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CRONOLOGIA

DA 20 MILIARDI
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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI dal 1267 al 1281 

CORRADINO - DA CLEMENTE IV A NICCOLÓ III e NEPOTISMO

RIMPROVERI DI CLEMENTE IV PER IL MALGOVERNO ANGIOINO E MALCONTENTO DEI SUDDITI - CORRADO DI SVEVIA - SUOI PROPOSITI E A LUI GUARDANO I GHIBELLINI D' ITALIA - CORRADINO, INVITATO A SCENDERE CONTRO CARLO D'ANGIÒ, PASSA LE ALPI - CORRADO CAPECE RIBELLA LA SICILIA - RIBELLIONE DI LUCERA E DI ALTRE CITTÀ DELLE PUGLIE - ENRICO DI CASTIGLIA SENATORE DI ROMA - CORRADINO IN TOSCANA - SCOMUNICA DI CORRADINO - SCONFITTA DEGLI ANGIONI A PONTE A VALLE - CORRADINO A ROMA - BATTAGLIA DI SCURCOLA, PRESSO TAGLIACOZZO - FUGA DI CORRADINO E SUA CATTURA - PRIGIONIA, DI CORRADINO AD ASTURA, A PALESTRINA E A NAPOLI - PROCESSO E CONDANNA DI CORRADINO - SUA DECAPITAZIONE - LEGGENDE INTORNO ALLA FINE DI CORRADINO - MORTE DI CLEMENTE IV - FEROCE REPRESSIONE ANGIOINA - ASSEDIO ED OCCIDIO DI AGOSTA - SECONDO MATRIMONIO DI CARLO D'ANGIÒ - POTENZA DEL GUELFISMO NELL' ITALIA CENTRALE E SETTENTRIONALE - MIRE DI CARLO SULL'IMPERO BIZANTINO - LA CROCIATA CONTRO TUNISI - ELEZIONE DI GREGORIO X E SUA POLITICA - RODOLFO D'ABSBURGO IMPERATORE - IL CONCILIO DI LIONE - INNOCENZO V, ADRIANO V E GIOVANNI XXI - NICCOLÒ III E IL NEPOTISMO - MARTINO IV
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CORRADINO DI SVEVIA - SUA SPEDIZIONE IN ITALIA

Dopo lo squallore che CARLO d'ANGIO' aveva provocato con la sua inferocita marmaglia a Benevento, il Papa (CLEMENTE IV) - proprio lui che lo aveva chiamato per disfarsi di Manfredi - il 12 aprile del 1266 (una decina di giorni dopo lo scempio di uomini e cose) scrisse a Carlo in tono indignato una prima lettera, che abbiamo già letto nella precedente puntata.
Continuando la sua "opera" distruttrice, che doveva essere "liberatrice", terrorizzando e tartassando quegli stessi nobili che tradendo Manfredi lo avevano aiutato a conquistare il regno, il Pontefice gli indirizzava nei primi mesi del 1267, un'altra terribile lettera:
"Se dobbiamo credere alla voce pubblica, le persone che godono della tua confidenza e che hai messo a governare le province si arricchirono a spese delle popolazioni; e tu tolleri le loro malefatte sia, perché non dai loro uno stipendio sufficiente, sia perché trattieni quello che dovresti loro dare. Oppressi e dissanguati i popoli invano da te invocano giustizia: anzi le loro querele - se è vero quel che ci riferiscono - raramente giungono fino a te. Se tu non vorrai mostrarti affabile e benigno, se vorrai invece governare dispoticamente i sudditi, ti sarà necessario esser sempre coperto di corazza e tener la spada in pugno e sempre avere in armi l'esercito".
Così scriveva CLEMENTE IV a Carlo d'Angiò, rimproverandogli la mala signoria con la quale opprimeva il regno di Sicilia di recente acquisto; e che il Pontefice non esagerasse è provato dalla testimonianza di un cronista non sospetto che mette in bocca alle popolazioni oppresse dell'Italia, meridionale questo lamento:
"O re Manfredi, come ti giudicammo male e come ora ti rimpiangiamo ! Ti credevamo un lupo rapace tra le pecorelle di questo regno; ma purtroppo a paragone degli odierni dominatori, che noi, incostanti, desiderammo, ci accorgiamo che tu eri un mansueto agnello. Ora sì che riconosciamo quanto mite fosse il tuo governo, paragonato alle tristezze presenti! Noi ci lamentavamo che una parte dei nostri averi ci fosse tolta da te ed ora dobbiamo costatare che non solo tutti i nostri beni, ma perfino le nostre persone sono preda degli stranieri".
Pur essendo grande il malcontento suscitato dal malgoverno dell'Angioino, non era però tale da provocare una rivolta generale dei sudditi, fra l'altro tenuti a freno dalle numerose truppe straniere, dal clero potentissimo, e dall'autorità che a Carlo d'Angiò derivava dall'appoggio del Papa. Insomma il nuovo re poteva dormire sonni tranquilli solo non glieli avessero turbati i Ghibellini dell'Italia superiore e della Toscana e i non pochi fedeli del defunto Manfredi che desideravano e preparavano la riscossa.
Gli sguardi di tutti i sostenitori della casa Sveva erano rivolti sull'ultimo rampollo legittimo della famiglia degli Hohenstaufen: CORRADINO (figlio di Corrado IV, a sua volta figlio di Federico II).
Il piccolo che abbiamo già conosciuto nelle precedenti pagine (più volte dato per morto) aveva nel 1267 compiuto il quindicesimo anno di età; era alto, bello, biondo, dotato d'ingegno vivace e di grande gentilezza e, quel che più conta, le sventure della sua casa gli avevano affinato lo spirito e avevano fatto raggiungere al suo pensiero quella maturità che solo con gli anni si acquista.
Di carattere fiero ed orgoglioso come tutti gli uomini della sua stirpe, Corradino non sapeva rassegnarsi alla perdita del regno e alle tristissime condizioni in cui era caduta la dinastia degli Hohenstaufen, un giorno potentissima padrona della Germania e dell'Italia, ed ora priva delle corone reale ed imperiale e ridotta al possesso di pochi territori. Corradino pensava che la missione della sua vita doveva esser quella di vendicare l'avo Federico, il padre Corrado e lo zio Manfredi e rialzare all'antico splendore la propria famiglia.
"I numerosi fuggiaschi Ghibellini - scrive il Lanzani - che a poco a poco si erano raccolti intorno a lui, lo confermarono nella coscienza della sua missione, tanto più che non certo nella Germania potevano essere restaurati il lustro e la fortuna degli Hohenstaufen. Negli ultimi turbolenti anni, i possessi già tanto estesi della sua casa erano quasi tutti perduti: gli rimanevano pochi castelli e poderi, salvati dal naufragio generale, i quali nessuna potenza potevano conferirgli rispetto a quell'autorità rinforzata degli altri principi germanici; ed erano rimasti infruttuosi gli sforzi fatti dal suo zio tutore, il duca LUIGI di BAVIERA, per procurargli la corona germanica.
La sorte prima del genitore e poi dello zio Manfredi, la sua mente eccitata in modo particolare dai loro casi, la mancanza, di ogni avvenire per lui in Germania, il sentimento di dovere, come ultimo discendente della famiglia, rivendicarne i diritti e restaurarne l'onore e il prestigio, tutto insomma spingeva quel giovine precoce, intelligente, generoso, verso l'Italia, come verso la terra che racchiudeva tutto il suo avvenire.
Fra i Ghibellini, Corradino e i suoi più intimi consiglieri si parlò anche della buona impressione che avrebbe fatto in Germania una riuscita spedizione in Italia.
A coloro che si dichiaravano pronti a porgere aiuto, già si promettevano determinate ricompense, nel caso che Corradino dovesse diventare re romano.

