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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1919 (1)

CONFERENZA DI PACE A PARIGI - VINCITORI VINTI

WILSON IN FRANCIA E IN ITALIA - LA CONFERENZA DELLA PACE - VIOLENZE JUGOSLAVE CONTRO GLI ITALIANI - L'AZIONE DIPLOMATICA PER RISOLVERE LA QUESTIONE DI FIUME - I MESSAGGI DI WILSON E ORLANDO - LA DELEGAZIONE ITALIANA LASCIA PARIGI - LA MINACCIOSA SITUAZIONE INTERNA - BENITO MUSSOLINI FONDA I FASCI DI COMBATTIMENTO

vedi anche SERIE DI DOCUMENTI IN APPENDICE > >
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Il "Quartetto della Pace": Orlando, Lloyd George, Clemenceau, Wilson (prima fase)


Clemenceau, Lloyd George, Orlando e Sonnino, A Parigi (seconda fase)

WILSON TRIONFANTE

Sbarcato in Francia il 13 dicembre, dopo una visita a Parigi, il 3 gennaio, il presidente degli Stati Uniti WILSON fece un viaggio trionfale in Italia. A Roma ebbe accoglienze entusiastiche: sfilò in carrozza insieme a VITTORIO EMANUELE III, e con lui andò al Parlamento sedendosi accanto al Sovrano; fu ricevuto in Campidoglio e acclamato cittadino romano, si recò al Vaticano, fu ospite al Quirinale, festeggiato all'Accademia dei Lincei.
Il 5 si recò a Genova, la cui università lo nominò dottore; lo stesso giorno si recò a Milano, dove con un'aria messianica e istrionica, pronunciò (facendo quasi concorrenza ai miti della "rivoluzione proletaria" dei socialisti massimalisti) un caldo discorso "inneggiante all'avvenire delle classi lavoratrici" e il 6 era a Torino, anche qui acclamatissimo.
Queste dimostrazioni d'entusiasmo, erano più che altro emotive, un semplice segno d'adesione dell'opinione pubblica al suo utopistico programma di pace. Il Presidente detto "il filosofo di Staunton" possedeva una ottima dialettica. Un "evangelista" singolare; "Wilson credeva nell'umanità ma�diffidava di tutti gli esseri umani" (Lloyd George, The Truth About the Peace Treaties, Vol I, p.234)

Il presidente del Nord America, così affrettatamente acclamato dagli italiani, che credevano di propiziarselo, partendo poi per la Francia portava con sé, non il ricordo degli onori ricevuti, ma l'eco dei dissidi degli Italiani sulla questione della pace, l'eco delle parole di Bissolati e la convinzione che l'Italia fosse animata da un imperialismo esagerato, dannoso alla causa della "sua" pace. La voleva piccola piccola l'Italia; ma anche per i Francesi che si stavano dando tanto tanto da fare a scapito della Germania a voler piccola la Francia era a sua volta l'Inghilterra. Una Francia vittoriosa sull'Austria, se diventava grande e potente, era pericolosa; poteva ricordare agli inglesi lo spettro napoleonico.

In Italia Wilson si era incontrato anche con ORLANDO; che gli anticipò le richieste che avrebbe fatto alla prossima conferenza di Parigi (in programma il 18 gennaio) e il Presidente americano, in linea di massima approvò l'estensione dei confini italiani dal Trentino fino al Brennero (per quanto abitato da popolazioni tedesche - contraddicendo ciò che aveva spiegato in Senato a Washington prima di partire: cioè il punto IX che affermava che "�le pretese italiane in Trentino dovrebbero essere soddisfatte, ma la parte settentrionale della regione, abitata dai tedeschi, dovrebbe essere completamente autonoma" (Papers Relating to the Foreign Relations of the United State, 1918: "Supplements I", Documents State Department, Washington 1933, vol. 1, p. 410).
E se vogliamo dare credito a questa sue nuove "linee", entrava in contraddizione nel poi respingere le rivendicazioni italiane relative all'ampliamento dei confini orientali (territori dalmati), perché "�quelli erano abitati prevalentemente da iugoslavi e non da italiani". Due pesi e due misure.

Significava che l'Europa, straziata ancora da piaghe atroci, tormentata dalla persistente difficoltà degli approvvigionamenti, sconvolta e lacerata dalle lotte fra le forze bolsceviche e quelle liberal-democratiche anche se entrambe usavano solo parole; la prima incantava con le prime confuse e apologetiche notizie della rivoluzione russa, e la seconda non era meno imbonitrice della prima: anche Wilson con il suo progetto di una grande "internazionale borghese", aveva delle vaghe idee di fratellanza di popoli fra sconfitti e vinti, fra ricchi e poveri. Secondo lui tutto questo era attuabile, sufficiente per eliminare la rivoluzione socialista, bastante per superare le passioni nazionali e le questioni territoriali.
Chiacchiere, mentre tutta l'Europa presentava un quadro fosco d'ombre cupe, angosciose e di tragiche incertezze.

