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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI dal 1282 al 1287 

GUERRA DEL VESPRO
MORTE DI CARLO, MARTINO IV, FILIPPO, PIETRO D'ARAGONA

PIETRO D'ARAGONA A MESSINA - SFIDA TRA PIETRO E CARLO D'ANGIÒ - GLI ALMUGAVERI - IL PARLAMENTO DI S. MARTINO - BATTAGLIA NAVALE DI MALTA - EPILOGO DELLA SFIDA TRA I DUE RE - FEBBRILI PREPARATIVI ANGIOINI - PRIMA BATTAGLIA NAVALE NEL GOLFO DI NAPOLI: PRIGIONIA DI CARLO LO ZOPPO - CARLO D'ANGIÒ ALL'ASSEDIO DI REGGIO; SUA RITIRATA - PROGRESSI DELLE ARMI SICILIANE - MORTE DI CARLO D'ANGIÒ E DI MARTINO IV - ONORIO IV - LA GUERRA IN ARAGONA - VITTORIA NAVALE DEI SICILIANI AL CAPO DELLE FORMICHE - MORTE DI FILIPPO DI FRANCIA E PIETRO D'ARAGONA - INCORONAZIONE E COSTITUZIONE DI GIACOMO - TRAGICA FINE DI ALAIMO DI LENTINI - GLI ANGIOINI AD AUGUSTA - SECONDA BATTAGLIA NEL GOLFO DI NAPOLI

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IL PRIMO ANNO DELLA GUERRA

Come abbiamo appena letto nella precedente puntata, il 25 settembre 1282, da Messina iniziò la ritirata dell'esercito Angioino, il giorno dopo il 26 lasciò l'isola pure CARLO D'ANGIO', e più che lasciarla la sua parve proprio una fuga tanto era il disordine e così grande la fretta d'imbarcarsi che abbandonarono al campo bagagli, vettovaglie, macchine e cavalli, e caddero altri cinquecento di loro colpiti dai Messinesi che li incalzarono anche sulla spiaggia mentre tentavano di imbarcarsi.
Proprio per niente metaforicamente, i Messinesi -e con il pensiero tutti i Siciliani- ributtarono i Francesi letteralmente a mare.

Mentre lui abbandonava l'Isola, umiliato dopo la disfatta di 60.000 fanti, 15.000 pedoni e 200 navi, l'Aragonese senza sparare nemmeno un colpo trionfava. PIETRO D'ARAGONA fece il suo ingresso trionfale a Messina il 2 ottobre 1282; per le vie parate a festa, gremite di popolo acclamante, si recò al duomo per rendere grazie a Dio, poi si recò alla reggia, mentre la cittadinanza festeggiava l'avvenimento e fraternizzava con i soldati del nuovo sovrano.
Fuori i Francesi ora arrivavano gli Spagnoli!
Il giorno 9 dello stesso mese gettò l'ancora nel porto GIACOMO PEREZ, figlio naturale del re, comandante di ventidue galee catalane. Con queste e un'altra trentina trovate in diversi porti siciliani Pietro formò una considerevole flotta che inviò subito a molestare le forze navali nemiche dello Stretto.

L'11 ottobre questa flotta, mista catalane e siciliane, costrinse l'armata angioina, forte di settantadue navigli, a riparare a Reggio ma il 14, investite da quarantotto galee nemiche, oltre che sbaragliarle ne catturarono ventidue e quattromila prigionieri.Iniziava così la lunga guerra tra Aragonesi ed Angioini, la quale annoverò, fra i tanti episodi, una singolare sfida provocata dai due sovrani. Non è ben chiaro chi dei due ha mandato a sfidare il rivale, ben note invece sono le condizioni del duello. Esso doveva avvenire in campo chiuso presso Bordeaux, alla presenza del re Eduardo d'Inghilterra, che ne era signore feudale, entro il giugno del 1283, tra PIETRO D'ARAGONA e CARLO D'ANGIÒ, seguiti ciascuno da cento cavalieri.

SFIDA TRA PIETRO D'ARAGONA E CARLO D'ANGIO'

Con questo duello, Carlo doveva provare che l'Aragonese, entrando in Sicilia senza ragione e dichiarazione di guerra, aveva agito con disonore; Pietro doveva invece provare che l'occupazione della Sicilia e le ostilità contro l'Angioino non costituivano macchia al suo onore.
Chi dei campioni fosse mancato di scendere sul campo sarebbe stato considerato "vinto, spergiuro, falso, fallito, infedele, traditore e indegno del nome e della dignità dì re".Affermano alcuni scrittori che Carlo con il pretesto del duello tentava di allontanare dalla Sicilia il rivale, solo per impedirgli di assalire la terraferma o suscitarvi la rivolta; che voleva approfittare dell'assenza dell'Aragonese per rioccupare l'isola.

Se veramente il proposito dell'Angioino era questo non lo sappiamo. Anche a volerlo ammettere, è certo però che l'insidia non riuscì, perché Pietro non si lasciò distrarre dal duello e continuò ad infastidire il nemico con audaci incursioni sulla terraferma. La notte del 6 novembre 1282, infatti, quindici galee siciliane sbarcavano alla Catona un corpo di fanti leggieri (almugaveri) comandati da Giacomo Perez, e andava ad assalire quattromila angioini, che vi erano accampati, li sbaragliava, l'inseguiva fino a Reggio e tornava a Messina con un buon bottino e numerosi prigionieri; qualche giorno dopo si dava a Pietro la terra di Scalea, in Principato, e nello stesso mese cinquecento catalani, stanziatisi nei boschi di Solano (Calabria), iniziavano di là una guerriglia spietata nei dintorni contro i presidi nemici.Così si chiudeva l'anno 1282. Carlo d'Angiò, aiutato dal Pontefice e dalla corte francese di uomini e denari, il 12 gennaio del 1283, lasciato vicario del regno l'unico suo figlio CARLO lo "Zoppo", partì per la Francia.


