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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1869-1870

LA GUERRA FRANCO-PRUSSIANA - SCONFITTA DI NAPOLEONE III
PORTA PIA - ROMA CAPITALE

NEGOZIATI FRANCO-ITALIANI - GUERRA TRA LA FRANCIA E LA PRUSSIA - LA SCONFITTA DI NAPOLEONE III - LE TRUPPE FRANCESI LASCIANO IL TERRITORIO PONTIFICIO - UNA OCCASIONE PER ROMA - II CONTE PONZA DI S. MARTINO A ROMA - LETTERA DI PIO IX AL RE - LA SPEDIZIONE CADORNA
LA BRECCIA DI PORTA PIA - II PLEBISCITO ROMANO - ELEZIONI - "CI SIAMO E CI RESTIAMO !"
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I NEGOZIATI

 

Della questione romana, dopo Mentana, nessuno in Italia si era dimenticato; non Garibaldi, sebbene non si muovesse dalla sua Caprera; non i vari ministeri che si erano susseguiti; non la destra e la sinistra parlamentare; non il Mazzini e il partito repubblicano; non, infine, VITTORIO EMANUELE II; tutti avevano la propria determinazione, ma non tutti erano d'accordo sul tempo e sul modo di risolverla, perché alcuni, fra i quali il LANZA, vedevano la soluzione assai lontana e subordinata ad una grande riforma religiosa, altri nella recisa volontà delle popolazioni dello Stato pontificio, i repubblicani e molti del partito garibaldino in una spedizione-invasione armata, i conservatori in un accordo con la Francia.

Fra questi ultimi il re, il quale pur provando acredine e risentimento, doveva rimanere amico di Napoleone III, anche perché in buona fede credeva che la condotta tenuta dall'imperatore nei riguardi della questione romana gli fosse stata imposta dalla grande maggioranza dei Francesi, ed era tuttavia d'avviso che le sorti del suo regno erano legate con quelle del vicino impero, in favore del quale, nel conflitto che si sviluppava tra Francia e Prussia e che avrebbe indubbiamente condotto ad una guerra, egli pensava che l'Italia dovesse schierarsi a fianco della prima.
Ma anche Napoleone III, desideroso di conservare il primato in Europa alla Francia, cercava di tenersi buona l'Italia, ma anche di avvicinarsi all'Austria sempre in funzione anti-Prussia che questo primato era intenzionata a conquistare. Nell'estate del 1869 propose a Vittorio Emanuele un'alleanza, in cui sarebbe entrata anche l'Austria; ma l'alleanza non poté esser conclusa perché il ministro degli esteri francese rifiutò di accogliere le richieste del Menabrea, il quale, fra l'altro, poneva come "conditio sine qua non" il ritiro delle truppe francesi da Civitavecchia e la concessione all'Italia di "occupare tutto il territorio pontificio, tranne Roma e dintorni e, in certe eventualità, di occupare Roma stessa". Che era poi l'esecuzione integra della Convenzione di settembre. Condizioni quelle italiane che rifiutate sdegnosamente dalla Francia, trovarono invece un appoggio formidabile del governo di Vienna.

Com'era possibile una conciliazione fra Francia -Austria dopo Sodava; una conciliazione Austria-Italia dopo Custoza; o Francia-Italia dopo Mentana?.

NEGOZIATI FRANCO-ITALIANI

Se nonostante Mentana, il Re sabaudo aveva cercato di riprendere contatti con Napoleone fin dalla fine del '67, già all'inizio del '68 dimenticando il passato, Vittorio Emanuele aveva spregiudicatamente ripreso i contatti con Vienna. E scoprì che anche la corte austriaca aveva il desiderio di assicurarsi un appoggio efficace in Italia, ed era anche pronta a darlo a sua volta.
Su questa temuta alleanza con l'Austria, Napoleone aveva avuto degli scambi epistolari con Vittorio Emanuele che però non prese impegni, promettendo solo di non intendersi con un'altra potenza a sua insaputa. Ma erano lettere private, non un trattato; invece sul tavolo rimaneva l'ufficiale trattato della "Convenzione di settembre" dalla Francia mai preso in considerazione.
Sulla stessa questione (la triplice) pure lettere private erano quelle inviate dal Re a Francesco Giuseppe, e le concludeva sempre svincolando, dichiarando che non poteva prendere parte alla triplice, se prima la Convenzione non "avesse avuto piena ed intera esecuzione".

Dopo l'inaugurazione del Canale di Suez, il 17 novembre, Francesco Giuseppe nel ritorno dall'Egitto voleva incontrare Vittorio Emanuele, ma quel giorno il Re era tra la vita e la morte a San Rossore. L'incontro non ci fu, ma appena guarito ad incontrarlo a Firenze il kaiser inviò il suo ministro BEUS.
I progetti di un patto Austria-Italia (che Francesco Giuseppe avrebbe voluto proporre in quell'incontro) forse erano questi: di fronte alla possibilità che l'impero napoleonico dovesse essere abbattuto da una rivoluzione (i venti di guerra in Prussia erano ancora lontani), l'Austria e l'Italia avrebbero marciato in difesa della Francia. Cosa avrebbe guadagnato l'Italia? Innanzitutto poteva invadere indisturbata Roma, inoltre per l'aiuto prestato forse, avrebbe recuperato Nizza e la Savoia. L'Austria invece la Slesia e altro.

Ma a parte l'ipotizzata rivoluzione, c'era il contrasto Francia-Prussia (che da un momento all'altro potenzialmente poteva sfociare in una nuova guerra) alla quale era interessata sia l'Austria che la Francia; e nella primavera del '70 Vienna e Parigi erano quasi vicine a intendersi, Lebrun già parlava di piani comuni di guerra. Ma del problema italiano in quell'incontro non si parlò minimamente. Come il solito fu ignorato.
Né parlarono della triplice con dentro l'Italia, sapendo benissimo Napoleone cosa avrebbe chiesto l'Italia: ovverosia prima Roma poi l'intesa.
Richiesta italiana che diventò un po' più risoluta quando si arrivò alla vigilia della crisi prussiana, che per Vittorio Emanuele era un'occasione per insistere (finalmente il francese avrebbe avuto bisogno del suo aiuto), mentre per Napoleone "sentendosi forte" anche da solo, si convinse che era per lui un'occasione fortunata per dare scacco alla Prussia (sottovalutandola).

