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CRONOLOGIA

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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI dal 1282 al 1303 

GUERRA PISA-GENOVA -
A FIRENZE, I BIANCHI E I NERI (ovvero I CANCELLIERI)
IL CONTE UGOLINO

GUERRA TRA GENOVA E PISA - BATTAGLIA DELLA MELORIA - LEGA DEI GUELFI TOSCANI CONTRO PISA - IL CONTE UGOLINO DELLA GHERARDESCA AL GOVERNO DI PISA - TRATTATIVE TRA PISANI E GENOVESI - POLITICA DEL CONTE UGOLINO - NINO VISCONTI - L'ARCIVESCOVO RUGGIERI DEGLI UBALDINI - PRIGIONIA E MORTE DEL CONTE UGOLINO - RIFORMA DEL GOVERNO FIORENTINO DEL 1282 - BATTAGLIA DI CAMPALDINO - GUIDO DI MONTEFELTRO A PISA - GIANO DELLA BELLA E GLI ORDINAMENTI DI GIUSTIZIA - SCISSIONE DEL PARTITO GUELFO A PISTOIA E A FIRENZE - I BIANCHI E I NERI - IL PRIORATO DI DANTE - GUIDO CAVALCANTI E CORSO DONATI IN ESILIO - CARLO DI VALOIS A FIRENZE - SOPRAVVENTO DEI NERI - CONDANNE DI DANTE - BONIFAZIO VIII E I COLONNA - ASSEDIO DI PALESTRINA - BONIFAZIO E FILIPPO IL BELLO - GUGLIELMO DI NOGARET PRENDE PRIGIONIERO IL PONTEFICE - MORTE DI BONIFAZIO VIII
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GUERRA TRA PISA E GENOVA


Mentre il popolo di Palermo, dopo la Pasqua del 1282, nella rivolta del "Vespro", faceva scempio di Francesi e levava per primo il grido contro gli stranieri, una grossa guerra si delineava tra due repubbliche italiane, che se fossero state immuni da spirito di rivalità avrebbero potuto, alleandosi con gli Aragonesi, dare un colpo mortale, agli Angioini e al Guelfismo che li sosteneva con in prima fila, gli ostinati Papi.Genova e Pisa, erano due repubbliche marinare. Da qualche tempo tra loro c'era della ruggine; la vicinanza, il contrasto degli interessi, la concorrenza che l'una faceva all'altra nei porti del Mediterraneo aveva determinato una tale tensione negli spiriti che l'incidente più piccolo doveva esser sufficiente a provocare un gravissimo conflitto. E, l'occasione non mancò. La fornì un signorotto della Corsica, il quale scacciato da quattro galee, duecento cavalli e cinquecento fanti Genovesi andati sull'isola contro di lui, riuscito a fuggire si recò a Pisa e, dichiarandosi vassallo della città toscana, ne implorò l'aiuto.

Dopo l'arrivo dell'esule, seguirono altri atti d'ostilità da parte dei Pisani: una galea genovese che tornava dalla Sicilia fu assalita e catturata; in Oriente il quartiere genovese di S. Giovanni d'Acri fu, per istigazione di Pisa, assalito dagli abitanti e i magazzini saccheggiati; e nei primi del settembre del 1282 una flotta pisana al comando di GUINICELLO dei SISMONDI assalì e saccheggiò Portovenere devastandone il territorioCon questi atti, iniziava la guerra tra le due repubbliche marinare, un conflitto che doveva riuscire fatale ad una di loro. A queste prime avvisaglie seguivano intensi preparativi da una parte e dall'altra, si costruivano navi, si richiamavano in patria i marinai dai porti lontani, altri se ne addestravano, si fabbricavano armi, si tenevano vedette sulle coste, e le navi mercantili uscivano dai porti solo se scortate da navigli da battaglia.

In questi febbrili preparativi che offrivano agli avversari potenziali dimostrazioni di forza, trascorse tutto il 1283; ma nell'anno successivo ci fu lo scontro e la fortuna arrise ai Genovesi.
La battaglia si combatté nelle acque della Sardegna, tra la flotta pisana forte di ventiquattro galee, che, al comando dell'ammiraglio GUIDO JACIA, scortava nell'isola il conte FAZIO con un contingente di truppe, mentre quella genovese era composta di ventidue navi comandata da ENRICO dei MARI.

Notevoli furono le perdite dei Pisani: quattro navi furono incendiate e colate a picco, otto caddero nelle mani dei Genovesi, che catturarono anche quattrocento uomini degli equipaggi.Desiderosi di vendicarsi della sconfitta, i Pisani fecero sforzi inauditi per costruire ed armare una potente flotta. Esauste erano le casse della repubblica, ma tutti, nobili e plebei, fecero a gara per dar navi alla patria: undici ne armarono i LANFRANCHI, sei ciascuna le famiglie dei GUALANDI, dei LEI e dei GAETANI, cinque gli UPEZZINGHI, quattro gli ORLANDI, tre i SISMONDI, tre i VISCONTI, due i MOSCHI ed altre famiglie si unirono a gruppi, ciascuno dei quali armò un naviglio.
In questo modo Pisa riuscì ad allestire una flotta di 103 galee, che nel mese di luglio partì per andare a sfidare i Genovesi.


Ma questi, che non avevano terminato i loro preparativi, non accettarono la sfida. Ma non passò nemmeno un mese ed ecco che un'armata di Genova, forte di 107 galee, salpò e si presentò davanti alle foci dell'Arno.Era il 5 agosto del 1284. I Pisani accolsero con entusiasmo la notizia dell'arrivo dei nemici e, fatta benedire l'armata dall'arcivescovo, salirono sulle navi e scesero alla foce del fiume.

BATTAGLIA DELLA MELORIA

La battaglia, che doveva abbattere la potenza pisana, fu combattuta il giorno dopo presso l'isolotto della Meloria. La flotta genovese, comandata dal prode ammiraglio OBERTO D'ORIA, era divisa in due squadre, una delle quali era sotto il comando dell'ammiraglio stesso, e di CORRADO SPINOLA l'altra.
Ma ve n'era una terza, di trenta galee condotta da BENEDETTO ZACCARIA, che però i Pisani non videro, perché giunta nel corso della notte, si sottrasse alla vista mettendosi dietro l'isola; pronta a piombar sul nemico a battaglia ingaggiata.

Anche la flotta Pisana era formata da tre squadre comandate dal podestà ALBERTO MOROSINI, da ANDREOTTO SARACINO e dal conte UGOLINO della GHERARDESCA.La battaglia ebbe inizio verso mezzogiorno, e subito in entrambi i due schieramenti fu violenta. L'aria, attraversata da nugoli di frecce e dai sassi lanciati dai mangani; il rumore del fragore prodotto da questi o dal cozzare delle galee si mischiava agli urli di guerra, ai lamenti dei feriti, ai rantoli dei moribondi; il mare inghiottiva armi, remi, alberi sfasciati, uomini.

Poi si giunse all'arrembaggio e il combattimento si fece ancor più feroce e sanguinoso. Da notare che combattevano non contro nemici stranieri, ma contro italiani. Tutto quel sangue si spargeva per una stupida rivalità. Tutte quelle navi con quei valorosi soldati, se unite insieme, avrebbero potuto conquistare il dominio dei mari e creare una patria comune.

Entrambe possedevano una grande efficienza bellica ma purtroppo mancava il requisito più importante: la concordia e la coscienza nazionale del tutto inesistente. Per molti italiani, Roma era preistoria, quello che imperava era l'individualismo.Già i navigli si toccavano e i combattenti erano allo scontro corpo a corpo, già la galea di ALBERTO MOROSINI combatteva un duello con quella di ALBERTO DORIA, quando, uscita dal suo nascondiglio, la terza squadra genovese piombò a turbare l'equilibrio delle opposte forze, fino allora quasi pari di numero, e a sconvolgere il combattimento in favore della flotta ligure. La nave del Morosini, da un lato assalita dal Doria e da un altro dallo Zaccaria, dopo una coraggiosa resistenza cedette e fu catturata; e subito dopo cadde il vascello che portava lo stendardo di Pisa.