In tale stato di cose, probabilmente ai primi mesi del 1267, giunse al castello di Hohenschrwangau, dove si trovava allora il giovane principe, una deputazione di ghibellini e di esuli siciliani, tra i quali vi erano i conti GALVANO e FEDERICO LANCIA, ed i fratelli CORRADO e MARINO CAPECE, che venivano come narra il cronista SALA MALASPINA, a "svegliare il cagnolino dormente". Non erano soltanto lamentele, speranze, illusioni di fuorusciti, consigli, eccitamenti di partigiani, che costoro portavano con sé dall'Italia, ma offrivano anche l'appoggio di una grande e animata fazione, che da qualche tempo aveva dominato tutta la penisola e che, non sopraffatta dagli ultimi disastri, raccoglieva ora le sue forze e si preparava alla riscossa; c'era pure il concorso di potenti signori e ricche repubbliche che non avevano ancor ceduto il campo ai nemici degli Svevi; c'era il fremito di un popolo intero, il quale non sembrava aspettare che una occasione, un duce, una bandiera, per spezzare le pesanti catene angioine e papali; c'erano infine le promesse di eserciti piuttosto numerosi; c'era il sostegno del denaro, perché Galvano Lancia aveva portato al giovine principe centomila fiorini d'oro.
A questa ambasceria pare ne seguirono altre, di Siena, di Pisa, di Pavia, di Verona. Alle preghiere degli Italiani si unirono le esortazioni dei principi tedeschi, si unirono -anche se subdoli- gli incitamenti dei parenti di Corradino; ipocriti incitamenti perché le difficoltà e i pericoli di un'impresa in Italia, a loro -in Germania- non poteva che giovare; morto lui si sarebbero divisi quelle poche ultime proprietà dell'ultimo rampollo Svevo.
Il duca di Baviera, il conte Mainardo di Gorizia, che aveva sposato in seconde nozze nel 1259, la vedova di Corrado IV, Elisabetta, madre di Corradino, promisero il loro aiuto alla spedizione. Lasciato così il mistero, di cui si erano sul principio circondati preparativi, l'impresa d'Italia, fu stabilita.
Con aperta proclamazione Corradino invitò in tutta la Germania i partigiani della sua casa ad unire le loro armi alle sue, per aiutarlo a recuperare il regno paterno.
Ma non il sentimento vivissimo dell'umiliazione inflitto al nome germanico nella persona degli Hohenstaufen, né il fascino del nome di Italia, sempre irresistibile a dispetto di ogni triste esperienza, determinarono tanti tedeschi a seguire il giovine coraggioso verso il mezzogiorno; le condizioni della Germania di allora, la posizione assunta negli ultimi decenni dall'aristocrazia e particolarmente a quella già tanto influente della Svevia, avevano inspirato senza dubbio, a molti cavalieri tedeschi, i quali erano corsi a schierarsi sotto le insegne dell'ultimo Hohenstaufen, motivi e aspirazioni simili a quelle che già fecero affluire tanti combattenti sotto le bandiere di Carlo d'Angiò.
Pensavano di far fortuna nel mezzogiorno: speravano di essere ricompensati di ogni cosa, come gli splendidi beni che si erano procurati i tanti nobili tedeschi, i tanti seguaci degli Hohenstaufen che avevano militato a suo tempo sotto i precedenti sovrani.
Però di questi elementi c'era da fidarsi pienamente fino a quando la fortuna avrebbe accompagnato l'impresa; in caso di insuccesso certamente tutti costoro si sarebbero affrettati ad abbandonarla".
Della spedizione di Corradino facevano parte il giovane FEDERICO, duca d'Austria, spogliato dei suoi domini dal re di BOEMIA OTTOCARO II, il conte RODOLFO D'ABSBURGO e, il duca LUIGI di BAVIERA.
Corradino, sparse la voce che il suo scopo era quello di riconquistare all'Angioino il regno paterno e non quello di combattere contro il Pontefice, sul finire del settembre del 1267 mosse da Augusta con un esercito di circa dodicimila uomini.
Il 10 ottobre era a Trento; il 20 a Verona, dove MARTINO della SCALA lo accolse festosamente e corsero a giurargli fedeltà ed aiuto i Ghibellini fuorusciti di Padova, Vicenza, Mantova, Ferrara, Brescia e Bergamo.
La spedizione pareva che cominciasse con una buona stella e invece questa non era che apparente. Corradino vide ben presto che mai avrebbe potuto affermare il suo prestigio nell'Italia settentrionale, dove il Pontefice per frenare la potenza dell'Angioino, era riuscito a riunire in lega, detta "della pace e della fede", le città di Piacenza, Cremona, Milano, Lodi, Como, Vercelli, Novara, Parma, Reggio, Modena, Brescia, Mantova e Ferrara; e vide anche quanto fosse difficile l'impresa che si era assunta, data la scarsezza di mezzi di cui disponeva.
Le difficoltà dell'impresa non erano soltanto note al principe svevo, ma le conoscevano anche quelli che lo avevano con entusiasmo seguito, sperando di ricavarne profitto; e alla spicciolata abbandonarono Corradino alla sua sorte e se ne tornarono in Germania. Da Verona, dove fu costretto a soggiornare tre mesi, fece tanto che lo zio Luigi di Baviera gli fornì i mezzi necessari e con questi riuscì a trattenere le milizie mercenarie, le quali, non pagate, già cominciavano a brontolare.
La costanza di Corradino fu premiata: se pur non vennero a lui tutti i denari che gli erano stati promessi prima di decidersi all'impresa, Pisa e Pavia ora gliene mandavano in considerevole quantità; e intanto buone notizie giungevano dall'Italia meridionale, dove i Saraceni di Lucera avevano brandito le armi contro l'Angioino e si erano ribellate alcune città della Calabria, della Puglia e degli Abruzzi.
Migliori notizie giungevano dalla Sicilia e da Roma. Il fedele CORRADO CAPECE con una nave pisana era andato a Tunisi ed aveva convinto FEDERICO di CASTIGLIA, che vi si trovava ed era parente di Corradino (la madre era Beatrice di Hohenstaufen, figlia di Filippo di Svevia), a recarsi in Sicilia, per sollevarla.

Corrado e Federico con duecento cavalieri spagnoli, altrettanti tedeschi e il doppio di toscani erano sbarcati a Sciacca, avevano suscitato alla ribellione tutte le città dell'isola, eccetto Palermo, Messina e Siracusa, ed avevano sconfitto il vicario di Carlo d'Angiò.
A Roma Corradino aveva trovato un alleato validissimo in ENRICO di CASTIGLIA, fratello del re Alfonso il Saggio. Prese le armi contro Alfonso ed abbandonato in seguito dalle sue milizie, Enrico, nel 1257, era fuggito con parecchi suoi sostenitori e il fratello Federico a Barberia e si era messo, rimanendovi per più anni, al servizio del re di Tunisi.
Stanco di vivere fra i Musulmani e sperando di far fortuna, nel 1266 era sbarcato in Italia e, poiché era parente di Carlo d'Angiò, si era a lui presentato e raccomandato, gli aveva prestato molti denari (sessantamila doppie) guadagnati in Africa, e dal cugino, in compenso, era stato mandato a Roma, con forti raccomandazioni, presso la corte papale. A Roma Enrico aveva saputo comportarsi con così tanta accortezza che si era guadagnato il favore della Curia ed aveva ottenuto la carica di senatore, che Carlo, diventato re di Sicilia, aveva dovuto lasciare.
Non contento di questo risultato Enrico aveva chiesto al Pontefice l'investitura della Sardegna. II Pontefice gliela avrebbe concessa e per di più gli avrebbe farlo sposare di buon grado la vedova di Manfredi se l'Angioino non si fosse opposto, rifiutandosi perfino di restituire al cugino le sessantamila doppie.

Da tutto questo era sorto nell'animo del Castigliano un fierissimo odio contro l'Angioino. Per vendicarsi si era schierato con i Ghibellini e, messosi alla testa del popolo, aveva posto la sua sede nel Laterano, scacciato i nobili, perseguitato il Clero, presi come ostaggio alcuni membri delle principali famiglie guelfe romane - due Orsini, un Savelli, uno Stefani e un Malabranca - e aveva offerto la sua alleanza a Corradino, mandandogli i tesori delle basiliche dei monasteri.
Tutte le speranze di CORRADINO risorgevano. Con l'unico compagno che gli era rimasto dei principi tedeschi, FEDERICO d'Austria, e con i suoi tremila mercenari, lasciò Verona e il 20 gennaio del 1268 entrò a Pavia, accolto festosamente da quei cittadini. Scopo di Corradino era di recarsi in Toscana, presso le città fedeli al nome di Svevia, da dove Carlo d'Angiò, esortato dal Papa e chiamato dalle ribellioni del mezzogiorno, era partito, lasciando ottocento cavalieri al comando di GIOVANNI di BRAISILVA.
Il principe di Svevia rimase a Pavia poco più d'un mese: nel marzo del 1268, favorito dal marchese ghibellino, sposo di una figlia naturale di Federico II, che lo lasciò passare dal suo territorio, si recò a Vado, presso Savona, dove dieci galee pisane lo aspettavano. Il numero delle navi non era sufficiente a trasportare tutte le milizie; Corradino lasciò il grosso delle sue truppe a Federico d'Austria con l'incarico di guidarle in Toscana per via terra; lui con quattrocento cavalieri si imbarcò e il 29 marzo giunse senza incidenti sulle coste toscane.
Il 15 aprile, fu molto festeggiato al suo sbarco a Pisa, dove un mese dopo lo raggiunse Federico d'Austria che aveva seguito la via terra di Pontremoli e Sarzana.

A Pisa Corradino ricevette prove eloquenti dell'attaccamento della città alla famiglia sveva e, quel che più conta, aiuti considerevoli di denaro, armi, cavalli ed attrezzi di guerra. In più i Pisani allestirono una flotta di trenta galee che, caricati cinquemila soldati, fu mandata sulle coste calabresi, dove prima rovinò il territorio di Molo e poi nelle acque di Messina, sbaragliò un'armata angioina catturando e bruciando ventisette navi.

