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 LETTERATURA  
del SECOLO XII - XIII ( La "
Commedia" )


FRANCESCO DE SANCTIS - STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
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LA COMMEDIA "DELL'ANIMA"

(primo capitolo di quattro)

 

Chi mi ha seguito vede che la ""Divina Commedia"" non è un concetto nuovo, nè originale, nè straordinario, sorto nel cervello di Dante e lanciato in mezzo a un mondo meravigliato. Anzi il suo pregio è di essere il concetto di tutti, il pensiero che giaceva in fondo a tutte le forme letterarie, rappresentazioni, leggende, visioni, trattati, tesori, giardini, sonetti e canzoni. L'"Allegoria dell'anima" e la "Commedia dell'anima "sono gli schemi, le categorie, i lineamenti generali di questo concetto.
Nel "Convito" la sostanza è l'etica, che Dante cerca di rendere accessibile agl'illetterati, esponendola in prosa volgare. Qui il problema è rovesciato. La sostanza sono le tradizioni e le forme popolari rannodate intorno al mistero dell'anima, il concetto di tutt'i misteri e di tutte le leggende, ed è in questo quadro che Dante gitta tutta la coltura di quel tempo. Con questa felice ispirazione, pigliando a base della coltura le tradizioni e le forme popolari, riunisce le due letterature, che si contendevano il campo, intorno al comune concetto che le ispirava, il mistero dell'anima.
La rappresentazione e la leggenda esce dalla sua rozza volgarità e si alza a' più alti concepimenti della scienza; la scienza esce dal santuario e si fa popolo, si fa mistero e leggenda. Indi l'immensa popolarità di questo libro, che gl'illetterati accettavano nel senso letterale e i dotti comentavano come un libro di scienza, come la "Somma" di san Tommaso. Il popolo vedeva in quei versi quel medesimo che sentiva nelle prediche, nelle divozioni e rappresentazioni, nè è meraviglia che qualcuno guardando Dante con quella faccia pensosa e come alienata, dicesse: - Costui par veramente uscito ora dall'inferno. - Gli eruditi si affannavano a cercare il senso de' versi strani, e il Boccaccio iniziava quella serie di commenti che spesso in luogo di squarciare il velo lo fanno più denso.

In effetti la "Divina Commedia" è una visione dell'altro mondo allegorica. Cristianamente, la visione e la contemplazione dell'altra vita è il dovere del credente, la perfezione. Il santo vive in ispirito nell'altro mondo; le sue estasi, le sue visioni si riferiscono alla seconda vita, a cui sospira. Dante accetta questa base ascetica, popolarissima: contemplare e vedere l'altro mondo è la via della salvazione. Per campare dalla selva del vizio e dell'ignoranza, egli si getta alla vita contemplativa, vede in ispirito l'altro mondo e narra quello che vede. Questo è il motivo ordinario di tutte le visioni, è la storia di tutt'i santi, è il tema di tutt'i predicatori, è la lettera della "Commedia", visione dell'altro mondo, come via a salute. Ma la visione è allegoria. L'altro mondo è allegoria e immagine di questo mondo, è in fondo la storia o il mistero dell'anima ne' suoi tre stati, detti nell'"Allegoria dell'anima" Umano, Spoglia, Rinnova, che rispondono a' tre mondi, Inferno, "Purgatorio" e "Paradiso". È l'anima intenebrata dal senso, nello stato puramente umano, che spogliandosi e mondandosi della carne si rinnova, ritorna pura e divina.

Questa allegoria era popolare e comune non meno che la lettera. Ciascuno vedeva un po' l'altro mondo con l'occhio di questo mondo, con le sue passioni e interessi. I predicatori, soprattutto nella descrizione delle pene infernali, cercavano immagini delle passioni terrene. Il mistero dell'anima era la base di tutte le invenzioni, la leggenda delle leggende. L'uomo, caduto nell'errore e nella miseria, che finisce o vendendo l'anima al demonio o purgandosi e salvandosi, era il fondamento di tutte le storie popolari, come s'è visto nell'"Introduzione alle virtù" e nella "Commedia dell'anima".

La "Commedia dell'anima" è l'anima uscita dalle mani di Dio pura, che in terra combatte le sue battaglie con la carne e col demonio, e vince assistita dalla grazia di Dio. Vizi e virtù combattono, come gli dei di Omero, intorno all'anima; le virtù vincono e l'anima è salva. Nell'"Introduzione alle virtù" è un giovane caduto in miseria, a cui apparisce confortatrice la Filosofia, sua maestra e signora, e gli mostra la battaglia de' Vizi e delle Virtù; e il giovane, spregiando i beni terrestri, si leva al cielo. La filosofia è anche la divina consolatrice di Boezio, così popolare, e di Dante, a cui dopo la morte di Beatrice apparve questa "nobilissima figlia dell'Imperatore dell'universo", facendolo suo amico e servo. Il vizio e l'ignoranza, la conversione per opera di Dio o della filosofia, la redenzione e beatificazione, visione di Dio e della scienza, era il luogo comune delle due letterature, de' semplici e degli uomini colti. E Dante fonde insieme le due forme, e tira nella sua allegoria filosofia e teologia, ragione e grazia, Dio e scienza, e fa un mondo armonico, assegnando a ciascuno il suo luogo. L'anima nell'inferno e nel purgatorio, non essendo uscita ancora dal terreno ha a guida il lume naturale, la ragione o la filosofia; ma la ragione è insufficiente senza la grazia di Dio: fatta libera e monda e leggiera, ha nel paradiso maestra la grazia o la teologia, luce intellettuale, che le mostra la scienza senza velo, o Dio nella sua essenza.

Perchè l'altro mondo è allegorico, figura dell'anima nella sua storia, il poeta è sciolto da' vincoli liturgici e religiosi e spazia nel mondo libero dell'immaginazione. Prendendo a base le tradizioni e le forme cristiane, adopera alla sua costruzione tutt'i materiali della scienza, sacra e profana, e le tradizioni e favole del mondo pagano, mescolando insieme Enea e san Paolo, Caronte e Lucifero, figure classiche e cristiane. Così ha realizzato quel mondo universale della coltura, tanto desiderato dalle classi colte e fino allora tentato invano, cristiano nel suo spirito e nella sua lettera, ma dove già penetra da tutte le parti il mondo antico. Mescolanza che in molti contemporanei pare strana e grottesca, legittimata qui dall'allegoria, che concede al poeta libertà di forme ch'egli creda più acconce a significare i suoi concetti. Il mondo pagano e la scienza profana sono qui materiali di costruzione, usati a edificare un tempio cristiano, a quel modo che colonne egizie e greche si veggono talora nelle costruzioni moderne divenire simbolo e figure de' nuovi tempi e delle nuove idee. Così a questa costruzione gigantesca prendon parte tutte le età e tutte le forme, fuse insieme e battezzate, penetrate da un solo concetto, il concetto cristiano.

