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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1859-1860

TOSCANA - PLEBISCITI - ANNESSIONI - CESSIONI - NIZZA
( Anno 1859 - Atto Terzo )

LA RIVOLUZIONE IN TOSCANA - PARTENZA DEL GRANDUCA - II BUONCOMPAGNI COMMISSARIO STRAORDINARIO DI VITTORIO EMANUELE IN TOSCANA - IL PRINCIPE NAPOLEONE IN TOSCANA - MASSA E CARRARA - PARTENZA DI FRANCESCO V - IL FARINI GOVERNATORE DI MODENA - LA RIVOLUZIONE A PARMA E A PIACENZA - DIODATO PALLIERI GOVERNATORE DELL'EX-DUCATO - IL MOTO RIVOLUZIONARIO NELLE ROMAGNE E NELLE MARCHE - LE STRAGI DI PERUGIA - IL D'AZEGLIO A BOLOGNA - IL MINISTERO LA MARMORA - RATTAZZI - RICHIAMO DEI GOVERNATORI DELL' ITALIA CENTRALE - LE ASSEMBLEE DEGLI STATI DELL' ITALIA CENTRALE DICHIARANO DECADUTI I LORO PRINCIPI E DELIBERANO L'ANNESSIONE ALLA SARDEGNA - VITTORIO EMANUELE RICEVE I VOTI DEGLI STATI DELL' ITALIA CENTRALE - IL FANTI E IL GARIBALDI AL COMANDO DELL'ESERCITO DELLA LEGA DEGLI STATI CENTRALI - IL FARINI DITTATORE DELL' EMILIA - LA REGGENZA DELL' ITALIA CENTRALE OFFERTA AL PRINCIPE DI CARIGNANO - IL BUONCOMPAGNI GOVERNATORE GENERALE - L'OPUSCOLO " LE PAPE ET LE CONGRÈS " - RITORNO DEL CAVOUR AL GOVERNO - I PLEBISCITI E LE ANNESSIONI - LA CESSIONE DI NIZZA E DELLA SAVOIA ALLA FRANCIA
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LA RIVOLUZIONE TOSCANA

Dopo avere narrato le varie fasi della guerra che si è svolta interamente nell'Italia settentrionale, è ora opportuno ritornare nelle altre Province e Stati italiani; giustificato dal fatto che alcuni hanno partecipato al conflitto con dei contingenti di soldati e di volontari, mentre altri i rispettivi sovrani non hanno voluto schierarsi né con i piemontesi, né con chi, a fianco dei piemontesi, intendeva lavorare per l'Unità d'Italia (anche se ognuno in un modo diverso).

Avvicinandosi lo scoppio della seconda guerra d'indipendenza, tanto dall'Austria quanto dal Piemonte furono fatti passi presso le corti di Napoli e di Firenze per attirare dalla propria parte i due Stati, ma né Ferdinando II, né Leopoldo II, vollero schierarsi nell'uno e nell'altro campo e proclamarono, al pari dello Stato Pontificio e del ducato di Parma la neutralità.
Ma in Toscana c'era chi lavorava in favore della guerra a fianco del Piemonte e dell'unità; lavorava il cav. CARLO BUONCOMPAGNI, ministro sardo a Firenze, seguendo le istruzioni del Cavour di riunire le varie fazioni liberali toscane, di spingere il governo alla guerra contro l'Austria e di promuovere l'abdicazione del Granduca; lavorava il marchese FERDINANDO BARTOLOMMEI, capo del gruppo unitario aderente alla "Società Nazionale Italiana"; lavorava lo scarso gruppo dei mazziniani, alcuni dei quali, come il fornaio GIUSEPPE DOLFI, avevano aderito alla formula "Italia e Vittorio Emánuele"; lavoravano LOWLEY, PIETRO CIRONI, STEFANO SICCOLI, il dottor AUGUSTO BRANCHINI e non pochi ufficiali.