Da Pisa Corradino fece una scorreria nel territorio di Lucca, poi andò alla ghibellina Siena, dove vi fu accolto con esultanza e ricevette altri importanti aiuti di armi e denari. La marcia dello svevo verso il sud non poteva non preoccupare il Pontefice e Giovanni di Braisilva, cui era affidato il compito di impedire al nemico l'avanzata.
Il primo, dopo aver per tre volte ingiunto a Corradino di congedare le suo milizie, il giorno di Pasqua del 1268, scagliò da Viterbo contro di lui la scomunica e l'interdetto sulle città che lo favorivano; il secondo con le sue truppe si mosse da Firenze per la via di Arezzo per chiudergli il cammino -verso Roma, ma a Valle sull'Arno, assalito improvvisamente da Federico d'Austria, subì una sanguinosa sconfitta nella quale lui stesso con molti dei suoi uomini cadde prigioniero.
Mentre si trovava a Siena, con la notizia che le Marche si erano ribellate, Corradino ricevette un'ambasceria romana, che lo invitava a recarsi a Roma. Non c'era da indugiare, e il giovane principe non indugiò. Passando presso Viterbo, dove risiedeva la corte pontificia, per atterrirla fece schierare il suo esercito sotto le mura. Sbigottiti i cardinali corsero dal Pontefice, che allora stava pregando. - "Non temete -rispose Clemente- perché tutti quegli sforzi saranno dispersi come il fumo" - poi, recatosi selle mura e guardando le evoluzioni della cavalleria nemica, disse ai cardinali: - "Queste sono vittime che si lasciano condurre al sacrificio".
Da Viterbo CORRADINO proseguì il suo cammino verso Roma, dove giunse il 24 luglio. Quel giorno stesso da Ponte Molle fece il suo ingresso della capitale della Cristianità e fu un ingresso veramente trionfale; pavesate a festa erano le vie, sventolavano sulle torri i gonfaloni di Svevia, le donne applaudivano dalle case, inneggiava la moltitudine al giovane e biondo principe, che, sul suo destriero, con a fianco il fedele Federico e dietro i capi del partito ghibellino, si recò al Campidoglio dove fu con grandi onori ricevuto dal senatore ENRICO di CASTIGLIA.
A Roma Corradino rimase tutta la prima metà di agosto del 1268, pregustando le gioia della conquista che credeva sicura e mentre raccoglieva intorno a sé gli aiuti che dai Ghibellini della Lombardia, della Toscana e delle Marche incoraggiati dai suoi successi gli giungevano.
Il 18 agosto lasciò Roma: aveva sotto le sue insegne cinquemila cavalieri e lo seguiva Enrico di Castiglia con ottocento lancieri spagnoli.
Essendo il confine del regno angioino dal lato della Campania che era fortemente presidiato, lo svevo decise di spingersi nell'Abruzzo per poi scendere nella Puglia e riunirsi a Lucera con le fedelissime forze saracene.
Quando Corradino partì da Roma, CARLO D'ANGIÒ sì trovava proprio all'assedio di Lucera. Saputa la partenza del suo nemico, levò l'assedio e corse a sbarrargli la via del regno penetrando in Abruzzo attraverso la via di Foggia.
Con una marcia rapidissima l'esercito angioino lo raggiunse nella pianura situata sulle sponde del Lago Fucino, minacciando le milizie nemiche.

BATTAGLIA DI SCURCOLA FINE DI CORRADINO
Corradino non aveva alcun interesse di iniziare lui la battaglia; premeva invece sboccare sulla via di Sulmona e poi di là giungere a Lucera, sfuggendo agli angioini; ma Carlo deciso a non lasciarselo sfuggire per tre giorni e tre notti gli lo seguì rimanendogli o dietro o a fianco, minaccioso. Una falsa mossa del provenzale liberò lo Svevo dall'incomoda vigilanza: Carlo, credendo di poter chiudere il passo al nemico nella valle dell'Aterno, andò ad accamparsi ad Ovinulo; Corradino invece, per la via dei monti, scese nella pianura del Salto e il 21 agosto da Tagliacozzo giunse a Scurcola.
Se l'esercito ghibellino avesse proseguito il cammino per Celano e Sulmona verso Lucera, Corradino si sarebbe lasciato indietro il nemico e nella città saracena avrebbe trovato una fortissima base per le future operazioni. L'esercito svevo però era stanco dalle lunghe e faticose marce e il principe fu costretto a fermarsi e concedere un po' di riposo.
Di questa sosta n'approfittò l'Angioino: appreso che il nemico si era accampato a Scurcola, all'alba del 22 agosto, con una velocissima marcia, si portò verso il campo avversario e iniziò a prendere posizione sulle alture di Alba. Si credeva imminente lo scontro e Corradino forse lo desiderava per avvantaggiarsi della stanchezza delle milizie di Carlo che erano appena giunte; ma l'Angiò era troppo astuto per accettare battaglia prima che le sue truppe si riposassero e, quando il nemico gli andò incontro in ordine di combattimento, non si mosse, rimase solo in difensiva nella sua posizione.
La battaglia ci fu invece il giorno dopo. Nella pianura di Scurcola, alle rive di un fiumicello, il Salto, che la taglia in due, qui si decidevano le sorti dì Corradino e del regno di Sicilia.
Carlo d'Angiò affidò la direzione della battaglia, ad ALARDO di VALERY, ciambellano di Francia e connestabile di Champagne, noto capitano, veterano delle guerre in Terrasanta. Per ordine di Alardo l'esercito angioino fu diviso in tre schiere:
la prima schiera fu posta alle falde delle alture su cui Carlo giungendovi si era accampato, e fu dato il comando al maresciallo ENRICO di COUSENCE facendogli indossare le vesti del sovrano e le insegne reali per un abile e crudele stratagemma ideato dal Valery, che voleva servirsi della strana rassomiglianza del maresciallo con il re per evitare pericoli a quest'ultimo ed ingannare il nemico;
la seconda schiera, più numerosa, composta di Provenzali, Lombardi e Guelfi di altre regioni, fu posta nella pianura, presso il fiume;
la terza schiera, formata da ottocento cavalieri scelti, fu nascosta in una stretta valle, e con questa rimasero CARLO, GUGLIELMO di VILLEHARDONIN ed ALARDO, il quale faceva assegnamento proprio su quest'ultima; infatti, pensava che se le prime due schiere fossero state rotte, i soldati di Corradino inebriati dalla vittoria, avrebbero dato il sacco disordinatamente al campo dei vinti e si riservava di entrare con gli ottocento cavalieri freschi all'ultimo momento e mutare in vittoria la sconfitta.
Se invece i primi due corpi fossero stati vittoriosi, con la riserva, avrebbe reso più clamoroso e pieno il successo.
A questo piano del vecchio barone andò Carlo d'Angiò debitore della vittoria sul piano a Scurcola.
Corradino divise il suo esercito in due schiere: la prima, formata dagli Spagnoli e dai Ghibellini di Toscana e di Lombardia, affidò al comando di Enrico di Pastiglia;
della seconda, tutta composta di mercenari tedeschi, assunse egli stesso la direzione insieme col duca d'Austria. L'esercito svevo, superiore come numero e sicuro del successo, passò a guado il fiume e caricò impetuosamente i Provenzali. Questi non resistettero all'urto, piegarono e furono sbaragliati. Migliore fortuna non ebbe l'altra schiera angioina che si trovava sotto l'altura e il maresciallo ENRICO di COUSENCE, mentre cercava di riorganizzare i suoi e di opporsi nuovamente al nemico, ma affrontato da Enrico di Castiglia, fu steso morto al suolo.
La caduta di quest' "uomo" fu salutata con grida di gioia dagli Svevi e produsse lo sgomento fra gli Angioini perché da entrambi le parti credevano che il morto era il re. Le truppe di Carlo, sgominate, si diedero ad una fuga precipitosa e disordinata e i ghibellini, credendo ormai di avere vinto la battaglia, una parte, fra cui gli Spagnuoli con Enrico di Castiglia, si diedero ad inseguire i vinti, l'altra parte, la più numerosa, sfrenatamente non ascoltando più gli ordini si diedero a saccheggiare alla rinfusa il campo nemico.
CARLO D'ANGIÒ aveva assistito impassibile alla battaglia, aveva fatto dire messa, e fatto voto alla Vergine di erigere una chiesa nel piano se gli avesse dato la vittoria. Senza commuoversi all'eccidio dei suoi e del suo sosia, quando vide i nemici in disordine, intenti al sacco, spinse i suoi ottocento cavalieri addosso agli Svevi e ne fecero strage. A nulla, valse il ritorno di Enrico di Castiglia dall'inseguimento; le sorti della giornata erano ormai decise e in breve tempo la pianura di Scurcola fu coperta dai cadaveri dei Ghibellini.
Dell'esercito di Corradino, che con tanto impeto aveva iniziata la battaglia e strappata la vittoria non restavano che bande disordinate le quali cercavano con la fuga la salvezza.
La sera stessa della battaglia, Carlo d'Angiò annunciò per lettera al Pontefice la disfatta nemica, scrivendo: "O clementissimo Padre, io annuncio una grande gioia a Te e alla nostra Madre ! Consolatevi di tutte le vostre pene, riposate di tutte, le vostre fatiche ! Sorgi, te ne supplico, o Padre: vieni e mangia la caccia che il figliuolo ti ha apparecchiata !".
Le parole di Carlo erano quelle di un uomo assetato di vendetta, che non avrebbe perdonato ai vinti. Il giorno dopo, sullo stesso luogo della mischia, fece trucidare alcuni Romani caduti prigionieri, altri li fece mutilare dei piedi e poi, temendo di suscitare lo sdegno di Roma al loro ritorno, rinchiusi dentro alcune case, ordinò di appiccare il fuoco avvampandoli vivi.

Nei giorni seguenti, i suoi cavalieri, mandati all'inseguimento, tornarono con molti prigionieri e fra questi si trovò ENRICO di CASTIGLIA consegnato dall'abate di Montecassino cui aveva chiesto ospitalità.
Ma non vi era Corradino. Per consiglio dei suoi fedelissimi, quando vide persa la battaglia si mise in salvo con il duca Federico d'Austria, con i conti Gualfresco, Galvano Lancia, Gerardo e Galvano di Donoratico di Pisa. Pensava di trovare sicuro rifugio a Roma, memore delle trionfali accoglienze ricevute solo poche settimane prima; ma quando dopo alcuni giorni di cammino, il 28 agosto, vi giunse, trovò che gli animi degli incostanti Romani erano già mutati a suo riguardo. Il fuggiasco fu ricevuto freddamente; gli stessi Ghibellini, che da una sua vittoria si ripromettevano vantaggi considerevoli e nulla più avevano da sperare da uno sconfitto, che anzi con la sua presenza poteva riuscir loro dannoso, gli fecero capire che era pericoloso per lui fermarsi a Roma, e lo consigliarono di lasciare la città.
Corradino sperava di trovare sicuro rifugio a Pisa, ma la via di terra non era sicura, e decise di raggiungere il mare per poi imbarcarsi sulla flotta pisana. II principe lasciò Roma il 31 agosto e, giunto, senza essere riconosciuto ad Astura, si procurò una barca e con i suoi compagni si mise in mare. Si credeva salvo, quando GIOVANNI FRANGIPANE, signore del castello di Astura, un tempo ghibellino e beneficiato da Federico II, poi diventato guelfo e sostenitore della Curia da cui aveva ricevuto l'investitura di Taranto, lo fece inseguire con un rapido veliero e lo costrinse a ritornare alla riva.