Era la sconfitta. Inutile sarebbe stato volere resistere più a lungo: meglio salvar quarto più navi si poteva per utilizzarle poi alla difesa della città o salvarle per poi scatenare una successiva vendetta.
Avendo di mira queste intenzioni - come asserirono alcuni storici -volendo indebolire Pisa con la rotta, per diventarne più facilmente signore, il conte UGOLINO fu lui a dare il segnale della ritirata (o fuga).La vittoria dei Genovesi fu completa: sette galee nemiche affondarono, vent'otto le catturarono, uccisero cinquemila Pisani ed undicimila li fecero prigionieri; e poiché questi furono trasferiti nelle prigioni di Genova e qui vi rimasero per lungo tempo; in Toscana i nemici di Pisa con sarcasmo dicevano che "se si voleva vedere qualche Pisano bisognava andare a Genova".La sconfitta fece piombare l'infelice città nel lutto; non ci fu famiglia che non piangesse uno o più morti, per parecchio tempo si videro donne in gramaglie. Invece a Genova ci furono grandi feste all'arrivo della flotta vittoriosa con così tanti prigionieri. Sulla sorte di costoro ci furono molte discussioni cosa farne: alcuni volevano che si cambiassero con il forte di Castro in Sardegna, altri proponevano di ricavarne grosse somme con il riscatto, altri ancora consigliavano che si tenessero in perpetua prigionia perché, con le donne senza così tanti uomini, la popolazione pisana sarebbe diminuita.
Prevalse quest'ultima proposta e quando, dopo tredici anni, le due repubbliche stipularono una pace, la prigione e le malattie avevano ormai già fatto tante vittime fra gli infelici prigionieri che solo un migliaio riuscirono a rimettere il piede nella loro città.

Dalle sventure di Pisa ovviamente ne trassero profitto i Guelfi di Toscana, che colsero ingenerosamente l'occasione per prostrare del tutto l'unica città ghibellina che c'era ancora nella regione.
Offrirono perfino ai Genovesi di allearsi con loro proponendo di stringere d'assedio Pisa, il Liguri con le navi dalla parte del mare, i Toscani da quella di terra. E che alla città nemica non soltanto mai concedere la pace, ma una volta costretta alla resa e occupata di buttar giù le mura e disperdere i cittadini in altri territori.
Firenze, Lucca, Siena, Pistoia, Prato, Volterra, San Gimignano e Colle entrarono nella lega e il 10 novembre tutti i Fiorentini che abitavano a Pisa abbandonarono questa città, mentre seicento cavalieri al soldo di Firenze penetravano per la via di Volterra nel territorio pisano, danneggiando o incitando alla ribellione i dintorni.

In questo momento particolarmente critico per la loro città i Pisani decisero di affidare il governo ad un "uomo" in grado di essere abile a tutelare gli interessi di Pisa e capace di difenderla da tanti nemici.

IL CONTE UGOLINO DELLA GERARDARSCA

Pisa scelse il conte UGOLINO, il quale pur essendo un ghibellino, era imparentato con i Guelfi e nello stesso Guelfismo fiorentino contava molte importanti amicizie. Aveva insomma una doppia pelle, che cambiava con impudenza secondo le circostanze, come vedremo più avanti.A lui fu affidato il governo di Pisa per dieci anni con il grado di capitano generale. Il Conte, appena fu eletto capo della repubblica, cominciò ad esplicare la sua attività avendo di mira il bene della città ma anche quello della sua famiglia.

Dal momento che il maggior pericolo era costituito dalla lega guelfa della Toscana, il primo pensiero di Ugolino fu quello di scioglierla o renderla inoffensiva. Si rivolse pertanto a Firenze, in cui contava cospicue amicizie e (recitando bene la parte) era ritenuto un sostenitore dichiarato della parte guelfa. Narra Giacchetto Malaspina che per ingraziarsi i priori delle arti mandasse loro un presente di vini, dono che non era modesto come poteva sembrare, perché alcuni fiaschi, invece del vernaccia, erano pieni di fiorini d'oro.
Il conte Ugolino riuscì così nel suo intento, ma dovette sacrificare non poche terre del territorio pisano, che furono cedute ai Fiorentini. Ma aveva intenzione di rifarsi presto tramando a destra e a manca.
Perfino con Genova il conte entrò in negoziati di pace, offrendo la cessione di Castro in Sardegna in cambio dei prigionieri della Meloria. Abbandonare Castro, che rappresentava il baluardo dei possedimenti pisani nell'isola significava per Pisa rinunciare in favore dei nemici alla potenza da parecchio tempo esercitata in Sardegna.

Indubbiamente Ugolino voleva poi accattivarsi i prigionieri lasciati liberi, tirarli dalla sua parte; ma questi noncuranti della loro sorte e bramando che la patria non comprasse la pace a patti così umilianti, ottenuta da Genova licenza di mandare a Pisa alcuni inviati che esprimessero il loro voto, questi tornarono in patria per andare a dichiarare al governo di Ugolino che preferivano morire tutti in prigione piuttosto che acconsentire alla cessione d'una rocca costruita dagli antenati a difesa delle conquiste pisane nell'isola. Il risoluto contegno dei prigionieri, i quali inoltre assicuravano che se avessero ottenuto la libertà con quella vergognosa rinuncia l'avrebbero accettata ma solo per tornare in patria a combattere quei magistrati pisani responsabili di simile scambio e danno, fece fallire i negoziati di Ugolino con i Genovesi.Ma Ugolino ne macchinò un'altra di trama, trattando segretamente con Lucca. Ma per uscire dalla lega stretta con i Guelfi toscani, Lucca voleva da Pisa la cessione dei castelli di Asciano, Avane, Ripafratta e Viareggio; era per i Pisani una pretesa eccessiva dato che questi castelli costituivano la chiave del loro territorio. Ma il conte Ugolino, desideroso di ingraziarsi i Lucchesi con indubbiamente uno scopo ben preciso, non esitò a tradire gli interessi della sua patria e non certo in buona fede credendo di salvarla; acconsentì alle pretese di Lucca, e con questa convenne segretamente che le importanti rocche le avrebbe lasciate prive di difesa; di modo che i Lucchesi riuscirono facilmente a impadronirsene e a Pisa non rimasero che i castelli di Motrone, Vico Pisano e Piombino.

La politica del conte Ugolino non poteva certamente piacere ai Ghibellini pisani, i quali lo consideravano come traditore del loro partito; non deve quindi destare meraviglia se il conte, bramoso di assicurare la propria posizione e poco scrupoloso nella scelta dei mezzi, si appoggiasse alla fazione guelfa, che però anche questi non è che si fidavano molto di uno che stipulava - anche se era utile- un genere di patti come quello fatto con i Lucchesi. Né piaceva la sua ubiquità dentro le due fazioni pur di raggiungere i suoi fini, che non erano chiari né agli uni né agli altri. Comportandosi così, perse l'appoggio del nipote NINO VISCONTI di Gallura, capo dei Guelfi pisani, il quale, comprendendo che lo zio con la sua politica intendeva giovar più a se stesso che alla fazione guelfa, si accostò ai Ghibellini che avevano ormai già preso le distanze dall'ambiguo suo zio.

Questo fatto suscitò l'ira di Ugolino, che volendo ad ogni costo rimaner padrone di Pisa, venne fuori allo scoperto e mandò con dei vaghi pretesti in esilio parecchie famiglie ghibelline e fece demolire dieci dei loro palazzi (i nomi li faremo più avanti); ma non riuscì con questi provvedimenti a disarmare le ostilità di NINO, perché anzi questi, dopo avere invano provocata una sommossa popolare, accusò davanti ai consoli e agli anziani gli intrighi dello zio; e fra le sue trame quella di volere allargare i limiti dell'autorità concessagli, con l'attribuirsi l'ufficio di podestà; e metteva perfino sull'avviso che Ugolino con una propria milizia, mirava ad occupare il palazzo del comune, per farne poi una sua roccaforte.Il risultato di quest'accusa fu che i magistrati esortarono Ugolino ad abbandonare il palazzo e fu nominato un podestà, ma fu tuttavia lasciata al conte la carica di capitano generale.