In Italia continuando i forti dissensi nel Governo iniziati a fine 1918 con Bissolati che si era dimesso dalla carica di ministro- i rapporti furono ancora di più aggravati dal famoso discorso proprio di Bissolati, pronunciato in parte 1'11 gennaio alla Scala e pubblicato il 12.
Parallelo al discorso ci fu anche una combattiva dimostrazione di Nazionalisti. Ma c'erano pure i futuristi di MARINETTI e gli ARDITI D'ITALIA ex combattenti dei battaglioni d'assalto che si erano costituiti in associazione nel novembre del 1918, e che avevano iniziato a confluire nei gruppi nazionalisti. Fra gli organizzatori della imponente manifestazione di protesta (a una settimana dalla visita di Wilson) vi era BENITO MUSSOLINI.
Di anomalo in questa manifestazione vi era la scarsa partecipazione degli interventisti democratici, i cui leader erano proprio BISSOLATI e SALVEMINI spietatamente contestati.

Lo stesso giorno 12 gennaio, fu ancora e in misura più larga rimaneggiato il Gabinetto Orlando. Tutti i ministri il 15 gennaio presentarono le dimissioni, ma furono soltanto accolte quelle degli onorevoli SACCHI (Grazia e Giustizia), NITTI (Tesoro), ZUPELLI (Guerra), MILIANI (Agricoltura) e VILLA (Trasporti). Furono sostituiti dagli onorevoli FACTA, STRINGHER, CAVIGLIA, RICCIO, DE NAVA e da GIUSEPPE GIRARDINI (Assistenza militare e Pensioni di guerra - uno dei dirigenti del recente Fascio parlamentare). Fu inoltre deliberata 1'istituzione di un ministero per la ricostituzione delle terre già invase e liberate; a quest' ufficio fu designato l'on. ANTONIO FRADELETTO. L' on. VILLA fu nominato vicepresidente del Consiglio.

Il ministero italiano partecipò con gli onorevoli ORLANDO, SONNINO, SALANDRA e BARZILAI alla conferenza della pace, che fu inaugurata alle ore 15 del 18 gennaio del 1919 a Parigi, nel grandioso palazzo del Ministero degli Affari Esteri, posto lungo il "quai" d'Orsey.
Non si era mai vista, nel corso dei secoli, un'adunata così imponente di plenipotenziari convenuti da ogni parte del mondo con un compito così arduo: quello di rifare la configurazione politica di quattro continenti.
Si incontravano i rappresentanti di 29 Stati e molti per la prima volta.
L'orgoglio francese era soddisfatto. La "Ville Lumiere" in questi giorni fu chiamata "il cervello del mondo". E Wilson la riunione la definì il "Congresso del mondo".
Quelli che spiccavano con le loro caratteristiche figure dominatrici in mezzo a questa folla di artefici della sorte dei popoli di ogni grandezza, erano tre:
WOODROW WILSON, 62enne Presidente degli USA, che era sbarcato in Europa il 13 dicembre e reduce da un giro trionfale nei Paesi Alleati.
LLOYD GEORGE, 56enne convalidato al potere dalle elezioni avvenute nel Regno Unito subito dopo la resa della Germania e quindi con assoluta precedenza sopra ogni altro Stato.
CLEMENCEAU 78enne, massiccio e fiero uomo politico che per la sua tenace azione politica gli valse il soprannome di "Tigre". Lui l'artefice -si disse- delle ultime imprese guerresche, lui il "direttore d'orchestra" di tutte le armate Alleate
Nel trio si mescolavano l'astuzia e l'intrigo, l'obliquità e la furberia, l'ingenuità e la frode, sopra un fondamento di incapacità, d'impreparazione, d'ignoranza.("studi insufficienti sulla questione" lo ammise proprio Wilson nel maggio del 1919 parlando con House - in Woodrow Wilson and World Settlement, di Ray Stannard Baker, London, vol II, pp.144 e ss.)

Come tutte le vicende degli uomini, anche la grande tragedia eroica finiva in un basso mercato verboso, intramezzato da molti banchetti golosi.
Per acclamazione, in seguito alla proposta di Wilson e di Lloyd George, Clemenceau fu nominato presidente della Conferenza. Questa scelta e quella della sede lasciavano intravedere che cosa si trattava di imbastire: una pace gallica.
Fra l'altro Wilson e Lloyg George non conoscevano il francese, e mentre Clemenceau li capiva perchè conosceva l'inglese, gli italiani masticavano un po' di francese ma nessuno conosceva l'inglese. Gli italiani ricorsero così sempre a degli interpreti.