L'esercito - esclusi i veliti - era quasi tutto per la causa italiana. Il 23 aprile un proclama firmato dai soldati Toscani e diretto ai "Fratelli Toscani" annunciava:
"La grande ora è vicina! perciò noi vogliamo che voi sappiate quali sono i nostri sentimenti. Noi pure siamo soldati italiani, e ci crediamo in dovere di combattere fino all'ultimo sangue per l'indipendenza dell'Italia nostra patria. Guai però a chi tenterà d'impedire la grande impresa della rigenerazione d'Italia. Le armi nostre saranno sempre contro i nemici d'Italia, in città e in campo. Fratellanza, dunque, come voi diceste, di milizia e di popolo. Neutralità mai ! Sia distrutta l'Austria ! Viva l'Italia !".

Il 24 aprile, giorno di Pasqua (da Torino qualcosa doveva essere già trapelato) gli artiglieri, schierati al passaggio della corte che si recava al Duomo, fingevano di non udire il comando di presentare le armi e nella notte del 25, nella caserma dei bersaglieri, al grido di Viva l'Italia fu spezzato il busto del Granduca e lacerati i ritratti del principe ereditario e del generale Ferrari.

Incontri frenetici avvenivano fra i capi del gruppo unitario monarchico e quelli del mazziniano e sia dagli uni che dagli altri si cercò di prendere accordi con i costituzionali moderati, guidati da BETTINO RICASOLI, senza però riuscirvi, perché questi ultimi volevano limitare la loro azione alla richiesta di riforme e di uno statuto.
Intanto gli avvenimenti precipitavano.
Il 26 aprile (ormai da Torino erano giunte notizie precise) usciva un proclama, che era come uno squillo di guerra:
"Toscani ! La parola insolente dell'Austria ha osato insultare il Re Campione d'Italia perfino nella sua Reggia. Forse a quest'ora il cannone ha già risposto. Tutti i cuori, tutte le braccia italiane risponderanno. E noi Toscani dobbiamo riprendere il posto glorioso che avevamo a Curtatone, e fare le nostre vendette nelle vendette comuni. Ma la via che conduce al campo e alla vittoria non è la via delle sommosse. Il grido di guerra non è l'urlo della piazza. Serbiamoci interi, se vogliamo fare il nostro dovere: siamo cittadini tranquilli, per essere soldati intrepidi: sappiamo aspettare ancora poco tempo, e porteremo sul campo delle battaglie una milizia disciplinata e valorosa, un governo Nazionale, una Toscana tutta degna della sua civiltà, tutta unanime ad illustrarla con il trionfo dell'indipendenza".

La notte del 26 in casa del fornaio DOLFI si radunarono i capi del gruppo liberale nazionale e dei radicali alcuni del circolo RICASOLI e non pochi ufficiali dell'esercito, i quali stabilirono per il giorno dopo una grande dimostrazione; ne diedero avviso a tutte le città toscane, scelsero i nomi per la giunta provvisoria di governo (UBALDIRO PERUZZI, ERMOLAO RUBIERI, FERDINANDO ZANNETTI, VINCENZO MALENCHINI e BETTINO RICASOLI, che rifiutò dovendo recarsi dal Cavour, e fecero stendere da CELESTINO BIANCHI il seguente manifesto:
"Toscani ! L'ora è suonata: la guerra dell'Indipendenza d'Italia già si combatte. Voi siete italiani; non potete mancare a queste battaglie; e italiani siete anche voi, prodi soldati dell'Esercito Toscano; e vi aspetta l'esercito italiano sui campi di Lombardia. Gli ostacoli che impediscono l'adempimento dei vostri doveri verso la Patria devono essere eliminati: siate con noi e questi ostacoli spariranno come la nebbia. Fratellanza della Milizia con il popolo. Viva l'Italia, Guerra all'Austria ! Viva Vittorio Emanuele Generale in capo dell'Armata Italiana".