Il Conte non tardò a prendersi la rivincita; con i suoi seguaci occupò con la forza il palazzo del comune, ne scacciò il nuovo podestà e si fece proclamare dai suoi serventi signore di Pisa. Pareva che avesse raggiunto l'apice della sua potenza quando, nell'aprile del 1287, giunsero a Pisa alcuni deputati genovesi per trattare la pace e decidere sulla sorte dei numerosi prigionieri della Meloria.Per la liberazione di questi non si chiedeva che il pagamento di una certa somma. Erano così ragionevoli e non tanto esose queste richieste che nessuno le avrebbe rifiutate; ma il conte della Gherardesca intravedeva nel ritorno dei prigionieri un gran pericolo per la sua posizione (del resto lo avevano promesso), iniziò a temporeggiare, e ad ostacolare con tanti pretesti le trattative; lasciò passare più d'un anno senza ratificare alcun patto con i Genovesi. Ma reclamando il popolo (o meglio i congiunti di tutti quei prigionieri) la conclusione del trattato, non avendo altro mezzo per scongiurarla violò la tregua con i Genovesi mandando alcuni navigli con dei corsari sardi a depredare i mercantili genovesi di passaggio.

Ma se con questa diabolica condotta era compromesso e allontanato il ritorno dei prigionieri pisani, forte era l'opposizione di NINO e dei Ghibellini nei suoi confronti. Il Conte allora cercò di staccare questi ultimi dal nipote; cambiò pelle e si mise in trattative con il capo della fazione ghibellina, che era l'arcivescovo RUGGIERO degli UBALDINI; ma, nello stesso tempo voleva conservare l'amicizia dei Guelfi.Dopo avere bene intessuta la trama con il nuovo alleato e tutto predisposto, si ritirò, fingendosi ammalato, nel castello di Settimo. Durante la sua assenza l'arcivescovo fece rientrare in città i GUALANDI, i SISMONDI, i LANFRANCHI ed altre famiglie ghibelline, che erano state prima cacciate, le unì alle milizie del conte e si trovò così forte che il nipote NINO VISCONTI, rimasto isolato, ritenuta vana ogni resistenza, si ritirò con i suoi a Calcinara.

Il colpo di UGOLINO era riuscito nel suo intento, ma non doveva durare a lungo l'amicizia tra il Conte e l'Arcivescovo. Era anche quest'ultimo ambizioso quanto l'altro e desiderava entrare a far parte del governo; Ugolino invece con la vocazione dittatoriale non soffriva altri padrini nella signoria e quando i Ghibellini proposero al Conte di associare RUGGIERO nel governo della città, lui oppose un reciso rifiuto.
L'arcivescovo nascose molto bene il suo risentimento, ma da quel giorno diventò il nemico implacabile del Conte ed aspettò che gli si presentasse l'occasione giusta per vendicarsi.
"La prosperità - osserva il Sismondi - invece di mitigare i tiranni, li rende più irascibili e insofferenti anche al più lieve contrasto ai loro voleri; e tuttavia, per quanto gli uomini si ammorbidiscano sotto il dispotismo, non per questo cambieranno mai le leggi della natura (il popolo ogni tanto fa quello che vuole) e un tiranno, cui vadano pure costantemente bene le cose, troverà sempre motivi di contrasti.

La guerra marittima che aveva ostacolato i commerci, le lotte intestine, e insieme anche la siccità di un paio di infami stagioni, avevano, con la carestia alimentare affamato la città, fatto aumentare spropositatamente quel poco di grano che ancora circolava, che il popolo non poteva a certi prezzi acquistare. Il popolo inutilmente si lamentava, rumoreggiava ed accusava il Conte del drammatico caroviveri (ecco perché poi, gli riservarono la più terribile punizione: facendogli provare cos'era la fame!)

Intanto era tale la violenza degli impeti di collera di Ugolino che nessuno osava riferirgli le lagnanze del popolo, né avvisarlo del pericolo che correva a non prendere atto della situazione piuttosto critica, e che da un momento all'altro la gente inferocita dalla fame, poteva esplodere.

Uno dei suoi nipoti si assunse il difficile incarico, e gli propose di sospendere la riscossione delle imposte per far diminuire il costo dei viveri. Insofferente di rimproveri come di consigli, Ugolino in uno dei suoi impeti di collera, brandito un pugnale, ferì il giovane ad un braccio e in quell'accesso d'ira l'avrebbe forse ucciso se un coraggioso giovane non gli avesse strappato dalle mani l'arma.
Era il nipote dell'arcivescovo, amico del giovane ferito, che facendogli scudo del proprio corpo lo sottrasse alla mano assassina; poi osò pure rimproverare il Conte, ma questi, diventato furibondo, non con un pugnale ma con una scure capitatagli tra le mani menò un gran colpo al nipote dell'arcivescovo che lo stese morto ai suoi piedi".

Dopo questo delitto il conte della Gherardesca comprese di essersi definitivamente alienati gli animi dei Ghibellini e -cambiando ancora pelle- pensò di ingraziarsi nuovamente i Guelfi, adoperandosi per farli rientrare in città. Infatti, il 1° luglio del 1288, dopo avere partecipato nella chiesa di San Bastiano ad un consiglio che doveva decidere della pace con Genova, ma che si sciolse senza concludere nulla, il conte Ugolino incaricò un suo nipote, di nome "il BRIGATA", di riunire in segreto un gran numero di battelli e di introdurre a Pisa, dalla parte del mare, i Guelfi.Qualche doppiogiochista avvertì in anticipo l'Arcivescovo, il quale, comprendendo che indugiare sarebbe stato fatale per sé e i suoi sostenitori, fece suonare a stormo le campane e riunì intorno a sé, in armi, le consorterie e gli uomini dei GUALANDI, dei SISMONDI, dei LANFRANCHI, degli ORLANDI, dei RIPAFRATTA e degli altri Ghibellini.
L'ora della vendetta era giunta per RUGGIERO degli UBALDINI.

Il conte Ugolino con i suoi partigiani, fra cui erano i GAETANI e gli UPEZZINGHI, messosi e difesa della piazza e delle vie adiacenti alle chiese di San Bastiano e di San Sepolcro, fu impetuosamente assalito dai Ghibellini che nel combattimento gli uccisero un figlio naturale.
Dopo un'accanita resistenza, essendo i suoi sopraffatti dai ghibellini, Ugolino, verso mezzogiorno, si chiuse dentro con i figli nel massiccio palazzo del comune, dove rimase a difendersi disperatamente fino a sera.

Dubitando i Ghibellini di impadronirsi con le armi dell'edificio, vi appiccarono il fuoco e solo allora il Conte della Gherardesca, con i due figli GADDO ed UGUCCIONE e i due nipoti ANSELMUCCIO e "il BRIGATA", si arrese.La vendetta dell'arcivescovo Ruggiero fu crudele, e non solo nei confronti del suo irriducibile nemico ma anche dei quattro sventurati giovani, che per la loro tenera età forse meritavano di esser trattati con più generosità. Chiusi in una torre dei GUALANDI, che poi fu detta "della fame", i cinque prigionieri vi rimasero per circa un mese con il loro carnefice a dargli pochissimo da mangiare, ma poi la chiave del carcere fu buttata nelle acque dell'Arno e riservarono ai cinque sventurati una fine lenta e terribile: morire per fame.In uno dei più toccanti episodi del suo poema, di questa morte ci parla Dante. È il Conte stesso, che, all'Inferno, racconta al divino poeta le torture della fame, la sua disperazione, gli inutili e strazianti lamenti dei figli e dei nipoti:

Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gettò disteso a' piedi,
E disse: " Padre mio, chè non m'aiuti ? ".
Quivi morì; e come tu mi vedi,
Vid' io cascar li tre ad uno ad uno
Tra il quinto dì e 'd sesto; ond' io mi diedi,
Già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
E due dì li chiamai, poi che fur morti
Poscia, più che il dolor, potè il digiuno.