Partito il sovrano, dietro suo ordine e per consiglio dei conti d'Artois, d'Alencon, di Borgogna, di Squillace, di Acerra e di Catanzaro, la linea di difesa fu portata dal Tirreno al corso del Metauro, Reggio fu abbandonata e il grosso dell'esercito andò ad accamparsi nelle pianure di San Martino e di Terranuova.
PIETRO d'ARAGONA intanto a Messina, aveva radunato numerose milizie catalane e siciliane; scarsa era la cavalleria, ma numerosi ed abilissimi gli arcieri, i balestrierì e sopratutto gli "almugaveri", cosi chiamati con una parola araba.
"Costoro vestivano un saio, un berretto di cuoio, una cintura, niente camicia, calzavano una specie di scarponi, avevano uno zaino sulle spalle con il cibo, sul fianco portavano una spada corta e acuminata, nella mano sinistra un'asta con una punta larga di ferro, e due giavellotti acuminati, che usavano lanciare con la sola destra, mentre l'asta la usavano per difendersi schermando".
I loro condottieri, erano piuttosto delle guide che capitani, e anche questi si chiamavano con un nome arabo "adelilli". Erano feroci, non soffrivano la disciplina, e non avevano stipendi, la loro paga erano i bottini che riuscivano a strappare al nemico, riservandone un quinto al re". "Abituati alla fame, alle crude stagioni, all'asprezza dei luoghi diversi, alcuni cronisti dell'epoca raccontano che rubavano agli uomini tanti pani quanti erano le giornate di scorrerie; tuttavia quando erano anche senza di quelli o non trovavano nulla dove razziavano, mangiavano certe erbe silvestri; con lo zaino e senza alcun altro bagaglio, senza impedimenti, si avventuravano anche per due, tre giorni dentro i territori dei nemici; la loro tecnica era quella di piombare all'improvviso sui nemici ed erano lesti a ritirarsi; abili e temerari più la notte che il giorno; più nelle macchie boschive che non in pianura; fortissimi dove i cavalli non potevano entrare né erano in grado di combattere.
Era insomma la classica guerriglia del "colpisci e fuggi".
Nella montuosa Calabria re Pietro seppe farne un buon uso nella sua guerra; ne mise insieme molti, e parevano fatti apposta per i Siciliani, che erano nati anche loro nelle montagne, svelti, audaci, di mano e d'ingegno prontissimi
(Amari)".

Con queste truppe Pietro d'Aragona occupò il 14 febbraio 1283 Reggio; qualche giorno dopo anche Geraci fu occupata; verso la fine del mese cinquecento cavalieri francesi comandati da ROMONDO di BEAUX, sorpresi presso Sinopoli, furono fatti a pezzi; di sorpresa fu occupata Seminara la notte del 13 marzo; E parecchi altri luoghi caddero in potere degli Aragonesi e dei Siciliani e ancora di più ne sarebbero caduti se la notizia della congiura di alcuni baroni di Sicilia, l'arrivo della regina Costanza con i figli, e l'avvicinarsi della data per il duello di Bordeaux, non avessero costretto il re a fare ritorno nell'isola.

Il 22 aprile 1283 Pietro era a Messina dove al parlamento appositamente riunito comunicava le sue volontà: dopo la sua morte, il figlio Alfonso avrebbe avuto Aragona, Catalogna e Valenza, il figlio Giacomo, la corona di Sicilia che, nell'assenza sua, sarebbe stata retta dalla regina Costanza e da Giacomo; ALAIMO di LENTINI veniva, creato gran giustiziere, RUGGERO di LAURIA grande Ammiraglio, GIOVANNI da PROCIDA gran cancelliere, il catalano GUGLIELMO CALMANDO vicario nel comando dell'esercito.Dopo queste attribuzioni di compiti, Pietro s'impegnava a spegnere il fuoco della rivolta che, istigata da GUALTIERO di CALTAGIRONE, cominciava ad accendersi in Val di Noto.

In quest'occasione gli fu preziosa l'opera di Alaimo, che in meno di dieci giorni si rese padrone dei capi della congiura. Tranquillizzato sulle sorti del regno, l'11 maggio del 1283 Pietro di Aragona poté salpare da Trapani per recarsi a Bordeaux.Non riposavano nel frattempo gli Angioini, ma si affaccendavano a trovar denari ed uomini in Italia e fuori, aiutati dal Pontefice, il quale, già lanciata la scomunica su Pietro e su i Siciliani nel novembre del 1282, la rinnovava nel gennaio e nel febbraio dell'anno del 1283, deponeva l'Aragonese dal trono d'Aragona, che pretendeva essere pure quello un feudo della Chiesa, cercava di dissuadere Eduardo d'Inghilterra dal concedere la mano di sposa della figlia al primogenito di re Pietro e concedeva a Carlo d'Angiò di differire il pagamento del censo dovuto alla Chiesa. Né questo soltanto facevano gli avversari di Pietro d'Aragona: poiché nel reame di Puglia il malumore della popolazione cresceva, Carlo lo Zoppo, vicario del padre, convocava il 30 marzo del 1283, nelle pianure di San Martino, un parlamento di conti, baroni, cittadini e autorevoli uomini e, dichiarando di riconoscere e deplorare le tristi condizioni dei sudditi dovute - secondo lui - al malgoverno degli Svevi, concedeva franchigie ed immunità agli ecclesiastici, aboliva le leggi più dannose ai baroni, ristabiliva la corte privilegiata dei Pari, liberava la popolazione dei più esosi balzelli e comminava pene severissime contro gli abusi dei magistrati. Nello stesso tempo, come sembra, il vicario angioino si teneva in segreti rapporti con alcuni baroni siciliani, fra cui era GUALTIERI di CALTAGIRONE, e inviava venti galee giuntegli dalla Provenza al comando di GUGLIELMO CORNUT e BARTOLOMEO BONVIN, marsigliesi, con altri navigli a vettovagliare il castello di Malta assediato da MANFREDI LANCIA.

Partito re Pietro dalla Sicilia, Gualtieri si ribellò apertamente; ma il suo moto non ebbe fortuna: il 22 maggio, catturato con i suoi seguaci, fu decapitato nel piano di San Giuliano con FRANCESCO DE' TODI e MANFREDI DE' MONTI, e qualche giorno dopo la stessa sorte subirono a MINEO BUONGIOVANNI di Noto e TANO TUSCO.

BATTAGLIA NAVALE DI MALTA

Domata la rivolta, fu affidato a RUGGERO di LAURIA il compito di andare contro la flotta provenzale. Il grande ammiraglio, salpato da Messina con ventidue galee, si presentò davanti a Malta all'alba dell'8 giugno del 1283 e, pur potendo assalire il nemico all'improvviso, non lo fece, ma spavaldamente con un legno mandò a sfidare e diede perfino il tempo ai Provenzali, che erano scesi a terra, d'imbarcarsi.

Accanita fu poi la battaglia, che, iniziata allo spuntar del sole, a mezzogiorno era ancora indecisa. Abilissima la tattica del Lauria, il quale ordinò ai suoi di stare coperti e lasciò che i soli balestrieri rispondessero con parsimonia, ma efficacemente, al tiro abbondante del nemico.
Quando s'accorse che i Provenzali avevano esaurite quasi tutte le loro munizioni, il grande ammiraglio fece intensificare il tiro, che riuscì micidiale ai nemici, poi comandò l'assalto.
L'urto della flotta siculo-catalana fu tremendo. Bonvin non riusci a sostenerlo e con otto galee malconce si diede alla fuga; mentre le altre furono vinte e catturate, ultima quella di GUGLIELMO CORNUT, il quale, scontratosi direttamente con Ruggero di Lauria, lo ferì alla coscia con un giavellotto, ma con la stessa arma lanciata dall'ammiraglio fu trapassato da parte a parte.
In questa battaglia perirono circa un migliaio di nemici; altrettanti caddero prigionieri, oltre quelli del castello che non tardarono ad arrendersi.