Wilson invece aveva varcato l'oceano con quella che gli Americani stessi chiamarono la "Caravan navigante", cioè con un numeroso seguito (circa 1200) di affermati competenti di geografia, di storia, di politica, di economia, di etnografia, parecchi dei quali però possedevano soltanto cognizioni superficiali e generiche, anche se si erano portati dietro migliaia di libri, perchè la lunga storia d'Europa nei libri statunitensi anche nelle scuole superiori e nelle università è quasi del tutto assente oppure raccontata in due-tre righe. Dopo questa preparazione affrettata su testi che questi "competenti" avevano creduto opportuno sottoporgli e su statistiche sospette, il "Filosofo di Staunton" si giudicava da se medesimo di essere in grado di risolvere questioni europee intorno alle quali statisti eminenti in secoli e secoli si erano affaticati per tutta la vita, senza venirne a capo. Gli intrighi degli imperatori, dei re, dei principi, dei ministri e di tutta l'alta e bassa diplomazia sono sempre stati smisurati, oscuri e complessi anche per gli stessi protagonisti europei, figuriamoci per Wilson.

Del resto più che alle definizioni delle nuove frontiere, Wilson teneva al trionfo delle proprie utopie. Portava il dono ideale della giovane America alla vecchia Europa mai stata in un così grave sfascio e in una così improvvisa decadenza economica e di valori: la "Società delle Nazioni". Quest'aspirazione di Wilson verso un migliore ordinamento della società internazionale aveva fatto correre un filo di speranza in tutti i popoli del mondo stanchi di carneficine e di combattere. Ed anche un filo di speranza alla Germania sulle miti applicazioni delle pesanti penalità imposte con il primo armistizio "esazioni che esorbivano dalle possibilità del popolo tedesco" (The Paris Peace Conferenze, 1919, vol, 3°, pag 417), e che invece alla "resa dei conti" furono poi peggiori: requisizioni, blocchi alimentare, pagamento dei danni di guerra, sottrazione totale delle Colonie, e quando la Francia avanzò pretese sull'Alsazia, Lorena e perfino sulla Renania, regno sorto mille anni prima nel naufragio dell'impero di Carlomagno), molti capirono che la Francia "recitava" sul "palco" da "prima attrice".

Mentre Wilson si sentiva il "Messia" della pacificazione universale; vedeva solo i vantaggi teorici del suo Tribunale Supremo dei popoli, costituito allo scopo di risolvere le questioni mediante un giudizio demandato ai rappresentanti dei Governi consociati, senza tener conto delle gravi manchevolezze pratiche, derivanti dal fatto che il massimo Foro civile sarebbe divenuto strumento docile dei più potenti, incapace d'imporre il rispetto alle proprie sentenze per mancanza di un potere esecutivo da esso dipendente.

Gli altri due al suo fianco erano due statisti consumati, maestri nell'arte sottile della doppiezza politica. Dominati dalla considerazione del presente storico, attenti a trarre dalle circostanze i massimi profitti possibili, realizzatori per eccellenza, Clemenceau e Lloyd George contrastavano fortemente il "Messia" americano imbevuto di un avvenirismo nebuloso, estraniato dalla tragica realtà, proteso a miraggi assurdi (in certi casi parlava come Lenin quando "inneggiava all'avvenire delle classi lavoratrici" ).
Nonostante il disaccordo delle persone, delle individualità, delle tendenze, tanto il premier londinese come il suo collega parigino riuscirono abilmente a persuadere Wilson che il Regno Unito e la Francia non ambivano a fare spartizioni evangeliche e nutrivano profondo disinteresse nell'avvento della giustizia internazionale.
Ma non erano per nulla disinteressate e non trovarono freno nell'opprimere i nemici, nel favorire se stesse e gli amici a loro graditi.

Fin dalle prime riunioni, l'assemblea generale dei plenipotenziari si rivelò qual era: una Babele del Novecento cui non mancava la confusione degli idiomi (lo abbiamo già detto e lo ripetiamo: degli italiani nessuno conosceva l'inglese, e gli americani erano del tutto carenti di francese).
Avviata lungo queste direttive, la Conferenza non riusciva a procedere nei propri lavori. Gli accordi imperniati sul principio di togliere ai vinti, dopo le vesti, anche l'epidermide, veniva a mancare �.soprattutto quando si trattava di ripartire le ricche e anche le misere spoglie. Inoltre ognuno dei negoziatori non voleva scoprire per primo le proprie carte. Ognuno diffidava dell'altro, e tutti diffidavano di ognuno.

Poiché il protrarsi delle incertezze dovute ai vari armistizi - che bisognò rinnovare più volte- manteneva l'Europa in preda ad agitazioni dannose per tutti, si riconobbe la necessità di giungere alle conclusioni. Fu costituito un "Comitato dei Dieci", ma pure questo era troppo numeroso. Lo sostituì il "Comitato dei quattro". Ne fecero parte Clemenceau, Wilson, Lloyd Gorge e Emanuele Orlando.
Il primo il 19 febbraio subì un attentato, una pistolettata al polmone, da un anarchico, un certo Emilio Collin, che pochi giorni dopo fu condannato a morte. Anche questo fece subire un ritardo ai lavori. Nessun ritardo invece provocò la partenza degli italiani, sdegnati per il trattamento indegno di cui parleremo più avanti.