LA FINE DI CORRADINO
Chiuso nel castello, invano Corradino minacciò, pregò, invocò l'antica fedeltà del barone alla casa Sveva, offrì per sé e per i suoi amici il prezzo del riscatto. Il Frangipane non si commosse, ovviamente sperando maggiori guadagno dall'Angioino.
Diffusasi la notizia della cattura dello Svevo, il Pontefice inviò ad Astura il cardinale di Terracina per reclamare i prigionieri, mentre con la stessa richiesta Carlo inviava l'ammiraglio Roberto di Lavena.
I due inviati si contesero accanitamente le misere vittime; finalmente riuscì al messo dell'Angioino di farsele consegnare. E mentre Carlo entrava trionfante a Roma, dove gli conferirono la carica senatoriale per un decennio, Corradino e i suoi compagni finivano chiusi nelle prigioni di Castel San Pietro a Palestrina.
Qualche mese dopo, l'Angioino, lasciato a Roma un suo vicario, andò a Palestrina a prendersi i prigionieri e li condusse in catene a Napoli e dopo averli bene esposti come allegorie del suo trionfo li fece chiudere in un'oscura prigione di Castel dell'Ovo, nella stesso castello dove c'era dentro un'altra sveva a languire: la figlia di Elena e Manfredi.
Quando fu a Napoli, Corradino non ebbe più alcun dubbio sulla sorte che gli sarebbe stata riservata: era interamente in balia del suo acerrimo nemico e questi non gli avrebbe certamente risparmiato la vita, avendolo già fatto giudicare come "reo di prodizione e di maestà". Lui stesso, chiedendo, ed ottenendo che il Santo Padre gli perdonasse e lo rimettesse nel grembo della Chiesa, facilitò e affrettò la propria condanna, poiché dai tribunali ecclesiastici si rimetteva al giudici dei secolari.
Ma ormai il giovine principe era rassegnato: una sola cosa lo faceva soffrire, il pensiero della madre lontana che forse lo aspettava ansiosa e certo pregava per lui.
Corradino rimase in carcere pochi giorni, dal 20 al 26 o al 29 ottobre, e intanto, per pura formalità, Carlo convocava a Napoli due rappresentanti di ogni città della Terra di Lavoro e del Principato e, dando a questa assemblea autorità di tribunale, li incaricava di giudicare e condannare i prigionieri.
Se dobbiamo prestar fede allo storico Saba Malaspina e ad altri, all'accusa che l'Angioino muoveva contro il suo rivale di essersi ribellato al sovrano legittimo, di essersi alleato ai Saraceni, di avere saccheggiato i Monasteri, insorse a difesa del prigioniero, GUIDO da SUZZARA, famoso professore di diritto all'università napoletana, affermando che Corradino doveva essere considerato prigioniero di guerra, che doveva tenersi conto del suo diritto di successione al trono e che, infine, non gli si potevano imputare le rapine della sua gente, come a lui Carlo non si potevano imputarlo dei sacrilegi e degli infami reati commessi dall'esercito angioino. Degli altri giudici soltanto uno, provenzale di nazione, pronunziò condanna di morte; gli altri per timore del tiranno, tacquero e così Carlo d'Angiò, valendosi del voto di un solo giudice, fece dal protonotaro Roberto di Bari pronunciare la sentenza di morte contro Corradino e i compagni.
Il 26 o il 29 ottobre del 1268 veniva eretto il patibolo nel Campo Moricino, (l'attuale Piazza del Mercato).
"Sembrava quel luogo - scrive il Raumer - essere stato scelto con malignità;
al giovinetto prima di morire si voleva mostrare tutta la magnificenza del suo regno. Fin là infatti arriva la bella e quieta marina; là dinanzi allo stupito osservatore si apre, nell'abbagliante splendore quel cerchio magico di Portici, Castellammare, Sorrento e Massa che racchiude il più stupendo dei golfi.
Se non che il nero capo del Vesuvio, sporgente a sinistra, trascina il pensiero a meditare sulle orribili forze della natura; ed a destra chiude l'orizzonte gli irti scogli dell'isola di Capri, testimoni un giorno dei misfatti di Tiberio; un degno collega di Carlo d'Angiò".
Quando gli fu annunciata la notizia della sua condanna, Corradino nella sua prigione giocava agli scacchi con Federico d'Austria. Il principe non si commosse, chiese ed ottenne un breve spazio di tempo per prepararsi a morire, vergò un foglio sul quale confermava il testamento scritto in Germania, poi si confessò e si avviò al patibolo.
Un'enorme folla gremiva la piazza e sopra una torre stava seduto per godersi il sanguinoso spettacolo, Carlo d'Angiò con la sua corte. Giunse la schiera dei condannati, fra gli sgherri del tiranno, preceduta da Corradino, che a passo fermo salì i gradini del patibolo e rivolse lo sguardo bello ed innocente su tutti quelli che dovevano essere i suoi sudditi ed ora assistevano al suo supplizio.
Il protonotaro del regno, ROBERTO di BARI, lesse in pubblico la sentenza; poi Corradino si sciolse il manto e si inginocchiò per pregare. In quei supremi istanti della sua vita il suo pensiero volò in Germania, presso la genetrice ignara della sorte del figlio, un'ombra calò sul viso del principe e il suo labbro mormorò sospirando: "Ahi ! Madre mia ! Qual dolore ti recherà la mia morte!". Furono le sue ultime parole: il biondo capo, offerto al carnefice, rotolò poco dopo sanguinante sul palco.
Secondo narrazioni posteriori, mentre Roberto di Bari leggeva la sentenza, un cugino di Carlo, il conte di Fiandra, lo trafisse con la spada dicendogli: "Non tocca a te, sciagurato, condannare un principe così nobile e gentile".
Corradino prima di porgere il collo al ferro, lanciò in mezzo alla folla il suo guanto, quasi pegno di vendetta, che raccolto da un cavaliere, fu portato a Pietro d'Aragona; dopo l'esecuzione, infine, il carnefice fu trafitto da un uomo mascherato; ma tutte queste sono nelle leggende, che riferiamo perché dimostrano quanta impressione e quale sentimento di pietà abbia destato il supplizio dell'ultimo degli Svevi.
Dopo Corradino, sullo stesso patibolo furono decapitati Federico d'Austria, i conti Gualferano, Bartolomeo Lancia, Gerardo e Galvano di Donoratico e parecchi altri Ghibellini presi a Tagliacozzo.
Solo Enrico di Castiglia ebbe salva la vita e fu condannato a perpetua prigionia, ma non fu per generosità di Carlo, che di tale sentimento non era capace, ma perché temeva le vendette dei suoi parenti. I cadaveri dei giustiziati, come lo era stato per Manfredi, non ebbero sepoltura; trascinati in riva al mare vi furono abbandonati; il popolo pietoso li ricoprì di sassi. Più tardi, il figlio di Carlo, fece costruire in quel luogo una cappella e nel 1779 questa divenne la chiesa di Santa Maria del Carmine e nella navata di questa furono raccolte e tumulate le ossa di Corradino, sopra cui Massimiliano II volle che fosse eretta una statua.
DALLA MORTE DI CLEMENTE IV
AL PONTIFICATO DI MARTINO IV
Un mese dopo il supplizio di Corradino, il 29 novembre del 1268, cessava di vivere CLEMENTE IV. La morte impediva al Pontefice di assistere agli atti di inaudita ferocia di coloro che proprio lui aveva chiamati in Italia come campioni della Chiesa.
"CARLO D'ANGIÒ - osserva il Saint-Priest nella sua Histoire de la conquéte de Naples - voleva ad ogni costo rendere impossibile il ritorno dei pericoli dai quali la sua nascente monarchia era stata minacciata. L'ultimo rampollo degli Hohenstaufen era morto, come un malfattore volgare, sotto la scure del carnefice; ma a Carlo questo terribile sacrificio non pareva ancor sufficiente per consolidare la sua dinastia. Non un solo rivale, ma tutto un partito egli voleva distruggere; lui aveva giurato di abbattere tutto un passato. Non era più il caso di deposizioni parziali, di esazioni fiscali, di divisioni e di spogliazioni fatte secondo la grazia o lo sfavore del re; tutto questo forse poteva giovare nei primi tempi della conquista. A queste misure, che potevano fornir pretesti alle rivolte, ma che erano troppo insufficienti per prevenirle e reprimerle, Carlo I volle sostituire un regolare sistema terroristico, che, rendendo impossibile la resistenza, avrebbe evitato la fatica di punirla".
Numerose furono le vittime del nuovo sistema del sovrano e nell'attuarlo CARLO d'ANGIO' ebbe compagni i Guelfi dell'Italia meridionale e della Sicilia. Potenza e Gallipoli furono date al saccheggio; Aversa, trucidati i sostenitori di Corradino, venne quasi distrutta; molti superstiti della battaglia di Scurcola, presi a tradimento dagli abitanti di Corneto, furono consegnati a Ruggero di Sanseverino e a Pietro di Beaumont e impiccati ai merli d'una torre; Lucera, stretta d'assedio, si difese eroicamente per sei mesi, poi, vinti dalla fame, i suoi abitanti scesero a patti. Tutti i cristiani della città furono inesorabilmente trucidati, i Saraceni distribuiti nelle varie province del regno come schiavi, e Lucera fu colonizzata da centoquaranta famiglie provenzali.
Una maggior ferocia usò l'Angioino nel punire e ridurre all'obbedienza la Sicilia, dove inviò, alla testa delle milizie, il sanguinario GUGLIELMO d'ESTENDARD. Incancellabile rimase la strage fatta da costui nella città di Agusta, negli ultimi giorni del 1269 e i primi del 1270.
Il feroce capitano l'assediò, ma per quanti sforzi furono fatti non gli riuscì per molto tempo di costringerla alla resa e di avere ragione dei mille cittadini armati e dei duecento cavalieri toscani che con valore la difendevano, procurandosi con audaci sortite le vettovaglie.
Ma ciò che non poté ottenere con la forza delle armi, Estendard l'ottenne con il tradimento, perché - scrive l'Amari - sei traditori, aperta nella notte una porticina non difesa della città, permise di occupare il presidio al sanguinario capitano; e lui né valore rispettò, né innocenza, né alcuna ragione di uomini; i suoi ceffi sparsi per la città, contaminarono ogni luogo con uccisioni, stupri, saccheggi; cercarono le loro vittime nascoste perfino dentro i pozzi, nelle fosse delle cloache. Ma dopo la prima strage, quando fu satollo il furore dei soldati, nel crudo animo dell'Estendard non si spense il suo furore. Chiamò un enurgumeno, dotato di estrema forza; gli furono portati davanti legati degli Agustani; e quello li ammazzava con un solo pugno fracassandogli il cranio, e quand'era stanco, gli porgevano brocche colme di vino che tracannava insieme con il sudore e con il sangue che gli grondava dalle mani, poi con rinnovate forze ripigliava l'opera scellerata.