Tornato vittorioso a Messina, Ruggero concesse poco riposo alla flotta; pochi giorni dopo la guidò lungo le coste della Calabria e del Principato, penetrò con audacia nel porto di Napoli, vi bruciò le navi e gli attrezzi portuali, prese d'assalto Capri ed Ischia e, carico di bottino, se ne tornò in Sicilia.Curioso epilogo intanto aveva la sfida dei due sovrani. Intenzione di Carlo d'Angiò era di non fare uscir vivi dal singolare combattimento Pietro e i suoi cento cavalieri anche se sarebbero stati vincitori e a questo scopo mise molta suoi uomini a guardia dei passi presso Bordeaux. Sospettata l'intenzione dell'Angioino e stimolato dal Pontefice che era contrario a quel duello, Eduardo d'Inghilterra per non rendersi complice di Carlo non solo non assicurò il campo ma non vi si recò com'era stato stabilito nei patti e cedette la terra al re di Francia.

Anche PIETRO D'ARAGONA sospettava l'insidia; ma non era uomo da venir meno alla promessa o farsi mostrare pauroso. Camuffati da servi, ma indossate sotto gli abiti le armi, lui e tre suoi fidatissimi cavalieri, BLASCO ALAGONA, BERENGARIO PIETRATALLADA, CORRADO LANCIA, si recarono a Bordeaux, dove giunsero il 31 maggio. Presentatisi al siniscalco inglese della città, al cospetto di un notaio, senza essere riconosciuti si fecero condurre al campo preparato per il duello e, qui giunti, Pietro d'Aragona rivelò la sua vera identità, poi, montato sul suo cavallo di battaglia, fece per tre volte il giro del campo di gara, dichiarò di aver mantenuto la sua parola ma di esser costretto dalla perfidia di Carlo ad allontanarsi senza combattere, fece stendere per iscritto al notaio tutto quanto era successo, lasciò al siniscalco le sue armi e a spron battuto prese la via del ritorno, invano, più tardi, inseguito dai soldati di Carlo.

PRIMA BATTAGLIA NAVALE NELLE ACQUE DI NAPOLI:
PRIGIONIA DI CARLO LO ZOPPO

Nonostante gl'insuccessi navali e il fallimento della rivolta siciliana, su cui gli angioini contavano, malgrado ancora le audaci scorrerie di alcuni corpi di Almugaveri in Val di Crati e in Basilicata, CARLO D'ANGIÒ e suo figlio, soccorsi dal Pontefice, pensavano alla riscossa e vi si preparavano instancabilmente.
Il Pontefice, ostinato nel volere procurare la vittoria all'Angioino (del resto lui lo aveva fatto salire sul soglio) rinnovava la scomunica sull'Aragonese e sui Siciliani, assegnava a Carlo le decime non ancora scadute delle chiese di Provenza, si impegnava, sebbene invano, a contattare Venezia perché fossero armate per gli Angioini venti galee e, ricevutone un reciso rifiuto, scomunicava pure la repubblica adriatica, metteva a disposizione del vicario del reame di Puglia ventinovemila once d'oro tratte dai tesori raccolti da papa Gregorio in tutta la cristianità per la liberazione di Terrasanta, consentiva che le truppe pontificie militanti in Romagna al comando di GIOVANNI D' EPPE entrassero nel reame di Napoli e, infine, il 2 giugno bandiva da Orvieto la crociata contro la Sicilia.

Mirando il papato al potere temporale, quando non vi riusciva, tutti i cristiani di un territorio che si opponevano a quei disegni diventavano tutti infedeli al pari dei Saraceni.

Carlo d'Angiò, intanto in Provenza, badava a procurarsi denari e ad allestire navi; lo Zoppo, lasciato il comando dell'esercito al conte d'Artois, imitando il padre cercava quanto più denaro gli riuscisse a raccogliere, chiedendone in prestito ai mercanti, al cardinal Gherardo, impegnando vasellame e arnesi d'argento, concedendo a prezzo di moneta la grazia ai condannati, "mungeva" gli ordini dei frati cavalieri; chiedeva milizie alla Toscana, alla Romagna e alla Lombardia e accresceva la flotta con navi pisane e genovesi affidandola al vice ammiraglio IACOPO DI BRUSSON.

L'inizio della nuova campagna era Stato fissato per la primavera del 1284. CARLO LO ZOPPO non doveva fino allora muover le armi, ma doveva aspettar l'arrivo della flotta del padre dalla Provenza e concentrare ad Ustica le armate già pronte a Brindisi e a Napoli. Da Ustica tutte le forze navali riunite - circa cento navigli da battaglia e un numero ancora maggiore da trasporto - sarebbero andate a mettere in soqquadro la Sicilia. L'interesse a tutti questi preparativi di guerra non poteva non insospettire i Siciliani; e anche i propositi del nemico non rimasero del tutto sconosciuti. Informati da numerose spie che ad Ustica dovevano concentrarsi le navi angioine, il Consiglio della Corona di Sicilia stabilì di assalire le forze navali nemiche prima ancora che le stesse si radunassero.

Furono pertanto armate in fretta trentaquattro galee nel porto di Messina, sulle quali presero posto i migliori soldati siciliani e catalani, e il comando fu dato a RUGGERO di LAURIA. L'ammiraglio insieme con tutti i capitani giurò alla regina Costanza di tornar vittorioso, poi, passati in rivista ed arringati gli equipaggi, salpò da Messina e, costeggiando le Calabrie, entrò nel golfo di Salerno.

Dubbioso se assalire prima la flotta radunata a Napoli o quella che il re Carlo stava conducendo dalla Provenza, Ruggero mosse su Capri e di là si diede ad infestar le isolette e i dintorni di Napoli, distruggendo le messi e saccheggiando le terre. Catturata nel frattempo una "saettia" provenzale e appreso che Carlo era a due giornate di viaggio, l'ammiraglio decise di dare battaglia all'armata dello Zoppo; senza perder tempo si trasferì la notte del 4 giugno a Nisida e all'alba del giorno dopo si presentò minaccioso davanti alla Gaiola.

"A Napoli - scrive l'Amari - le scorrerie e gli oltraggi fatti dagli Aragonesi nei giorni precedenti, le sollecitazioni dei nobili della corte e quella ostile baldanza di entrare alla Gaiola, una buona strumentalizzazione demagogica, accesero così tanto gli animi della plebe, che appena i regi avvistarono l'armata siciliana a Nisida, il popolo, diventato macchinalmente e all'improvviso audace, chiese (ovviamente con dentro nelle file plebee qualche provocatore) battaglia suonando le campane a martello; Francesi, regnicoli, cavalieri, plebei all'impazzata presero le armi, e si precipitarono sui navigli in così tanta fretta che per poco non li facevano affondare.

