbolica data della fine del Medioevo. La paura, la sofferenza e la drammaticità della situazione emergono in modo chiaro e sconvolgente dai racconti dei cronisti dell'epoca.
La prima regione dell'Europa occidentale ad essere colpita dall'epidemia nell'Ottobre 1347 fu la Sicilia. Racconta il francescano Michele da Piazza nella sua Historia Siculorum che a portare il morbo furono dodici galee genovesi che raggiunsero il porto di Messina. Quando i Messinesi intuirono da chi aveva avuto origine il contagio cacciarono le navi, ma ciò non bastò a fermare la peste: da questo momento la morte poteva arrivare improvvisamente. La paura e l'incertezza del domani determinarono un imbarbarimento dei costumi e la moderazione lasciò il campo a comportamenti estremi. Sentimenti come il rispetto e la compassione si affievolirono sempre di più sostituiti da egoismo e timore tanto nei confronti dei vivi quanto nei confronti dei morti. Si cercava di non avere contatti con altre persone che potevano essere infette e numerose città vietarono l'ingresso a chi proveniva da una zona già colpita dalla malattia; tuttavia le numerose eccezioni introdotte a questi divieti non consentirono di evitare i contatti con i malati favorendo il diffondersi dell'epidemia. Il fatto poi che in una città la peste giungesse dopo essere stata importata da un altro Comune accese una forte conflittualità tra le città non ancora colpite e quelle dove il morbo si era già manifestato e infiammò i rancori che già esistevano.
Così un medico di Padova, dove il morbo era stato portato da Venezia, pose in apertura del suo Regime contro la peste questa preghiera: "O tu vera guida, tu che determini ogni cosa di questo mondo! Possa, tu che vivi in eterno, risparmiare gli abitanti di Padova e come loro padre fa' sì che nessuna epidemia abbia a colpirli. Raggiungano esse piuttosto Venezia e le terre dei saraceni …".

Se tra Comuni diversi la situazione era tesa, tra coloro che abitavano in una stessa città le cose non andavano meglio. Il carattere improvviso e letale della malattia e terrore di contrarre il morbo da una persona infetta giustificavano il sentimento di sfiducia nei confronti del prossimo. Gli stessi religiosi, che avrebbero dovuto portare gli estremi conforti a chi stava per morire a causa del morbo, nella maggior parte dei casi, per la paura di infettarsi, non svolgevano il proprio compito e ciò contribuiva ad aggravare la situazione poiché uno dei timori più grandi era proprio quello di morire senza essere riusciti a confessarsi e a ricevere l'estrema unzione.
Racconta il canonico Giovanni da Parma che "molti si confessavano quando erano ancora in salute. Giorno e notte rimanevano esposti sugli altari l'ostia consacrata e l'olio degli infermi. Nessun sacerdote voleva portare il sacramento ad eccezione di quelli che miravano ad una qualche ricompensa. E quasi tutti i frati mendicanti e i sacerdoti di Trento sono morti …". Se anche chi cadeva malato avesse avuto qualche possibilità di riprendersi superando la fase critica della malattia, il suo destino era segnato per il fatto che egli veniva abbandonato da tutti, non soltanto dagli amici, ma addirittura anche dai familiari. In molte delle opere letterarie che ci parlano del periodo della peste è presente il riferimento al fatto che la moglie non volesse più vedere il marito e addirittura il padre non volesse più avere nulla a che fare con i figli nel caso in cui fossero stati colpiti dalla malattia.