Il 2 luglio fu chiamato al trono di Spagna il Principe Leopoldo di Hohenzollern, ma questi, in seguito all'atteggiamento ostile della Francia, ritirava la propria candidatura alla quale Guglielmo I aveva dato il suo consenso. Come se ciò non bastasse, il governo francese voleva che il re di Prussia s'impegnasse a negare il consenso anche nel caso
che Leopoldo lo avesse richiesto in avvenire; ma Guglielmo, infastidito, dichiarava all'ambasciatore francese Benedetti di non voler più intrattenersi su quell'argomento.

GUERRA FRANCO-PRUSSIANA

Era l'inizio della rottura. Il dispaccio di Ems del BISMARCK la rese inevitabile. La Francia non aspettava che questo e il 15 luglio Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia, e il 16 LUGLIO (mirando ad un aiuto) riprese con il governo italiano le trattative troncate l'anno prima, ma queste portarono soltanto alla riconferma della Convenzione di settembre quindi senza nessun richiamo dal territorio pontificio delle truppe francesi (queste s'imbarcarono poi tra il 5 e il 19 agosto, quando ormai tutto era perduto).

L'atteggiamento del Re italiano fin dallo scoppio della crisi prussiana del 2 luglio, era stato così distaccato che se ne andò a caccia in Val d'Aosta (indubbiamente pensò -prussiani permettendo- che ora a Parigi lui non doveva più chiedere nulla, ma solo ricevere).


Infatti il 16-17 LUGLIO giungeva da Parigi a Firenze, Vimercati, a comunicare al Re, contemporaneamente ad un fonogramma arrivato da Parigi, che Napoleone intendeva ritirare le truppe a Roma, ma prima voleva avere delle garanzie. Vimercati doveva presentare un nuovo progetto sulla falsariga già preparata a Parigi con il ministro francese GRAMMONT (un osso duro (ma anche cieco) della politica francese a favore del Papato).

Il 17 luglio Vittorio Emanuele, rientrato dalla caccia, fece ritorno a Firenze e quel medesimo giorno il consiglio dei ministri stabilì di richiamare sotto le armi due classi. Ma con chi si sarebbe schierata l'Italia rimase un mistero. Anche se era (o sembrava) ovvio con chi.

Il 23 luglio invece, il ministero italiano iniziò a parlare di un'eventuale neutralità;
Il 25 luglio dichiarò alla Camera che gli eventi europei costringevano il governo a mutare il programma senza specificare quale; chiese un voto di fiducia, e ottenne un credito di sedici milioni per il richiamo delle due classi.
Ma sul "con chi" schierarsi si tergiversava. E poco ci mancò che si commettesse un fatale errore.

Il 31 luglio la Camera si chiuse; tuttavia il 3 agosto, al Senato, il generale CIALDINI pronunziò un forte discorso, in cui accusò d'inettitudine e d'incomprensione politica il ministero e diede il "grido d'allarmi contro il pericolo del germanesimo, sostenendo la necessità che aveva l'Italia di opporsi, con un'alleanza delle nazioni latine, all'eccessivo sviluppo e alla esagerata potenza della nazione germanica". Temeva insomma la Prussia; e anche qui, ci ripetiamo, poco mancò che si commettesse il "fatale errore"

Erano però parole: mentre a quel punto critico per la scelta di campo, era necessario prima essere garantiti sulle intenzione di FRANCESCO GIUSEPPE, che, infatti, stava già pensando che era imprudente rimanere neutrale. Per l'Austria c'era il pericolo che Napoleone dopo una prima vittoria sulla Prussia, giungesse a una transazioni con Berlino, sacrificando gli interessi austriaci già pattuiti con Napoleone (Polonia, Galizia, Slesia ecc.). Tuttavia l'imperatore austriaco prese tempo (per non commettere anche lui un fatale errore) aspettando cosa avrebbero deciso a Firenze.
E a Firenze davanti alla richiesta dell'imperatore francese (il nuovo progetto) non s'intimorirono; non c'era bisogno -dissero- di dare forma a nessun altro progetto. C'era già la Convenzione, punto e basta (il no era insomma abbastanza esplicito ed implicito: "prima ci dovete dare, poi vi ascoltiamo sul resto - cioè l'aiuto).

Non solo, ma Vimercati partì per Vienna a vedere se l'Austria "condivideva le responsabilità della Francia sulla questione romana". Vienna rispose che condivideva, che non si poteva lasciare il Papa solo con le sue milizie, e che l'Austria avrebbe preso "iniziative" (quali non fu detto - se militari o solo diplomatiche) a favore della Francia in cambio del consenso all'Italia".
Contemporaneamente si discusse il trattato della triplice (legato all'eventuale aiuto militare), ma anche un trattato di mediazione armata, dove all'art. 7 riguardava proprio la questione romana che, "sarà regolata per soddisfazione dell'Italia e la protezione del Papa".
Testo che una volta giunto a Parigi irritò i ministri francesi, ritenendole quelle richieste "indegne pretese austriache-italiane". Le reazioni di OLLIVIER e GRAMMONT, furono furiose, arroganti e dichiararono che era impossibili accettarle quelle condizioni, per l'onore della Francia. Decisione fatale; si respingeva l'aiuto militare e quello diplomatico di due alleati, pur di non dare il consenso su Roma.
Vienna e Firenze aggiustarono la frase dell'art. 7 aggiungendo un meno impegnativo "l'Austria avrebbe offerto all'Italia e alla Santa Sede (solo) i "suoi buoni uffici" per risolvere la vertenza". Per Grammont non andava bene nemmeno così e pretese di abolire del tutto l'art. 7. Il braccio di ferro continuò fino al 4 agosto, il 5 agosto Visconti Venosta parve rassegnarsi su consiglio dell'austriaco De Beust e qualche indugio (e fu provvidenziale) lo ebbe pure il 6 agosto.