GIANO DELLA BELLA E GLI ORDINAMENTI DI GIUSTIZIA
BIANCHI E NERI - CARLO DI VALOIS A FIRENZE
CONDANNA ED ESILIO DI DANTE


Se a Pisa - la cui potenza era crollata dopo la sconfitta della Meloria - la disfatta del conte Ugolino della Gherardesca aveva rimesso il potere nelle mani dei Ghibellini, a Firenze rimaneva pur sempre il governo nelle mani dei Guelfi e, per giunta, della democrazia.Nel giugno del 1282, era avvenuta nel governo del comune fiorentino un'importante riforma: dal tempo della pacificazione avvenuta ad opera del CARDINAL LATINO (che abbiamo già letto in precedenti pagine), il governo era formato da quattordici uomini, di cui otto della fazione guelfa, sei della ghibellina; i consoli dell'Arte di Calimala sostituirono i Quattordici con i "Priori delle Arti".
Questi - che dovevano durare in carica per soli due mesi - nella prima elezione furono tre, ma nella seconda (agosto del 1282) divennero sei, uno per ogni sestiere, appartenenti tutti alle arti maggiori. I priori erano obbligati a vivere, a spese del comune, nel palazzo della signoria, e non potevano essere rieletti se non dopo due anni. Uscendo dalla bimestrale carica, insieme con i capi e con i consigli delle arti maggiori eleggevano a scrutinio segreto i nuovi priori.

"Della enorme felicità popolare suscitata dall'evento del 1282 si ebbe una prova strepitosa nella festa di San Giovanni, protettore di Firenze, celebrata nell'anno successivo.
La città fu piena di pubblici spettacoli, balli, convivi ed ogni tipo di divertimenti, soprattutto quelli offerti da una compagnia detta "dell'amore", composta di mille persone, che, vestite tutte di bianco, andavano ogni giorno con gli strumenti musicali in corteo per la città a suonare a ballare e a sollazzare la gente. Questa nuova specie di carnevale durò per quasi due mesi. E per tutto quel tempo Firenze fu visitata da mezza Italia e divenne il luogo di convegno più ambito di tutti coloro, che avevano l'animo ben predisposto e la borsa ben provvista (Bertolini)".In questo stesso anno (1283) anche i Senesi, ad imitazione di Firenze, abolirono il consiglio dei Quindici, sostituendolo con quello dei Nove, difensori del popolo, che furono scelti nell'ordine dei mercanti, furono obbligati a vivere nel palazzo del comune e duravano in carica anche questi un bimestre.
Pure ad Arezzo si operò una riforma popolare nel governo molto simile, ma poiché in questa città i nobili erano molto forti e godevano la protezione del vescovo GUGLIELMO degli UBERTINI, più tardi nel 1287 si formò un movimento aristocratico che diede il governo in mano alla nobiltà ghibellina.

Con l'avvento dell'arcivescovo RUGGIERI, due erano pertanto le città toscane dominate dai Ghibellini ed era naturale che contro si levassero in armi la lega guelfa. Nella guerra che seguì i ghibellini Aretini non furono fortunati: dopo avere riportato una splendida vittoria sui Senesi, l'11 giugno del 1289 furono duramente sconfitti dai Fiorentini a Campaldino e subirono 2440 tra morti e prigionieri. In questa battaglia, alla quale partecipò pure DANTE ALIGHIERI, perì il vescovo Guglielmo degli Ubertini. Tuttavia i superstiti Aretini arretrarono, si barricarono nella loro città e la misero in tale stato di difesa che i due eserciti dei Fiorentini e dei Senesi uniti non riuscirono ad impadronirsene.I ghibellini Pisani, invece, capitanati dal conte GUIDO di MONTEFELTRO, nonostante i loro nemici fossero più numerosi, tra i quali si contavano i fuorusciti guelfi e alcuni seguaci del conte Ugolino, più fortunati degli Aretini, riuscirono a ricuperare quasi tutti i castelli che avevano perduto e, grazie all'opera abilissima del loro capitano che seppe riorganizzare la milizia e farne un potente strumento di guerra, ottennero nel 1289 dalla lega guelfa onorevole pace concedendo ai Fiorentini franchigia nel proprio porto e restituendo ai Guelfi il possesso dei loro beni.

La pace concessa ai Pisani non fu però soltanto dovuta alle ottime qualità militari di GUIDO da MONTEFELTRO, ma anche alle inquietudini che agitavano Firenze e che consigliavano il popolo a posare le armi brandite contro i nemici esterni e a rafforzare dentro le proprie mura, la libertà e la democrazia.

I nobili guelfi, infatti, mal sopportando che il governo della città era in mano ai rappresentanti delle arti, si sottraevano spesso al rispetto delle leggi e di frequente con arroganza commettevano atti di violenza contro quelli che non erano della loro schiatta.

GIANO DELLA BELLA

Contro le prepotenze dei nobili sorse nel 1293 un priore delle Arti, di nome GIANO della BELLA, il quale, pur discendendo da famiglia nobile, si schierò a favore del popolo e fece approvare il famoso editto degli "Ordinamenti di giustizia", inteso a reprimere le violenze dell'aristocrazia e a conservare la libertà.

Trentasette delle più nobili famiglie fiorentine, in virtù di questo editto, furono escluse per sempre dal priorato, e fu data alla "Signoria" facoltà di escludere in seguito da tale carica tutte quelle altre famiglie alle quali si riteneva necessario applicare quel provvedimento; per evitare che i testimoni citati a carico dei nobili fossero reticenti per paura, si stabilì che in giudizio contro i nobili fosse prova sufficiente di reità la voce pubblica confermata da due persone probe e per fare eseguire la legge fu istituito un magistrato speciale, detto "gonfaloniere di giustizia". A questo magistrato spettava di difendere il Comune dalle sedizioni interne; aveva una guardia di mille cittadini che fu in seguito portata al numero di quattromila; abitava insieme con i priori e chiamava alle armi le venti compagnie delle città appendendo ad una finestra del "Palagio" il gonfalone bianco con croce rossa, insegna del suo ufficio.

A GIANO della BELLA i nobili non perdonarono di aver tradito la propria classe, e poiché non era prudente vendicarsi su di lui con la forza, come consigliava BERTO FRESCOBALDI, pensarono di liquidarlo rendendolo odioso ai suoi stessi partigiani. Cominciarono pertanto con il richiamare l'attenzione su certi abusi commessi dal potente e numeroso ordine dei giudici e dei notai, e continuarono nella loro tattica rivelando vere o false irregolarità dentro le varie corporazione.

GIANO cadde nel tranello tesogli dai nemici e, scoperto veramente alcuni abusi commessi dai due ordini suddetti, si accinse a reprimerli con estremo rigore, alienandosi così in tal modo le simpatie di tutti coloro che erano colpiti. Narra Dino Compagni che, avendolo avvertito del gioco degli avversari, Giano rispondeva: "Perisca piuttosto la repubblica, ed io con lei, piuttosto che soffrire l'iniquità per uno sciagurato particolare interesse, anziché distruggere la vera libertà con una vile tolleranza".

Accadde poi che in una rissa tra popolani e i famigliari del nobile CORSO DONATI, questi uccisero uno di quelli. Il giudice incaricato del processo, volendo vendicare il proprio ordine bersagliato da Giano, concluse la sua relazione in modo che il podestà alla fine assolse il Donati.
Essendo stata sparsa ad arte la voce che la sentenza fosse stata comprata con il danaro, si levò a tumulto il popolo, e il podestà, salvatosi a stento dalla furia popolare, fu costretto il giorno dopo ad abbandonare Firenze.
Di tale sommossa fu, più tardi, accusato come sobillatore GIANO della BELLA; ma il popolo si schierò in suo favore e, circondata la sua casa, si offerse di brandire le armi e di marciare con lui contro i suoi accusatori. In questi c'erano i nobili, i grassi popolani, giudici, notai, beccai e tutti coloro che di solito sono invidiosi di chi ha saputo conquistarsi il favore pubblico; e vi si aggiunsero anche i priori.