Gli ammalati rimanevano abbandonati nelle case da cui arrivavano le invocazioni di aiuto che però rimanevano inascoltate, mentre i parenti più stretti, piangendo, si mantenevano a distanza. Emblematico è il racconto di Marchionne di Coppo Stefani, cronista fiorentino, che riferisce: "… moltissimi morirono che non fu chi li vedesse, e molti ne morirono di fame, imperocchè come uno si ponea in sul letto malato, quelli di casa sbigottiti gli diceano: < Io vo per lo medico > e serravano pianamente l'uscio da via, e non vi tornavano più. Costui abbandonato dalle persone e poi da cibo, ed accompagnato dalla febbre si venia meno. Molti erano, che sollicitavano li loro che non li abbandonassero, quando venia alla sera; e' diceano all'ammalato: < Acciocchè la notte tu non abbi per ogni cosa a destare chi ti serve, e dura fatica lo dì e la notte, totti tu stesso de' confetti e del vino o acqua, eccola qui in sullo soglio della lettiera sopra 'l capo tuo, e po' torre della roba >. E quando s'addormentava l'ammalato, se n'andava via, e non tornava. Se per sua ventura si trovava la notte confortato di questo cibo la mattina vivo e forte da farsi a finestra, stava mezz'ora innanzichè persona vi valicasse, se non era la via molto maestra, e quando pure alcun passava, ed egli avesse un poco di voce che gli fosse udito, chiamando, quando gli era risposto, non era soccorso. Imperocchè niuno, o pochi voleano intrare in casa, dove alcuno fosse malato".
"Se a Firenze capitava che spesso i malati rimanessero rinchiusi nelle proprie case a morire, racconta il cronista Lorenzo de Monacis che a Venezia, invece, il governo cittadino decise di incaricare degli addetti affinché passassero per le strade e nelle case a raccogliere i moribondi e i morti, che comunque rimanevano abbandonati per giorni, e li portassero nelle isole di San Marco Boccalama o di San Leonardo Fossamala o a Sant'Erasmo, dove poi sarebbero stati seppelliti in grandi fosse comuni. Fa rabbrividire il pensiero che "molti spiravano su queste imbarcazioni e molti che ancora respiravano rendevano l'anima soltanto in queste fosse".
"Ogni famiglia dovette sopportare lutti gravissimi: ad esempio, Francesco Petrarca dovette subire la morte di un figlio e della tanto celebrata Laura, il cronista senese Agnolo di Tura perse addirittura cinque figli. Quelli inferti dal destino e dalla malattia erano colpi che in tempi normali avrebbero gettato in una disperazione insanabile chiunque, ma, in questo periodo particolare, una quotidianità che continuamente riproponeva l'evento della morte ne rese l'idea così familiare da provocare un aumento del coraggio e della resistenza di chi doveva sopportare la scomparsa di un congiunto. In sostanza, era così facile contrarre la malattia e morire che la priorità era sopravvivere e solo in un secondo momento si poteva eventualmente pensare agli altri, compresi parenti ed amici. Per evitare poi che la popolazione fosse travolta da una disperazione e da una depressione sempre maggiori, molti comuni decisero di vietare che si celebrassero i funerali con l'ordinaria cerimonia e, soprattutto, che si suonassero a morto le campane poiché, per usare ancora le parole di Marchionne di Coppo Stefani, all'udirle "sbigottivano li sani, nonché i malati".
Agnolo di Tura riferisce: "E non sonavano Campane, e non si piangeva persona, fusse di che danno si volesse, che quasi ogni persona aspettava la morte; e per sì fatto modo andava la cosa, che la gente non credeva, che nissuno ne rimanesse, e molti huomini credevano, e dicevano: questo è fine Mondo".
Si credeva che la malattia fosse una sorta di castigo inviata da Dio allo scopo di punire la depravazione dei costumi che aveva caratterizzato quest'epoca. Si poté così assistere ad un riaccendersi del fervore religioso della popolazione che portò ad una ripresa del movimento penitenziale nel sud della Francia e nelle città del centro e del nord Europa: una moltitudine di persone scendeva nelle piazze e per le strade, si recava in processione nelle chiese della città e si flagellava pregando e invocando il nome di Cristo e della Vergine Maria affinché proteggessero il mondo che sembrava prossimo alla fine. La mancanza di sufficienti conoscenze mediche determinava poi l'impotenza di fronte alla malattia ed un senso di frustrazione che spingeva a cercare qualcuno a cui fare risalire la causa e la responsabilità del contagio: si pensava che, individuando e punendo i responsabili, l'ira divina si sarebbe placata.