Sulla marina alzarono una catasta di tronchi, e lì tra le misere vittime diedero la morte anche ai figli dei sei "Giuda", ben premiati così da Guglielmo.
Non rimase persona viva in Agusta. Molti, fuggendo verso il mare, si accalcarono precipitosamente sopra un legnetto, che preso il largo subito dopo con l'eccessivo peso colò a picco.

Si stordivano e si ubriacavano intanto i Francesi nell'insanguinata città, e quando la lasciarono, rimase deserta e squallida per lunghissimi anni.
Queste immani stragi, questi immani tripudi li ricordavano la maggior parte degli storici narrando poi la strage del Vespro; aggiungendo "che misura fu per misura" !
Ma i cittadini di Agusta non furono le ultime vittime di Carlo d'Angiò e di Guglielmo d'Estendard: Marino e Giacomo Capece, fratelli di Corrado, perirono sulle forche di Napoli; Corrado si rafforzò e si difese validamente a Centorbi, ma verso la fine dell'aprile del 1270, venendo meno l'animo ai suoi, si arrese a Guglielmo, che prima lo fece accecare, poi lo condusse a Catania e qui ordinò che fosse impiccato. Uguale sorte toccò a Corrado d'Antiochia, nipote di Federico d'Antiochia. Mentre Federico Lancia e Federico di Castiglia sfuggirono alla ferocia del tiranno, riparando a Tunisi il primo e in Grecia il secondo.
Fra le prime atroci repressioni, il 18 novembre dei 1268, essendogli morta Beatrice, CARLO D'ANGIÒ sposava in seconde nozze MARGHERITA di BORGOGNA, figlia del conte di Never, e per festeggiare gli sposi il sovrano concesse l'amnistia a tutti i sostenitori di Corradino. Ma era questa una crudele amara beffa dell'Angioino, perché dal condono escludeva tutti i Tedeschi, gli Spagnoli, i Catalani, i Pisani e tutti coloro che avevano impugnato le armi a favore dello Svevo, e a questi furono riservate la confisca dei beni e la condanna capitale.

Con la vittoria di Scurcola prima e con le spietate repressioni poi, Carlo rafforzò la propria posizione e quella del partito guelfo nella media e nell'alta Italia. In Toscana la lega guelfa, formata da Firenze, Prato, Pistoia, Lucca, Volterra, Massa, Colle, San Gemignano, Arezzo, Borgo San Sepolcro, Cortona, Montepulciano, San Miniato e alla quale dovettero aderire Pisa e Siena, si mise sotto la protezione dell'Angioino.
Nell'Italia settentrionale un'altra lega, costituita a Cremona nel 1269, si formò tra i comuni di Alessandria, Bergamo, Bologna, Como, Ferrara, Milano, Modena, Novara, Parma, Pavia, Piacenza, Reggio, Torino, Tortona, Vercelli e il Marchese di Monferrato; anche questa sotto il protettorato del re di Sicilia.
Uno dei maggiori sostenitori del ghibellinismo settentrionale, OBERTO PALAVICINO, scacciato nel 1268 dai Parmigiani da Borgo San Donnino, moriva l'anno dopo, lasciando la sua fazione in tristissime condizioni.
Era ormai chiaro come Carlo mirasse a insignorirsi di tutta l'Italia; e, se non di nome, già di fatto, lui esercitava la sua autorità su quasi tutta la penisola, perché i Guelfi del centro e, del nord lo consideravano il loro capo e a Roma aveva riavuto (e per dieci anni) la dignità di Senatore.

Più vasto però era il sogno dell'Angioino: il suo pensiero era rivolto a quell'Oriente che con avidi occhi era stato guardato dai principi normanni e dove, come sentinelle avanzate, Carlo già possedeva l'Epiro e l'isola di Corfù e per matrimoni vari già vantava pretese su alcune regioni.
A tradurre in realtà il suo sogno Carlo da qualche tempo si preparava: aveva anzi stipulato dei patti precisi con Baldovino II, cui aveva promesso di aiutarlo nel riconquistare l'impero latino, eccetto l'Acaia e la Morea e il reame di Tessalonico che avrebbe trattenuto per sé (trattato di Viterbo del 27 maggio del 1267), e al cui figlio Filippo aveva fidanzato la sua tenera figlioletta Beatrice.

LA CROCIATA (FINITA A TUNISI)
La spedizione angioina sembrava imminente e già una flotta si andava raccogliendo nel porto di Brindisi, quando dall'impresa lo distolse il fratello Luigi IX di Francia invitandolo a partecipare ad una crociata in Terrasanta.
Carlo aderí, ma mise una condizione: che i crociati cominciassero con l'assalire Tunisi. Egli giustificava talea richiesta sostenendo che dalla Barberia sarebbe stato poi più agevole passare in Egitto e in Terrasanta; ma in realtà cercava di trarre profitto dalla crociata, sottomettendo il sultano di Tunisi che era stato tributario del regno di Sicilia ma che da molti anni sotto i normanni non pagava più il tributo.
Re Luigi, acconsentì al suo progetto, e il 4 luglio del 1270, s'imbarcò ad Aigues Mortes sopra una flotta genovese. Dall'8 al 14 dello stesso mese i crociati rimasero nella rada di Cagliari; ne partirono il 15, e il 18 sbarcarono presso Cartagine. In una lettera indirizzata all'abate MATTEO di S. DIONIGI, lasciato come vicario in Francia, così Luigi (il "Santo") racconta i primi avvenimenti:

"Siamo giunti in vista di Tunisi il giovedì, vigilia della festa di Santa Maria Maddalena; il venerdì abbiamo effettuato lo sbarco senza ostacoli e, dopo aver messo a terra i cavalli, siamo avanzati fino all'antica Cartagine dove abbiamo piantato il nostro campo. Sono con noi nostro fratello Alfonso, conte di Poitiers e di Tolosa, i nostri figli Filippo, Giovanni e Pietro, il nostro nipote Roberto, conte d'Artois, e gli altri nostri baroni.
Nostra figlia la regina di Navarra, le mogli degli altri principi, i figli di Filippo e del conte d'Artois sono sulle navi, poco lontani da noi; e tutti, grazie al Signore, godiamo perfetta salute. Vi annunciamo inoltre che, dopo aver provveduto al necessario, abbiamo preso d'assalto, con l'aiuto di Dio, la città di Cartagine, dove sono rimasti uccisi moltissimi Saraceni".
La guerra cominciava felicemente, ma con uguale fortuna non doveva continuare. Il re di Tunisi evitava d'impegnarsi, forse nell'attesa che gli giungessero aiuti dall'Egitto e da altre regioni dell'Africa, forse ancora sperando che il caldo e i disagi logorassero l'esercito nemico; dal canto suo Luigi IX non voleva tentare un assalto di Tunisi prima che dalla Sicilia giungesse il fratello CARLO d'ANGIO'.
L'attesa dell'Angioino fu fatale al re di Francia: una terribile epidemia scoppiò tra le file dell'esercito cristiano e in breve tempo moltissimi crociati soccombettero al morbo, fra cui BUCCARDO conte di VENDÓME, GUALTIERO di NEMOURS, i signori di MONTMORENCY, di PIENNE, di BRISSAC, GUIDO D'ASPREMONT, il duca di NEVERS e il cardinale ALBANO, legato pontificio. Il 25 agosto, colpito dal morbo, cessò di vivere pure LUIGI IX, l'anima della crociata, e il giorno dopo sbarcava sulla costa africana CARLO D'ANGIÒ con il suo esercito.
Assunto Carlo il comando dei crociati, - nonostante vi fosse al campo l'erede del trono di Francia FILIPPO III - anziché continuare la guerra contro gli infedeli, ne accettò le proposte di pace, che fu stipulata tra il sultano di Tunisi MOSTANSER BILLAH da una parte, e i re di Francia di Sicilia e di Navarra dall'altra.
"Le condizioni principali -ci illustra l'Amari- furono che i crociati sgombrassero al più presto da Tunisi; che loro fossero pagate per le spese della guerra duecentodiecimila once d'oro, metà in pronta moneta, e metà entro due anni, con garanzie sopra i mercanti; che Mostanser soddisfacesse a Carlo gli evasi tributi annuali di Sicilia per cinque anni e contribuisse in avvenire con una somma doppia di quella in precedenza pattuita con i normanni.
Per la religione, stipularono la libertà del culto cristiano nei domini di Mostanser, dove prima i Cristiani non erano stati affatto sforzati ad abiurare, ma soltanto vietarono loro alcune appariscenti pratiche religiose in pubblico. Il commercio vi guadagnò le solite condizioni dei trattati tra Cristiani d' Europa e Musulmani in quel tempo; sicurezza dei mercanti di ciascuna delle parti contraenti nel territorio dell'altra; rinuncia reciproca dei governi all'abuso di confiscare la cose dei naufraghi; e un patto di rendere ai mercanti cristiani ciò che era stato a loro sottratto a Tunisi durante la guerra.
"Fu ordinata infine la liberazione dei prigionieri d'ambo le parti e l'estradizione reciproca dei ribelli; e in questo capitolo si riconosce la mano di Carlo d'Angiò.