Gli ottimati, esprimevano il loro parere -afferma Saba Malaspina- chi per vera fedeltà e chi per irrazionale e sciocca impulsività, consigliavano il figlio del re come e dove combattere; e sopra ogni altro il conte d'Acerra, il favorito del principe Carlo, che incitò il principe a montare lui stesso su una nave per dare esempio e audacia ai combattenti. Il giovane non fu trattenuto né dalla ragione né dall'autorità del cardinale Gherardo che, non persa la memoria di quelle aspre battaglie fatte a Messina, realisticamente lo ammoniva di andar cauto contro i Siciliani, e di ubbidire ai comandi impartiti dal padre, cioè di aspettare l'armata e poi insieme a quella andare alla vittoria; di non cadere insomma nel laccio tesogli da Ruggero Loria.

Ma sembra che da queste parole anzi il giovane principe fu ancora più stimolato ad agire e ad imbarcarsi volendo cogliere la "sua" personale gloria e, con tanta sicurezza e strafottenza ordinò d'imbandire a corte uno splendido pranzo per festeggiare la vittoria che da lì a poco avrebbe colto.
Con lui furono Iacopo da Brusson, vice ammiraglio, Guglielmo l'Estendard, Rinaldo Galard, i conti di Brienne, Montpellier e Acerra, frate Jacopo da Lagonessa e più altri baroni. Vent'otto o trenta furono le galee allestite, tutte del regno, abbastanza armate queste ultime, un po' meno quelle Provenzali e le Francesi".

"Quell'imbarco e quell'azzardata uscita, era proprio quello che voleva RUGGERO di LAURIA. Desiderava portare innanzitutto in alto mare i nemici, per avere poi il vantaggio del sole alle spalle e, per fare in modo che i nemici si sparpagliassero nella caccia, l'ammiraglio siciliano finse di fuggire verso Castellammare. Vedendo la flotta nemica in fuga, con urla di gioia gli Angioini si misero all'inseguimento e prime fra tutte due galee, capitanate da RICCARDO RISO e ARRIGO NIZZA, due rinnegati siciliani, i quali, spavaldi, mostrando delle catene, gridavano a Ruggero: "Dove fuggi, eroe? Invano scappi, i tuoi ceppi sono qui già pronti !"

Quando però la flotta siciliana fu a quattro leghe da terra, bruscamente si arrestò. Ruggero di Lauria, fece voltar le prore, ordinò e dispose venti galee in linea di battaglia serrate tra loro e con i balestrieri schierati sopra coperta, mise indietro come utile riserva le altre navi, poi, arringati i combattenti e mostrate loro le navi nemiche che avanzavano disordinatamente, fece suonare le trombe. Un urlo di guerra si levò dagli equipaggi "Aragona e Sicilia !" e la flotta siciliana piombò addosso alle navi angioine una alla volta. Al primo urto la flotta del vicario che si era sparpagliata e quindi da sole incapace a difendersi, furono prese dal panico e si dispersero ancora di più; diciotto galee di Napoli, Sorrento e Principato si misero precipitosamente in fuga verso il porto, e nelle acque della battaglia rimasero solamente, intorno alla galea dove stava lo Zoppo, quattro navi napoletane, due di Gaeta, una di Salerno, una di Vico e una di Scio, più per difendere l'onore della bandiera che per mutare la sorte del combattimento, che sembrava ormai già segnata. La resistenza che opposero queste cinque navi fu accanita, ma fu inutile di fronte al valore e alla destrezza dei Siciliani che speronavano abilmente le navi nemiche, troncavano loro i remi immobilizzandole, gettavano il fuoco greco sulle tolde per incendiarle, sego e sapone per fare sdrucciolare i difensori e polvere di calce per accecarli; poi dopo aver lanciato una grande quantità di frecce e una pioggia di sassi, le abbordavano e facevano strage di nemici.

Dopo un lungo e sanguinoso combattimento, sgominate la quattro navi satelliti, restava soltanto la galea del principe angioino; circondata, fatto a pezzi in più parti, fu invasa la prua ma si ostinava a resistere, con gli eroici guerrieri provenzali e francesi, tutti stretti a proteggere con abnegazione il figlio del loro sovrano.
Per impedire che quella resistenza accrescesse le perdite dei suoi uomini, Ruggero di Lauria ordinò a quelli che vi erano già saliti a bordo di sfondarla e subito questi con pali ed ordigni di vario genere si diedero a sfondar la nave, che in breve cominciò a fare acqua. Degli Angioini il primo che si accorse del pericolo fu Rinaldo Galard; uomo di forza erculea, che nella mischia aveva dato prova di grandissimo valore. Coprendo con la sua voce il rumore del combattimento, gridò ai Siciliani "Salvateci! Vostra è la fortuna ! Qui il principe, e qui a voi si arrendono le migliori spade di Francia !".

Cessò allora la zuffa. Carlo lo Zoppo, uscito dalla schiera dei suoi e andando avanti verso l'ammiraglio siciliano, a fronte bassa e con mano tremante gli consegnò la propria, spada.
Così aveva fine la battaglia: nove galee erano cadute in mano dei Siciliani, ma la preda più preziosa era costituita dal principe angioino e dai suoi baroni. Del regale ostaggio Ruggero di Lauria volle subito approfittare. A Napoli, a Castel dell'Ovo da diciotto anni in una buia segreta soffriva la prigionia Beatrice di Svevia, la sventurata figlia di re Manfredi. Ingiunse allo Zoppo di metterla subito in libertà se voleva salva la vita. Quello stesso giorno due galee siciliane approdarono a Napoli e un messo consegnava alla moglie del principe una lettera dello Zoppo in cui ordinava di restituire la prigioniera. Aggiungeva il messo che, in caso di rifiuto, di fronte alle acque di Napoli, su una nave si sarebbe svolto lo spettacolo della decapitazione di Carlo.

Fu così che la giovane e sventurata Beatrice acquistava la libertà. Ricolma di gioielli e di vestiti, la principessa lasciava il funesto castello e saliva sulla nave dell'ammiraglio di Sicilia che, sciolte le vele, si metteva sulla via del ritorno, ma non prima di decapitare presso Capri, i due rinnegati Riso e Nizza che erano anche loro caduti prigionieri.

ASSEDIO DI REGGIO - MORTE DI CARLO, di MARTINO IV, di FILIPPO DI FRANCIA
e di PIETRO D'ARAGONA - ONORIO IV PAPA

La sconfitta della flotta per poco non costò la perdita di Napoli agli Angioini, perché il popolo, cambiato ancora umore fecero scoppiare una ribellione, al grido di "Morte a re Carlo ! Viva Ruggero di Lauria !", per due giorni la plebe impazzita si diede a saccheggiar le case dei Francesi, che si salvarono fuggendo dalla città. Ma quella rivolta fu un fuoco di paglia, come giustamente disse il cardinale Gherardo; "la plebe, tenendo in rispetto l'autorità del legato pontificio, non più assecondata dalla nobiltà e intimorita all'annuncio dell'avvicinarsi di Carlo, si calmò".
Ma poi pagò caro questa estemporanea ribellione. Due giorni dopo, a Gaeta, Carlo d'Angiò riceveva la notizia della sconfitta. Pare che, appresa la prigionia del figlio, esclamasse: "Foss'anche morto invece di esser prigione, che m' importa! Ho perduto un imbelle, uno stolto, che si dà sempre ai peggiori consigli".