Il 27 mattina, mentre un'immensa folla si radunava in piazza Barbano, il Granduca LEOPOLDO II, che si trovava nella Reggia circondato da tutti i suoi ministri ed era stato informato che le milizie reclamavano la bandiera tricolore e la guerra all'Austria, stabiliva di cedere.
Prima fece chiamare il RICASOLI, ma questi era partito per Torino a rendersi conto di persona - dal Cavour- cosa stava accadendo; allora fu chiamato il principe NERI CORSINI e i ministri gli anticiparono che LEOPOLDO II era disposto aderire alla Francia e al Piemonte e, calmate le cose, a ridare vita alla costituzione, e che lo avrebbe più tardi incaricato di formare il ministero; ma ora lo pregava di adoperarsi affinché non avvenissero tumulti e si calmassero gli animi. Inoltre il Granduca acconsentì che alle truppe fosse data la bandiera tricolore.

Il CORSINI uscito da Palazzo Pitti, si recò in Borgo Pinti nella residenza della legazione sarda e dai capi liberali che vi erano riuniti ricevette l'"ultimatum" da consegnare al Granduca, che conteneva i seguenti capitoli:
"1° - Abdicazione del Granduca e proclamazione di Ferdinando IV;
2° - Destituzione del Ministero, del generale e degli ufficiali che si sono maggiormente pronunziati contro il sentimento nazionale;
3° - Alleanza offensiva e difensiva con il Piemonte;
4° - Pronta cooperazione alla guerra con tutte le forze dello Stato e comando supremo delle truppe al generale ULLOA;
5° L'ordinamento delle libertà costituzionali del paese dovrà essere regolato secondo l'ordinamento generale d'Italia".

Le condizioni erano dure e si sperava che non sarebbero state accettate. Ed infatti, non lo furono. LEOPOLDO II, nonostante il consiglio che quella mattina, per lettera, gli aveva mandato il RIDOLFI di abdicare, rifiutò di deporre la corona, dichiarò che se gli stava a cuore il bene della Toscana gli stava pure a cuore l'onor suo e affermò che sarebbe partito con tutta la famiglia; ma di fronte al corpo diplomatico protestò di voler conservare i diritti alla sovranità per sé e i suoi discendenti e dichiarò nulli gli atti che sarebbero stati emanati da altri da quel momento in poi. In pratica disconosceva il suo governo, né voleva formarne uno. Più che lasciare la Toscana, lasciava allo sbando il Paese.

Alle 6 del pomeriggio del 27 aprile il Granduca con la famiglia e il generale FERRARI lasciò Firenze; un'ora dopo il municipio fiorentino, su richiesta e designazione del BUONCOMPAGNI, nominò un governo provvisorio formato da UBALDINO PERUZZI, VINCENZO MALENCHINI e il maggiore d'artiglieria ALESSANDRO DANZINI, i quali quel giorno stesso lanciarono il seguente proclama:
"Toscani! Il Granduca e il suo governo, anziché soddisfare ai giusti desideri dal Paese in tanti modi e da tanto tempo manifestati, il Paese lo hanno abbandonato a se stesso. In questi frangenti il Municipio di Firenze, solo elemento di autorità qui rimasto, adunatosi straordinariamente, volendo provvedere alla suprema necessità di non lasciar la Toscana senza governo, ha nominato i sottoscritti a reggerlo provvisoriamente .... Noi abbiamo assunto questo grave incarico per il solo tempo necessario, affinché S. M. il Re Vittorio Emanuele vi provvederà, e durante il tempo della guerra, a reggere la Toscana in modo che essa concorra efficacemente al riscatto nazionale. Confidiamo nell'amore della patria italiana, che anima il nostro paese, onde l'ordine e la tranquillità siano mantenuti. Con l'ordine e la disciplina soltanto si giunge a rigenerare le nazioni e a vincere le battaglie".

Il 28 aprile i Triunviri offrirono la dittatura a VITTORIO EMANUELE, ma questi si limitò ad assumere un semplice protettorato diplomatico e il comando militare e nominò suo commissario straordinario il BUONCOMPAGNI, il quale prima pensò di affidare il governo a semplici direttori, non a ministri, e di tener lontani gli uomini politici del paese; ma poi, non trovate le persone adatte, dovette preporre agli affari di governo proprio gli uomini di cui non avrebbe voluto servirsi, e il 16 maggio affidò gli Interni a BETTINO RICASOLI, l'Istruzione Pubblica a COSIMO RIDOLFI con l'interim degli Esteri, la Grazia e la Giustizia e l'interim del Culto ad ENRICO POGGI, le Finanze, il Commercio e i lavori Pubblici a RAFFAELE BUSACCA, valente economista siciliano, la Guerra al MALENCHINI, che fu poi sostituito dal piemontese PAOLO DE CAVERO.