Giano della Bella avrebbe potuto avere ragione dei suoi nemici, ma occorreva ricorrere alle armi, spargere del sangue, iniziare una guerra civile. Anziché sacrificare la pace della sua città, Giano preferì sacrificare se stesso e, poiché non intendeva affidarsi al giudizio dei tribunali della cui equità sospettava, uscì da Firenze sperando che, riconosciuta la sua innocenza, sarebbe stato richiamato (3 marzo del 1294).
Invece, appena uscito dalla città, fu condannato nella persona e nei beni e il patriota, recatosi in Francia, vi morì, esule e per giunta scomunicato da BONIFACIO VIII, che, con questo atto, si intrometteva per la prima volta nelle vicende di Firenze.
"Parve per un momento - scrive il Bertolini - che il sacrificio di Giano della Bella non riuscisse a salvare Firenze dalla guerra civile, la riscossa dei nobili minacciava di attizzarla e farla nascere. Infatti, la città fu subito tutta in armi, schierata in due fazioni; una pretendeva che gli "Ordinamenti di Giano" fossero revocati, e l'altra sosteneva che non si dovevano toccare.

Per buona fortuna la discordia si arrestò allo stato di minaccia; e quando le armi stavano già per incrociarsi, i nobili rinunciarono; si erano contati ed avevano contato pure i loro avversari. Prevedendo una disfatta quasi certa, si rassegnarono a sopportare gli Ordinamenti.
In questa occasione molte famiglie nobili, quelle sopratutto che avevano le rendite scarse e quindi era pure scarsa la loro influenza, lasciarono il loro ceto ed entrarono nelle file del popolo registrandosi ad un'Arte; diventando così la democrazia dello Stato sempre più attuata.
Ma non fu abbastanza questa apparente democrazia, per mettere in atto anche la concordia dei cittadini; perché, mancato poi l'impulso di quell'unione creatasi nella guerra contro i nobili, in breve dalle stesse file, la cupidigia del potere causò i primi contrasti, le prime liti, e le prime disunioni.
Così com'era sempre accaduto prima, che la contesa fra due famiglie nobili causava la divisione della città intera, così accadde ora dopo aver privato di potere, d'autorità e di prestigio e quasi esautorati i nobili.

Le nuove famiglie suscitatrici della discordia cittadina furono i CERCHI e i DONATI.
I primi, gente nuova, che si era arricchita con la mercatura, aveva come guida VIERI, un affarista, un uomo di scarsa levatura e limitata oratoria. I DONATI erano invece meno ricchi dei Cerchi, ma avevano su questi il vantaggio di avere un capo abile e audace; ed era CORSO, l'autore principale della disgrazia di Giano della Bella.

Già il seme della discordia nei campi delle due famiglie stava facendo germogliare una mala pianta, quando nacque a Firenze -suo malgrado- un altra discordia, che diede il nome alla pianta e favorì l'azione alla discordia.

I NERI E I BIANCHI (ovvero i CANCELLIERI)

I PRECEDENTI - Viveva nella vicina Pistoia una nobile famiglia guelfa, quella dei CANCELLIERI che, dopo la cacciata della famiglia ghibellina dei PANCIATICHI, avvenuta dopo la battaglia di Benevento, era diventata il casato più potente di quella città. Si divideva in due rami detti l'uno dei BIANCHI, l'altro dei NERI, perché, secondo la tradizione, uno discendeva dalla prima moglie del capostipite della famiglia chiamata BIANCA, l'altro dalla seconda moglie di nome NERA. Ed ognuna delle due donne aveva messo al mondo dei figli dello stesso padre ma non della stessa madre, quindi fratellastri; poi questi (Gualfredo e Guglielmo) a loro volta sposandosi avevano creato le rispettive famiglie.

Ora avvenne che un giorno, trovandosi molti Cancellieri dei due rami in una taverna a giocare ed essendo piuttosto alticci per le copiose libagioni, CARLINO, figlio di Gualfredi, del ramo bianco, ingiuriò e ferì con la spada DORO, figlio di Guglielmo, del ramo nero.
Quella lite e quel ferimento ebbero gravissime conseguenze per la fazione guelfa non solo di Pistoia, ma anche di Firenze e di tutta la Toscana. E soprattutto scavarono un abisso tra i due rami dei Cancellieri: perché, la sera stessa di quel giorno, per vendicarsi, Doro ferì Vanni, fratello di Carlino, e più tardi fu a sua volta mutilato di una mano da Gualfredi.

Iniziatasi così la lotta, una vera e propria faida si estese rapidamente a tutta la famiglia dei Cancellieri e ai loro sostenitori, di modo che in breve la nobiltà guelfa pistoiese si trovò divisa in due accanitissime fazioni, le quali turbarono talmente con il loro odio la quiete della città da costringere gli uomini più saggi a chieder l'aiuto di Firenze per ristabilire la calma e l'ordine.

Così quella che era una divisione interna di una famiglia, prima coinvolse una città, poi, superò le barriere esterne, creando altrettanto controversi sostenitori, coinvolgendo la politica, e subito creando divisioni e due partiti, ovviamente chiamati dei BIANCHI e dei NERI.Firenze, temeva che da quella discordia intestina traessero profitto i fuorusciti ghibellini della vicina città, e alla richiesta dei saggi, intervenne volentieri e, avuta per tre anni la balìa di Pistoia, vi inviò un podestà e un capitano del popolo.
Questi formarono il collegio dei Dodici con sei Neri e sei Bianchi e mandarono i capi delle due parti al confino a Firenze, sperando con questo provvedimento di ridare la pace a Pistoia. In verità Pistoia ebbe un po' di respiro dopo questa misura preventiva; ma ne risentì un gran danno Firenze, dove i confinati riacutizzarono con la loro presenza le discordie tra CERCHI e DONATI, ben presto dando alle due fazioni fiorentine il nuovo nome.
I Cerchi che avevano ospitato i sostenitori di Gualfredi si chiamarono BIANCHI; mentre i Donati che avevano dato ospitalità ai partigiani di Gugliemo si chiamarono NERI.
Se vogliamo ricapitolare i "bianchi" erano il popolo e gli arricchiti (i ghibellini) mentre i "neri" la nobile aristocrazia (i guelfi).

Dei primi era capo VIERI, dei secondi CORSO; fra i primi militavano gli uomini più illustri di Firenze, come GUIDO CAVALCANTI, filosofo e poeta, genero di FARINATA degli UBERTI, lo storico DINO COMPAGNI e DANTE ALIGHIERI.
Dal giorno in cui (calendimaggio del 1300) un Donati tagliò in pubblico il naso a un Cerchi, l'odio tra le due fazioni si mutò in lotta aperta e furono tante le violenze commesse che per intercessione di alcuni cittadini, BONIFACIO VIII inviò a Firenze il cardinale D'ACQUASPARTA per rimettervi la pace.

Vi giunse nel giugno del 1300 e chiese subito la balìa della città con il proposito di costituire per il nuovo anno la "signoria" con un eguale numero di membri delle due parti, ma i Bianchi, che avevano già la prevalenza nel governo, si opposero alle richieste del cardinale, il quale, sdegnato, partì sottoponendo Firenze all'interdetto.
Pensò allora la parte bianca di ristabilire la pace ed era convinta di ottenerla mandando in esilio un certo numero di noti attaccabrighe sia Bianchi sia Neri, ma il rimedio fu peggiore del male perché applicato con evidente partigianeria.
Difatti mentre dei Neri, con altri compagni, fu mandato il capo CORSO DONATI, non fu esiliato dei CERCHI il VIERI, e così altri bianchi tra cui Guido Cavalcanti.
I Bianchi furono confinati a Sarzana, i secondi a Castello della Pieve presso Perugia. Fra i priori che pronunciarono la sentenza c'era DANTE.