Del resto Grammont e con lui Napoleone, era convinto che alla prima vittoria francese sui Prussiani, sia l'Austria che l'Italia avrebbero subito eliminato l'art.7, ed entrambe avrebbero chiesto di affiancarsi alla Francia nella guerra prussiana.
Avevano sottovalutato troppo i Prussiani!

Il giorno dopo, il 7 agosto Napoleone, a Worth ed a Weissemburg è sconfitto dai prussiani. L'esercito Francese deve abbandonare l'Alsazia; mentre Salisburgo e Metz sono sottoposte all'assedio.
Napoleone in crisi, telegrafava a Vittorio Emanuele di fare appello alla sua amicizia e devozione.
E forse Vittorio Emanuele con slancio affettivo si sarebbe pure mosso (lo sappiamo da una schietta frase poi detta a Guglielmo I: "Sono stato alla vigilia di dichiararvi guerra!" E all'austriaco Vitzthun aggiungeva "Per fortuna l'abbiamo scampata bella".
Il risultato più probabile e funesto sarebbe stato che l'Austria ne sarebbe uscita con le ossa rotte, e in Italia saltava la monarchia con una rivoluzione repubblicana che era già nell'aria. Non avvenne questo grazie all'irriducibile Grammont.

Infatti, a indispettire i ministri a Firenze fu proprio l'arrogante Grammond chiedendo all'Italia di "partecipare alla guerra anche senza l'Austria, di inviare un corpo d'armata (circa 60.000 uomini) e di prendere� la via del Moncenisio, quella che� abbiamo preso noi nel 1859!"
L'Italia prese tempo. L'unico pericolo ora consisteva che magari l'Austria, si sarebbe schierata con la Prussia (pur sempre tedeschi erano!), e forse non solo contro la Francia ma anche contro l'Italia. A questo punto da Firenze partì l'iniziativa della Lega dei Neutri, per isolare i due belligeranti, che trovò consenso oltre che a Vienna, a Londra e a Pietroburgo, anche se ebbe accoglienze ostili a Berlino.

Il 13 agosto, per misure precauzionali in Italia fu arrestato a Palermo, Mazzini e condotto alle carceri di Gaeta; con l'opinione pubblica esasperata si temeva una rivoluzione repubblicana; il 16 fu convocata la Camera perché concedesse un credito di quaranta milioni che doveva servire alla chiamata di altre due classi, all'armamento delle piazze di Verona, di una squadra navale a Venezia, e alla formazione di un corpo d'osservazione sul confine pontificio, poi seguirono sedute tempestose per gli attacchi violenti della sinistra al governo. Sedute, dopo le quali, per le dichiarazioni di Lanza, Sella e Visconti Venosta che affermavano che il pensiero di Roma sovrastava nella loro mente rispetto a tutti gli altri, il 20 agosto fu approvato un ordine del giorno con il quale la Camera "approvando l'indirizzo politico del ministero", confidava che si sarebbe adoperato "a risolvere la questione romana secondo le aspirazioni nazionali". Una specie di "state calmi".

Nello stesso giorno, come ultimo tentativo di Napoleone III, la notte, del 20 agosto giungeva a Firenze il principe GEROLAMO NAPOLEONE, mandato dall'imperatore con pieni poteri, e addirittura con un foglio bianco già firmato, per tentare d'indurre il governo italiano all'alleanza con la Francia. Gerolamo prima chiese che l'Italia intervenisse diplomaticamente insieme con l'Austria, cui però il governo austriaco -al MINGHETTI che si era subito precipitato a Vienna, rispose che era ormai troppo tardi perché un intervento riuscisse efficace; poi il principe scongiurò l'Italia che si mandassero in Francia almeno cinquantamila uomini intorno ai quali i corpi francesi sconfitti avrebbero potuto unirsi dando tempo ai negoziati della mediazione di concludersi, ma gli fu risposto che l'esercito italiano era in condizioni tali che per metterlo in grado di marciare occorreva molto tempo. Ci furono altre discussioni, ma poi LANZA le interruppe, e con glaciale freddezza invitò il Principe a lasciare Firenze.

Qualcuno vicino al Re o il medesimo, telegrafò a Clotilde (moglie di Gerolamo) di lasciare Parigi. Lo stesso Re fece leggere al consiglio dei ministri la fiera lettera della principessa "Non sono una principessa di Casa Savoia per niente. Si ricorda cosa si dice dei principi che lasciano il loro Paese? Partire quando il Paese è in pericolo, è il disonore e l'onta per sempre. Se parto, non abbiamo più che da nasconderci�"

In Francia gli eventi iniziarono a precipitare. Il 2 settembre mattina giunse a Firenze la notizia che l'esercito francese del generale MAC MAHON dopo ripetuti tentativi di rompere l'assedio di Metz, a Sédan era stato sbaragliato, che la piazza si era arresa; e poche ore dopo giunge la clamorosa notizia che Napoleone III era stato fatto prigioniero dai prussiani.

Quel giorno stesso i deputati di sinistra inviarono al governo un ultimatum per l'occupazione militare immediata di Roma, minacciando di dimettersi. E poiché l'agitazione in Italia, dove in ogni contrada si levava la voce "liberazione di Roma", e le agitazioni assumevano aspetti preoccupanti, il ministero discusse se era il caso di occupare immediatamente la futura capitale, ma solo il 5 settembre, dopo che fu giunta la notizia della decadenza della dinastia napoleonica e della proclamazione della repubblica in Francia, fu deliberata l'immediata occupazione. La Convenzione era stata stipulata con Napoleone, finito lui, la Convenzione diventava carta straccia.
Ormai i francesi erano quasi tutti sloggiati, e così Sedan oltre aver segnato il crollo dell'Impero, contemporaneamente faceva crollare il potere temporale della Chiesa.
L'occasione d'oro per avere Roma era dunque venuta, grazie ai Prussiani.