L'azione che dovevano svolgere alla conferenza i delegati italiani era molto delicata, date le pretese degli jugoslavi. Questi anzi si erano improvvisamente rivelati antagonisti dell'Italia e cercavano da una parte con gli intrighi politici, dall'altra con le agitazioni e le violenze di giovare alla loro causa contro le aspirazioni italiane, dimenticando gli appoggi ricevuti.

Violenze contro gli italiani furono commesse in Croazia e in Dalmazia, specie dopo che la delegazione italiana rifiutò la proposta jugoslava (11 febbraio) di sottoporre all'arbitrato del presidente Wilson la controversia territoriale; il 12 un treno di profughi italiani che tornavano in patria, transitando per Lubiana, fu assalito dagli slavi; una settimana dopo il comando jugoslavo con vari pretesti ingiungeva a una commissione militare italiana di lasciare Lubiana; il 23 gravi dimostrazioni croate avvenivano a Spalato contro gl'italiani; altre violenze avvenivano negli stessi giorni a Ragusa e nei successivi a Traù e ancora a Spalato. A queste agitazioni l'on. ORLANDO rispose con molta dignità, proclamando nella seduta alla Camera del 1° marzo, l' italianità di Fiume, e presentando, l'11, alla conferenza, un lungo memorandum redatto da BARZILAI (l'irredentista triestino) nel quale s'illustravano convenientemente le rivendicazioni italiane sulle Alpi e nell'Adriatico. Memorandum sostenuto in modo irremovibile presso gli alleati dal ministro degli esteri SONNINO. (lo riportiamo nelle "Appendici")

Si chiedeva il pieno rispetto del Patto di Londra sulla Dalmazia e si rivendicava inoltre Fiume. L'annessione della città, popolata prevalentemente da italiani (questo però in città) e già appartenente al Regno di Ungheria, in un punto del Patto era stata solo vagamente accennata come possesso della Croazia. Tuttavia non ci furono prese di posizione di Sonnino per timore di compromettere le trattative con gli alleati. Orlando invece se n'era fatto sostenitore in seguito all'imponente campagna nazionalistica svoltasi in Italia negli ultimi mesi del 1918.
Riguardo ad altre richieste nel settore adriatico, alle quali Wilson si era già dichiarato contrario nei colloqui di gennaio in Italia, troveranno opposizione anche da parte dell'Inghilterra e della Francia; in particolare quest'ultima per impedire una futura (e concorrente) espansione dell'Italia.

Gli jugoslavi il 12 febbraio chiedendo l'annessione della Dalmazia con le isole, dell'Istria, di Trieste e di Gorizia, presentarono pure loro un memoriale e abilmente proposero a Wilson di assumere l'arbitrato nelle trattative fra Italia e Jugoslavia. Ottennero così con il presidente degli Stati Uniti un potente difensore. Wilson credeva e fu convinto che l'Italia, reclamando Fiume oltre ciò che era stato scritto nei patti stipulati a Londra, minacciasse la pace. Egli era disposto a riconoscere all'Italia le nuove frontiere alpine, Trieste, Pola qualcosa dell'Istria, Valona, Lissa e qualche altra piccolo territorio, ma Fiume no perché, affermava, non era "per ubicazione e per tutte le circostanze del suo sviluppo un porto italiano, ma internazionale".
"L'America - appoggiata dall'Inghilterra- insisteva sulle necessità che tutte le vie fossero aperte ai traffici e che le merci americane e inglesi non incontrassero ostacolo per arrivare nell'Europa centrale. Per questo Danzica era stata fatta "città libera" unita con un corridoio alla Polonia; per questo Fiume, che serviva un ampio retroterra comprendente Croazia, Ungheria, Transilvania e in parte anche l'Austria e la Cecoslovacchia, non doveva essere italiana, per timore che l'Italia ostacolasse il passaggio delle merci altrui e monopolizzasse per conto suo il commercio che passava per quel porto" ("Versailles, Storia della conferenza della pace", A. Torre, Ist.Studi Politica Internazionale, pag. 312).