Così, come sempre accade, la colpa dell'epidemia venne fatta ricadere sui "diversi" dell'epoca, gli Ebrei, accusati di avvelenare i pozzi delle città e spesso le processioni dei flagellanti si concludevano con una vera e propria caccia agli Ebrei che venivano trucidati senza tenere conto del fatto che anche questi ultimi morivano di peste proprio come tutti gli altri. Si trattò della più grande persecuzione che il popolo ebraico dovette subire, prima dell'olocausto del XX secolo. Il fenomeno delle processioni dei flagellanti e delle cacce agli Ebrei non interessò comunque, almeno in questo periodo, l'Italia e le autorità cercarono di contenerlo, pur con grande fatica, anche nelle zone in cui si verificò a causa di alcune connotazioni eterodosse che portarono ad una sua condanna da parte prima dell'Università di Parigi e poi del Pontefice.
Si diffuse una grande devozione per quei Santi che in qualche modo erano legati alla peste e dei quali si invocava la protezione per sfuggire alla malattia e perché salvassero il mondo da questa immane catastrofe. In modo particolare subì un forte incremento il culto di San Sebastiano in quanto il Santo, rappresentato legato ad una colonna e trafitto dalle frecce, veniva considerato il simbolo dell'umanità trafitta dagli strali della peste, un'immagine già cara agli artisti dell'antichità. Durante le frequenti epidemie successive al 1348 si diffuse anche il culto di San Rocco, che, così vuole la tradizione, mentre si recava in pellegrinaggio a Gerusalemme da Montpellier, incontrò a Roma la peste nera e qui si fermò circa tre anni per assistere i malati. Mentre tornava nella propria città fu vittima egli stesso della peste nei pressi di Piacenza, ma grazie all'aiuto di un cane e di un angelo riuscì a guarire e a riprendere la sua strada.
Morì dopo cinque anni di carcere, ingiustamente accusato di spionaggio.

Di fronte ad uno scenario apocalittico come quello creato dalla peste, la reazione di gran parte della gente paradossalmente non fu quella di deprimersi e di pregare pentendosi dei propri peccati in vista di una imminente fine del genere umano, ma racconta il Boccaccio nel suo Decamerone che, dopo una prima fase di disperazione e smarrimento, mentre alcuni cercavano di condurre un'esistenza morigerata e di evitare il contatto con altre persone per sfuggire alla malattia, "altri in contraria opinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l'andar cantando a torno e sollazzando e il sodisfare d'ogni cosa all'appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male: e così come il dicevano il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per l'altrui case facendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere".
La situazione dei costumi non cambiò neppure quando ormai il peggio era passato e i sopravvissuti, invece di ringraziare Dio per averli risparmiati tenendo una condotta conforme agli insegnamenti cristiani, secondo quanto riportato dal cronista fiorentino Matteo Villani nella sua Cronaca, "… trovandosi pochi, e abbondanti per l'eredità e successioni dei beni terreni, dimenticando le cose passate come se state non fossero, si diedero alla più sconcia e disonesta vita che prima non avieno usata, però che vacando in ozio usavano dissolutamente il peccato della gola, i conviti, le taverne e dilizie con dilicate vivande, e giuochi, scorrendo alla lussuria senza freno, trovando ne' vestimenti strane e disusate fogge e disoneste maniere, mutando nuove forme a tutti li arredi". In realtà la degenerazione dei costumi era già iniziata prima del diffondersi dell'epidemia, ma fu questo evento a provocare una crescita del tenore di vita e del gusto per il lusso, tanto che proprio nel periodo successivo alla peste furono introdotte nuove imposte nelle città per frenare il fenomeno.