Alla testa delle forze armate della Toscana fu messo il generale GEROLAMO ULLOA, il quale, il 23 maggio, passate in rivista le truppe alle Cascine, comunicò loro il seguente appello di Vittorio Emanuele:
"Soldati Toscani ! Al primo grido della guerra nazionale, voi avete cercato un capitano che vi guidasse al combattimento contro i nemici d'Italia. Io ho accettato questo comando, poiché è mio dovere di stabilire l'ordine e la disciplina in tutte le forze della nazione: Voi non siete più i soldati di una provincia italiana, voi fate parte dell'armata d'Italia. Stimandovi degni di combattere a fianco dei bravi soldati della Francia, io vi metto sotto gli ordini del mio amato genero, il principe NAPOLEONE, cui sono affidate dall'imperatore dei francesi importanti operazioni militari. Ubbiditegli come ubbidireste a me stesso. Lui divide i miei pensieri e le mie affezioni che sono pur quelle del generoso Imperatore che è venuto in Italia per il trionfo della giustizia e la difesa del diritto nazionale. Soldati, i giorni delle forti prove sono arrivati. Io conto su di voi. Voi dovete mantenere ed aumentare l'onore delle armi italiane".

Quel giorno medesimo il principe Napoleone, che comandava il 5° Capo dell'esercito francese, sbarcava a Livorno, dava disposizione perché fossero guardati i passi dell'Appennino da cui gli Austriaci del WIMPFFEN avrebbero potuto invadere la Toscana; il 31 maggio si trasferiva a Firenze e alcuni giorni dopo, resa inutile dagli avvenimenti di guerra la sua presenza nel granducato, partiva con le truppe alla volta del teatro delle operazioni, mettendo fine alle voci secondo le quali egli sarebbe stato mandato in Toscana per salire sul trono dei Lorena.

LA RIVOLUZIONE A MODENA E A PARMA

(qui il testo della "protesta ufficiale del duca di Modena > > > )

(qui il testo della protesta ufficiale della duchesa di Parma > > > )

A questa pacifica rivoluzione toscana gli andò dietro quella di Massa e Carrara, preparata dalla "Società Nazionale Italiana". Le due città insorsero il 28 aprile e della prima l'avvocato VINCENZO GIUSTI, della seconda l'avvocato ENRICO BRIGNOLARI accettarono la direzione del governo con l'incarico di commissari del re Vittorio Emanuele.
Da Genova e da Sarzana giunsero in sostegno della rivoluzione guardie nazionali e carabinieri piemontesi ed IGNAZIO RIBOTTI vi radunò un discreto contingente di volontari, che doveva difendere il paese dalle eventuali minacce del duca di Modena.
Ma FRANCESCO V non osò tentare di ridurre all'ubbidienza le due città, sapendo che questa volta la rivoluzione era sostenuta dal Piemonte; ma protestò contro il re di Sardegna perché permetteva che dei territori esteri si sollevano in suo nome mentre duravano i buoni rapporti tra le due corti.
VITTORIO EMANUELE rispose che il ducato di Modena parteggiava per l'Austria e che quindi doveva considerarsi in stato di guerra con il Regno di Sardegna. Il 15 maggio truppe sarde occuparono Massa e Carrara e una settimana dopo insorsero pure la Lunigiana e la Garfagnana.
Dopo la battaglia di Magenta e la successiva ritirata austriaca sul Mincio, FRANCESCO V si rifugiò a Mantova con le sue truppe, ottanta prigionieri politici, ma portandosi dietro anche due milioni e seicentonovantamíla lire, il tesoro della corona, le gemme e le medaglie dei musei e i manoscritti delle biblioteche. A Modena dove sperava di ritornare, lasciò una reggenza presieduta dal conte LUIGI GIACOBAZZI (11 giugno).