LETTERA DI PIO IX AL RE - LA SPEDIZIONE CADORNA

Il 7 settembre fu spedita a tutte le potenze dal ministro degli esteri una circolare in cui si dava comunicazione della deliberazione presa dal governo italiano di andare a Roma e si esponevano le garanzie che il Pontefice avrebbe avuto a tutela della sua indipendenza.
Il giorno dopo, il presidente del Consiglio LANZA inviò a Roma, assieme a ALESSANDRO GUICCIOLI, il conte PONZA di SAN MARTINO, quale ambasciatore straordinario al Papa per pregare il cardinale ANTONELLI e le truppe pontificie di evitare la resistenza che poteva causare danni gravi alla Chiesa minacciata dai partiti estremi e per dire, fra le altre cose, al Pontefice che il governo italiano era "fermo nell'assicurare le garanzie necessarie all'indipendenza spirituale della S. Sede e farle anche argomento di future trattative fra l'Italia e le Potenze interessate".

PONZA di S. MARTINO giunse a Roma il 9 settembre e nello stesso giorno ebbe un lungo colloquio con l' ANTONELLI, al quale fra l'altro disse che la più forte preoccupazione del governo italiano "era quella di mettere il Papa in condizione di rimanere a Roma con tutte le sue istituzioni, libero e sicuro" e che il Governo si proponeva fermamente "di superare ogni difficoltà, di prestarsi ad ogni atto per conciliare il componimento delle sorti italiane con la più ampia sicurezza del Sommo Pontefice e di tutte le istituzioni che lo circondavano"
L'ANTONELLI dichiarò che la S. Sede non poteva rinunciare a nessuno dei suoi diritti, ed affermò trattarsi quell'occupazione una vera e propria violenza�
"�non giustificata neppure dal pericolo di una rivoluzione perché Roma era in tale condizione di tranquillità, da escludere questa supposizione".

Il 10 settembre, PONZA fu ricevuto da PIO IX, al quale consegnò una lettera autografa di Vittorio Emanuele II, dettata da Celestino Bianchi, con la quale il sovrano diceva di rivolgersi al cuore del Pontefice.
"Con affetto di figlio, con fede di cattolico, con lealtà di re, con animo d'Italiano" dichiarava che mandava le sue milizie a Roma per impedire le violenze del partito rivoluzionario, per mantenere l'ordine e garantire la sicurezza del Papa e chiedeva infine l'apostolica benedizione.
Pio IX ebbe scatti di sdegno e ad un tratto esclamò: "Non sono profeta, né figlio di profeta, ma vi assicuro che a Roma non entrerete".

Il giorno 11, Pio IX rispose con la lettera seguente:
"Maestà, il conte Ponza di San Martino mi ha consegnato una lettera, che a V . M. piacque dirigermi: ma essa non è degna di un figlio affettuoso che si vanta di professare la fede cattolica, e si gloria di regia lealtà. Io non entrerò nei particolari della lettera per non rinnovellare il dolore che una vostra precedente mi ha cagionato (*). Io benedico Iddio, il quale ha sofferto che Vostra Maestà riempia di amarezza l'ultimo periodo della mia vita. Quanto al resto, io non posso ammettere le domande espresse nella Sua Lettera, né aderire ai principi che essa contiene. Faccio di nuovo ricorso a Dio, e pongo nelle mani di lui la mia causa che è interamente la Sua. Lo prego a concedere abbondanti grazie a V. M. per liberarla da ogni pericolo e renderla partecipe delle misericordie ond' Ella ha bisogno".

(*) La precedente "dolorosa" lettera di V.E. che il Papa cita, conteneva la seguente frase: "Ho udito spesso, e ho letto nei libri approvati dalla Chiesa, che qualche volta Iddio nei suoi alti e imperscrutabili fini si è servito di una Papa per castigare un Re e di un Re per castigare un Papa, ardì una volta il re, e se Sua Santità non poteva riconoscere né benedire il re d'Italia, riconoscesse in lui almeno uno strumento della Provvidenza usato per quei fini che superano l'umana penetrazione".
Il Papa gli rispose allora, come nell'ultima sopra, "posso solo compatirvi moltissimo e cercherò tuttavia di ottenere per S.M. la divina protezione di cui Ella ha bisogno".
A Vittorio Emanuele la divina protezione gli giunse dai Prussiani, vincitori, che piegarono repentinamente i Francesi, e senza quest'ultimi, arrivava la buona occasione per entrare a Roma.

Infatti, il giorno stesso che il Conte Ponza era in udienza dal Pontefice, il consiglio dei ministri ordinava che il corpo di spedizione concentrato nell'Umbria penetrasse nello Stato Romano.

LA SPEDIZIONE A ROMA DI CADORNA - BRECCIA DI PORTA PIA

Le truppe erano quelle del corpo d'osservazione, che, costituito il 14 agosto, diventava ora IV corpo d'esercito. Era di circa 50.000 uomini ed era formato dalla 2a divisione del luogotenente generale NINO BIXIO (brigate Cavalchini e De Vecchi), della 9a del luogotenente generale ANGIOLETTI (brigate De Sauget e Migliora), della 11a del luogotenente generale E. COSENZ (brigate Bottacco e di Buri), della 12a del maggior generale conte GUSTAVO MAZÈ DE LA ROCHE (Brigate Angelino e Carchidio) e della 13a del maggior generale E. FERRERO (brigate De Fornari e Bessone).
Comandante in capo era il luogotenente generale RAFFAELE CADORNA, che aveva come capo di Stato Maggiore il colonnello PRIMERANO e il quartier generale a Terni.