Si stabiliva così la pace per quindici anni da novembre 1270 in poi. Erano assenti i dignitari ecclesiastici che avevano seguito il vessillo della Croce. Mentre i principi toccato il denaro, si affrettavano a tornare in Sicilia".
Fu un ritorno disastroso: nelle acque di Trapani una violentissima tempesta distrusse la flotta; quattromila crociati annegarono e fu pure inghiottito dal mare il denaro di Carlo ricevuto da Mostanser destinato alla spedizione contro il Paleologo. Ma Carlo ebbe modo di rifarsi delle perdite: poiché molte navi appartenenti ai Genovesi che avevano partecipato alla crociata con circa diecimila uomini, erano state dalla bufera buttate sulle coste siciliane, l'Angioino, in forza d'un'antica legge di re Guglielmo, che però in quel caso era sleale applicare, confiscò gli averi dei naufraghi, malgrado le vibrate proteste dei genovesi.
Dopo il soggiorno di alcune settimane in Sicilia, CARLO D'ANGIÒ sbarco sul continente, recandosi a Viterbo. Scopo del suo viaggio era quello d'influire sulla elezione papale. Da due anni (dopo la morte di Clemente IV, avvenuta il 28 novembre del 1268) la Santa Sede era vacante, non essendosi potuti accordare sulla scelta i cardinali, di cui alcuni avrebbero voluto un Pontefice italiano indipendente, altri un francese ligio alla politica dell'Angioino. Ma prima che, il nuovo Papa fosse eletto dovettero passare altri mesi e il popolo di Viterbo ricorse a un singolare protesta: quella di chiudere i cardinali nel palazzo vescovile e di lasciarli senza cibo fin quando avrebbero eletto il Papa. Soltanto il 1° di settembre del 1271 i cardinali, messisi d'accordo, diedero i loro voti all'arcidiacono di Liegi, TEOBALDO VISCONTI, piacentino, che si trovava allora in Palestina.
Teobaldo Visconti, saputa la sua elezione, partì dall'Oriente il 1° gennaio del 1272, approdò a Brindisi, il 13 marzo entrò a Roma e due settimane dopo vi fu consacrato col nome di GREGORIO X

GREGORIO X
Il nuovo Pontefice non aveva l'animo di un riformatore né il temperamento di un uomo politico; vissuto lunghi anni in Terrasanta, in cima ai suoi pensieri stava la liberazione del Santo Sepolcro. Ma sapeva che i tempi non erano per nulla propizi per una crociata; e giustamente pensava che per portare i Cristiani d'Occidente alla guerra contro gl'infedeli occorreva prima pacificarli.
In Italia la pace, dopo tante lotte sanguinose, era intensamente desiderata, ma trovava un grande ostacolo nella politica dell'Angioino, il quale, inoltre, con la sua smodata ambizione stava diventando pericoloso alla stessa autorità pontificia.

La politica di Gregorio X pertanto fu tutta rivolta alla riconciliazione degli animi, così necessaria nel suo periodo, con Pisa che era travagliata dai Guelfi, con Genova in guerra con Carlo, con Venezia e la stessa Genova in armi contro Bologna.
GREGORIO X cominciò dalla Toscana. Accompagnato da CARLO D'ANGIÒ e da BALDOVINO II, il 18 giugno del 1273 giunse a Firenze. Da qui inviò un legato ai Pisani per riconciliarli alla Santa Sede, poi fece firmare un trattato di pace tra i Ghibellini e i Guelfi a Firenze, ordinando che i primi tornassero nelle loro case e rientrassero in possesso dei loro beni, facendosi consegnare ostaggi dall'una e dall'altra parte e minacciando di scomunica chi osasse violare i patti.
L'opera del Papa in Firenze non ebbe però i risultati che lui sperava: minacciati dall'Angioino, i Ghibellini uscirono dalla città e Gregorio X, adirato contro Carlo e i Guelfi, si ritirò nel Mugello, presso il cardinale UBALDINI, e da qui lanciò l'interdetto su Firenze.
Anche i tentativi fatti dal Papa per pacificare i Genovesi non ebbero esiti migliori; lacerati dalle lotte intestine, suscitate dalle discordie tra il popolo capeggiato da OBERTO SPINOLA e OBERTO DORIA e i nobili raccolti intorno alle famiglie dei GRIMALDI e dei FIESCHI.
Ma anche questa volta chi fece fallire gli sforzi di Gregorio fu Carlo, il quale, messosi d'accordo con i nobili genovesi esuli, prima aveva confiscati i navigli e gli averi dei mercanti di Genova che si trovavano nei porti del suo regno, poi fece assalire, ma con nessun risultato, la repubblica dai Guelfi del Piemonte e della Toscana e dal siniscalco di Provenza.

L'unica guerra che al Papa riuscì a far cessare fu quella che si combatteva tra Venezia e Bologna. Questa guerra era sorta per ragioni di commercio; avendo i Veneziani imposto nuove e gravose gabelle alle mercanzie che dal mare Adriatico risalivano il Po o da questo fiume scendevano al mare, i Bolognesi avevano brandito le armi e con un grosso esercito avevano protetto la costruzione di un forte alle foci del Po, sconfiggendo i nemici che avevano tentato d'impedire i lavori. Per mezzo dei Frati Minori, Gregorio ottenne che le due città, nel 1273, si pacificassero, eliminando i Bolognesi la fortezza, e i Veneziani concedendo a loro la libera navigazione sul Po.
Persuaso il Pontefice che il maggiore ostacolo alla sua politica di pace in Italia e alla liberazione della Terrasanta fosse ormai costituito da Carlo d'Angiò e temendo inoltre - e non a torto - che l'Angioino, con la potenza che si era guadagnata nella penisola e con i progetti che maturavano per impadronirsi dell'impero bizantino, arrecasse un grave colpo all'autorità della Santa Sede, stabilì di minare il prestigio di Carlo in Italia dando all'impero d'Occidente un imperatore e nello stesso tempo impedire una spedizione angioina in Oriente.
Dopo la morte di Federico II la dignità imperiale era stato un titolo vano. Dal 1254 in poi erano stati eletti imperatori Guglielmo di Orange, Riccardo di Cornovaglia e Alfonso di Castiglia, ma nessuno aveva esercitato il potere, e il trono era stato considerato vacante; così n'avevano approfittato i principi feudali per accrescere le loro prerogative, e le città, per acquistare l'autonomia e confederarsi tra loro.
Il 29 settembre del 1273, per il diretto intervento del Pontefice, fu eletto RODOLFO di ABSBURGO, dei conti d'Alsazia, che il 24 ottobre dello stesso anno fu incoronato ad Aquisgrana.
Annunciando al Papa la sua elezione, Rodolfo lo pregava di volerlo assistere e di accordargli il diadema imperiale; Gregorio, congratulandosi con lui, gli raccomandava di coadiuvarlo nella pacificazione dell'Oriente e lo informava di aver convocato un concilio ecumenico a Lione.