Ma anche la Francia non restava a guardare. Di Trieste e Fiume voleva fare un suo porto per lo smistamento in Italia delle merci provenienti dalle sue colonie.
(vedi qui un documento inedito)


E poiché OSSOINACH, inviato fiumano a Parigi, dimostrava l'avversione dei suoi concittadini per gli jugoslavi, il presidente americano si mostrava disposto a fare anche Fiume "città libera", creando un piccolo Stato, sotto il mandato della Società delle Nazioni.
Il 19 aprile Wilson, Clemenceau, Lloyd George e Orlando affrontarono finalmente la questione dei confini italiani.
Lloyd George presentò un disegno, in cui proponeva di costituiresì Fiume "città libera", ma senza controllo né mandato; ma quattro giorni dopo Wilson in un messaggio agli americani dichiarava decaduto con l'impero austro-ungarico il Trattato di Londra; e affermava che Fiume doveva essere "l'egresso e l'ingresso per i commerci ed i traffici, non dell'Italia, ma delle terre a settentrione e a nord-est di quel porto, dell'Ungheria, della Boemia, della Romania e degli Stati del gruppo jugoslavo"; dichiarava che le aspirazioni italiane contrastavano con i principi da lui formulati e accettati dalle Potenze alleate e sosteneva che tali aspirazioni, consacrate dal patto di Londra dovevano essere ridotte, dato che, "finito l'impero absburgico, l'Italia (per indorare l'amara pillola) non aveva più da temere il formidabile e secolare nemico".

Oltre il messaggio agli americani, Wilson pubblicò le sue argomentazioni di non concedere sia Fiume sia la Dalmazia su un importante quotidiano Francese. Il risultato fu disastroso. Wilson per gli italiani diventò il malvagio di turno; un notevole cambiamento rispetto all'adulazione che aveva ricevuto in Italia solo poche settimane prima. Questo crollo del "wilsonismo" ebbe conseguenze importanti per la politica italiana: distrusse la credibilità degli interventisti democratici insieme a quella degli Alleati. Gli interventisti, i nazionalisti ma anche molti italiani fino allora agnostici, si risentirono molto per la bigotteria degli americani, l'egoismo degli inglesi e francesi e per la debolezza del proprio governo; anche quando poi divenne presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti.

ORLANDO indignato, replicò con una messaggio agli italiani. Ricordando che "la civiltà e la giustizia non sono privilegi di alcun uomo e che per tutti l'errore è sempre possibile". Orlando fece una calda difesa dei diritti dell'Italia; negò che "...lo sfacelo dell'impero austro-ungarico significasse una riduzione delle aspirazioni italiane" e sostenne essere quello adriatico "...il problema sostanziale da risolvere, problema in cui si riassumeva tutto il diritto, antico e nuovo, d'Italia, tutto il suo martirio nei secoli, tutto il bene che essa era destinata a recare nel consorzio internazionale". Disse che era "...inutile la muraglia difensiva delle Alpi se si fosse lasciato aperto il fianco orientale e non si fosse portato il confine al Nevoso, dai Latini chiamato "limen Italiane"; affermò che "...proprio in nome del principio wilsoniano dell'autodeterminazione dei popoli, doveva essere riconosciuto a Fiume il diritto di decidere delle sue sorti, ed essa aveva già proclamata la sua italianità prima che giungessero le navi italiane"; infine dichiarò che "...non poteva dirsi eccessiva l'aspirazione italiana rispetto la costa dalmata che era stata nei secoli baluardo d'Italia, che era stata fatta grande e nobile dal genio romano e dall'attività veneziana e che aveva resistito fieramente ad ogni sorta di persecuzioni". (il documento lo pubblichiamo interamente nelle "Appendici")

Ma l'ostinato agire di Wilson indignò talmente l'on. Orlando da indurlo a lasciare la conferenza. Il 24 Aprile, insieme al generale Diaz e con i delegati Salvago-Raggi e Barzilai, lasciò Parigi. Durante il viaggio, alle stazioni di Torino, Asti, Alessandria, Genova, ebbe applausi; a Roma, dove giunse il 26, fu accolto da un'immensa folla. Poi con Diaz, Barzilai, e il sindaco Principe Colonna, rivolsero parole infuocate con cui stigmatizzava l'opera dei nemici della nazione; poi la folla si recò al Quirinale e acclamò il Re, la Regina, il Duca di Genova, il Principe ereditario, il gen. Diaz e 1'on. Orlando, affacciatisi al balcone.
La dimostrazione si rinnovò il giorno dopo all'arrivo dell'on. Sonnino. Il 29 gennaio, alla Camera convocata in seduta straordinaria, l'on. Orlando espose la situazione, disse fra l'altro che il 24, Lloyd George e Clemenceau gli avevano dato assicurazione che avrebbero mantenuto gli impegni del Trattato di Londra, escludendo dalle rivendicazioni italiane Fiume cui riconoscerebbero la condizione di città libera e indipendente, in virtù di "compromesso e non già oltre ed a parte dell'integrale esecuzione dei patti del Trattato".
La Camera "tutrice della dignità ed interprete della volontà del popolo italiano"- come si esprimeva LUZZATTI in un ordine del giorno messo ai voti, si dichiarò solidale con il Governo e con 382 voti contro 40, gli riaffermò la propria fiducia affinché potesse "far valere i supremi diritti dell'Italia come condizione di una pace giusta e durevole". Anche il Senato, qualche ora dopo, confermò la fiducia al Governo votando all'unanimità (191 voti) un ordine del giorno di TITTONI simile a quello di Luzzatti.
L'atto di fierezza fu capito, fu pure compreso il risentimento, ma poi il governo non esitò a far riprendere ai suoi delegati la via di Parigi il 5 maggio.