L'ordito è semplicissimo: è la storia o mistero dell'anima nella sua espressione elementare, come si trova nella rappresentazione della "Commedia dell'anima"; e l'hai già tutta e chiara innanzi, fin dal primo canto. Dante nel giorno del Giubileo, quando Bonifazio facea mostra di tutta la sua possanza e il mondo cristiano si raccoglieva intorno a lui, si trova smarrito in una selva oscura, e sta per soggiacere all'assalto delle passioni, figurate nella lonza, il leone e la lupa, quando a camparlo dal luogo selvaggio esce Virgilio, e lo mena seco a contemplare l'inferno e il purgatorio, ove, confessati i suoi falli, guidato da Beatrice, sale in paradiso e di luce in luce giunge alla faccia di Dio.
Allegoricamente, Dante è l'anima, Virgilio è la ragione, Beatrice è la grazia, e l'altro mondo è questo mondo stesso nel suo aspetto etico e morale, è l'etica realizzata, questo mondo quale dee essere secondo i dettati della filosofia e della morale, il mondo della giustizia e della pace, il regno di Dio.
Dante è l'anima non solo come individuo, ma come essere collettivo, come società umana, o umanità. Come l'individuo, così la società è corrotta e discorde, e non può aver pace se non instaurando il regno della giustizia o della legge, riducendosi dall'arbitrio de' molti sotto unico moderatore. E qui entra la tradizione virgiliana: la monarchia prestabilita da Dio, fondata da Augusto, discendente di Enea, e Roma per diritto divino capo del mondo. Questo concetto politico non è intruso e soprapposto, ma è, come si vede, lo stesso concetto etico, applicato all'individuo e alla società. È tale la medesimezza, che la stessa allegoria si può interpretare in un senso puramente etico, per rispetto all'individuo, e in un senso politico, per rispetto alla società. E non è perciò maraviglia che la stessa materia si presti con tanta docilità alle più diverse interpretazioni.

Se l'allegoria ha reso possibile a Dante una illimitata libertà di forme, gli rende d'altra parte impossibile la loro formazione artistica. Dovendo la figura rappresentare il figurato, non può essere persona libera e indipendente, come richiede l'arte, ma semplice personificazione o segno d'idea, sicchè non contenga se non i tratti soli che hanno relazione all'idea, a quel modo che il vero paragone non esprime di se stesso se non quello solo che sia immagine della cosa paragonata. L'allegoria dunque allarga il mondo dantesco, e insieme lo uccide, gli toglie la vita propria e personale, ne fa il segno o la cifra di un concetto a sè estrinseco. Hai due realtà distinte, l'una fuori dell'altra, l'una figura e adombramento dell'altra, perciò amendue incompiute e astratte. La figura, dovendo significare non se stessa, ma un altro, non ha niente d'organico e diviene un accozzamento meccanico mostruoso, il cui significato è fuori di sè, com'è il grifone del "Purgatorio", l'aquila del "Paradiso", e il Lucifero, e Dante con le sette "P" incise sulla fronte.

La poesia non s'era ancora potuta sciogliere dall'allegoria. Il cristianesimo in nome del Dio spirituale facea guerra non solo agl'idoli, ma anche alla poesia, tenuta lenocinio e artifizio: voleva la nuda verità. E verità era filosofia o storia: la verità poetica non era compresa. La poesia era stimata un tessuto di menzogne, e "poeta" e "mentitore", come dice il Boccaccio, era la stessa cosa; i versi erano chiamati, come dice san Girolamo, "cibo del diavolo". La poesia perciò non fu accettata se non come simbolo e veste del vero: l'allegoria fu una specie di salvacondotto, pel quale potè riapparire fra gli uomini. Erano detti "poeti solenni", a distinzione de' "popolari", i dotti che esprimevano in poesia la dottrina sotto figura, o in forma diretta. Dante definisce la poesia "banditrice del vero", sotto "il velame della favola ascoso", di modo che il lettore "sotto alla dura corteccia, sotto favoloso e ornato parlare, trovi salutari e dolcissimi ammaestramenti". La poesia è in sè una "bella menzogna", che non ha alcun valore, se non come figura del vero.
Con questa falsa poetica, di cui abbiamo visto l'influenza ne' nostri lirici, Dante lavora sopra idee astratte: trova una serie di concetti, e poi ti forma una serie corrispondente di oggetti. Le menti erano assuefatte a questo processo, a correre al generale. Il campo ordinario della filosofia scolastica era l'Ente con tutte le altre generalità, e la pratica del sillogismo avea avvezzi tutti, anche i poeti, a cercare in ogni cosa la maggiore, la proposizione generale. Ora quel mondo di concetti è la maggiore dell'altro mondo.

Quali sieno questi concetti, io dirò quasi con le stesse parole di Dante.
La patria dell'anima è il cielo, e come dice Dante, discende in noi da altissimo abitacolo. Essa partecipa della natura divina.
L'anima, uscendo dalle mani di Dio, è "semplicetta", "sa nulla"; ma ha due facoltà innate, la ragione e l'appetito, "la virtù che consiglia", e l'esser "mobile ad ogni cosa che piace", l'esser "presta ad amare".
L'appetito (affetto, amore) la tira verso il bene. Ma nella sua ignoranza non sa discernere il bene, segue la sua falsa immagine e s'inganna. L'ignoranza genera l'errore, e l'errore genera il male.
Il male o il peccato è posto nella materia, nel piacere sensuale.
Il bene è posto nello spirito: il sommo Bene è Dio, puro spirito. L'uomo dunque, per esser felice, dee contrastare alla carne e accostarsi al sommo Bene, a Dio. A questo fine gli è stata data la ragione come consigliera: indi nasce il suo libero arbitrio e la moralità delle sue azioni.
La ragione per mezzo della filosofia ci dà la conoscenza del bene e del male. Lo studio della filosofia è perciò un dovere, è via al bene, alla moralità. La moralità è la "bellezza della filosofia": è l'etica, "regina delle scienze", "il primo cielo cristallino".
A filosofare è necessario amore. L'Amore (appetito) può esser sementa di bene e di male, secondo l'oggetto a cui si volge. Il falso amore è "appetito non cavalcato dalla ragione". Il vero amore è studio della filosofia, "unimento spirituale dell'anima con la cosa amata".
Filosofia è "amistanza a sapienza", amicizia dell'anima con la sapienza. Nelle nature inferiori l'amore è "sensibile dilettazione". Solo l'uomo, come "natura razionale, ha amore alla verità e alla virtù" (alla filosofia). Ciò è vera felicità, che per contemplazione della verità si acquista.
In questi concetti si trova il succo della morale antica. Già i filosofi pagani aveano mostrato la filosofia come unico porto fra le tempeste della vita: esser filosofo significava e significa anche oggi resistere alle passioni ed a' piaceri, vincer se stesso, serbare l'eguaglianza dell'animo nelle umane vicissitudini.
Ma ecco ora sopraggiungere il cristianesimo.

L'umanità per il peccato d'origine cadde in servitù dei sensi (del male o del peccato), e la ragione e l'amore non furono più sufficienti a salvarla. La ragione andava a tentoni e menava all'errore; "i filosofi andavan e non sapevan dove"; l'amore rimaso senza "rettore" divenne appetito sensuale. Era necessaria una redenzione soprannaturale. Dio si fece uomo e redense l'umanità, offrendosi vittima espiatoria per lei.
Mediante questo sacrificio, la ragione è stata avvalorata dalla fede, l'amore avvalorato dalla grazia, la filosofia è stata compiuta dalla teologia, la rivelazione.
Redenta l'umanità, ciascun uomo ha acquistato la virtù di salvarsi con l'aiuto di Dio. Guidato dalla ragione e dalla fede, fortificato dall'amore e dalla grazia, può affrancarsi da' sensi e levarsi di mano in mano sino a Dio, al sommo Bene.
Questo cammino dalla materia o dal peccato sino allo spirito o al bene comprende tutto il circolo della morale o etica. La conoscenza della morale (naturale e rivelata, filosofia e teologia) è perciò necessaria a salute.