La reggenza durò due giorni soli. Il 13 giugno la città insorse e il Municipio formò un governo provvisorio, proclamando l'unione al regno di Sardegna, secondo il voto del 1848. Il 15 giugno, inviato da Cavour, giunse l'esule avvocato LUIGI ZINI, che assunse la direzione dello Stato come commissario provvisorio di Vittorio Emanuele, istituì una giunta municipale provvisoria e una commissione d'arruolamento, affidò il dicastero dell'Istruzione al dottor GIOVANNI VECCHI e quello delle Finanze all'avvocato LUIGI TERNI, e destituì parecchi magistrati.
Quattro giorni dopo, lo Zini cedette il posto a LUIGI CARLO FARINI, nominato governatore. Questi si affrettò a promulgare alcune leggi sarde; ristabilì la scuola del Genio che Napoleone I aveva istituito; adottò il codice sardo; abolì la pena della flagellazione; soppresse i Gesuiti; ordinò che con la vendita dei beni di Francesco V si rimborsassero ai comuni le spese sostenute per il mantenimento delle truppe austriache; riordinò le amministrazioni comunali con il sistema rappresentativo, nominò una commissione incaricata di raccogliere e pubblicare documenti riguardanti gli arbitri del governo ducale e affidò il ministero della guerra al colonnello FRAPOLLI e quello degli interni al MALMUSI.

PARMA - Anche in questa città l'inizio della guerra tra la Sardegna e l'Austria fu causa di agitazioni fra i liberali. La duchessa, per misura di prudenza il 1° maggio abbandonò la capitale del suo stato e riparò con i figli nella vicina Mantova, lasciando le redini del governo ai ministri SALATI, LOMBARDINI, PALLAVICINO e CATTANI; ma la popolazione si sollevò e il comitato Nazionale ne approfittò per far dimettere i ministri e nominare una giunta provvisoria formata degli avvocati LEONZIO ARMELONGHI e GIORGIO MASINI, del professor SALVATORE RIVA e del dottor ANGIOLO GAMBARINI, che presero le redini del governo in nome di Vittorio Emanuele.

Questo nuovo stato di cose non durò più di trentasei ore; infatti, il 3 maggio i soldati fedeli alla duchessa, comandati, dal colonnello CESARE DA VICO, intimarono alla giunta di cedere i poteri; questa fuggì e il vecchio regime fu di nuovo ristabilito. Il giorno dopo la duchessa tornava a Parma, dove fu accolta dalle truppe con dimostrazioni di gioia, e il 5 proclamò la neutralità del Ducato.
Un mese dopo avveniva la battaglia di Magenta e cominciava il ripiegamento delle forze austriache sul Mincio. La duchessa, l'8 giugno, nella speranza di fronteggiare gli avvenimenti autorizzò il municipio ad aggregarsi 30 notabili, ma il giorno dopo, consigliata dal conte GIROLAMO CANTELLI, lasciò per la seconda volta Parma, licenziandosi dai suoi sudditi con un proclama, in cui era detto:
"Quale sia stato il governo della mia reggenza, invoco a testimonio gli abitanti del mio stato e la storia; idee più ferventi e lusinghiere sono venute a intromettersi nei progressi pacifici e saggiamente liberali, cui tutte le mie cure erano rivolte .... Non devo contraddire i proclamati voti d'Italia, né venir meno alla lealtà. Onde, non essendo possibile una sistemazione neutrale come mi sembravano consigliare le condizioni eccezionali fatte da quelle convenzioni al territorio, cedo agli eventi che premono, raccomandando al Municipio parmense la nomina di una commissione di governo per la tutela dell'ordine, e dichiaro di riservare pieni e legittimi i diritti dei miei figli".