Da Gaeta, Carlo navigò verso Napoli; vi giunse l'8 giugno 1284 animato da spietati propositi; perché la sua collera si placasse fu necessario catturare e impiccare centocinquanta popolani. Io penso che forse avrebbe richiesto un numero maggiore di vittime se non lo avesse distolto il pensiero che lo rodeva più della rivolta di Napoli; cioè la vendicativa spedizione contro la Sicilia.

A questa impresa si impegnò notte e giorno: rimise in ordine i resti della flotta sconfitta, comandò che si allestisse quella di Brindisi, cambiò i comandanti alle navi che avevano dato cattiva prova nei giorni precedenti, strappò al Pontefice altre quindicimila once d'oro, diede convegno a Reggio a tutte le forze di terra e di mare e il 24 giugno 1284 si mosse verso Brindisi, e da qui cavalcò verso l'estrema punta della Calabria.

A metà di luglio fu posto l'assedio a Reggio: a diecimila cavalli e quarantamila fanti assommava l'esercito angioino, e composta da circa duecento grosse navi la flotta. La città non era difesa che da un piccolo presidio di Catalani e Siciliani, tra cui trecento Messinesi. Tuttavia Reggio si difese eroicamente fino alla metà d'Agosto, respingendo i quotidiani assalti del nemico.II 13 agosto 1284, CARLO D'ANGIÒ, disperando di costringere alla resa Reggio, levò l'assedio e si ritirò alla Catona. Era finita in lui la baldanza con cui aveva iniziato la campagna, perché i Siciliani con velocissime leggere navi, gli infastidivano quotidianamente la flotta, mentre l'esercito soffrendo per la grande scarsità di vettovaglie, i disertori anche quelli ogni giorno erano sempre più numerosi.

Mentre dunque lo scoraggiamento serpeggiava nelle file del nemico cresceva l'audacia nei Siciliani. RUGGERO DI LAURIA, armate cinquantaquattro galee, andava a mettersi di fronte alla flotta angioma. Una notte fece assalire con dieci galee Nicotera, che fu poi data alle fiamme, e nei giorni successivi, seguendo l'armata di Carlo che si ritirava verso Crotone, occupava Castelvetere, Castrovillari, Cerchiaro e Cassano, poi assaliva la stessa Crotone e ritornava carico di preda a Messina. Queste imprese dell'ammiraglio e quelle degli almugaveri di Basilicata minacciavano di far perdere a Carlo tutta la Calabria. Erano espugnate Morano, Montalto, Regina, Rende, Laino, Rotonda, Castelluccio, Lauria, Lagonegro; passavano spontaneamente agli Aragonesi, Tropea, Strongoli, Martorano, Nicastro, Messiano, Squillace; e ci fu perfino un feudatario francese, GIOVANNI de AILLI, signore di Fiumefreddo, che andò a Messina a fare omaggio all'infante Giacomo.

Poco tempo dopo, Ruggero di Lauria, reduce dall'isola delle Gerbe, presso Tunisi, che aveva occupata e saccheggiata, passava in Calabria con un corpo di cavalleria, s'impadroniva di Agrataria e Roccella e metteva in stato di difesa Nicotera. Mentre i territori calabresi a poco a poco gli sfuggivano di mano e Corrado d'Antiochia, rampollo bastardo degli Svevi, con una armata entrava in Abruzzo, Carlo d'Angiò, roso dalla rabbia, con addosso pure una febbre malarica, sognava ancora la riscossa, pensava di fare assalire dal re di Francia nella prossima primavera il regno d'Aragona e di riportare, lui stesso, le armi contro la Sicilia; e si dava a preparativi febbrili, invocando denari da papa Martino, facendo riparare navi e a fabbricar ordigni, e nel dicembre 1284- prima a Foggia poi a Melfi - radunava il parlamento per farsi dare dalle popolazioni nuovi danari.
Ma quelli erano ormai gli ultimi sforzi del sovrano.

Avanzato negli anni (era quasi sessantenne) torturato dalla rabbia, impotente, disfatto dalla continua febbre, egli non era più l'uomo di una volta. Sul finir del dicembre da Melfi si fece condurre a Foggia per incontrarvi la regina Margherita reduce dalla Provenza, ma ebbe appena la forza di tenderle le braccia tremanti.
Pensò allora al reame e fece testamento, disponendo che, essendo suo figlio prigioniero, la reggenza andava a suo figlio dodicenne Carlo Martello sotto la tutela del conte D'ARTOIS e la protezione del Sommo Pontefice.
A suo nipote FILIPPO l'"Ardito", re di Francia, affidava le contee al di là delle Alpi. Si confessò per i peccati, dicendo che aveva fatto l'impresa di Sicilia e di Puglia mosso più dal desiderio di giovare alla Chiesa che non dalla brama del regno.

Il 7 gennaio del 1285 CARLO D'ANGIÒ cessò di vivere: aveva cinquantanove anni di età, e da poco più di diciannove era re. Alla morte dell'Angioino seguì, tre mesi dopo, il 28 marzo 1285, quella di papa MARTINO IV, causata, come alcuni raccontano, da una scorpacciata d'anguille di cui pare che il Pontefice fosse ghiotto se dobbiamo credere a Dante, che lo pone nel Purgatorio dove "…purga per digiuno, le anguille di Bolsena e da vernaccia".

A Martino IV il Sacro Collegio, il 2 aprile 1285, diede per successore il romano GIACOMO dei SAVELLI, un uomo infermo ma abile ed energico, il quale, col nome di Papa ONORIO IV, pur mostrando di non volere essere schiavo degli Angioini, seguì la politica del suo predecessore e sostenne la corte vacillante di Napoli alla cui sorte era legata strettamente quella del Guelfismo d'Italia. Fu largo di aiuti finanziari al conte di Artois, confermò per provvedere ai bisogni della guerra siciliana le decime delle chiese italiane, raccomandò ai principi stranieri gli eredi di Carlo e pubblicò due decreti con i quali riconfermava i privilegi ecclesiastici promulgati nel parlamento di San Martino, e ampliava con nuove leggi quelle dello stesso parlamento vietando la spoliazione dei naufraghi, estendendo ai fratelli e loro discendenti il diritto di ereditare i feudi, limitando alle guerre entro i confini del regno il servizio militare, proibendo le collette straordinarie e precisando la somma delle ordinarie, permettendo il ricorso dei sudditi alla Santa Sede contro le violazioni degli ufficiali regi, e, infine, minacciando d'interdetto la cappella privata del sovrano e in casi di recidiva la scomunica come pena alle infrazioni di queste leggi.