Questo trattamento di favore usato ai Bianchi, seguito dal loro richiamo in Firenze per l'aria malsana di Sarzana che aveva fatto ammalare il Cavalcanti, il quale poi ne morì, colmò d'ira gli animi degli esuli Neri, che si rivolsero al Pontefice e, dipingendo i Bianchi come guelfi assai tiepidi o infidi, lo indussero a mandare a Firenze, per ristabilirvi l'ordine, non un cardinale, ma un uomo di grande autorità appoggiato da… cosa? Ma da un esercito!.
Quella repubblica democratica fiorentina era da qualche tempo che dava fastidio e un pretesto bisognava pur trovarlo!
(Dobbiamo far notare che sia fra i Bianchi sia fra i Neri (intendiamo quelli della originale lite) militavano sia Ghibellini che Guelfi)
Papa Bonifacio l'aveva pronto l'uomo adatto, e questi era CARLO di VALOIS, fratello di FILIPPO il "BELLO" Re di Francia, già chiamato in Italia per un'altra impresa, quella di Sicilia (narrata nelle pagine precedenti).

A lui il Pontefice gli affidò l'incarico di pacificare le due fazioni di Firenze. Questa era la missione ufficiale; ma ce n'era un'altra segreta: pacificazione non doveva significare equa composizione del dissidio, bensì oppressione di una delle due parti e innalzamento dell'altra; e quest'ultima non poteva essere che quella dei Neri (quella dei nobili, quindi guelfa, quindi sostenitrice da sempre del papato)Questo pericolo era grave per quella libertà che Firenze si era, lottando, guadagnata negli ultimi anni. E i più saggi tra i Bianchi conoscevano le mire papali, che erano (dai tempi di Matilde) quelle di fare della Toscana un feudo della Chiesa, riesumando il vecchio diritto su quei beni matildini. Per scongiurarlo, alcuni ambasciatori, nell'ottobre del 1301, furono inviati a Roma, e tra questi c'era DANTE, ghibellino, quindi bianco, quindi nemico dichiarato ed implacabile della politica pontificia. Ma era troppo tardi: CARLO di VALOIS era già in marcia.Da Siena, dove era giunto con un forte corpo d'armati, il principe in quello stesso mese di ottobre si recò a Staggia e di qui inviò a Firenze ambasciatori per chiedere alla signoria di accoglierlo come paciere. Gli fu risposto che i Fiorentini lo avrebbero accolto con tutti gli onori, a patto però che non mutasse nessuna legge del comune né avanzare diritti o giurisdizione di sorta.

CARLO di VALOIS promise e il 1° di novembre fece il suo ingresso a Firenze. Ottocento cavalli lo seguivano e a questi si erano aggiunti duecento uomini perugini e non pochi lucchesi in armi, forza imponente che di giorno in giorno fu accresciuta dall'arrivo di gentiluomini di Romagna, quali CANTE de' GABRIELLI da Gubbio, MALATESTINO, e MAGHINARDO di SUSINANA, tutti con un buon seguito di uomini armati.Firenze era ormai in mano del VALOIS, che dai suoi uomini fece custodire le porte; e da queste porte, la notte stessa dell'arrivo del principe entrarono CORSO DONATI e tutti gli esuli Neri. Le lagnanze dei priori furono molte, ma Carlo si scusò dicendo che lui non c'entrava nulla con quei rientri e per mostrare che era a Firenze solo per mettere la pace chiese che i capi delle due fazioni si affidassero alle sue mani, di andare tutti da lui per concertare pace e tranquillità alla città.

Essendo prudenti per le esperienze fatte, i capi dei Bianchi avrebbero dovuto accogliere con diffidenza la richiesta del principe, invece, peccando di imperdonabile ingenuità, spontaneamente andarono all'appuntamento, insieme con quelli della parte avversaria alla presenza di Carlo di Valois, il quale, senza neppure tentare di salvar le apparenze, subito dopo lasciò in libertà i Neri ma trattenne sotto buona guardia i Bianchi.I priori solo allora si accorsero del tradimento e fecero suonare a martello le campane; ma il popolo, impaurito dalla presenza di tanti armati nella città, non osò accorrere alla chiamata, la plebaglia anzi, avendo visto che la fortuna arrideva ai Neri, si schierò sotto le loro insegne.

Fu dato allora inizio alle antiche vendette: parve che Firenze fosse caduta in potere di barbari conquistatori; per sei giorni il disordine più brutale regnò nella città ben orchestrato dai provocatori; le case dei Bianchi furono saccheggiate ed arse; molti autorevoli cittadini di parte bianca caddero vittime dell'odio, molte fanciulle furono violate e le ricche strappate alle famiglie e sposate a forza.CARLO di VALOIS fingeva d'ignorare tanto scempio e, quando il partito dei Bianchi apparve prostrato, volle dare una veste di legalità al disordine, fece nominare i nuovi priori ma scegliendoli tutti dalle file dei Neri e, insediandoli l'11 di novembre, fece eleggere podestà CANTE DE' GABRIELLI, il quale, con il pretesto di fare giustizia, iniziò una serie di processi che con la confisca dei beni e le multe fruttarono molte migliaia di fiorini d'oro al Cante stesso e al principe.

Fra le vittime di questi processi ci fu pure DANTE ALIGHIERI. Con una prima sentenza, pubblicata il 27 gennaio del 1302, fu accusato a torto di baratterie, di guadagni illeciti, di inique estorsioni in denaro e in cose ("barattarias, lucra illecita, iniquas extorsiones in pecunia vel in rebus"), e di aver tramato contro il Sommo Pontefice, contro Carlo, opponendosi alla sua venuta, contro la pace di Firenze e della parte guelfa. Invitato a discolparsi insieme con altri accusati, Dante non si presentò e in contumacia fu condannato ad una multa di cinquemila fiorini e alla restituzione delle cose estorte e, se non avesse pagato entro tre giorni, alla confisca e al distruzione dei beni, al confino per due anni e all'interdizione da ogni pubblico ufficio.

Con una seconda più grave sentenza del 10 marzo 1302, DANTE fu condannato ad essere arso vivo se fosse caduto nelle mani dei magistrati, e con una terza sentenza, generale per tutti i Bianchi, in data del 27 aprile 1302, fu condannato al perpetuo esilio. Quel mese stesso il Valois abbandonava Firenze. Si recava - come già detto sopra, e abbiamo narrato nel precedente riassunto - in Sicilia per portarvi la guerra e doveva invece farvi la pace; mentre era andato in Toscana per portarvi la pace e vi aveva portato la guerra.

BONIFACIO VIII E I COLONNA - BONIFACIO E FILIPPO IL BELLO

Ricordiamo che Bonifacio, nobile di nascita di Anagni, dov'era nato nel 1235, creato cardinale nel 1281 intervenne a favore degli Angioini nella guerra del Vespro. Esperto giurista, agevolò la legittimazione delle dimissioni di Papa Celestino, in seguito alla quale egli stesso fu eletto papa (1294) con un programma volto a restaurare l'autorità della Chiesa sia in ambito religioso sia politico. Per riportare all'obbedienza la Sicilia impose agli Aragonesi la rinuncia al regno, che riottennero poco dopo con Federico III (1296).Dunque Firenze è caduta in balia dei Neri, e contro Bonifacio VIII, mentre tentano con ogni mezzo di rientrare nella loro patria, imprecano i Bianchi e contro di lui lancia il verso terribile l'esule Dante.

Certo c'è dell'esagerazione partigiana nel giudizio che di questo Pontefice dà l'Alighieri: alla luce della critica storica la figura di Bonifacio non appare con quelle tinte fosche con le quali i contemporanei la dipinsero e noi, che guardiamo l'opera sua a tanta distanza di tempo e privi delle passioni che velano la verità, dobbiamo riconoscere che se le malefatte del Papa furono in parte dovute al suo carattere orgoglioso e violento, in grandissima parte vanno attribuite alla politica che da tempo seguiva la Curia Romana e alla quale egli fedelmente si attenne.