La morale è il ""Nosce te ipsum"", la conoscenza di se stesso. L'uomo si trova in questa vita in uno de' tre stati di cui tratta la morale, stato di peccato, stato di pentimento, stato di grazia.
L'altro mondo è figura della morale. L'inferno è figura del male o del vizio; il paradiso è figura del bene o della virtù; il purgatorio è il passaggio dall'uno all'altro stato mediante il pentimento e la penitenza. L'altro mondo è perciò figura de' diversi stati ne' quali l'uomo si trova in questa vita.
La rappresentazione dell'altro mondo è dunque un'etica applicata, una storia morale dell'uomo, com'egli la trova nella sua coscienza. Ciascuno ha dentro di sè il suo inferno e il suo paradiso.
Il viaggio nell'altro mondo è figura dell'anima nel suo cammino a redenzione. Ed è Dante stesso che fa questo viaggio.
Si trova in una selva oscura (stato d'ignoranza e di errore, la selva erronea del "Convito"), vede il dilettoso colle, principio e cagione di tutta gioia (la beatitudine), illuminato dal sole che mena dritto altrui per ogni calle (la scienza), ma tre fiere (la carne, gli appetiti sensuali) gli tengono il passo. L'uomo da sè non può salire il calle, non può giungere a salute: viene dunque il "deus ex machina", l'aiuto soprannaturale. Si richiede non solo ragione, ma fede, non solo amore, ma grazia. Virgilio (ragione e amore) lo guida, insino a che, confesso e pentito e purgato d'ogni macula terrena, succede Beatrice (ragione sublimata a fede, amore sublimato a grazia). Con questo aiuto esce dallo stato d'ignoranza e di errore (la selva), e prende il cammino della scienza (l'altro mondo, il mondo etico e morale). Gli si affaccia prima l'inferno (l'anima nello stato del male) e conosce il male nella sua natura, nelle sue specie, ne' suoi effetti (vedi canto XI). Entra allora in purgatorio (pentimento ed espiazione), dove ancor vive la memoria e l'istinto del male, e conosciuto il suo stato, pentito e mondo, diventa libero (dalla carne o dal peccato). Si trova allora ricondotto allo stato d'innocenza, nel quale era l'uomo avanti il peccato d'origine, e vede il paradiso terrestre e vede Beatrice (fede e grazia) Con la sua guida sale in paradiso (l'anima nello stato di beatitudine), di grado in grado si leva sino alla conoscenza e amore (contemplazione beatifica) di Dio, del sommo Bene, e in questa mistica congiunzione dell'umano e del divino si riposa (è beato).

La redenzione della società ha luogo nello stesso modo che degl'individui. La società serva della materia è anarchia, discordia sviata dall'ignoranza e dall'errore. E come l'uomo non può ire a pace, se non vinca la carne ed ubbidisca alla ragione, così la società non può ridursi a concordia, se non presti ubbidienza ad un supremo moderatore (l'imperatore) che faccia regnare la legge (la ragione), guida e freno dell'appetito.
Con questo fondo generale si lega tutto lo scibile di quel tempo, metafisica, morale, politica, storia, fisica, astronomia, ecc
Il centro intorno a cui gira questa vasta enciclopedia è il problema dell'umana destinazione che si trova in fondo a tutte le religioni e a tutte le filosofie, il mistero dell'anima, pensiero della letteratura volgare sotto tutte le sue forme. Il problema è posto ed è sciolto cristianamente. L'umanità ha perduto ed ha racquistato il paradiso; questa storia epica di Milton è l'antecedente del problema. L'umanità ha racquistato il paradiso, cioè ciascun uomo ha acquistato la forza di salvarsi. Ma in che modo? Qual è la via di salvazione?

La "Commedia" è la risposta a questa domanda, la soluzione del problema.
Il cristianesimo ne' primi tempi di fervore rispondea: - L'uomo si salva, imitando Cristo che ha salvato l'umanità, si salva con l'amore. Bisogna volger le spalle alla vita terrena e seguire Dio, lui amare, lui contemplare. - Di qui la preminenza della vita contemplativa, che Dante chiama eccellentissima e simile alla vita divina. Il che dovea menar dritto alla visione estatica, alla comunione tra l'anima e Dio, al misticismo, tanta parte della letteratura volgare. Gli uomini stanchi del mondo cercavano pace e obblio nei monasteri, e nutrivano l'anima del pensiero della morte, della meditazione dell'altra vita; i santi Padri esortano spesso i fedeli a volger la mente all'altro mondo; anche oggi le prediche, i libri ascetici, i libri di preghiera non sono che un continuo ""Memento mori""; è famoso il "Pensa, anima mia", frase formidabile, a cui il lettore vede già in aria venir dietro il giudizio universale e le fiamme dell'inferno. Se le cose di quaggiù sono caduche e "nulla promission rendono intera", se il significato serio della vita è nell'altro mondo, se là è il vero, è la realtà: l'"Iliade", il poema della vita è la "Commedia", la storia dell'altro mondo.

In quei primi tempi la scienza non è necessaria a salute, anzi i cristiani menavano vanto della loro ignoranza: ""Beati pauperes spiritu"". Avendo per avversari gli uomini più dotti del paganesimo, rispondevano "ex abundantia cordis", con la sicurezza e l'eloquenza della fede, la loro lingua di fuoco. Ma questo amore di cuori semplici, che spesso umiliava l'orgoglio di una scienza vòta e arida, non bastò più appresso. Aristotele dominava nelle scuole; la scienza si era introdotta nella teologia e ne avea fatto un cumulo di sottigliezze: lo stesso misticismo avea preso forme scientifiche, divenuto ascetismo, scienza della santificazione, in Agostino, Bernardo e Bonaventura. L'Amore dunque prende un contenuto, diviene scienza, e la loro unità è la filosofia, uso amoroso di sapienza.
La scienza però non contraddice, non annulla, anzi fortifica e dimostra lo stesso concetto della vita. Anche per Dante la santificazione è posta nella contemplazione; l'oggetto della contemplazione è Dio; la beatitudine è la visione di Dio; al sommo della scala de' beati mette i contemplanti, non gli operanti; ma per giungere all'unione con Dio non basta volere, bisogna sapere, ci vuole la sapienza che è amore e scienza, unità del pensiero e della vita. Perciò Virgilio non può esser ragione, che non sia anche amore, e Beatrice non può esser fede, che non sia anche grazia; Dante stesso conosce e vuole a un tempo; ogni suo atto del conoscere mena a un suo atto del volere. L'intelletto è in cima della scala: l'amore dee essere inteso, se ne dee avere intelletto.