"I nomi più appariscenti - osserva il Gori - erano quelli del Cadorna e del Bixio. Il Cadorna, benché provenisse parlamentarmente dalla sinistra, era noto per fede cattolica sicura per il suo vagheggiare conciliazioni e accomodamenti, che lo facevano piuttosto propendere verso il clericalismo. Giustamente reputato come militare, il governo lo aveva più volte, e con lode, adibito come repressore e moderatore nei tumulti civili. Saperlo a capo dell'impresa di Roma doveva rassicurare il Papa, i credenti, i governi europei, che quell'impresa non avrebbe superato i limiti strettamente necessari, né che avrebbe trasceso in persecuzioni e in offese alla Religione.

"Dall'altro lato il concorso dell'irruento Bixio, che poco prima aveva detto in parlamento che bisognava gettare tutti i cardinali nel Tevere, doveva bastare per far deporre ogni velleità di resistenza, accertando come all'Italia, non mancassero forze e strumenti per imporre la sua volontà ad ogni costo. Era bello e opportuno - si disse- che ad un fatto, cui davano mano concordemente la rivoluzione governativa e quella pura, cooperasse un generale dell'antico esercito subalpino e un altro che impersonava nel modo più spiccato l'esercito garibaldino e quello popolare".

Entrando in azione, il Cadorna lanciò agli Italiani delle Province Romane il seguente proclama:

"Il Re d'Italia mi ha affidato un'alta missione della quale voi dovete esser e i più efficaci cooperatori. L'esercito, simbolo e prova della concordia e dell'unità nazionale, viene tra voi con affetto fraterno per tutelare la sicurezza d'Italia e le vostre libertà. Voi saprete provare all'Europa come l'esercizio di tutti i vostri diritti possa congiungersi con il rispetto alla dignità ed alla autorità spirituale del Sommo Pontefice. L'indipendenza della Santa Sede rimarrà inviolabile in mezzo alle Libertà cittadine, meglio che non sia mai stata sotto la protezione degli interventi stranieri. Noi non veniamo a portare la guerra, ma la pace e l'ordine vero. Io non devo intervenire nel Governo e nelle amministrazioni, cui provvederete voi stessi. Il mio compito si limita a mantenere l'ordine pubblico ed a difendere l'inviolabilità del suolo della nostra patria comune".

Nella notte dall'11 al 12 settembre le truppe regie varcarono il confine. Il 12 il Bixio occupò senza colpo ferire Montefiascone. Quello stesso giorno, dopo un'ora di fuoco, Civita Castellana si arrese al CADORNA e nel pomeriggio Viterbo a FERRERO, che la mattina del 14 giunse a Monterosi.
Il mattino del 15 settembre BIXIO investì dal lato di terra Civitavecchia, mentre la squadra dell'ammiraglio DEL CARRETTO la investiva dal mare. La piazza, allo scadere delle dodici ore concesse dal Bixio, capitolò. Al presidio comandato dal colonnello SERRA furono accordati gli onori militari; ai soldati furono lasciati i bagagli ed agli ufficiali anche le armi; a tutti gli Italiani si garantì il grado e lo stipendio, agli stranieri il rimpatrio. Tutto il materiale del governo pontificio passò all'Italiano, eccetto il bucintoro papale Immacolata Concezione che fu lasciato a disposizione del Santo Padre.

Il 15 settembre, CADORNA, dalla Porta della Storta, mandò un parlamentare al generale KANZLER, comandante in capo delle truppe pontificie, chiedendo in nome del Re d' Italia l'ingresso delle truppe italiane in Roma per "occupare militarmente" la città e "tutelare l'ordine", ma il generale pontificio rispose con un rifiuto, dicendo: "Sua Santità desidera di vedere Roma occupata dalle proprie sue truppe e non da quelle di altri sovrani".
Il 16 settembre, CADORNA mandò un altro parlamentare, il generale CARCHIDIO, ad annunciare la resa di Civitavecchia e ad esortare che si evitasse di spargere inutilmente del sangue, ma il KANZLER oppose un altro rifiuto, espresso questa volta con termini abbastanza arroganti. Allora il Cadorna cominciò l'assalto della città che il 16 era già compiuto.
La divisione Ferrero si collocò davanti a Porta S. Lorenzo, quella del Mazè a Porta Pia, quella dell'Angioletti a Porta San Giovanni, quella del Cosenz a Porta Salaria, quella del Bixio a Porta San Pancrazio; il quartier generale fu posto a Casal dei Pazzi dove fu trasferito da Villa Spada.
Qui il 17 settembre era venuto il conte ARMIN, ministro prussiano presso la S. Sede, il quale aveva chiesto che l'attacco fosse differito di ventiquattro ore per tentare di convincere il Pontefice di abbandonare ogni proposito di resistenza, ma il giorno seguente, riuscito vano il suo tentativo aveva informato il Cadorna del fallito impegno.
La sera del 18 settembre a CADORNA giunse questo telegramma del ministero: "Essendo esauriti tutti i mezzi conciliativi, il governo del re ha deciso che le truppe operanti sotto i di lei ordini debbano impadronirsi con la forza la città di Roma, salvo sempre la città Leonina, lasciando alla S. V. la scelta del tempo e dei mezzi .... Le condizioni politiche richiedono più che mai prudenza, moderazione e prontezza".