Quella dei suoi predecessori era la sua politica: consolidare la potenza del Papato e la supremazia della Santa Sede sul potere civile, cancellare in Italia ogni traccia di diritti imperiali, impedire l'unificazione italiana sostenendo l'Angioino suo vassallo nel mezzogiorno, asservendo a Roma il Guelfismo dell'Italia settentrionale e ingerendosi nelle cose della Toscana.
(Si inserì anche se invano, nelle lotte fra Inghilterra e Francia).

Era naturale che questa politica dovesse urtare contro gli interessi di molti: fuori della penisola con quelli del re di Francia, dentro con quelli dei Siciliani e dei liberi comuni. A rendere più terribili questi contrasti doveva contribuire il carattere violento del Pontefice, soprattutto nelle lotte tra lui e la potente famiglia romana dei Colonna.I Colonna gareggiavano per ricchezze con i più grandi principi d'Europa; avevano fastosi palazzi a Roma e molti castelli nella campagna, fra i quali i principali erano Palestrina, Nepi e Zagarolo; erano potenti per le numerose aderenze che vantavano, per la nobiltà dei natali, per gli illustri antenati ed anche perché due membri della loro famiglia facevano parte del Sacro Collegio, i cardinali PIETRO e GIACOMO COLONNA. Motivi di odio tra i COLONNA e i CAETANI non mancavano. Questi invidiavano la ricchezza cui, sotto il pontificato di Niccolò IV, erano quelli pervenuti, i Colonna dal canto loro odiavano papa Caetani sia perché era riuscito a salire sul soglio papale, sia perché favoriva la politica angioina da cui essi erano stati maltrattati.

Costituivano i Colonna un serio pericolo per Bonifacio: avevano segreti rapporti con Federico III di Sicilia, criticavano l'indirizzo mondano della politica del Papa, radunavano intorno a loro tutti coloro che tale politica non erano contenti, e contestavano- a quanto sembra - la legittimità dell'elezione del successore di Celestino (era stato lui a legittimare l'abbandono del soglio, per poi salirci lui).Ce n'era abbastanza da indurre il Pontefice alla lotta contro i Colonna. E la lotta scoppiò nel maggio del 1297. Invitato, il 4 di questo mese, a confermare e giustificare le accuse d'illegittimità fatte al Papa, il cardinal PIETRO COLONNA non solo non rispose ma con alcuni membri della famiglia lasciò Roma e andò a rafforzarsi a Palestrina.

Pochi giorni dopo, il 10 maggio, Bonifacio lanciò contro i Colonna la scomunica con una bolla di cui riportiamo in singolare preambolo: "Avendo preso in considerazione le abominevoli azioni dei Colonna nei tempi passati, l'attuale loro ricaduta in opere riprovevoli e le ragioni per cui sono da temersi da parte loro azioni non meno malvagie in avvenire, ci siamo persuasi che l'aborrita casa è amara ai suoi stessi famigliari, molesta ai vicini, nemica della repubblica romana, ribelle alla Santa Chiesa, perturbatrice della città e della patria, ingrata ai benefizi, troppo arrogante per ubbidire, troppo ignorante per comandare, immodesta, violenta, senza timor di Dio, nemica degli uomini e perpetua minaccia alla pace di Roma e del mondo".

BONIFACIO continuava accusando i Colonna di aver fomentata e approvata la ribellione dei Siciliani, di non avergli voluto dare le città e i castelli posseduti e deponeva per questi motivi PIETRO e GIACOMO dalla dignità cardinalizia, li spogliava di tutti i beni, li privava delle rendite, minacciava di scomunica tutti coloro che prendevano le loro difese, e, infine, escludeva i loro nipoti fino alla quarta generazione dagli ordini sacri.

I COLONNA alla notizia della scomunica non rimasero inoperosi, ma lanciarono un manifesto nel quale non soltanto dichiaravano di non riconoscere come papa legittimo Bonifacio, sia perché Celestino non poteva abdicare sia perché vi era stato da lui costretto, ma facevano istanza che fosse convocato un concilio per deliberare sulla irregolare posizione del Pontefice. Al manifesto dei Colonna rispose Bonifacio rinnovando la scomunica e, falliti i negoziati fatti dal senatore PANDOLFO di mettere pace tra i contendenti, fece demolire i palazzi che i Colonna avevano a Roma, bandì contro di loro la crociata e inviò le milizie, al comando del cardinale D'ACQUASPARTA e del vescovo di Rufina, a prendere d'assalto i loro castelli.

I Colonna a quel punto avevano chiesto aiuto a Federico di Sicilia e cercato di ribellare i baroni della Campagna, ma dal primo non vennero né potevano giungere soccorsi, degli altri non si mosse che GIOVANNI da CECCANO della famiglia degli ANNIBALDI; quindi i Colonna dovettero contare quasi esclusivamente sulle loro forze e non deve destare meraviglia se i loro castelli furono costretti alla resa l'uno dopo l'altro.

Solo Palestrina, dove si erano rifugiati AGAPITO e SCIARRA COLONNA e i due cardinali, resistette a tutti gli assalti. Se dobbiamo credere a Dante, Bonifacio, disperando di prenderla a forza, chiese consiglio a GUIDO da MONTEFELTRO, che da due anni si era fatto monaco francescano e, poiché lui esitava, per tirarlo dalla sua parte, lo assolse delle colpe passate e future. Guido, esaminata la città assediata, rispose che era inespugnabile e aggiunse che lui solo un consiglio poteva dare: promettere molto e mantenere poco.

BATTAGLIA GENOVA-VENEZIA ( DI CURZOLA)

Era il settembre del 1298. Mentre intorno a Palestrina milizie italiane cercavano di sopraffare altri Italiani e il Pontefice, meditando sul consiglio di Guido da Montefeltro, pensava al modo migliore di metterlo in esecuzione, nell'Adriatico altri Italiani combattevano tra loro ed arrossavano il mare di sangue fraterno: i Genovesi e i Veneziani.
La loro rivalità era già vecchia: ma questa si era fatta ostinata nel 1293 con uno scontro nelle acque di Cipro tra quattro galeazze veneziane e sette navi mercantili genovesi e con un attacco operato da Ruggero Morosini nel 1296 al quartiere genovese di Galata.
Nel settembre del 1298 due numerose flotte delle repubbliche di Genova e Venezia, comandate, l'una da LAMBA DORIA, l'altra da ANDREA DANDOLO, si scontravano nelle acque di Curzola.

La sanguinosa battaglia vide sconfitti i Veneziani: delle novantasei galee che formavano la loro flotta solo dodici riuscivano a salvarsi; sessantasei furono incendiate o affondate e diciotto catturate. Queste urono condotte a Genova con settemila prigionieri, fra cui si trovava MARCO POLO, il celebre viaggiatore.

Intanto Bonifacio attuava il diabolico piano che aveva meditato. Fingendo di aderire alle proposte pacifiche del cardinal BOCCAMAZZI e dei Romani concluse un trattato con i Colonna, col quale questi si obbligavano di riconoscere il Pontefice e di ritornare sotto la sua sovranità e lui prometteva di assolverli dalla scomunica; di restituire loro le dignità e rimetterli in possesso dei beni.
Palestrina aprì quindi le porte, i due cardinali con Agapito e Sciarra si recarono a Rieti a fare atto di sottomissione al Pontefice; questi li mandò a Tivoli in attesa che fossero definite le controversie, ma quando si accertò che erano ben custoditi ordinò che Palestrina fosse rasa al suolo.
Quando conobbero la sorte della loro città, i Colonna compresero di essere stati traditi e pensarono alla loro personale via d'uscita per salvare la pelle. I due cardinali si rifugiarono in Umbria, dove da qualche parte rimasero nascosti, Stefano fuggì in Sicilia e poi alla corte di Francia dove Sciarra aveva trovato rifugio; rimasero invece esposti alle vendette papali i loro complici GIOVANNI da CECCANO che fu chiuso in carcere ed ebbe i beni confiscati, mentre frate JACOPONE da TODI celebre per le sue laudi e per le sue invettive contro la Curia fu messo in una prigione da cui solo dopo la morte del Pontefice fu liberato.