Tale è la soluzione dantesca. A quattro secoli di distanza il problema si ripresenta, ma i termini sono mutati. Il punto di partenza non è più l'ignoranza, la selva oscura, ma la sazietà e vacuità della scienza, l'insufficienza della contemplazione, il bisogno della vita attiva. La sapiente Beatrice si trasforma nell'ignorante e ingenua Margherita; e Fausto non contempla ma opera; anzi il suo male è stato appunto la contemplazione, lo studio della scienza, e il rimedio che cerca è ribattezzarsi nelle fresche onde della vita. Ma al tempo di san Tommaso la ragione entrava appena nella sua giovinezza; sorgea da lungo ozio, curiosa, credula, acuta, tanto più confidente, quanto meno esperta della misura di sè e delle cose; le si domandava tutto e prometteva tutto. Dovea ella darci la pietra filosofale del mondo morale, la felicità. Lo scopo della scienza non era speculativo solamente, ma pratico. Nell'ordine speculativo era già conseguito il suo scopo, divenuta per Dante un libro chiuso, di cui tutte le pagine sono scritte. Ma la scienza dee operare anche sulla volontà, menare a virtù e felicità. E se questo miracolo non era ancora avvenuto, se la realtà era tanto disforme alla scienza, doveasene recare la cagione, secondo Dante e i contemporanei, all'ignoranza. Bisognava dunque volgarizzare la scienza, darle uno scopo morale, drizzarla all'opera. Indi l'importanza che ebbe l'etica e la rettorica, la scienza de' costumi e l'arte della persuasione.

I tentativi fatti, compreso il "Convito", furono infelici. Trattandosi di verità da esporre e non da cercare, manca lo spirito e l'ardore scientifico, manca in tutti, anche in Dante. La stessa esposizione non è libera, predeterminata da forme scolastiche. Da queste condizioni non potea uscire una letteratura filosofica, quella forma, propria degli uomini meditativi, che ti rivela non solo l'idea, ma come in te nasce, come la si presenta, con esso i sentimenti che l'accompagnano, pregna di altre idee, le quali per la potenza comprensiva della parola intravvedi, ancora senza contorni, mobili, nasciture. Qui sta la vita superiore della forma filosofica, generata immediatamente dal travaglio del pensiero, che mette in moto tutte le altre facoltà, compresa l'immaginazione. In quei tentativi il contenuto scientifico ci sta, non nel punto che tu lo trovi e vi metti sopra la mano, ma già trovato, divenuto nello spirito un antecedente non esaminato, tolto pesolo e grezzo dalla scuola. La terra si manifesta meglio al coltivatore che al proprietario. Dante sa di avere i tali fondi, ma non ci va, non entra in comunione con quelli, non vive della vita de' campi, non li lavora, li conosce sulla carta. Rimane una proprietà astratta, senza effettiva possessione, senza assimilazione, un mio che non è me, non è fatto parte dell'anima mia. Non ci è investigazione e non ci è passione, dico la passione che è generata da un amoroso lavoro intellettuale. Il filosofo fora la superficie e si seppellisce nel mondo sotterraneo, dove, come dice Mefistofele, stanno le profonde radici della scienza. Ma qui la scienza è salita sulla superficie, e se ne coglie i frutti senza fatica. Tutto è dato, la scienza con esso le sue prove e il suo linguaggio; sì che, ferme e intangibili le parti superiori della scienza, non riman libera che l'ultima e più bassa operazione dell'intelletto, distinguere e sottilizzare.

Essendo la scienza base di tutto l'edificio, ne seguitò quella falsa poetica di cui è detto. La letteratura solenne e dotta divenne un istrumento della scienza, un modo di volgarizzarla. E tenne due vie, l'esposizione diretta o l'allegorica. Nè altro fu l'intendimento di Dante nella rappresentazione dell'altro mondo. Come que' filosofi che sotto nome di utopia costruiscono un mondo dove sia realizzato il loro sistema, Dante costruisce il mondo allegorico della scienza, dove pur trova modo di esporla in forma diretta nelle sue parti sostanziali.
Egli ha aria di dire: - Volete salvarvi l'anima? Venite appresso a me nell'altro mondo; ivi impareremo dalla bocca de' morti la filosofia morale, la scienza della salvazione. - E i morti parlano ed espongono la scienza, soprattutto in paradiso, i cui stalli sembrano convertiti in vere cattedre o pulpiti. Nè la scienza è solo nelle parole de' morti, ma anche nella costruzione e rappresentazione dell'altro mondo, dove essa è sposta sotto figura, in forma allegorica. Il sistema insegue il poeta in mezzo a' suoi fantasmi, e dice: - Bada che tu non passeggi per curiosità, per osservare e dipingere: il tuo scopo è l'insegnamento della scienza per la salute dell'anima; non ti dimenticare della scienza. - E la poetica gli soggiunge: - Pensa che tutte le tue invenzioni, belle che sieno e maravigliose, sono nè più nè meno che sciocche bugie, quando non rendano odore di scienza: la poesia è un velo sotto il quale si dee nascondere la dottrina. - Ond'è che il poeta costringe la stessa realtà a produrre un contenuto scientifico: dietro la realtà ci è la scienza, come dietro l'ombra ci è il corpo; qui la scienza è il corpo, e la realtà è l'ombra, "ombrifero prefazio del vero", anzi è meno che ombra, perchè nell'ombra ci è pure l'immagine del corpo. È l'alfabeto della scienza, come la parola è del pensiero, un alfabeto composto non di lettere, ma di oggetti, ciascuno segno della tale e tale idea.

Questi erano i concetti, e queste le forme, a cui lo spirito era giunto. Perciò quel concetto fondamentale dell'età, il mistero dell'anima o dell'umana destinazione, non era ancora realizzato come arte; perchè l'arte è realtà vivente, che abbia il suo valore e il suo senso in se stessa, e qui la scienza, in luogo di calare nel reale ed obbliarvisi, lo tira e lo scioglie in sè.
Il mistero dell'anima era dunque o rozza e greggia realtà nella letteratura popolare, o trattato e allegoria nella letteratura dotta e solenne.
Dante s'impadronì di questo concetto e tentò realizzarlo come arte. Ma ci si mise con le stesse intenzioni e con le stesse forme. Prese quella rozza realtà degli ascetici, e volle farne l'ombrifero prefazio del vero, l'allegoria della scienza. Da questa intenzione non potea uscir l'arte.
Neppure l'esposizione della scienza in forma diretta è arte. Il poeta che vuole esporre la scienza, e vuol pur fare una poesia, si propone un problema assurdo, voler dare corpo a ciò che per sua natura è fuori del corpo. La poesia si riduce dunque a un puro abbigliamento esteriore, non penetra l'idea, non se l'incorpora; l'idea rimane invitta nella sua astrazione. Dante spiega in questo assunto tutte le forze della sua immaginazione; nessuno più di lui ha saputo con tanta potenza assalire la scienza nel proprio campo e farle forza; ma questo connubio della poesia e della scienza, ch'egli chiama nel "Convito" un "eterno matrimonio", non è uno di due, è un eterno due. La poesia può farle preziosi doni, può vestirla sontuosamente, ingemmarla, girarle attorno carezzevole, può abbigliarla, non possederla. E la possiede allora solamente, quando non la vede più fuori di sè, perchè è divenuta la sua vita e anima, la realtà.