Dopo la grande paura regnava il desiderio di divertirsi, dovuto anche alla possibilità di sfruttare la grande quantità di sostanze di cui ciascuno poteva disporre, dopo averle ereditate da coloro che erano stati portati via dal morbo. Il già citato Marchionne di Coppo Stefani racconta lo stupore dei sopravvissuti diventati improvvisamente ricchi ed il loro desiderio di abbandonarsi al lusso in queste parole: "E tale che non aveva nulla si trovò ricco, che non pareva che fusse suo, ed a lui medesimo pareva gli si disdicesse. E cominciorno a sfogiare nei vestimenti e ne' cavagli e le donne e gli uomini". Una teoria affascinante, anche se messa fortemente in discussione, sostiene che proprio la peste, favorendo la formazione di ingenti patrimoni e provocando al tempo stesso una riduzione delle possibilità di investimento, abbia creato i presupposti per il sorgere di un periodo come il Rinascimento: il complesso delle condizioni createsi fece sì che il denaro venisse utilizzato per l'acquisto di opere d'arte piuttosto che per finanziare attività produttive.
Molti morivano senza neppure avere il tempo di fare testamento, mentre, nella maggior parte dei casi, erano gli stessi notai ad evitare di recarsi nelle case in cui vi era un malato di peste o addirittura a fuggire dalle città per paura di contrarre la malattia. A volte, vista la gran quantità di lavoro, un notaio coraggioso si limitava a prendere semplici appunti per trascrivere successivamente le ultime volontà in un testamento canonico senza però averne il tempo, colto anch'egli da morte improvvisa. E' bene sottolineare che nell'Italia e nella Francia del XIV secolo la competenza a redigere testamenti efficaci era riservata esclusivamente ai notai, per cui si venne a creare una grande confusione che continuò a produrre i suoi effetti anche nel periodo successivo alla fine della peste con centinaia di cause che produssero il blocco dell'attività dei tribunali.
Come i notai, anche la maggior parte dei medici optò per la fuga dalla città, che dal loro punto di vista era l'unico valido mezzo per evitare il contagio, lasciando il campo libero a curatori improvvisati che vendevano a peso d'oro i loro inefficaci rimedi. Anche Guy de Chauliac, medico personale di papa Clemente VI, tentato, ammise: "Per paura del disonore non osai fuggire. Tormentato continuamente dalla paura, cercai di proteggermi alla meno peggio …". La scelta di fuggire e di isolarsi, condivisa peraltro anche da vari vescovi, di chi soprattutto in quel momento avrebbe dovuto assistere le vittime della peste si può comprendere pensando al fatto che coloro che avevano svolto il proprio dovere avevano a loro volta contratto la malattia morendone. Chalin de Vinario, altro medico avignonese vicino al papa, espone in modo chiaro quella che era l'idea prevalente tra i dottori: "Noi siamo il prossimo di noi stessi. Nessuno di noi è accecato da una tale follia da occuparsi più della salvezza degli altri che della propria, tanto più trattandosi di una malattia così rapida e contagiosa".
Ad approfittare della situazione venutasi a creare furono soprattutto gli ordini religiosi e le confraternite che mai come in questo periodo riuscirono ad accumulare ricchezze grazie ai lasciti testamentari di chi, sentendosi ormai vicino alla morte, cercava in questo modo di ottenere la salvezza della propria anima. Tale arricchimento non fu comunque indolore poiché molti uomini di chiesa che avevano continuato ad occuparsi dei bisognosi morirono di peste, tanto che in molte diocesi i vescovi furono costretti a consacrare sacerdoti giovani che non avevano ancora terminato gli studi necessari, e anche tra i laici, appartenenti alle confraternite che assistevano gli ammalati, le perdite furono altissime, come per esempio nelle Scuoleveneziane della Carità e di San Giovanni dove morirono circa trecento confratelli.
Gli apparati pubblici si trovarono invece ben presto in ginocchio in quanto non soltanto la malattia aveva provocato la morte di gran parte dei contribuenti riducendo drasticamente le entrate, ma aveva messo in pericolo lo stesso funzionamento dello Stato. L'elevata mortalità rischiò di bloccare l'attività degli organi pubblici che non riuscivano a raggiungere il quorum necessario per adottare delle decisioni. Questa situazione di stallo portò a Bologna addirittura ad un tentativo di colpo di stato represso con la forza. Contribuiva poi al dissesto delle casse dello Stato il fatto che la morte o la fuga di medici, notai, insegnanti e militari di professione obbligava le città a reclutare personale di questo tipo anche forestiero con una vertiginosa crescita dei compensi dovuta alla sproporzione tra domanda ed offerta.