L'attacco fu deciso per il 20 settembre.
La mattina di quel giorno fu aperto il fuoco prima contro i Tre Archi, Porta Maggiore e Porta Pia, poi tra porta Salaria e Porta San Giovanni e infine tra Villa Pamphili e Porta S. Pancrazio. Qui il Bixio aveva ricevuto l'ordine di fare un attacco dimostrativo, ma lasciandosi vincere dal suo temperamento impulsivo si diede a tirare all'impazzata. Ben presto a Porta San Giovanni le artiglierie furono sbaragliate e la porta sfondata. Anche le artiglierie di Porta Salaria e Porta Pia furono in breve ridotte al silenzio e presso quest'ultima porta alle dieci del mattino fu aperta una larga breccia per la quale una colonna italiana, il 39° battaglione di fanteria e il 34° battaglione bersaglieri, penetrò nella città di Roma.
Poco dopo, costatata l'impossibilità di un'ulteriore resistenza, i Pontifici innalzavano la bandiera bianca sulla cupola di San Pietro. L'azione era finita. Gli Italiani avevano avuto centocinquanta feriti, 45 soldati e quattro ufficiali morti; fra questi ultimi il maggiore PAGLIAI del 34° battaglione ed AUGUSTO VALENZIANI, luogotenente nel 40° fanteria; i papalini 19 morti e quaranta feriti.
Cessato il fuoco fu consegnata al Cadorna questa lettera del Kanzler:
"Quantunque non siano ancor esauriti i mezzi di difesa, S. S. avendo sufficientemente constatato che Roma, inalterabilmente tranquilla nel suo interno, non cede che alla violenza; nel desiderio di evitare ulteriore spargimento di sangue, mi dà l'ordine di desistere dalle ostilità, purché si possano ottenere condizioni onorevoli".

Allora tra il generale CADORNA e il colonnello CARPEGNA si stabilì che le truppe pontificie si sarebbero ritirate nella Città Leonina e le italiane avrebbero occupato il resto di Roma. A mezzogiorno cominciarono ad entrare i primi reggimenti italiani accolti con grande entusiasmo dal popolino romano. Nel pomeriggio il maggiore RIVALTA e il colonnello PRIMERANO rispettivamente capo di Stato Maggiore del Kanzler e del Cadorna, concludevano la capitolazione, subito ratificata dai due generali, secondo la quale Roma, eccettuata la Città Leonina, doveva essere consegnata alle truppe italiane insieme con bandiere, armi, munizioni e magazzini, e le truppe pontificie sarebbero uscite con l'onore delle armi per esser poi disarmate e rimpatriate quelle straniere, costituite in deposito le indigene.

Il 21 settembre il CADORNA fece l'ingresso ufficiale in Roma. Quel medesimo giorno il KANZLER scriveva al comandante in capo del IV corpo:
"La Santità di Nostro Signore mi incarica significarle che desidera che Ella prenda delle disposizioni energiche ed efficaci per la tutela del Vaticano, mentre essendo state sciolte le sue truppe, non ha modo d'impedire che perturbatori dell'ordine, emigrati ed altri, vengano a fare schiamazzo e disordini sotto la Sua residenza sovrana".
Così il 21 settembre anche la Città Leonina fu occupata dalle truppe italiane.
Per evitare che il governo della città cadesse nelle mani dei partiti estremi, sollecitato dal duca di SERMONETA, il 23 CADORNA costituì una Giunta di Governo, di cui fu presidente MICHELANGELO CAETANI, duca di Sermoneta, e membri furono il principe FRANCESCO PALLAVICINI, EMANUELE RUSPOLI, il duca FRANCESCO SFORZA CESARINI, il principe BALDASSARE ODESCALCHI, IGNAZIO BONCOMPAGNI dei principi di Piombino, l'avvocato BIAGIO PLACIDI, l'avvocato RAFFAELE MARCHETTI, l'avvocato VINCENZO TANCREDI, VINCENZO TITTONI, PIETRO DE ANGELIS, ACHILLE MAZZOLENI, FELICE FERRI, AUGUSTO CASTELLANI, ALESSANDRO DEL GRANDE, il prof. CARLO MAGGIORATI, FILIPPO COSTA e FRANCESCO PALLAVICINI.
Il 2 ottobre ci fu il plebiscito con la formula "Vogliamo la nostra unione al regno d'Italia sotto il governo del re Vittorio Emanuele II e dei suoi successori".

Il risultato fu: su 167.548 iscritti votarono 135.188 di cui 133.681 per il sì, 1507 per il no.
(a Roma città 40.785 sì, e 46 no
I risultati del plebiscito il 9 ottobre furono portati al Re a Firenze, a Palazzo Pitti, da una commissione presieduta dal duca di SERMONETA, il quale disse al sovrano:
"Roma colle sue province, esultante di riconoscenza verso V. M. gloriosissima per averla liberata dalla oppressione di armi mercenarie con il valore dell'esercito italiano, ha con generale plebiscito acclamato per suo Re la M. V. e la sua reale discendenza. Tale provvidenziale avvenimento, dopo sì lunga ed amorevole aspettazione di tutti i popoli d'Italia, compie la storica corona che rifulge sul capo della M. V.".

A queste parole il re rispose:
"Infine l'ardua impresa è compiuta e la patria ricostituita. Il nome di Roma, il più grande che suonò sulle bocche degli uomini, si ricongiunge oggi a quello d'Italia, il nome più caro al mio cuore. Il plebiscito pronunciato con così meravigliosa concordia dal popolo romano e accolto con festosa unanimità da tutte le parti del regno, riconsacra le basi del nostro patto nazionale, e mostra una volta di più che "se noi dobbiamo non poco alla fortuna" (qui lo riconosce - Ndr.) dobbiamo assai più all'evidente giustizia della nostra causa. Libero consentimento di volontà, sincero scambio di fedeli promesse, ecco le forze che hanno fatto l'Italia e che, secondo le mie previsioni, l'hanno condotta a compimento. Ora i popoli italiani sono veramente padroni dei loro destini.
Raccogliendosi, dopo la dispersione di tanti secoli, nella città che fu metropoli del mondo, essi sapranno senza dubbio trarre dalle vestigia delle antiche grandezze gli auspici di una nuova e propria grandezza e circondare di reverenza la sede di quell'impero spirituale, che piantò le sue pacifiche insegne anche là dove non erano giunte le aquile pagane. Io, come re e come cattolico, nel proclamare l'unità d'Italia, rimango fermo nel proposito di assicurare la libertà della Chiesa e l'indipendenza del Sovrano Pontefice: e con questa dichiarazione solenne io accetto dalle vostre mani, egregi signori, il plebiscito di Roma e lo presento agli Italiani, augurando che essi sappiano mostrarsi pari alle glorie dei nostri antichi e degni delle presenti fortune".