L'allegoria è una prima forma provvisoria dell'arte. È già la realtà, che però non ha valore in se stessa, ma come figura, il cui senso e il cui interesse è fuori di sè, nel figurato, oggetto o concetto che sia. E poichè nel figurato ci è qualche cosa che non è nella figura, e nella figura ci è qualche cosa che non è nel figurato, la realtà divenuta allegorica vi è necessariamente guasta e mutilata. O il poeta le attribuisce qualità non sue, ma del figurato come il veltro che si ciba di sapienza e di virtude, o esprime di lei solo alcune parti, e non perchè sue, ma perchè si riferiscono al figurato, come il grifone del "Purgatorio". In tutti e due i casi la realtà non ha vita propria, o per dir meglio non ha vita alcuna: l'interesse è tutto nel figurato, nel pensiero. Ora, o il pensiero è oscuro, e cessa ogni interesse; o è dubbio, di maniera che ti si affaccino più sensi, e tu rimani sospeso e raffreddato; o è chiaro, e lo hai innanzi nella sua generalità, senza carattere poetico. La selva è figura della vita terrena. E la vita terrena, appunto perchè figurato, ti si porge spoglia di ogni particolare, per cui e in cui è vita, generale e immobile come un concetto. Questo povero figurato è condannato, come Pier delle Vigne, a guardarsi il suo corpo penzolare innanzi senza che mai sen rivesta; e non propriamente suo, perchè quel corpo singolare, che chiamasi figura, serve a due padroni, è sè ed un altro, è insieme lettera e figura, un corpo a due anime, rappresentato in guisa, che prima paia se stesso, la selva, e considerato attentamente mostri in sè le orme di un altro. Talora la figura fa dimenticare il figurato; talora il figurato strozza la figura. Per lo più nel senso letterale penetrano particolari estranei che lo turbano e lo guastano, e per volerci procurare un doppio cibo ci si fa stare digiuni.

Dunque in queste forme non c'è ancora arte. La realtà ci sta o come immagine del pensiero astratto ed estrinseco, o come figura di un figurato parimente astratto ed estrinseco. Non ci è compenetrazione dei due termini. Il pensiero non è calato nell'immagine; il figurato non è calato nella figura. Hai forme iniziali dell'arte non hai ancora l'arte.
Dante si è messo all'opera con queste forme e con queste intenzioni. Se l'allegoria gli ha dato abilità a ingrandire il suo quadro e a fondere nel mondo cristiano tutta la coltura antica, mitologia, scienza e storia, ha d'altra parte viziato nell'origine questo vasto mondo, togliendogli la libertà e spontaneità della vita, divenuto un pensiero e una figura, una costruzione "a priori", intellettuale nella sostanza, allegorica nella forma.
E se la "Commedia" fosse assolutamente in questi termini, sarebbe quello che fu il "Tesoretto" prima e il "Quadriregio" poi, grottesca figura d'idee astratte.
Ma dirimpetto a quel mondo della ragione astratta viveva un mondo concreto e reale, la cui base era la storia del vecchio e nuovo Testamento nella sua esposizione letterale e allegorica, e che nelle allegorie, nei misteri, nei cantici, nelle laude, nelle visioni, nelle leggende avea avuta già tutta una letteratura. Era la letteratura degli uomini semplici, poveri di spirito. A costoro la via a salute era la contemplazione non di esseri allegorici, figurativi della scienza ma reali; Dio, la Vergine, Cristo, gli angioli, i santi, l'inferno, il purgatorio, il paradiso; ciò che essi chiamavano l'altra vita, non figura di questa, anzi la sola che essi chiamavano realtà e verità. Il contemplante o il veggente era il santo, il profeta, l'apostolo, banditore della parola di Dio; Dante, l'amico della filosofia, contemplando il regno divino, se ne fa non solo il filosofo, ma il profeta e l'apostolo, rivelandolo e predicandolo agli uomini; diviene il missionario dell'altro mondo, ed è san Pietro che gli apre la bocca e lo investe della sacra missione:

Apri la bocca,
e non asconder quel ch'io non ascondo.

Ora questo mondo cristiano, di cui si faceva il profeta, era per lui una cosa così seria, come per tutt'i credenti, seria nel suo spirito e nella sua lettera. Ne parla col linguaggio della scienza, lo intravvede attraverso la scienza, ma la scienza non lo dissolveva, anzi lo illustrava e lo confermava. Supporre che esso fosse una figura, una forma trovata per adombrarvi i suoi concetti scientifici, è un anacronismo, è un correre sino a Goethe. La scienza penetra in questo mondo come ragionamento o come allegoria, e spiega la sua costruzione e il suo pensiero, a quel modo che il filosofo spiega la natura. E come la natura, così l'altro mondo è per Dante più che figura, è vivace e seria realtà, che ha in se stessa il suo valore e il suo significato.
Nè quel mondo cristiano rimane nella sua generalità religiosa, com'è nei cantici, nelle prediche e ne' misteri e leggende. Dalla vita contemplativa cala nella vita attiva e si concreta nella vita reale. Essendo la perfezione religiosa nel dispregio de' beni terreni, i credenti, da Francesco d'Assisi a Caterina, non poteano vedere con animo quieto i costumi licenziosi de' chierici e de' frati, la corruzione della città santa, dove Cristo si mercava ogni giorno, il papa divenuto sovrano temporale e dominato da fini e interessi terreni, in tresca adultera co' re. Su questo punto i santi sono così severi, come Dante; più avean fede, e maggiore era l'indignazione. Venendo più al particolare, abbiam visto Bonifazio legarsi con Filippo il Bello contro l'imperatore, ciò che Dante chiama un adulterio, inviare Carlo di Valois a Firenze, cacciarne i Bianchi, instaurarvi i guelfi. Il guelfismo era allora la Chiesa, fatta meretrice del re di Francia, che la trasse poco poi in Avignone, divenuta pietra di scandalo e aizzatrice di tutte le discordie civili. Come potere e interesse temporale, era essa non solo radice e causa della corruzione del secolo, ma impedimento alla costituzione stabile delle nazioni, e massime d'Italia, in quella unità civile o imperiale, che rendea immagine dell'unità del regno di Dio. A questo mondo guasto contrapponevano la purezza de' tempi evangelici e primitivi e il vivere riposato e modesto delle città, prima che vi entrasse la corruzione e la licenza de' costumi, di cui la Chiesa dava il mal esempio.

Come si vede, il mondo politico entrava per questa via nel mondo cristiano, e ne facea parte sostanziale. La politica non era ancora una scienza con fini e mezzi suoi: era un'appendice dell'etica e della rettorica. E come vita reale il suo modello era il mondo cristiano, di cui si ricordava un'immagine pura in tempi più antichi, una specie di età dell, oro della vita cristiana.
Questo mondo cristiano-politico non era già per Dante una contemplazione astratta e filosofica. Mescolato nella vita attiva, egli era giudice e parte. Offeso da Bonifazio, sbandito da Firenze, errante per il mondo tra speranze e timori, fra gli affetti più contrari, odio e amore, vendetta e tenerezza, indignazione e ammirazione, con l'occhio sempre volto alla patria che non dovea più vedere, in quella catastrofe italiana c'era la sua catastrofe, le sue opinioni contraddette, la sua vita infranta nel fiore dell'età e offesi i suoi sentimenti di uomo e di cittadino. Le sue meditazioni, le sue fantasie mandano sangue. Non è Omero, contemplante sereno e impersonale; è lui in tutta la sua personalità, vero microcosmo, centro vivente di tutto quel mondo, di cui era insieme l'apostolo e la vittima.
Se dunque, come filosofo e letterato, involto nelle forme e ne' concetti dell'età, volea costruire un mondo etico o scientifico in forma allegorica, come entra in quel mondo, non vi trova più la figura. Simile a quel pittore che s'inginocchia innanzi al suo "san Girolamo", trasformatasi nell'immaginazione la figura nella persona del santo, egli cerca la figura e trova una realtà piena di vita, trova se stesso.