Una conseguenza importante della elevata mortalità è costituita dal fatto che mentre nel momento in cui la crescita demografica aveva raggiunto il suo apice le città erano diventate tutte un groviglio di case piccolissime, dopo la peste lo spazio a disposizione di ogni persona era cresciuto enormemente. Questo fatto, unito alle maggiori possibilità economiche di gran parte della popolazione, portò alla riunione in un'unica struttura di più abitazioni e alla creazione di grandi palazzi: i sopravvissuti volevano vivere in spazi più ampi e per questo avviarono una risistemazione edilizia che mutò radicalmente il volto delle città.
Tuttavia, la ricchezza improvvisamente raggiunta si rivelò a lungo andare un'illusione. Le possibilità economiche dei sopravvissuti all'epidemia subirono una crescita non soltanto grazie ai lasciti dei defunti, ma anche grazie ad un aumento dei compensi spettanti a tutti i lavoratori, compresi quelli che svolgevano le mansioni più umili. Era normale: la morte di molti lavoratori aveva provocato una diminuzione dell'offerta rispetto alla domanda e di conseguenza un aumento dei salari. Tuttavia nell'arco di pochi anni la crescita dei costi di produzione determinò un vertiginoso aumento del costo della vita andando ad annullare i vantaggi creati dal precedente aumento della ricchezza.
Ad influire poi sull'andamento dei prezzi c'era anche la grave crisi attraversata dal settore agricolo determinata non soltanto dalla scarsità di manodopera, ma anche dalla scarsa produttività dei terreni.

In generale, la grande peste del 1348 non soltanto determinò cambiamenti radicali nell'aspetto delle città o nei patrimoni dei sopravvissuti, ma, cosa ben più importante, mutò il modo di pensare degli uomini del tempo. Il gusto per il lusso e per il divertimento diffusosi subito dopo il contagio, nasceva dal fatto che l'esperienza della peste aveva evidenziato in modo drammatico l'incertezza del domani, tanto che ai più sembrava senza senso preoccuparsi del futuro investendo i propri averi in nuove attività produttive o nell'educazione dei figli. Il patrimonio veniva così utilizzato essenzialmente per il soddisfacimento del proprio piacere personale e il capitale accumulato in conseguenza della peste venne nella maggior parte dei casi sperperato.

Tuttavia, gli effetti della nuova concezione della vita nata durante l'infuriare del flagello non furono del tutto negativi: se certamente non si può attribuire esclusivamente alla grande peste il merito del rinnovamento culturale che caratterizzò il periodo successivo, essa, cambiando la mentalità dei sopravvissuti, diede comunque un contributo fondamentale al sorgere di quelle che saranno tra le epoche più fiorenti della nostra storia, cioè l'Umanesimo ed il Rinascimento.

di ENRICO BUTTERI ROLANDI
Bibliografia
* La società italiana prima e dopo la "peste nera", di Antonio Ivan Pini - Ed. Società pistoiese di storia patria, Pistoia 1981.
* La peste nella storia: epidemie, morbi e contagio dall'antichità all'età contemporanea, di William Hardy McNeill - Ed. Einaudi, Torino 1982.
* A peste, fame et bello libera nos Domine: le pestilenze del 1348 e del 1400, di Alberto Cipriani - Ed. Società pistoiese di storia patria, Pistoia 1990.
* Morire di peste: testimonianze antiche e interpretazioni moderne della peste nera del 1348, di Ovidio Capitani - Ed. Patron, Bologna 1995.
* La Peste Nera e la fine del Medioevo, di Klaus Bergdolt - Ed. Piemme, Casale Monferrato 1997.


Questa pagina (solo per Cronologia)
è stata offerta da Franco Gianola
direttore di http://www.storiain.net

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