Quello stesso giorno furono emanati due decreti regi: con uno si stabiliva che Roma e il suo territorio facevano parte del regno d'Italia e vi si mettevano in vigore lo Statuto Albertino (Piemontese!) e le altre leggi dello Stato (Piemontese!); con l'altro era nominato luogotenente per governare la nuova provincia ALFONSO LA MARMORA (Piemontese!), il quale l'11 ottobre prese possesso del suo ufficio.
Per entrare al Quirinale, dopo varie settimane di insistenze con l'Antonelli, La Marmora riuscì a ottenerne la cessione, ma dovette chiamare i fabbri e usare il grimaldelli per aprire le porte. Il cardinale lo consegnò, ma (polemicamente) senza chiavi.

E GARIBALDI ? Alla testa di un gruppo di volontari italiani, fa quello che molti italiani di idee socialiste credevano giusto fare, convinti che bisognava appoggiare la Francia repubblicana, parte il 10 gennaio 1871 per accorrere in difesa della nuova repubblica francese e sconfigge un piccolo drappello di Prussiani a Digione. Il 28 gennaio finiva la guerra franco-prussiana.
L'8 febbraio a Nizza fu eletto deputato (come lo era in precedenza per il Parlamento Italiano prima della cessione) per l'Assemblea nazionale francese riunita a Bordeaux.
Assemblea che poi chiederà l'annullamento di quest'elezione di Garibaldi in quanto non di nazionalità francese ma italiana.
A difenderlo si schiererà solo Victor Hugo, sostenendo che Garibaldi era stato l'unico generale vincitore nella guerra contro la Prussia; ma non fu ascoltato e in segno di protesta si dimetterà dall'Assemblea. (di questi fatti parleremo ancora nel prossimo capitolo).
Meno fortunato l'intervento di alcuni socialisti italiani (partiti per difendere la Comune di Parigi, tutti caduti o fatti prigionieri poi nella famosa "settimana di sangue" tra il 21 e il 28 maggio successivo (1871). (di cui diamo tutta la cronologia giornaliera in queste pagine).

E MAZZINI ? Fallito l'impedimento del processo di unificazione nazionale fondato sulla progressiva annessione della penisola al Piemonte; fallito pure il tentativo di fare l'unificazione repubblicana con un movimento di popolo; anche dalla Comune di Parigi e da Karl Marx, prende le distanze, non convivendo l'impostazione rivoluzionaria e classista della sua dottrina, e in un appello agli operai italiani addita nell'Internazionale una minaccia nei confronti di Dio, della Patria e della proprietà privata.
Sono i suoi ultimissimi interventi; rifugiatosi nel novembre del 1871 a Pisa sotto falso nome (dottor Brown), morirà in questa città pochi mesi dopo, il 10 marzo del 1872, all'età di 67 anni.
A Roma nel nuovo Parlamento Italiano, i deputati esprimeranno il proprio dolore per la perdita di GIUSEPPE MAZZINI, elogeranno il suo pensiero e la sua opera, ma non acconsentirono all'invio di una deputazione parlamentare ai suoi funerali. (anche di lui parleremo ancora nel prossimo capitolo).
Con lui bisognava seppellire quel primo nucleo - sempre presente- di una possibile Repubblica Italiana Democratica.

Il suo programma sempre bollato utopistico, un'eresia, una corbelleria, se pochi mesi prima era morto quando a Porta Pia erano entrati i Sabaudi, con la morte del maggior esponente, moriva definitivamente il quarantennale costante punto di riferimento degli ideali unitari e repubblicani.
Per 76 anni, del progetto Repubblica non se ne parlerà più, fino al 1946.

Il 1° Novembre PIO IX emana l'enciclica "Respicienties" nella quale dichiara:
"Ingiusta, violenta, nulla e invalida l'occupazione italiana dei territori della Santa Sede" e denuncia la cattività del pontefice, "che non può esercitare liberamente e sicuramente la suprema autorità pontificia, e scomunica il re d'Italia e tutti coloro che hanno cooperato ad usurpare lo Stato Pontificio".

Il 2 novembre è decretato lo scioglimento delle Camere per consentire lo svolgimento delle nuove elezioni politiche comprendenti anche i territori del Lazio.

LE ELEZIONI CON IL LAZIO
IL "CI SIAMO" DEL RE E IL "CI RESTEREMO" - FINO AL�.

Le elezioni furono come affluenza le più basse di tutte le tre precedenti elezioni.
Voteranno solo il 45,5 %. Su 530.018 aventi diritto al voto, si recarono alle urne 240.974 votanti. Fortissimo l'astensionismo dei cattolici (un verosimile 54,5%).

Il 5 Dicembre 1870 si apre la nuova legislatura, sempre con la destra maggioritaria; il 9 dicembre LANZA propone il trasferimento della capitale a Roma.
Il 23 dicembre 1870, la Camera approva la proposta di Roma Capitale entro il 30 giugno 1871.