Oltre a ciò, Dante era poeta. Invano afferma che ""poeta"" vuol dire ""profeta"", banditore del vero. Sublime ignorante, non sapea dov'era la sua grandezza. Era poeta e si ribella all'allegoria. La favola, ciò ch'egli chiama "bella menzogna", lo scalda, lo soverchia, e vi si lascia ir dietro come innamorato, nè sa creare a metà, arrestarsi a mezza via. Nel caldo dell'ispirazione non gli è possibile starsi col secondo senso innanzi e formar figure mozze, che vi rispondano appuntino, particolare con particolare, accessorio con accessorio, come riesce a' mediocri. La realtà straripa, oltrepassa l'allegoria, diviene se stessa; il figurato scompare, in tanta pienezza di vita, fra tanti particolari. Indi la disperazione de' comentatori: egli fece il suo mondo, e lo abbandonò alle dispute degli uomini.
Per metter d'accordo la sua poetica con la sua poesia, Dante sostiene nel "Convito" che il senso letterale dee essere indipendente dall'allegorico, di modo che sia intelligibile per se stesso. Con questa scappatoia si è salvato dalle strette dell'allegoria, ed ha conquistato la sua libertà d'ispirazione, la libertà e indipendenza delle sue creature. Sia pure l'altro mondo figura della scienza; ma è prima e innanzi tutto l'altro mondo, e Virgilio è Virgilio, e Beatrice è Beatrice, e Dante è Dante, e se di alcuna cosa ci dogliamo, è quando il secondo senso vi si ficca dentro e sconcia l'immagine e guasta l'illusione.
Sicchè nella "Commedia", come in tutt'i lavori d'arte, si ha a distinguere il mondo intenzionale e il mondo effettivo, ciò che il poeta ha voluto e ciò che ha fatto. L'uomo non fa quello che vuole, ma quello che può. Il poeta si mette all'opera con la poetica, le forme, le idee e le preoccupazioni del tempo; e meno è artista, più il suo mondo intenzionale è reso con esattezza. Vedete Brunetto e Frezzi. Ivi tutto è chiaro, logico e concorde: la realtà è una mera figura. Ma se il poeta è artista, scoppia la contraddizione vien fuori non il mondo della sua intenzione, ma il mondo dell'arte.

Come l'argomento siasi affacciato a Dante non è chiaro. Le memorie secrete del genio non sono scritte ancora e mal si può indovinare da quello che è espresso quello che è preceduto nello spirito d'un autore. È difficile far la geologia di un lavoro d'arte, trovare nel definitivo le tracce del provvisorio. È probabile che la "Commedia" sia stata vagamente concepita fin dalla giovinezza, ad imitazione di quelle "commedie dell'anima", di quelle visioni dell'altra vita, così in voga; e che dapprima il poeta pensasse solo alla glorificazione di Beatrice e alla rappresentazione pura e semplice dell'altro mondo; e forse de' frammenti e anche de' canti furono scritti prima che un disegno ben chiaro e concorde gli entrasse in mente. Questo è il tempo oscuro alla critica e altamente drammatico, il tempo de' tentennamenti, del silenzioso contendere con se stesso, degli abbozzi, del va e vieni, storia intima del poeta. Il quale, quando gli si mostra l'argomento, vede per prima cosa dissolversi quella parte di realtà che vi risponde, fluttuante come in una massa di vapori guardata da alto, dove gli alberi, i campanili, i palazzi, tutte le figure si decompongono e si offrono a frammenti. Chi non ha la forza di uccidere la realtà, non ha la forza di crearla. Ma sono frammenti già penetrati di virtù attrattiva, amorosi, che si cercano, si congregano, con desiderio, con oscuro presentimento della nuova vita a cui sono destinati. La creazione comincia veramente, quando quel mondo tumultuario e frammentario trovi un centro intorno a cui stringersi. Allora esce dall'illimitato che lo rende fluttuante, e prende una forma stabile; allora nasce e vive, cioè si sviluppa gradatamente secondo la sua essenza. Ora il mondo dantesco trovò la sua base nella idea morale.
La idea morale non è concetto arbitrario ed estrinseco all'argomento, è insito nell'altro mondo, è il suo concetto; perchè senza di quella l'altro mondo non ha ragion d'essere. La base dunque è vera, è nell'argomento; e se difetto c'è, il difetto è nella natura dell'argomento.

Ma Dante meditandovi sopra, e non come poeta ma come filosofo, valicò l'argomento. Non è contento che la ci sia, ma la mostra e la spiega. E non si contenta neppure di questo. Quella idea diviene la filosofia, tutto un sistema di concetti ben coordinato, e non è più la base, il senso interiore dell'altro mondo a quel modo che lo spirito è nella natura, ma è essa il contenuto, essa l'argomento, essa lo scopo. Così quella vivace realtà si va ad evaporare in una generalità filosofica, e il lavoro diviene un insegnamento morale-politico sotto il velo dell'altro mondo. Il poeta spontaneo e popolare si volta nel poeta dotto e solenne. Descrivere l'altro mondo così alla semplice e nel suo senso immediato gli pare un frivolo passatempo, la maniera de' narratori volgari. La lettera ci è, ma è per i profani, per gli uomini semplici, che non vedono di là dell'apparenza. Ma egli scrive per gl'iniziati, per gl'intelletti sani, e loro raccomanda di non fermarsi alla corteccia, di guardare di là! E tutti si son messi a guardare di là.