Insieme con queste buone leggi Onorio però suscitava in Sicilia congiure che, per fortuna, scoperte a tempo, fallivano miseramente. Intanto la guerra tra Aragonesi ed Angioini dalla Sicilia si era stata trasferita in Spagna. Martino IV, prima della sua dipartita, nel bandire la crociata contro re Pietro d'Aragona, aveva deposto questo ultimo dal trono; il Papa considerava quel territorio feudo della Chiesa, e ne aveva dato l'investitura a FILIPPO di Francia che, a sua volta, l'aveva passato al suo secondogenito CARLO di VALOIS (21 febbraio del 1284).
"Predicata la guerra santa contro l'Aragonese, vi avevano aderito Francesi, Piccardi, Provenzali, Guasconi, Borgognoni, Tolosani, Brettoni, Inglesi, Fiamminghi, Alemanni e Lombardi; e uomini e navi avevano offerto Genova e Pisa.
Nonostante stabilita sul finir dell'inverno del 1284, la guerra non fu iniziata che nella primavera del 1285 dopo la morte di Martino IV. L'esercito era possente: contava diciassettemila cavalieri, diciottomila balestrieri, centomila fanti, e numerosa era pure la flotta, composta da centocinquanta galee e ad altrettante, navi da trasporto. Facevano parte della spedizione FILIPPO L'ARDITO, re di Francia, i suoi figli FILIPPO il "BELLO" e CARLO di VALOIS, il re di Maiorca, il legato pontificio GIOVANNI CHOLLET, cardinale di Santa Cecilia, e molti baroni.

L'esercito fu passato in rivista a Tolosa nella Pasqua del 1285 e ai primi di maggio invase il Rossiglione. L'inizio della guerra fu favorevole a Filippo, aiutato dalle grandissime difficoltà incontrate da Pietro nel suo regno per organizzare un'efficace difesa. Varcate con il tradimento le chiuse dei Pirenei, Filippo si spinse fin sotto le mura di Girona, mentre la flotta s'impadroniva di tutta la costa catalana fino a Barcellona.

Ma qui i successi francesi ebbero una sosta. PIETRO D'ARAGONA, infaticabile, prima con pochi seguaci, assecondato poi dalla nazione, iniziò contro l'invasore una guerriglia senza quartiere fatta di audaci assalti, di riusciti colpi di mano sui reparti del vettovagliamento, arrischiate scorrerie sulle retrovie nemiche, che iniziavano ad essere sempre più deboli per lo scoppio di un'epidemia terribile che mieteva vittime nell'esercito e nella flotta di Filippo di Francia.
Questa guerriglia continuò fino a quando, chiamata da Pietro, giunse nell'agosto del 1285, forte di una quarantina di galee, l'armata siciliana comandata da RUGGERO DI LAURIA.

"Menomata dalla mortalità nelle file dell'esercito e ignara del tutto dell'arrivo della flotta armata dalla Sicilia, quella francese (circa 300 navigli) si rifugiò nei pressi degli scogli "Delle Formiche" a capo San Sebastiano. Qui Lauria in attenta perlustrazione via terra la scoprì senza essere riconosciuto, poi rientrato sull'Ammiraglia, escogitò un attacco singolare che doveva avvenire a notte fonda.
Tutte le sue navi le spinse in alto su un fronte molto largo per non urtarsi al buio l'un l'altra; le dotò ognuna di molte fiaccole grandi e piccole; queste ultime erano molte fioche, non visibili dalla costa, ma sufficienti per riunirsi e non cozzare tra loro, quindi stringere il fronte.
Una volta giunte non proprio vicine a quelle del nemico, a un preciso segnale, tutte le fiaccole grandi si dovevano contemporaneamente accendere, dando così l'impressione che le navi erano di molto superiori come numero, quindi dovevano poi avanzare, attaccare e gridare a perdifiato tutti insieme, da far rimbombare il mare. Il grido "Sicilia!, Aragona! Santa Maria delle Scale di Messina!"

"Oltre che possedere la genialità, Ruggero di Lauria era anche un uomo molto audace, e fu lui ad avanzare per primo e, puntando violentemente la prora di costa si scagliò con tale forza contro una galea provenzale da rovesciarla come una barchetta, scaraventando in mare gli occupanti.
La sorpresa, più questo "preludio assaggio", seminò il panico nelle navi nemiche; molte nella confusione (alcuni storici dicono dodici) riuscirono a fuggire dall'accerchiamento e a mettersi in salvo, accendendo anche loro le fiaccole e gridando "Aragona e Sicilia", e confondendosi con gli assalitori prese il mare, scomparvero alla vista.

"Non tutti gli storici riferiscono in accordo come si svolse poi il resto della battaglia, né esattamente riferiscono il numero delle navi catturate e distrutte. Si hanno solo notizie da parte Spagnola, che sembrano esagerate; ma lo strano (forse perché mortificante) silenzio delle fonti Angioine, indubbiamente fanno pensare che l'armata siciliana quella notte distrusse e catturò tutta la flotta francese.
"Si narra tuttavia quest'ultima in questo combattimento alle Formiche abbia sofferto circa cinquemila vittime; e alcuni cronisti riferiscono che i morti furono più felici di quelli fatti prigionieri per la spietata rabbia degli Spagnoli che si scatenò contro i Francesi". (Una sintesi dalle pagine dell'Amari).
In pochi giorni Ruggero di Lauria spazzò via nei dintorni ciò che rimaneva della flotta nemica; bruciò altre venticinque navi nel golfo di Roses, e infine percorse vittorioso tutta la costa catalana, effettuando qua e là audacissimi sbarchi, diventando il padrone incontrastato del mare.
L'azione della flotta siciliana, così disastrosa anche per le navi da trasporto che tagliava tutti i rifornimenti a un esercito lontano dalla patria e su un terreno inospitale; più la terribile epidemia decisero le sorti della guerra.
Colpito anche lui dal morbo, con l'esercito disfatto dagli stenti, dalla fame e dalla pestilenza, FILIPPO comandò la ritirata che si mutò in fuga ancora più tragica e disastrosa, incalzata dalle milizie di re Pietro.
Il 30 settembre 1285, i superstiti riuscirono a ripassare le chiuse dei Pirenei, ma sei giorni dopo, a Perpignano, cessò di vivere il re di Francia mentre le truppe del Lauria, sbarcate dalle navi, mettevano a ferro e fuoco il Rossiglione facendo strage dei miseri e disordinati avanzi dell'esercito francese.
Poco dopo Girona, che si era arresa ai Francesi, fu ripresa da Pietro di Lauria, mentre i Siciliani s'impadronivano di Maiorca. Così finiva la guerra, ma con la vittoria si spegneva pure il 10 novembre 1285 il re Aragonese
In dieci mesi erano scomparsi tutti i protagonisti: a gennaio Carlo D'Angiò, a marzo Martino IV, a settembre Luigi Re di Francia, a novembre Pietro d'Aragona.