Il Re avrebbe voluto fare subito una visita nella Roma "conquistata". Ma sorse il dubbio se farlo l'ingresso in una forma dimessa o trionfale. La prima sarebbe stata lesiva -dissero- della dignità nazionale, la seconda inopportuna, arrogante e ingiuriosa alla dignità del Papa.
A risolvere il problema fu il Tevere, che a fine anno straripò, apportando tanti danni e lutti in città.
In forma privata il "nuovo Re di Roma", colse l'occasione per fare una visita di circostanza il 31 dicembre. Giunto al Quirinale dopo il lungo viaggio da Firenze in carrozza, nella stanchezza ma anche nella tensione, mettendo il piede a terra disse in piemontese "finalment i suma" (finalmente ci siamo). Che qualcuno volle rendere più storico nell'enfatica versione ufficiale: "A Roma ci siamo e ci resteremo".
Il 9 gennaio del 1878, all'età di 58 moriva dopo una breve ricaduta in una pleure-polmonite con complicazioni malariche.
Mentre con il "i suma ei stuma" al Quirinale, i Savoia ci "restarono" fino all'8 settembre del 1943, quando cioè fecero quello che non dovevano fare, che qui abbiamo ricordato con quella mirabile lettera ricevuta dalla figlia e che l'orgoglioso padre fece leggere da Sella al Consiglio dei Ministri.
"Si ricorda cosa si dice dei principi che lasciano il loro Paese? Partire quando il Paese è in pericolo, è il disonore e l'onta per sempre. Se parto, non abbiamo più che da nasconderci�".
La figlia scrisse questa frase ricordandosi ciò che aveva detto suo padre nel 1859 scrivendo a Napoleone III: (QUI L'INTERA LETTERA)
"La mia sorte è congiunta a quella del popolo italiano; possiamo soccombere, ma tradire mai!. I Solferino e le San Martino, riscattano tal volta le Novara e le Waterloo, ma le apostasie dei Principi sono irreparabili�.. del popolo italiano, io sono commosso nel profondo dell'anima mia dalla fede, dall'amore che questo nobile e sventurato popolo ha in me riposto; e piuttosto che venirgli meno, spezzo la mia spada e getto la mia corona come il mio augusto genitore".

Abbiamo detto sopra che per 76 anni, del progetto Repubblica non se ne parlerà più. Ma ad affossare la Monarchia non è che contribuì molto un rifiuto degli italiani, oltre che la Monarchia e con essa la casa Savoia si scavarono la fossa da sola.

Nell'agosto e settembre 1943 il "popolo sventurato", mai così tanto prima di allora- aveva ancora riposto fiducia nel Re, ma poi fu tradito, insultato, umiliato.
Con la fuga dell'8 settembre 1943, il Re e suo figlio, si attirarono lo sdegno dell'opinione pubblica, offesero la fantasia del sentimento più elementare degli italiani. La fedeltà al Re e alla Patria, populistico tuttavia un binomio sempre valido in quel frangente, che esisteva ancora e avrebbero potuto far superare la grave crisi, prima, durante e dopo.
Il "piccoletto", il 25 luglio, era ritornato a fare il "gigante" (come nel 1900 alla morte del padre); si era attirato tante simpatie con quell'atto di coraggio nel destituire Mussolini. E coraggio ne occorreva molto, perché era una si temeva all'indomani una guerra civile tra fascisti e antifascisti; che non ci fu per l'ammirabile responsabilità del popolo italiano, sia quello fascista come quello antifascista.
Poi quella "fuga", fatta in quel modo, lasciando allo sbando l'intero esercito italiano; fuga che seppellì nel fango non solo la dinastia ma la monarchia. Il sentimento popolare oltre che indignato fu tradito. Ci fu indignazione pure fra i tanti monarchici che vedevano nella monarchia non solo la causa del salvataggio della dinastia sabauda, ma quella dell'unità della patria, la difesa del proprio territorio.
"Fuga o non fuga nulla avrebbe potuto far cambiare la sorte dell'Italia. Nulla, meno una piccola cosa, a cui noi italiani non diamo mai alcun peso: l'onore....Vinti sì, come può capitare a qualsiasi esercito e a qualsiasi popolo. Traditori, no" (citazione di Montanelli).
"Partire quando il Paese è in pericolo, è il disonore e l'onta per sempre" (e questo non lo scrisse un repubblicano, ma sua nipote Clotilde).

E scrisse la stessa cosa il nobile Borghese:
"Una guerra si può perdere, ma con dignità e lealtà; e allora l'evento storico non incide che materialmente, seppure per decenni. La resa e il tradimento hanno invece incidenze morali incalcolabili che possono gravare per secoli sul prestigio di un popolo, per il disprezzo degli alleati traditi, e per l'eguale disprezzo dei vincitori con cui si cerca vilmente di accordarsi. Non mi sembra che tali ideali e convincimenti abbiano un'impronta fascista. Appartengono al patrimonio morale di chiunque".
(Valerio Borghese)

E lo scrisse pure il giacobino Napoleone:
"Si può cedere una fortezza, la fortuna in guerra è instabile, si può venir vinti, si può cader prigionieri e può capitare domani a me; ma l'onore!!! Sul campo di battaglia ci si batte, mio caro signore, e se invece si capitola vilmente, si merita di essere fucilati... Come suddito avete compiuto con la vostra capitolazione un delitto, come generale una sciocchezza, come soldato una viltà, e come francese avete disonorato la gloria! Non comparite mai più davanti ai miei occhi". (Napoleone, ad un generale che in campo aperto si era dato alla fuga, e che osò dopo sei mesi spudoratamente presentarsi ancora dinanzi a lui per giustificarsi - Napoleone - Memoriale di Sant'Elena - Originale).

A Chieti, a Palazzo Mezzanotte (dove chi sta scrivendo era presente in quel fatidico giorno della "fuga di massa" delle più alte cariche dello Stato) ci voleva un Cadorna, quello che sparava alla schiena ai traditori, e che spesso non erano traditori, ma solo modesti uomini che indugiavano -con un barlume di razionalità- nell'andare al macello.
Mentre quelli della "fuga" non erano modesti uomini, erano stati per più di venti anni il punto di riferimento, di un soldato e di un popolo intero e avevano grandi responsabilità.

Ma siamo appena all'inizio di questa Unità d'Italia Monarchica completa
con Roma Capitale che subito inasprì enormemente i rapporti tra
la Chiesa e il Nuovo Stato. Poi le nuove leggi, la caduta della destra, ecc.

è il prossimo periodo che andiamo a raccontare...

periodo dal 1870 al 1876 > > >

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