CONCILIO DI LIONE
Il concilio, che si riunì il 7 maggio del 1275, s'inaugurò con un grave lutto della Chiesa, essendo morto, mentre si recava a Lione, il grande TOMMASO D'AQUINO.
"Campione del guelfismo ecclesiastico e dello scolasticismo medioevale, - scrive il Bertolini - Tommaso d'Aquino scompariva dal mondo nel momento in cui da Roma e da Aquisgrana si era bandita la pace al mondo cristiano, per portare la lotta al campo del pensiero. Questa lotta fu pure combattuta con grande accanimento, nel campo filosofico tra Tomisti e Scotisti (dall'avversario di San Tommaso, Duns Scot) e nel campo politico fra Guelfi e Ghibellini.
Al principio guelfo della chiesa sostenuto da S. Tommaso, che avviliva con la sua monarchia di Cristo la potestà regia, facendo conseguire ad essa un fondamento razionale del papato, l'Alighieri contrappose la dottrina dell'inalienabile integrità dell'impero e della missione di signoria universale data da Dio al popolo romano. Erano due dottrine opposte, che attingevano però la loro origine da una fonte comune, l'universalità di Roma, e destinate entrambe a cedere il posto ad una dottrina nuova che si era già aperta la via nel mondo, e vedeva non lontano il suo trionfo: quella della nazionalità".
Oltre il Pontefice, intervennero al concilio di Lione, i cardinali e i patriarchi latini, i patriarchi di Costantinopoli e di Antiochia, cinquecento vescovi, settanta abati mitrati, un migliaio di ecclesiastici degli ordini inferiori, i rappresentanti dei sovrani di Germania, di Francia, d'Inghilterra, di Sicilia e i plenipotenziari dell'imperatore di Oriente.
Una delle leggi emanate dal concilio fu quella che stabiliva la disciplina del conclave, provocata dai pericoli che le lunghe vacanze della Santa Sede presentavano. Secondo questa legge, i cardinali dovevano rimanere, per tutto il tempo del conclave ( e senza alcun reddito) allo scopo di non prolungarlo troppo, chiusi e senza altra comunicazione con l'esterno che quella procurata da un domestico, il quale doveva portar loro una sola pietanza il mattino e la sera, e in caso di prolungamento, oltre gli otto giorni, ridotti a solo a pane e acqua.
I risultati del concilio furono invece importanti politicamente e molto dannosi per le ambizioni dell'Angioino. I plenipotenziari di Costantinopoli dichiararono, in nome del Paleologo e della nazione bizantina, di riconoscere la fede e il primato della Chiesa Romana e di prestare obbedienza alla Santa Sede. Quest'unione della Chiesa greca alla latina che non doveva però essere sanzionata da Costantinopoli, faceva per sempre tramontare la speranza di Baldovino II, presente al concilio, di ritornare sul trono di Bisanzio e, mettendo questo sotto la protezione papale, mandava a monte i disegni di Carlo d'Angiò.
Quanto a RODOLFO D'ABSBURGO, dal concilio - presente il suo cancelliere il vescovo di Spira - fu approvata la sua elezione, e promise, in nome del suo signore, che sarebbero state rispettate le libertà ecclesiastiche e non sarebbero stati invasi dalle armi imperiali i domini della Chiesa. Terminato il concilio, Rodolfo s'incontrò a Losanna con il Pontefice per prendere accordi intorno alla sua incoronazione e forse anche per discutere in merito alla crociata.

La liberazione della Terrasanta era difatti il pensiero costante di Gregorio. L'impresa era già stata deliberata; doveva essere iniziata verso la fine del 1275 con la partecipazione di FILIPPO III "l'ardito", re di Francia, ODOARDO, re d'Inghilterra, GIACOMO, re d'Aragona, e CARLO D'ANGIÒ e RODOLFO D'ABSBURGO, che doveva capitanarla; e dal Pontefice erano state concesse ai principi le decime ecclesiastiche per sei anni per fare i necessari preparativi di guerra e per organizzare la spedizione.
GREGORIO X però non riuscì vedere realizzato il suo caro sogno: tornando a Roma, si ammalò gravemente in viaggio e cessò di vivere ad Arezzo il 10 gennaio del 1276.

Lui moriva e già la pace che aveva tentato di dare alla penisola senza riuscirvi mostrava come fosse un sogno impossibile ad avverarsi: perché, infatti, più violente si facevano a Bologna le discordie tra GEREMEI e LAMBERTAZZI e questi ultimi, rifugiatisi a Forlí e a Faenza e qui rialzata la bandiera ghibellina, sotto la direzione di GUIDO da MONTEFELTRO, muovevano guerra ai Guelfi della loro città, i quali, sconfitti al ponte di San Procolo, si mettevano sotto la protezione dell'Angioino,
A Pisa si riaccendevano gli odi da qualche tempo sopiti, l'ambizione che aveva fatto al ghibellino conte UGOLINO della GHERARDESCA stringere legami di parentela con il guelfo GIOVANNI VISCONTI, provocava esili e guerre che ai Pisani procuravano le sconfitte di Asciano e di Fosso Armonico, e veniva innalzato sulla sedia arcivescovile quel RUGGIERI degli UBALDINI il cui nome dodici anni dopo doveva esser legato alla fosca tragedia del conte; a Milano i nobili fuorusciti, capitanati dall'arcivescovo OTTONE VISCONTI, si preparavano all'ultimo sforzo per abbattere il giogo dei TORRIANI ed affilavano le armi per la giornata di Desio (21 gennaio del 1277) che doveva segnare il tramonto della signoria dei Della Torre.
ELEZIONE DI 5 PAPI NELL'ARCO DI POCO PIU' DI UN ANNO
Morto GREGORIO X, Carlo d'Angiò cercò di annullare gli effetti della politica papale, intrecciando la trama della forza con l'ordito dell'arroganza, perché fosse eletto un Pontefice favorevole agli Angioini. E vi riuscì: i cardinali, riuniti in conclave ad Arezzo, elessero undici giorni dopo, il 21 gennaio 1276, un suo partigiano, il savoiardo PIETRO di TARANTASIA, nato a Champigny, vescovo di Ostia, che prese il nome di INNOCENZO V.
Fu un brevisimo pontificato il suo: cinque mesi dopo, il 22 giugno 1276, cessava di vivere e gli succedeva l'11 luglio 1276, il genovese OTTOBUONO dei FIESCHI col nome di ADRIANO V.
Ma anche questi dopo poco più di un mese, 18 agosto 1276 moriva a Viterbo. L'8 settembre 1276, fu eletto un portoghese, PIETRO di GIULIANO che prese il nome di GIOVANNI XXI e sarebbe con lui risorta la fortuna dell'Angioino se il 10 maggio del 1277 il crollo di un soffitto non avesse posto fine ai giorni del Pontefice.
Il 26 dicembre 1277, dopo sei mesi di soglio vacante, e dopo un combattuto conclave, ci salì il cardinale GIOVANNI GAETANO ORSINI, figlio del senatore Matteo Rosso Orsini, creato cardinale da Innocenzo IV e che seguì la sua fuga a Lione nel 1245. Prese il nome di NICCOLÒ III.
Aveva: lui compiuto numerose missioni per Alessandro IV, lui nel 1265 a investire Carlo d'Angiò del Regno di Sicilia per mandato di Clemente IV, lui a comporre per incarico di Gregorio X la contesa fra l'Angiò e il re dei Romani Rodolfo circa il vicariato imperiale in Toscana.
Fu eletto grazie al sostegno di quel nuovo partito nato per opporsi alla egemonia angioina. Quindi un nutrito gruppo di suoi sostenitori che il ruolo di egemonia lo voleva riservato solo alla chiesa.
Con questo sostenuto programma, con il nuovo Pontefice CARLO D'ANGIO' ebbe un nemico ben più temibile di Gregorio X, che non solo mostrò di volersi servire di RODOLFO D'ABSBURGO, per frenare l'ambizione del re di Sicilia, ma volle lui stesso sferrare un grave colpo alla potenza di Carlo ingrandendo il dominio territoriale della Santa Sede, che nel pensiero del Papa doveva costituire una barriera tra l'Italia meridionale e quella settentrionale, tra quella parte cioè della penisola di cui il provenzale era stato investito e quella parte in cui aveva in modo preoccupante esteso la propria influenza; privando inoltre Carlo di tutte le cariche che fino allora aveva rivestito e facendo sentire ovunque, nella media ed alta Italia, il peso della propria autorità con un'attività febbrile in pro della pacificazione.
Il Pontefice, infatti, indusse l'imperatore a cedere alla Chiesa le terre di Romagna, e con atto steso a Viterbo il 30 luglio del 1278, RODOLFO rinunciò ad ogni diritto feudale su tutto il territorio che una volta comprendeva l'Esarcato, la Pentapoli, le Marche d'Ancona e di Camerino, il ducato di Spoleto e la contea di Bertinoro.
Ottenuto tutto questo, Niccolò III ingiunse a Carlo di rinunciare al titolo di vicario della Toscana, che concesse invece a Rodolfo e di richiamare da quella regione le milizie angioine, e, siccome il decennio della dignità senatoriale romana di cui Carlo era investito terminava, gliela fece deporre il 16 settembre del 1278 e pubblicò una nuova costituzione con la quale l'ufficio di senatore aveva la durata di un solo anno ed erano esclusi imperatori, re, principi, duchi e conti.
Quanto alla pacificazione, Niccolò III si servì dell'opera del cardinal LATINO, suo nipote, che gli rese preziosi servigi, con l'incarico di legato, nella Romagna, nello Marche, nella Toscana e nella Lombardia.

Nel febbraio del 1273, a Firenze, dopo aver per alcuni mesi composte molte private discordie, il cardinal Latino Frangipane ottenne che le fazioni si pacificassero, che i Ghibellini potessero fare ritorno in città, rientrare in possesso dei beni confiscati e partecipare al governo; e nella piazza di Santa Maria Novella fece scambiare a centocinquanta dei più autorevoli cittadini dei due partiti il "bacio della pace".
A Bologna pacificò i GEREMEI con i LAMBERTAZZI, facendo tornare i fuorusciti e restituire loro i beni confiscati; e il 4 agosto del 1279, adunato il popolo nella piazza, fece anche qui abbracciare e baciare i rappresentanti delle due fazioni e giurare che sarebbero vissuti nella concordia.
Uguale riconciliazione per opera del cardinal LATINI FRANGIPANE fu fatta a Siena e in altre città della Toscana e delle Marche.
Politica oltre che di equilibri, veramente realistica fu quella di Niccolò III, il quale, mentre estendeva la sovranità della chiesa in Italia e limitava la potenza dell'Angioino, cercava di accrescere quella della sua famiglia.
"Quasi tutti, Italiani e suoi congiunti - scrive il Lanzani - furono i cardinali da lui nominati. Erano suoi parenti i nunzi mandati a conciliare tra loro le città italiane e per ingraziarsele alla supremazia papale. Furono suoi parenti i podestà imposti dalla Santa Sede ai comuni che erano ricorso al suo intervento.