Così sono nati due mondi danteschi, uno letterale e apparente, l'altro occulto, la figura e il figurato. E poichè l'interesse è in questo senso occulto, in questo di là, i dotti si son messi a cercarlo. L'hanno cercato, e non l'hanno trovato, e dopo tante dispute e vane congetture, esce infine il buon senso, esce Voltaire e dice: "Gl'italiani lo chiamano "divino" ma è una divinità occulta; pochi intendono i suoi oracoli; la sua fama si manterrà sempre, perchè nessuno lo legge". E Voltaire vuol dire: - Abbiamo sudato parecchi secoli per capirti; e poichè non ti vuoi far capire, statti con Dio -. E vuol dire ancora: - Ne val poi la pena? È una falsa divinità quella che rimane nascosta -. Pure nè il "veto" del Voltaire valse ad arrestare le ricerche, nè il suo disprezzo ad intiepidire l'ammirazione. Con nuovo ardore italiani e stranieri si misero a interpretare questo Giano a due facce o piuttosto a due mondi, l'uno visibile e l'altro invisibile; ciascuno si provò ad alzare un lembo del velo di cui si è ravvolto il dio. Ma nè acutezza d'ingegno, nè copia di dottrina, nè profonda conoscenza di quei tempi, nè studio paziente delle altre sue opere hanno potuto trarci fuori delle ipotesi e delle congetture. Gli antichi interpreti dissentivano ne' particolari; il dissenso de' moderni è più profondo: hai interi sistemi che si confutano a vicenda. Oggi ancora non si pubblica un Dante in Germania, che non ci si appicchino nuove spiegazioni; non puoi leggere una critica della "Commedia", che non ti trovi ingolfato in un pelago di quistioni. Dante è divenuto un nome che spaventa, irto di sillogismi e soprasensi, e spesso sei ridotto a domandarti:
Qual è il vero Dante? - Poichè ciascun comentatore ha il suo, ciascuno gli appicca le opinioni e passioni sue, e lo fa cantare a suo modo, e chi ne fa un apostolo di libertà, di umanità, di nazionalità, chi un precursore di Lutero, chi un santo Padre. Cercano Dante dove non è, cercano i suoi pregi dove sono i suoi difetti, e qual maraviglia che il Lamartine alla sua volta cercandolo colà e non vel trovando, si sia affrettato a conchiudere: "Dunque Dante non esiste"? Io ne conchiudo: - Poichè non è là, cerchiamolo altrove. - La grandezza del dio non è nel santuario, ma là dove si mostra con tanta pompa al di fuori.
A forza di cercar maraviglie in un mondo ipotetico, non vediamo quelle che ci si affacciano innanzi. Parlando a coro della dignità della "Commedia" e de' veri e del senso arcano, si è data una importanza fattizia a questo mondo intellettuale-allegorico, se non fosse per altro, per la fatica che ci si è spesa. Se Dante tornasse in vita, sentendo a dire che Beatrice è l'eresia o la sua anima, che le arpie sono i monaci domenicani, che Lucifero è il papa, che il suo vocabolario è un gergo settario, e vedendo quanti sensi occulti gli sono affibbiati, potrebbe a più d'uno tirargli le orecchie e dire: - Cotesto "arri" non ci misi io -. Ma gli si potrebbe rispondere: - Vostra colpa: perchè non siete stato più chiaro? Ci avete promessa un'allegoria: perchè non ci avete data un'allegoria? La vostra figura non risponde appuntino al figurato: perchè l'avete fatta sì bella? Perchè le avete data tanta realtà? In tanta ricchezza di particolari dove o come trovare l'allegoria? E qual maraviglia che la stessa figura significhi una per me e una per voi? Qual maraviglia che nella stessa figura si trovi di che provare la verità di tre o quattro interpretazioni? E ci fosse solo un senso! Ma ci fate sapere che, oltre all'allegorico, ci è il senso morale e l'anagogico: dove trovare il bandolo? I vostri ascetici gridano che il corpo è un velo dello spirito: ma il peccatore fa di cappello allo spirito e adora la carne. E anche voi gridate che i versi sono un velo della dottrina; e, come il peccatore, piantate lì il figurato, e correte appresso alla figura, e la fate così impolpata, così corpulenta, che è un velo denso e fitto, di là dal quale non si vede nulla, e perciò si vede tutto, quello che intendete voi e quello che intendiamo noi. Se dunque la vostra allegoria è come l'ombra di Banco, messa tra voi e noi, che ci toglie la vostra vista, se il vostro poema è divenuto un immenso geroglifico, un mondo ignoto, alla cui scoperta si son messi infruttuosamente molti Colombi; di chi è la colpa? Non è forse della vostra poca logica, che altro intendete e altro fate? - Rimproveri che sono un elogio.

Così è. Dante è stato illogico; ha fatto altra cosa che non intendeva. Ciascuno è quello che è, anche a suo dispetto, anche volendo essere un altro. Dante è poeta, e avviluppato in combinazioni astratte, trova mille aperture per farvi penetrare l'aria e la luce. Tratto ad una falsa concezione dal vezzo de' tempi, valica l'argomento e si trova in un mondo di puri concetti, e fa di questi la sua intenzione e si tira appresso tutta la realtà e ne vuol fare la figura de' suoi concetti. Ma, come attinge il reale, ivi sente se stesso, ivi genera, ivi l'ingegno trova la sua materia; quelle figure prendono corpo, acquistano una vita propria; e le diresti creature libere e indipendenti, se quella benedetta intenzione non vi fosse rimasa attaccata come una palla di piombo, impacciando a volta a volta i loro movimenti. Così quel mondo intenzionale, tanto caro al poeta, si è ito come nebbia dissipando innanzi alla luce del mondo reale, solo rimasto vivo. Tutto l'altro è l'astratto di quel mondo, è il lavoro oltrepassato: non è la "Commedia", è il suo di là, la sua nebbia, che pur penetra qua e là e lascia delle grandi ombre, che "gl'interpreti" dilatano e trasformano in una sola e vasta ombra. A quel modo che i geologi scoprono i vestigi di forme imperfette, che attestano la lenta e progressiva formazione della materia, qui si discernono i frammenti di un mondo prosaico, intellettuale, allegorico, scissi, isolati, sterili, più o meno tollerabili, secondo la maggiore o minore abilità dell'esposizione, inviluppati in una forma più alta, alla quale il genio sospinge il poeta attraverso gli errori della sua poetica. I quali frammenti sono i fossili della "Commedia", morti già da gran tempo, vivi solo agli eruditi, i geologi della letteratura; e se la loro morte non ha potuto seco involgere il rimanente, gli è che il vero lavoro è in questo rimanente, dotato di una vita così fresca e tenace, che distende un po' di sua luce anche sulle parti morte. Quel contenuto astratto vive in grazia del mondo in cui si trova entrato: spiccatenelo, isolatelo, e non se ne parlerebbe più.

Che cosa è dunque la "Commedia"? È il medio evo realizzato come arte, malgrado l'autore e malgrado i contemporanei. E guardate che gran cosa è questa! Il medio evo non era un mondo artistico, anzi era il contrario dell'arte. La religione era misticismo la filosofia scolasticismo. L'una scomunicava l'arte, abbruciava le immagini, avvezzava gli spiriti a staccarsi dal reale. L'altra viveva di astrazioni e di formole e di citazioni, drizzando l'intelletto a sottilizzare intorno a' nomi e alle vacue generalità che si chiamavano "essenze". Gli spiriti erano tirati verso il generale, più disposti a idealizzare che a realizzare: ciò che è proprio il contrario dell'arte. Ne' poeti semplici trovi il reale rozzo, senza formazione, come ne' misteri, nelle visioni, nelle leggende. Ne' poeti solenni trovi una forma o crudamente didascalica, o figurativa e allegorica. L'arte non era nata ancora. C'era la figura; non c'era la realtà nella sua libertà e personalità.
Dante raccoglie da' misteri la "Commedia dell'anima", e fa di questa storia il centro di una sua visione dell'altro mondo. Tutta questa rappresentazione non è che senso letterale; la visione è allegorica, i personaggi sono figure e non persone; ma ciò che è attivo nel suo spirito, lo porta verso la figura e non verso il figurato. La sua natura poetica, tirata per forza nelle astrattezze teologiche e scolastiche, ricalcitra e popola il suo cervello di fantasmi e lo costringe a concretare, a materializzare, a formare anche ciò che è più spirituale e impalpabile, anche Dio. Quel mondo letterale lo ammalia, lo perseguita, lo assedia e non posa che non abbia ricevuta la sua forma definitiva; e non è più lettera, ma è spirito, non è più figura, ma è realtà, è un mondo in sè compiuto e intelligibile, perfettamente realizzato. Visione e allegoria, trattato e leggenda, cronache, storie, laude, inni, misticismo e scolasticismo, tutte le forme, in questo gran mistero dell'anima o dell'umanità, poema universale, dove si riflettono tutt'i popoli e tutti i secoli che si chiamano il "medio evo".