L'assenza della delegazione italiana non aveva fatto per nulla sospendere i lavori della conferenza e ripresentatisi il 7 maggio, gli italiani furono accolti da una semplice indifferente acclamazione di Wilson, dal sarcasmo appena dissimulato di Clemenceau e di Lloyd George, paternamente indulgenti verso i "capricci" della giovane ed "ambiziosa" Italia.
Dimenticarono che il II Corpo d'Armata che andò a combattere in Francia non era un "ambizione" dell'Italia, e che gli italiani sepolti nei cimiteri francesi, non erano andati in Francia solo per "capriccio" né per tornaconti italiani. Lo dimenticarono!

E qui non dobbiamo dimenticare nemmeno l'inizio della guerra. La dichiarazione di neutralità dell'Italia diede alla Francia la piena disponibilità, immediata, di tutte le sue truppe che erano state, o avrebbero dovuto essere, dislocate nella frontiera italo-francese (quando la decisione dell'Italia di abbandonare la Triplice Intesa dopo Sarajevo, non era stata ancora presa).
Lo scrittore militare generale Meraviglia scrisse: "Fu un inestimabile aiuto materiale e morale; che la Francia doveva il mese dopo, mettere in valore sul campo della battaglia decisiva che impegnava sulla Marna, per salvare se stessa e, nello stesso tempo, la causa dell'intesa".

Salandra invece scrisse (nel suo libro "La neutralità italiana" pag 186) che il 30 marzo 1919 stando a fianco del maresciallo Joffre, l'illustre condottiero ebbe a dirgli a proposito del'Italia "�che la dichiarazione della neutralità italiana, reputata, come era, perfettamente sincera, gli era valsa per quella campagna (Battaglia della Marna) la disponibilità di dieci divisioni destinate a presidiare il confine italiano" (un settimo di tutte le forse francesi).

Ma meglio di ogni altre testimonianza non di parte, fu l'articolo sul "Figaro" di Parigi del 24 maggio 1927 (nella ricorrenza del giorno dell'entrata in guerra dell'Italia) scritto da BARRERE, ambasciatore francese a Roma all'epoca dei fatidici giorni. Gli luccicarono gli occhi quando ufficialmente apprese ufficialmente da Salandra la neutralità dell'Italia (1-2 agosto 1914).
"Il mio Paese (la Francia) aveva schierato alla frontiera italiana più di 350.000 uomini. Con l'annuncio di Salandra, era evidente che l'azione italiana non poteva essere diretta contro la Francia, perché tutta l'artiglieria pesante era stata mandata (nel corso della neutralità - Ndr) verso il confine austriaco. Dopo la dichiarazione di guerra tedesca, io potevo avvisare il mio Governo che le nostre truppe al confine italiano potevano recarsi a combattere sulla Marna.
Ma la neutralità dell'Italia in un nostro momento critico per le nostre armi ebbe ben altre conseguenze militari. L'Italia abbandonò il fronte francese e portò le sue forze sulla frontiera dell'Austria-Ungheria. Questa si convinse ben presto che l'attacco italiano era imminente e inevitabile; furono così portate al fronte italiano le truppe che fronteggiavano l'Esercito Russo in Galizia. Ne venne di conseguenza che per non lasciare scoperta la Slesia, lo Stato Maggiore Tedesco fu costretto a prelevare due corpi d'Armata sul fronte francese ed a portarli in tutta fretta al fronte della Russia per proteggere Berlino.
Da quel momento la vittoria della Marna fu sicura e lo scacco della strategia tedesca fu pure assicurato.
Fu così che sia la neutralità sia il successivo intervento italiano divenne uno dei grandi fattori della vittoria degli Alleati".

La vittoria francese sulla Marna (5-9 settembre) era dunque una vittoria che apparteneva un po' anche all'Italia. L'arresto dei Tedeschi sulla Marna (già con l'eco dei bombardamenti che raggiungevano Parigi) mandò a monte il piano della Germania di vincere in poche settimane la resistenza della Francia con una poderosa manovra di accerchiamento. Con le due Armate in più, la Germania, che con azione ininterrotta dal 4 agosto al 4 settembre aveva già fatto ripiegare l'esercito Francese spingendolo oltre Parigi, non si sarebbe arrestata sulla Marna, e il 10 settembre avrebbe potuto marciare tranquillamente verso la capitale francese occupando Parigi.
Invece la dichiarazione di neutralità dell'Italia diede alla Francia la piena disponibilità, immediata, di tutte le sue truppe.
Dunque, anche se non ci fosse stato l'intervento dell'Italia, e nessuna guerra di quaranta mesi all'Isonzo e al Piave, l'Italia avrebbe comunque permesso all'Intesa la vittoria sugli Imperi Centrali.