"Aveva quarantasei anni, - scrive l'Amari - giovane di anni e di forze, nel maggior vigore della mente e al massimo grado della fortuna; infatti, poteva guardare annientato l'esercito di Francia; umiliato il re di Maiorca; morti Carlo, Filippo, e l'ostile papa Martino; il giovane erede re di Napoli era nelle sue mani; a soqquadro era quel Regno; la Sicilia l'aveva in mano sicura e obbediente; la sua flotta padrona del Mediterraneo; ed infine con il prestigio di quella clamoroso vittoria, guadagnava dai nemici in ogni luogo il rispetto e dai suoi sudditi grande considerazione".
"Pietro d'Aragona era un uomo grande, ben fatto come persona, robusto di braccio, di animo audace, perseverante; con il suo ingegno concepiva progetti grandi, ma si preoccupava anche dei dettagli piccoli; era scaltro ma chiuso, calmo ma infaticabile; come capitano di uomini era eccellente".

"Molte di queste cose furono indicate secondo alcuni come vizi, come virtù da altri. Di discordie ne alimentò pure lui, comportandosi non sempre da saggio, come nella corte d'Aragona o con gli ambigui rapporti con i baroni di Sicilia; trame e inganni li preparò nascostamente e seppe usarli con arte profonda; nelle vendette efferate verso i suoi nemici, anche se erano "cose di quei tempi" non mancarono le sue atrocità, non curante né dello strazio né della morte, sua e altrui; la crudeltà faceva parte degl'intenti politici, che ciecamente ignoravano i veri beni, propri e quelli altrui; miscredente ai diritti degli uomini, fu freddo ad ogni alito di carità". "Per la Sicilia fu un "avventura" finita a metà percorso; se lo trovò accanto amico nel pericolo e gli venne a mancare quando non sappiamo se era ancora amico; perché Pietro era di una tempra che non avrebbe mai cessato di agognare qualcosa in Spagna e molto in Italia.
Gli uomini poi dimenticano nel non calcolare i danni che potrebbe causare gli uomini di quella "forza" (in questa vita breve di Pietro non tutta ancora espressa) e gli danno quando sono defunti il soprannome di "Grande".

Per la stessa ragione gli scrittori del tempo, e anche il sommo poeta d'Italia, nel voler dire chi era il più grande di quei re combattenti, esaltavano accanto all'Aragonese anche Carlo d'Angiò; lodati alla pari nelle vittorie, biasimato alla pari nelle slealtà; pari arte nella violenza e nella frode; ma Pietro, che meglio se ne intendeva, lo raggirò e lo vinse.
Mentre Carlo con settantacinquemila soldati, s'infuriava, si ostinava e veniva umiliato a Messina, il furbo l'Aragonese sbarcava in Sicilia e senza colpo ferire trionfava. "Più tiranno indubbiamente fu Carlo, invidioso e uggioso nei costumi privati e nello stato avarissimo, connivente con i suoi peggiori sgherri, inumano, sprezzante con la popolazione italiana, calpestatore di ogni diritto, nemico fin dalla sua prima dominazione in Provenza di tutte le franchigie, anzi odiando perfino i suoi stessi sudditi.
"Si racconta che morì per la puntura di una zanzara, di febbre malarica, ma forse morì di rabbia nel vedere in quella Sicilia che lui aveva straziata, entrare trionfante dentro in una lieta Palermo il suo rivale; o di rabbia nel vedere quella eroica Messina che umiliandolo gli troncava il corso delle sue ambizioni, si faceva beffe del suo scettro; e che anche morto lo maledisse e la sua dinastia per due secoli la combattè" (una sintesi dalle pagine dell'opera dell'Amari)

INCORONAZIONE DI GIACOMO D'ARAGONA

Dodici giorni dopo la morte di PIETRO D'ARAGONA la flotta siciliana faceva vela verso la Sicilia e il 10 dicembre 1285, stremata da una terribile tempesta, approdò a Trapani. Il 15 dicembre GIACOMO D'ARAGONA prese il titolo di re e il 2 febbraio del 1286, a Palermo, presenti i prelati, i baroni e i sindaci di tutte le città dell'isola, riceveva la corona.
Tre giorni dopo il sovrano promulgò una nuova costituzione, che ricalcava in molti punti quella di papa Onorio e veniva a mantener le promesse di Pietro e ad appagare i desideri dei sudditi. A questa costituzione tennero dietro un patto d'alleanza offensiva e difensiva con l'Aragona (dov'era salito il fratello sul trono del padre, il primogenito ALFONSO III) e importantissime concessioni commerciali agli Aragonesi nell'isola, che avevano lo scopo di consolidare maggiormente l'amicizia tra i due Regni.

Tentò poi Giacomo di ingraziarsi l'animo del Pontefice offrendogli tramite i suoi ambasciatori obbedienza e devozione, ma nulla ottenne, e la guerra Papato-Aragonesi ("usurpatori") continuò. Poche gli eventi di guerra nella terraferma, dove con alterna fortuna si combatté a Castrovillari e Morano e una banda di almugaveri si spinse fin nel Principato, impadronendosi di Castell'Abate, presso Salerno; più numerose e prodighe invece le azioni navali nelle acque della Provenza, percorse da alcune navi comandate dal LAURIA; in quelle ioniche e adriatiche battute da venti galee siciliane guidate da BERENGARIO VILLARAUT che misero a ferro e fuoco le coste pugliesi fino a Brindisi e saccheggiarono Corfù presidiata dai Francesi; infine passarono in quelle del Tirreno.
Operava in quest'ultimo mare una flottiglia di dodici galee agli ordini del siciliano BERNARDO SARRIANO. Prese d'assalto e occupate Capri e Procida, incrociarono queste navi per tutta l'estate davanti il golfo di Napoli, danneggiandone il commercio marittimo; poi ai primi di settembre, spintesi sulle coste del Lazio, assalirono il castello d'Astura, che, conquistato, fu poi dato alle fiamme. Nell'assalto fu prima catturato e poi ucciso il figlio di quel Frangipane che aveva tradito e venduto Corradino a Carlo d'Angiò; vendetta questa che mostra chiaramente come, a tanta distanza di tempo, non fosse ancora spenta nei Siciliani la memoria degli Svevi.

La fortuna - come si vede - continuava a favorire le armi siciliane e dai successi traeva profitto ed onore re Giacomo che in tutti questi strabilianti eventi non era certo né l'ispiratore né il condottiero. Lo sapeva anche lui, ed infatti, non si credeva troppo saldo sul trono e più che le costanti offese angioine, temeva le trame di una parte dell'aristocrazia siciliana.
Dentro questa, temibile più di ogni altro per il suo carisma, era ALAIMO di LENTINI, l'eroe di Messina che abbiamo già conosciuto, l'audace vegliardo che aveva saputo sventare o domare più d'una congiura, il guerriero che tanti servizi aveva reso ai nuovi sovrani e tanta popolarità si era poi giustamente meritata nell'isola.