Ma questo mondo artistico, uscito da una contraddizione tra l'intenzione del poeta e la sua opera, non è compiutamente armonico, non è schietta poesia. La falsa coscienza poetica disturba l'opera di quella geniale spontaneità, e vi gitta dentro un tentennare, un non so che di mal sicuro e di non compiuto, una mescolanza e crudezza di colori. Il pensiero, ora nella sua crudità scolastica, ora abbellito d'immagini che pur non bastano a vincere la sua astrattezza, vi ha troppo gran parte. Le sue figure allegoriche ricordano talora più i mostri orientali che la schietta bellezza greca, personificazioni astratte, anzi che persone conscie e libere. Preoccupato del secondo senso che ha in mente, spesso gli escono particolari estranei alla figura, che turbano e distraggono il lettore e gli rompono l'illusione. La presenza perenne di un altro senso, che aleggia al di sopra della rappresentazione ed introducevisi a quando a quando, ne turba la chiarezza e l'armonia. Anche lo stile, inviluppato alcuna volta in rapporti lontani e sottili, perde la sua lucidità e riesce intralciato e torbido. Non è un tempio greco: è un tempio gotico, pieno di grandi ombre, dove contrari elementi pugnano, non bene armonizzati. Or rozzo, or delicato. Ora poeta solenne, or popolare. Ora perde di vista il vero e si abbandona a sottigliezze, ora lo intuisce rapidamente e lo esprime con semplicità. Ora rozzo cronista, ora pittore finito. Ora si perde nelle astrattezze, ora di mezzo a quelle fa germogliare la vita. Qui cade in puerilità, là spicca il volo a sopraumane altezze. Mentre tien dietro a un sillogismo, brilla la luce dell'immagine. E mentre teologizza, scoppia la fiamma del sentimento.
Talora ti trovi innanzi ad una fredda allegoria, quando tutto ad un tratto vi senti dentro tremare la carne. Talora la sua credulità ti fa sorridere, talora la sua audacia ti fa stupire. Fu un piccolo mondo, dove si rifletteva tutta l'esistenza, com'era allora. I contrari elementi, che fermentavano in una società ancora nello stato di formazione, contendevano in lui. E senza che ne avesse coscienza. Se guardi alle sue aspirazioni, tutto è armonia. Filosofo, pensa il regno della scienza e della virtù. Cristiano, contempla il regno di Dio. Patriota, sospira al regno della giustizia e della pace. Poeta, vagheggia una forma tutta luce e proporzione e armonia, lo bello stile: il suo autore è Virgilio. Maggiore era la barbarie e la rozzezza, e più si vagheggiava un mondo armonico e concorde. Ma il poeta è inviluppato egli medesimo in quella rozza realtà e in quelle forme discordi; e ne sente la puntura, e gli manca la serenità dell'artista. E gli esce dalla fantasia un mondo dell'arte in gran parte realizzato, ma dove pur trovi gli angoli e le scabrosità di una materia non perfettamente doma.

Entriamo in questo mondo, e guardiamolo in se stesso e interroghiamolo. Perchè un argomento non è "tabula rasa", dove si può scrivere a genio, ma è marmo già incavato e lineato, che ha in sè il suo concetto e le leggi del suo sviluppo. La più grande qualità del genio è d'intendere il suo argomento, e diventare esso, risecando da sè tutto ciò che non è quello. Bisogna innamorarsene, vivere ivi dentro, essere la sua anima o la sua coscienza E parimente il critico, in luogo di porsi innanzi regole astratte; e giudicare con lo stesso criterio la "Commedia" e "l'Iliade" e la "Gerusalemme" e il "Furioso", dee studiare il mondo formato dal poeta, interrogarlo, indagare la sua natura che contiene in sè virtualmente la sua poetica, cioè le leggi organiche della sua formazione, il suo concetto, la sua forma, la sua genesi, il suo stile. Che cosa è l'altro mondo?
È il problema dell'umana destinazione sciolto, è il mistero dell'anima spiegato, è la fine della storia umana, il mondo perfetto l'eterno presente, l'immutabile necessità. Nella natura non ci è più accidente, nell'uomo non ci è più libertà. La natura è predeterminata e fissata secondo una logica preconcetta, secondo l'idea morale. Reale e ideale diventano identici, apparenza e sostanza è tutt'uno. L'uomo non ha più libero arbitrio: è lì, fissato e immobilizzato, come natura. Ogni azione è cessata; ogni vincolo che lega gli uomini in terra, è sciolto: patria, famiglia, ricchezze, dignità, costumi. Non c'è più successione, nè sviluppo, non principio e non fine: manca il racconto e manca il dramma. L'individuo scompare nel genere. Il carattere, la personalità, non ha modo di manifestarsi. Eterno dolore, eterna gioia, senza eco, senza varietà, senza contrasto nè gradazione. Non ci è epopea, perchè manca l'azione; non ci è dramma, perchè manca la libertà; la lirica è l'immutabile e monotona espressione di una sola aria; rimane l'esistenza nella sua immobile estrinsechezza, descrizione della natura e dell'uomo.
Che cosa è dunque l'altro mondo per rispetto all'arte? È visione, contemplazione, descrizione, una storia naturale.

Ma in questa visione penetra la leggenda o il mistero, perchè ivi dentro è rappresentata la commedia o redenzione dell'anima nel suo pellegrinaggio dall'umano al divino, "di Fiorenza in popol giusto e sano". Ci hai dunque l'apparenza di un dramma, che si svolge nell'altro mondo, i cui attori sono Dante, Virgilio, Catone, Stazio, il demonio, Matilde, Beatrice, san Pietro, san Bernardo, la Vergine, Dio, dramma allegorico, come allegorica è la "Commedia dell'anima". Dico apparenza di un dramma, perchè la santificazione nasce non dall'operare, ma dal contemplare, e Dante contempla, non opera, e gli altri mostrano, insegnano. Il dramma dunque svanisce nella contemplazione.
Questo mondo così concepito era il mondo de' misteri e delle leggende, divenuto mondo teologico-scolastico in mano a' dotti. Dante lo ha realizzato, gli ha dato l'esistenza dell'arte, ha creato quella natura e quell'uomo. E se il suo mondo non è perfettamente artistico, il difetto non è in lui, ma in quel mondo, dove l'uomo è natura e la natura è scienza, e da cui è sbandito l'accidente e la libertà, i due grandi fattori della vita reale e dell'arte.

Se Dante fosse frate o filosofo, lontano dalla vita reale, vi si sarebbe chiuso dentro e non sarebbe uscito da quelle forme e da quell'allegoria. Ma Dante, entrando nel regno de' morti, vi porta seco tutte le passioni de' vivi, si trae appresso tutta la terra. Dimentica di essere un simbolo o una figura allegorica, ed è Dante, la più potente individualità di quel tempo, nella quale è compendiata tutta l'esistenza, com'era allora, con le sue astrattezze, con le sue estasi, con le sue passioni impetuose, con la sua civiltà e la sua barbarie. Alla vista e alle parole di un uomo vivo, le anime rinascono per un istante, risentono l'antica vita, ritornano uomini; nell'eterno ricomparisce il tempo; in seno dell'avvenire vive e si muove l'Italia, anzi l'Europa di quel secolo. Così la poesia abbraccia tutta la vita, cielo e terra, tempo ed eternità, umano e divino; ed il poema soprannaturale diviene umano e terreno, con la propria impronta dell'uomo e del tempo. Riapparisce la natura terrestre, come opposizione, o paragone, o rimembranza. Riapparisce l'accidente e il tempo, la storia e la società nella sua vita esterna ed interiore; spunta la tradizione virgiliana, con Roma capitale del mondo e la monarchia prestabilita, ed entro a questa magnifica cornice hai come quadro la storia del tempo, Bonifazio ottavo, Roberto, Filippo il Bello, Carlo di Valois, i Cerchi e i Donati, la nuova e l'antica Firenze, la storia d'Italia e la sua storia, le sue ire, i suoi odii, le sue vendette, i suoi amori, le sue predilezioni.

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