Riprendiamo la nostra cronaca. Tornati i delegati a Parigi il 7 maggio, in quello stesso giorno all'"assise mondiale" si stava svolgendo una breve cerimonia, quasi funerea. La delegazione tedesca, fino allora mai invitata alla Conferenza (ed era una conferenza detta "della Pace"), riceveva il testo del trattato di pace "da imporre" alla Germania dopo una lunga e travagliata elaborazione dei vincitori. I Tedeschi avevano quindici giorni di tempo per accettarne le durissime condizioni. Questi si avvalsero di questi giorni per stendere un memoriale con alcune osservazioni sul "pesante e umiliante resa dei conti" decisa pesantemente dai vincitori, e avrebbero voluto almeno discuterle. Clemenceau non nascose la sua energica ostilità; acconsentiva a ricevere osservazioni scritte, ma non ammetteva ai vinti discussione verbali.

I tedeschi nel memoriale reagivano all'accusa di essere stata la Germania la provocatrice del lungo conflitto, osservando che la responsabilità non era amputabile ad un solo Stato, protestavano inoltre contro la "pace della violenza" che si voleva imporle e presentavano alcune controproposte sulle condizioni formulate dagli Alleati. Come risposta, ottennero l'ultimatum che intimava ai tedeschi che se non accettavano l'intero contenuto del testo entro le ore 7 pomeridiane del 23 giugno, l'armistizio non avrebbe avuto più valore e il conflitto sarebbe stato ripreso con l'invasione della Germania.
Posta di fronte all'ineluttabile, la Repubblica tedesca si trovò costretta a subire l'oneroso trattato.
La cerimonia della firma si svolse il 28 giugno nel castello di Versailles, in quella stessa Galleria degli Specchi dove - il 18 gennaio del 1871- si era costituita, capolavoro di Bismarck la Confederazione germanica. L'arrogante Guglielmo II, insofferente del grande statista, l'aveva poi messo alla porta Bismarck; ora alla porta c'era l'intera Germania.

Rientrato da Parigi e reduce da Roma, il presidente del Consiglio riprese la questione dei confini e di Fiume e fece di tutto pur di far trionfare la tesi italiana. Ma si arrivò a giugno senza che in questo campo le conversazioni fossero riuscite a sgombrare il terreno delle difficoltà. Neppure il "Progetto TARDIEU" ebbe buona accoglienza. Secondo questo, Fiume con Volosca, ma senza Sussak doveva formare uno Stato sotto il controllo della Società delle Nazioni; le sorti dello Stato sarebbero poi state decise dopo 15 anni da un plebiscito. L' Italia, rinunciando al retroterra dalmata e a una parte dell'Istria, guadagnava Zara, Sebenico, Lissa e altre isole e riceveva il mandato sull'Albania. Wilson volle modificare il progetto, riducendo a 5 i 15 anni, assegnando alla Jugoslavia la Dalmazia, meno alcune isole e Zara che diventava autonoma e dalla quale l'Italia avrebbe avuta la rappresentanza diplomatica. E non accennò minimamente all'Albania.

Tutti capivano oramai che l'on. Orlando non sarebbe stato capace di vincere la partita a Versailles di fronte agli intrighi, agli interessi, alle invidie, alle insidie e alle gelosie degli altri. Né, del resto, il ministero Orlando, era capace di far fronte alla minacciosa situazione interna e di risolvere i grossi problemi del dopoguerra che si stavano creando. Al primo posto dei problemi irrisolti era quello legato alla guerra, la "Vittoria Mutilata". Questa situazione si faceva di giorno in giorno più minacciosa. Pareva che tutti coloro che non avevano voluto, che avevano ostacolato e che non avevano fatto la guerra, ora che questa era finita con una vittoria da inorgoglire qualsiasi esercito, volessero prendersi la rivincita e rifarsi dei torti che si volevano far subire dopo aver speso lacrime e sangue.

Cominciava così -e andava assumendo proporzioni e atteggiamenti preoccupanti- l'ubriacatura bolscevica e, proprio quando a Versailles volevano mutilare la vittoria italiana, proprio quando molti soldati erano ancora sui confini, s'iniziava da quanti militavano nel socialismo e nel comunismo una lotta contro l'esercito, il combattentismo, le glorie di guerra; insultando le bandiere, cantandosi sconce canzoni contro la patria, sputando contro i distintivi delle ferite e i nastrini delle decorazioni, dileggiando i reduci, e continue aggressioni contro i militari, ufficiali e soldati.