Appena RODOLFO D'ABSBURGO ebbe rinunciato alla diretta sovranità dell'impero sulla Romagna, NICCOLÒ III concesse quel dominio al proprio fratello BERTOLDO con il titolo di CONTE della ROMAGNA.
Subito dopo che il re siciliano depose l'ufficio di Senatore romano, lo stesso pontefice si arrogò quel titolo, nominando suo vicario in Roma un proprio nipote. Sotto pretesto di eresia o di altra colpa, molti nobili romani furono spogliati delle loro terre, che passarono ad impinguare il patrimonio degli Orsini. Né ebbe scrupolo Niccolò di metter le mani anche sui possedimenti e sui feudi della Chiesa stessa.
L'appunto al pontificato di NICCOLÒ III che a lui si vuole attribuire le origini di quella turpe piaga che per molto tempo travagliò il papato, cioè il nepotismo, è nelle terribili terzine in cui Dante Alighieri impreca alla memoria del papa "simoniaco ed all'avarizia che trasse la sposa di Cristo a fornicare con i re" (Inferno XIX, 22-120)
Sarà più mite il giudizio dello storico? Sebbene avesse sviluppato un suo programma politico, le idee, i sentimenti, gli intendimenti di Niccolò III non erano certo simili a quelli di Gregorio X.

Spirito pratico, politico, non si lasciò sedurre dall'utopia di una restaurazione dell'unità imperiale e dell'unità teocratica, né fu commosso dal pensiero di una guerra di tutta quanta la cristianità contro i seguaci del profeta.
Comprese come il Papato e l'Impero non fossero più quelli di Carlomagno e di Gregorio VII, né i suoi tempi quelli d'Innocenzo III e di Federico II.
Niccolò III vide che mentre il capo dell'impero sarebbe stato ben appagato, dove la sua autorità avesse avuta piena efficacia entro i confini del regno tedesco, di qua dalle Alpi, la nave della Chiesa si trovava sbattuta sempre tra i flutti della politica italiana; onde i diritti di supremazia continuamente universale proclamati dai Papi all'orbe intero venivano, di fatto, poi circoscritti ad interessi e a questioni tutte italiane.
E quali erano queste questioni? Da una parte aveva davanti liberi popoli, la cui vita rigogliosa e multiforme sembrava ora guidata dall'arbitrio, ora abbandonata al caso; aveva davanti una stupenda varietà di ordinamenti civili e politici, alla quale pareva mancare qualunque principio d'unità; dall'altra ci scorgeva una giovane e dispotica monarchia, che minacciava d'invadere, di sottomettere, di abbatter tutto. Sorgeva in mezzo il Papato, che mentre pretendeva di dominare, di dirigere tutti, come signore feudale del regno siciliano, come moderatore delle fazioni di Toscana e Lombardia, doveva invece piegare o da una parte o dall'altra secondo la fortuna dell'Italia comunale o dell'Italia angioina.
Ultimamente la sede apostolica si era rivolta ai Comuni, aveva stretto alleanza con il principio nazionale contro la nuova dominazione straniera; ma in grave pericolo sarebbe stata la sua indipendenza, finché essa doveva rimanere in quell'alternativa.
Pertanto, gli atti di NICCOLO' III inducono alla persuasione che l'oggetto principale di questo pontefice era di togliere per sempre il Papato ad una tale alternativa, e che lui mirasse a gettare le basi di uno stato nazionale, il quale doveva sorgere appunto tra l'Italia monarchica e l'Italia comunale, indipendente così dall'impero tedesco come dalla casa di Francia, superiore alle discordie italiane e forte contro le ambizioni angioine; legato alla causa del Papato, ma non esposto alle vicende delle elezioni papali, e capace di guidarle, di dominarle. Una "signoria" insomma.

IL NEPOTISMO DI NICCOLO III
"Le dignità, gli uffici, i feudi, i domini, le ricchezze che Niccolò III raccolse nella propria famiglia erano gli elementi che Niccolò III si affrettò a mettere insieme per preparare questa signoria.
Perché mai -nell'inseguire quest'idea- non avrebbe dovuto preferire i propri congiunti? Con i suoi congiunti oltre che fidarsi di loro maggiormente poteva più facilmente imporre le sue idee, farli partecipi dei suoi pensieri, i suoi voti, i suoi ardimenti. Era insomma una vera secolarizzazione dello Stato della Chiesa quella cui Niccolò III volle mirare, come circa due secoli dopo Alessandro Borgia.
La nuova Signoria sorta sui domini della Santa Sede ed infeudati alla casa degli Orsini avrebbe fatto forse riscontro a quell'esteso principato che i feudatari d'Absburgo dovettero all'energia ed agli accorgimenti dell'alleato del Pontefice. L'accusa di simonia fatta dai contemporanei a Niccolò III non è ingiusta. Eppure, quando pensiamo che la signoria, ovvero il casato degli Orsini si sarebbe sollevato tra le famiglie dei regnanti, era destinata ad assicurare l'indipendenza dell'Italia, a cancellare in questa, ogni orma di dominio tedesco e ad arrestare i progressi della signoria francese, le ambizioni, i maneggi, gli arbitrii, le usurpazioni del terzo Niccolò non ci appaiono meritevoli di più severa condanna delle macchinazioni di quei pontefici, i quali, con la chiamata dell'Angioino avevano maggiormente complicato le civili contese nell'Italia comunale, avevano portato alle province del mezzogiorno un intollerabile servaggio, ed intanto, tra le vendette soddisfatte, avevano vincolato gl'interessi materiali e morali della Chiesa ai fini di una dinastia straniera".(Bertolini)
Fra i più danneggiati dalla politica di Niccolò III era Carlo d'Angiò e fu una fortuna per lui che il pontificato del suo nemico durò appena tre anni.
NICCOLÒ III mori il 22 agosto del 1280 nel castello di Suriano e non gli si potè dare subito un successore non regnando la concordia fra i cardinali raccolti a Viterbo.
Pochi mesi prima di morire fece concludere a Firenze dal cardinale LATINO FRANGIPANE la pace civile, creando a fianco del Podestà e del Capitano del popolo, la magistratura dei "14 buoni uomini", 8 guelfi e 6 ghibellini, permettendo inoltre alla gran maggioranza dei fuoriusciti ghibellini di rientrare in città.
Dopo sei mesi di vacanza della Santa Sede un atto di violenza di CARLO D'ANGIÒ determinò la decisione dei porporati. All'Angioino premeva che sulla sedia papale salisse un suo amico, ma era impossibile fin quando fra i cardinali riuniti in conclave rimanevano il cardinal Latino Frangipane e due altri della famiglia degli Orsini.

Il sovrano di Sicilia recatosi a Viterbo, diede vita un'agitazione popolare e per mezzo di RICCARDO degli ANNIBALDESCHI s'impadronì dei tre nipoti di Niccolò III e li fece tener sotto custodia come perturbatori del sacro consesso. Temendo per la propria sorte, i cardinali italiani non fecero alcuna opposizione alla proposte dei cardinali francesi e il 22 febbraio del 1281 fu eletto un francese, partigiano di Carlo, SIMONE di BRIE di Santa Cecilia, che prese il nome di MARTINO IV.
Essendo stato Carlo il principale artefice della sua elezione, la gratitudine del Papa fu quella di nominarlo suo vicario e quindi capo dei guelfi.

Dal quel giorno la politica della Santa Sede fu serva della corte angioina. Martino IV, violando la costituzione del suo predecessore, rimise Carlo nella carica di senatore romano, distribuì le sue truppe francesi nella Romagna, nelle Marche e nel ducato di Spoleto, diede alle città comandanti scelti tra gli ufficiali angioini e, rimosso il conte Bertoldo dal governo della Romagna, lo affidò al francese GIOVANNI D' EPPE, che subito marciò contro Forlì dove si erano raccolti i Ghibellini e i Lambertazzi cacciati da Bologna e da Faenza.

Favorito dalla Curia romana, a quel punto Carlo d'Angiò, tornò a rivolgere il suo pensiero a Costantinopoli al cui trono desiderava d'innalzare il genero FILIPPO, figlio di Baldovino II e sposo di Beatrice, figlia dell'Angioino.
Il Paleologo fu scomunicato dal suo amico papa, e Carlo si preparò ad una spedizione in Grecia, fatta figurare da lui come una nuova crociata.

Già l'Angioino aveva contratto alleanza con i Veneziani, già un corpo di tremila uomini era sbarcato nelle coste dell'Albania, già molte migliaia di cavalieri e di fanti si concentravano a Brindisi, Taranto, Messina e Manfredonia e moltissime navi da guerra e da trasporto erano pronte a salpare dai porti del regno, quando un avvenimento, provocato dalla sua tirannide, fatti svanire i suoi disegni di conquista, lo costrinse ad un'altra impresa; e questa su invito del suono squillante delle campane di Palermo.
O meglio di tutta la Sicilia, la regione che più d'ogni altra in Italia sentiva il peso della feroce dominazione francese in Italia.
Questa situazione e i fatti che poi seguirono fanno parte della prossima puntata: che però vogliamo far ripartire dal 1268 quando Carlo d'Angiò - dopo aver vinto Corradino alla battaglia della Scurcola- era entrato a Napoli ad inaugurare il suo regno con le forche a Piazza del Mercato e in Sicilia con la strage di Augusta.

E' il periodo del 1268 al 1282 > > >

(VEDI ANCHE I SINGOLI ANNI o nella TEMATICA)

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia
GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

LANZONE - Storia dei Comuni italiani dalle origini al 1313

VITORIO GLEIJESIS - La storia di Napoli, Soc. Edit Napoletana
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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