Questa popolarità gli fu però fatale e non solo questa, ma c'era pure l'ambizione della moglie MACALDA che voleva gareggiare in sfarzo con la regina, e l'invidia di altri uomini potenti come RUGGERO di LAURIA e GIOVANNI da PROCIDA.

Oltre a questo, si aggiunga l'opposizione di Alaimo alla condanna di Carlo lo Zoppo. Questi, infatti, aveva corso serio pericolo in una sommossa di alcuni messinesi, istigata dall'ammiraglio nella quale non pochi Francesi prigionieri avevano trovata la morte. La morte non l'avrebbe evitata neppure il principe angioino, contro il quale un parlamento convocato a Palermo aveva pronunciato la condanna capitale, se non si fossero mostrati contrari Alaimo ed altri nobili. Carlo, poco tempo dopo, era stato tradotto nel castello di Cefalù poi in Catalogna.

FINE TRAGICA DI ALAIMO DI LENTINI

Ma neppure ALAIMO fu lasciato in Sicilia. Con un pretesto fu mandato in Spagna; qui prima onorato da re Pietro, poi, accusato di congiura, pare ingiustamente, fu rinchiuso e sorvegliato nel castello d' Ilerda. Ma nel 1287 riuscì a persuadere con prove e con promessa di danaro re Alfonso della sua innocenza e stava per esser liberato dalla prigione quando GIACOMO, saputa la notizia, vinto dalla preoccupazione per il prossimo ritorno di Alaimo e forse più dalle istigazioni dei nemici del vecchio, reclamò dal fratello, per mezzo di Bernardo de Cannellis, catalano, la consegna di ALAIMO e di due nipoti di lui, ADINOLFO di MINEO e GIOVANNI da MAZARINO. Il 16 maggio del 1287, i tre prigionieri partirono dalla Catalogna e il 2 giugno la nave che li portava giunse in vista della punta orientale della Sicilia. Fatti venire sulla tolda i tre, Bernardo mostrò loro in lontananza la patria, che dovevano vedere per l'ultima volta, poi lesse un ordine di re Giacomo che diceva di mettere a morte i tre nobili, rei di cospirazione, non appena fossero giunti in vista della terra siciliana.
Non pianse, non pregò Alaimo all'udir la sentenza che atrocemente lo condannava a morir prima di toccare il suolo della patria diletta e a non esser sepolto dove dormivano le ossa degli avi; disse soltanto di esser vissuto per il bene degli altri e di sperare che dalla sua fine ne venisse pace alla Sicilia, poi chiese egli stesso la tela in cui doveva esser chiuso e si lasciò avvolgere, pensando forse in quel momento ai giorni e alle notti quando sulle mura gloriose di Messina combatteva eroicamente per la libertà. Qualche minuto dopo i corpi delle misere vittime della sospettosa tirannide scomparivano nelle onde del mare siciliano.

Mentre questo crudele delitto veniva commesso nelle acque di Trapani, nella costa orientale della Sicilia si combatteva contro gli Angioini. Quaranta galee francesi, che erano salpate da Brindisi il 13 aprile, avevano sbarcato improvvisamente il 1° maggio ad Augusta cinquecento cavalli e cinquemila fanti comandati da RINALDO D'AVELLA, che si erano impadroniti facilmente della città.

Prontissima era stata la reazione siciliana: a metà di maggio una numerosa flotta agli ordini di RUGGERO di LAURIA si era presentata per dare battaglia all'angioina nelle acque d'Augusta, ma questa era già partita per Marsala ove doveva incontrarsi con un'altra armata nemica. Allora l'ammiraglio aveva fatto sbarcare i marinai e questi dopo ripetuti assalti si erano impadroniti della città chiudendo nel castello i Francesi.
Il giorno dopo giungeva re Giacomo e s'iniziava un regolare assedio della rocca; Ruggero di Lauria con la flotta navigava a Marsala e, non trovatovi il nemico, faceva vela verso Sorrento per portare la guerra direttamente sulle coste del reame angioino.
Qui giunto seppe che la flotta nemica si trovava a Castellammare ed era forte di ottantaquattro grosse navi, comandate dall'ammiraglio NARZONE, sulle quali si erano imbarcati numerosi soldati e parecchi conti, quelli di Monforte, di Joinville, di Fiandra, di Brienne, d'Aquila, di Monopoli e d'Avellino.

Di quaranta sole galee disponeva invece Ruggero di Lauria eppure non esitò a dare battaglia al nemico.

SECONDA BATTAGLIA DEL GOLFO DI NAPOLI

Lo scontro ebbe inizio all'alba del 23 giugno 1287 e durò buona parte della giornata. Primo ad attaccare fu GUGLIELMO di TRARA con la sua galea siciliana. A liberarlo dagli Angioini che lo avevano circondato, accorsero le navi di Milazzo, Lipari e Trapani, poi quelle di Siracusa, Catania, Augusta Taormina e infine, entrate nel combattimento quelle di Cefalù, Eraclea, Licata e Sciacca, la battaglia divenne generale.
Dall'alta poppa dell'ammiraglia, RUGGERO, ricoperto di lucenti armi, dirigeva il combattimento. Sebbene inferiori di numero, dopo lunga ed accanita resistenza del nemico, ottennero il sopravvento i siciliani e quando si avventarono furiosamente all'abbordaggio, e una buona parte della flotta angioina con gli equipaggi decimati presero la fuga alla volta di Napoli.Era questa la quarta vittoria navale dei Siciliani e di tutte le altre la più notevole per la disparità delle forze, la valorosa tenacia del nemico, e il numero delle galee catturate e dei prigionieri fatti. Parecchie migliaia di nemici caddero uccisi o annegati, cinquemila soldati, trentadue nobili, tutti i conti e l'ammiraglio Narzone caddero in mano dei Siciliani e con loro quarantaquattro galee che Ruggero, quel giorno stesso, sotto la scorta di dieci navigli, mandò a Messina.

Quel giorno stesso si arrendevano i Francesi del castello d'Augusto e Giacomo ordinava che l'importante fortezza venisse rafforzata con una cinta di mura e, per ripopolarla, stabiliva di dar case e franchigie a tutti coloro che sarebbero andati ad abitarla.

Dopo questi fatti, accadono molte altre cose.
Continua con il successivo periodo

dall'anno 1287 al 1302 > > >

 

(VEDI ANCHE I SINGOLI ANNI o nella TEMATICA)

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
MICHELE AMARI - Guerra del Vespro siciliano, 1854
L.A. MURATORI - Annali d'Italia
GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia
KUGLER, "Storia delle Crociate"
LANZONE - Storia dei Comuni italiani dalle origini al 1313
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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