L'esercito non reagiva, dall'alto si consigliava prudenza, invitando perfino gli ufficiali (e questo era il colmo) a non indossare in certi luoghi e in certe circostanze la divisa; non reagivano le associazioni dei combattenti e dei mutilati e invalidi, le quali allora non erano altro, che spontanee società di mutuo soccorso; reagivano però e con straordinaria violenza gli "Arditi", dei quali i congedati facevano capo ad una battagliera associazione, sorta il 17 gennaio, che aveva la sezione più forte in Milano; quelli ancora sotto le armi e non mandati in Libia erano concentrati intorno a Reggio Emilia.
Come gli arditi avevano iniziato sul Piave la riscossa di guerra dopo Caporetto, così, essi iniziarono la riscossa nazionale. Tornati dalla guerra con l'anima amareggiata per lo scioglimento dei reparti d'assalto, accolti dalla patria con segni evidenti di diffidenza, circondati di fosche leggende, creduti selvaggi e sanguinari, inetti al lavoro e avanzi di galera, odiati dagli elementi sovversivi perché interventisti, volontari e guerrieri di bassi istinti, temuti per la loro irrequietezza e la loro audacia, erano considerati ospiti indesiderabili dal paese che invece pochi mesi prima nell'ora del pericolo li aveva stimati necessari e preziosi per la salvezza dell'Italia (vedi i tanti encomi nei vari bollettini che abbiamo pubblicato nelle pagine precedenti).

Ostacolati nell'esplicazione della loro attività, rifiutati dalle officine e dagli uffici, diffamati vilmente dalla stampa d'ogni colore, perseguitati dalla polizia, irritati dall'ingiusta ed inqualificabile ingratitudine della nazione, gli arditi, e chi meglio di loro, si schierarono in "posizione di battaglia" contro la società borghese e i partiti antinazionali per difendere se stessi, la propria fama, il proprio passato e il patrimonio eroico della patria; per imporre il rispetto al sacrificio dei Caduti, valorizzare entro e fuori i confini la vittoria e svecchiare la nazione spingendola arditamente su altre vie, che se erano pericolose, non lo erano di meno di quelle che in Russia stavano cambiando l'intero Paese. Quindi anche loro con la violenza miravano alla dittatura.

Abbiamo detto rifiutati e diffamati dalla stampa di ogni colore; ma poi quando iniziarono a piombare sui cortei, nei comizi, nelle gazzarre dei "rivoluzionari nostrani", sempre di più e in crescendo, e da parte degli stessi denigratori, questi irrequieti elementi iniziarono a riscuotere l'approvazione e a cattivarsi le simpatie anche di autorevoli personaggi. Ma in particolare e con le stesse inclinazioni (anche se alcuni diranno poi "opportunistiche" per non sparire come esponenti del socialismo rivoluzionario, piuttosto in crisi) c'era un uomo che dopo essere stato uno dei più cospicui fautori dell'intervento, ora quest'esuberante forza irrequieta gli sarebbe stata utile per compiere un'altra sua metamorfosi; l'uomo era BENITO MUSSOLINI.

Il battagliero direttore del "Popolo d'Italia", pure lui un reduce, pure lui amareggiato, pure lui infuriato, comprese che solo con uomini come gli arditi, era possibile salvare la vittoria e la nazione e degli arditi si giovò e li utilizzò per la sua impresa che stava per iniziare. Aveva avuto già come preludio l'azione svolta l' 11 gennaio alla Scala di Milano un gruppo dei suoi arditi per impedire che Bissolati pronunciasse un discorso contrario agli interessi d'Italia....

... mentre a Parigi si compravano e si vendevano Paesi e popoli, e si metteva in liquidazione l'Europa, in cambio di una miniera, di un porto, o di una lingua di terra che interessava i nuovi predatori, mentre in Italia ricominciavano intanto gli scioperi e le dimostrazioni socialiste. Nel febbraio ce ne fu uno a Milano, in cui migliaia di socialisti con bandiere rosse gridarono "viva la rivoluzione"; "morte alle istituzioni e alla guerra". Poi dal suo giornale Benito Mussolini ammonì: "Difenderemo i nostri morti: tutti i morti, anche a costo di scavare le trincee nelle piazze e nelle strade delle nostre città".
Ma i morti e il patrimonio ideale della patria non si potevano difendere che chiamando a raccolta l'Italia interventista e ovviamente il combattentismo. L'appello fu lanciato il 23 marzo con "�un invito ai collaboratori e seguaci del Popolo d'Italia, ai combattenti, ex combattenti, cittadini e rappresentanti dei Fasci della Nuova Italia e del resto della nazione".
Fu così costituito a Milano il primo dei Fasci Italiani di Combattimento, che facevano capo a Mussolini e che, sotto la sua guida, tanto dovevano influire sui destini della nazione.

Torniamo al Congresso della Pace, e alla crisi di governo italiano > > >

Fonti, citazioni, testi, bibliografia
Prof. PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - (i 5 vol.) Nerbini 1930
A.TAMARO - Il trattato do londra e le rivendicazioni italiane, Treves, 1918
TREVES - La guerra d'Italia nel 1915-1918 - Treves. Milano 1932
A. TOSTI - La guerra Italo-Austriaca, sommario storico, Alpes 1925
COMANDINI - L'Italia nei cento anni - Milano
STORIA D'ITALIA Cronologica 1815-1990 -De Agostini

CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi

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