Bonifacio trionfava e il suo trionfo sembrava più grande nel 1300, in occasione del grande giubileo. Con bolla del 22 febbraio di quell'anno il Papa aveva concesso indulgenza plenaria a tutti i Cristiani se visitavano le chiese di Roma se forestieri per quindici giorni consecutivi e se Romani per un mese; escludendo Federico di Sicilia e i Colonnesi.

Nel corso di quell'anno, la capitale della Cristianità rigurgitava di gente venuta da ogni parte del mondo cattolico e le casse pontificie, si colmavano dei denari offerti in elemosina dai pellegrini.
Mentre però trionfava Bonifacio, oltre le Alpi i suoi nemici preparavano le vendette incitando il re e il clero francese a schierarsi contro il Pontefice. Gli incitamenti dei Colonna sarebbero certamente rimasti sterili se il terreno in cui essi seminavano non fosse stato già ben lavorato.
Per loro fortuna non mancavano le ragioni di dissidio tra il Pontefice e FILIPPO IV "il bello"; i loro rapporti erano da qualche tempo piuttosto tesi. Durante la guerra tra la Francia e l'Inghilterra (1294-95) il re francese per sostenere la guerra aveva imposto agli ecclesiastici una decima. Il clero aveva energicamente protestato presso il Papa e questi aveva emanato (febbraio del 1296) una bolla con la quale si vietava ai principi di sottoporre a tributi gli ecclesiastici.

Al divieto papale Filippo aveva risposto proibendo l'esportazione dell'oro e dell'argento dai suoi stati e la riscossione, per conto di Roma, dei crediti da parte dei banchieri italiani; a sua volta Bonifacio nel 1300 emanava una bolla contro il re di Francia, accusandolo di tirannide e invitandolo a sottomettersi.Il fuoco era dunque acceso tra Roma e Parigi, e i Colonna non fecero che soffiarvi. Si afferma che Filippo giunse a un tal segno d'insolenza da far bruciare sotto il portico della chiesa di Notre-Dame la bolla pontificia; poi siccome Bonifacio aveva indetto un concilio a Roma per definire le controversie con il re, questi convocò i rappresentanti del clero, della nobiltà e delle città per sottoporre al giudizio di questa assemblea che diede origine agli Stati generali - l'esame del contrasto insorto tra lui e il Papa.

In questa assemblea si contestò al Pontefice il diritto d'intervenire nelle faccende temporali del regno e di convocare prelati francesi a Roma per giudicare la condotta politica del sovrano.
Bonifacio VIII non si perse d'animo e verso la fine del 1302 aprì a Roma il concilio, al quale, malgrado il divieto di Filippo IV, intervennero numerosi prelati francesi. In questo concilio il Pontefice lesse la famosa bolla "Unam Sanctam" nella quale affermava la supremazia del papato sul potere temporale, e proclamava, come condizione di eterna salute, che tutti fossero sottoposti al Papa, anche i re.

Questa bolla costituiva l'ultimo atto della teocrazia, cui seguì, come logica conseguenza, nell'aprile del 1303, la scomunica del monarca francese.
Non diremo qui dell'assemblea tenuta in Parigi il 13 giugno del 1303, nella, quale le accuse più inverosimili furono lanciate contro il Pontefice, né del nuovo orientamento alla sua politica dato dal Pontefice verso l'imperatore tedesco, perché non ci fu il tempo di vederne i frutti; ma parleremo dell'epilogo della contesa, che costituisce una macchia indelebile per la memoria di Filippo.Indubbiamente con il consenso del re di Francia e per istigazione dei Colonnesi, nell'estate del 1303 giunsero in Italia i Colonna con trecento cavalli, con il fiorentino MUSCIATTO FRANZESI, e parecchi nemici del Papa, come GUGLIELMO NOGARET di Tolosa, vice cancelliere del Sovrano. Quest'ultimo si stabilì a Staggia, presso Siena, e, fatta sparger la voce di esser venuto per negoziare con il Pontefice, cominciò a distribuire una gran quantità di denaro per costruirsi un buon nucleo di partigiani. Non mancavano a Bonifacio i nemici e fra questi il Nogaret trovò anche lui i suoi aderenti, fra cui i principali furono GOFFREDO di CECCANO, MASSIMO di TREVI, RINALDO di SUPINO, TOMMASO di MOROLO, GIORDANO di SCURCOLA e molti cavalieri di Ferentino, Alatri, Segni, Veroli.

Riuniti tutti costoro a Scurcola, GUGLIELMO di NOGARET partì alla loro testa la notte del 7 settembre e giunse, sul far dell'alba, ad Anagni, dove risiedeva Bonifacio VIII.
Scopo del Nogaret era quello d'impadronirsi del Pontefice e tradurlo in Francia dove volevano farlo giudicare da un concilio. Al grido di "Morte a Bonifacio ! Viva il re di Francia!" gli armati assalirono il palazzo pontificio. Ma trovarono alla porta tale resistenza da parte del conte Pietro e di altri nipoti del Papa, che dovettero faticare non poco per penetrarvi.
In tale frangente il fiero Pontefice, vecchio di ottantasei anni, non si perse d'animo, mostrò anzi un tale coraggio e una tale dignità da suscitare l'ammirazione dei contemporanei e dei posteri.

Caduta gran parte dei suoi difensori, fuggiti quasi tutti i suoi cardinali davanti all'orda degli assalitori sparsasi pel palazzo a saccheggiare, lui imperturbabile si fece trovare nella sala del trono, ricoperto, dei paramenti pontificali, e con la fronte serenamente appoggiata sopra un Crocifisso.Si disse più tardi ma non è certo che SCIARRA COLONNA avesse colpito con il suo guanto di ferro Bonifacio in una guancia; è sicuro invece che lo copersero di insulti e, poiché il Pontefice rifiutava di seguire i suoi nemici, lo tennero prigioniero per tre giorni, sotto continue minacce di morte.Il contegno decisamente fermo del Papa rese imbarazzati i suoi avversari e diede tempo ai Caetani di correre in soccorso di Bonifacio; il cardinale FIESCHI entrato ad Anagni alla testa di pochi soldati, il 10 settembre spinse il popolo a vendicare l'offesa arrecata alla sacra maestà del Vicario di Cristo ed si impadronì a viva forza del palazzo, invano difeso dai Francesi che buona parte di loro morirono. Il Nogaret e Sciarra Colonna riuscirono a salvarsi fuggendo a Ferentino.

Così Bonifacio VIII fu salvo, ma il colpo ne aveva abbattuto la fibra fortissima; condotto a Roma, come luogo di maggior sicurezza, il Pontefice trascorse un mese assai provato per lo smacco subito, gli ultimi giorni era in preda alla più cupa disperazione; l'11 ottobre del 1303 fu trovato morto nel suo letto.Con Bonifacio possiamo dire che termina veramente un epoca: la lotta tra l'impero e i comuni italiani, le lotte tra il Papato e l'Impero, fallito il tentativo di unire l'Italia, che anzi appare più che disunita che mai e non ha più all'inizio del 1300 alcun legame di dipendenza con l'Impero.E' stata l'epoca della civiltà comunale, con le città che hanno maturato nuove forme politiche e una vita autonoma; con le loro costituzioni sociali e militari, e con una nuova organizzazione del lavoro e del commercio, e che vale la pena di ripercorrere interamente prima di affacciarci al nuovo secolo XIV.

Ed è il prossimo capitolo che andiamo a iniziare > > >


(VEDI ANCHE I SINGOLI ANNI o nella TEMATICA)

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia
GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

LANZONE - Storia dei Comuni italiani dalle origini al 1313

VITORIO GLEIJESIS - La storia di Napoli, Soc. Edit Napoletana
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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