La duchessa, partendo, sciolse dal giuramento di fedeltà le truppe, le quali si ammutinarono e la notte del 10 uscirono dalla città e si sbandarono. Il municipio allora nominò una commissione provvisoria di governo, della quale fecero parte il conte CANTELLI, il dottor PIETRO BRUNI e l'ingegnere EVARISTO ARMENI, e inviò a Vittorio Emanuele una deputazione "per rinnovargli la solenne espressione del voto proclamato fin dal 1818 per l'unione dello Stato al regno Sardo", deputazione che si unì a quella eletta da Piacenza con lo stesso scopo.
Il governo provvisorio durò in carica una settimana circa: il 16 giugno Vittorio Emanuele nominò governatore civile degli Stati parmensi il conte DIODATO PALLIERI, e il giorno dopo il Triumvirato gli rimise i poteri che egli assunse in nome del re di Sardegna. Il conte CANTELLI fu nominato segretario generale del governo.

IL MOTO RIVOLUZIONARIO NELLE ROMAGNE E NELLE MARCHE
LE STRAGI DI PERUGIA

Non fu invece pacifica la situazione nello Stato Pontificio; prima di muoversi i patrioti aspettarono che partissero i presidi austriaci. Questi si ritirarono oltre il Po l'11 giugno e il giorno dopo le squadre della "Società Nazionale" con il tricolore spiegato andarono ad intimare al cardinale legato MILESI di cedere il governo, che lo lasciò e abbandonò la città. Fu nominata una giunta provvisoria a far parte della quale furono chiamati GIOACCHINO POPOLI, parente di Napoleone III, il conte GIOVANNI MALVEZZI il marchese LUIGI TANARI, l'avvocato CAMILLO CASARINI e il professor ANTONIO MONTANARI.
Primo atto del nuovo governo, fu di offrire a Vittorio Emanuele la dittatura durante la guerra; assidua cura della Giunta fu di raccogliere armi e denaro e di arruolare volontari.
In breve tempo il moto rivoluzionario si propagò in tutta la Romagna e la giunta di Bologna prese le funzioni di governo centrale delle province di Bologna, Ferrara Ravenna e Forlì. Rimini, insorta, fu invece ricondotta all'obbedienza dai soldati svizzeri allontanatisi da Bologna. Anche alle Marche si propagò il moto. Pesaro fu tenuta in obbedienza dagli Svizzeri, ma insorsero Fano, Senigallia ed Ancona. Ma quest'ultima città con la sua fortezza rimase in potere dei soldati pontifici che ne fecero poi una testa di ponte per scatenare l'offensiva nelle altre città.

Il 14 giugno si sollevò Perugia. Partito il rappresentante pontificio monsignor LUIGI GIORDANI, si costituì un governo provvisorio, di cui fecero parte FRANCESCO GUARDABASSI NICOLA DANZETTA, ZEFFIRINO FAINA, BALDINO e TIBERIO BERNARDI, i quali offrirono la dittatura a Vittorio Emanuele e, saputo che il governo pontificio si preparava a muovere alla riscossa, si prepararono a resistere mobilitando le poche forze di cui potevano disporre.
Nel pomeriggio del 20 giugno Perugia fu assalita da duemila svizzeri condotti dal colonnello ANTONIO SCHMID, che aveva l'ordine di trattarla con rigore per così dare un esempio alle altre città ribelli. Perugia si difese con accanimento, ma alla fine il mezzo migliaio di difensori fu sopraffatto dagli assalitori, i quali si abbandonarono ad orribili eccessi, incendiando, saccheggiando, uccidendo e stuprando.
Il giorno prima della caduta di Perugia, ad Ancona era tornato il delegato apostolico e la guarnigione uscita dalla fortezza aveva occupato i punti strategici della città; poi verso la fine del mese rioccuparono Fano, Senigallia, Iesi e gli altri centri minori delle Marche. In breve sulle Romagne di libertà nemmeno più parlarne, ormai incombeva nuovamente la minaccia delle truppe pontificie.

RICHIAMO DEI GOVERNATORI SARDI DALL'ITALIA CENTRALE
LE ASSEMBLEE DEGLI STATI DELL' ITALIA CENTRALE DELIBERANO L'ANNESSIONE ALLA SARDEGNA; LA REGGENZA OFFERTA AL PRINCIPE DI CARIGNANO
IL GOVERNATORE GENERALE
LE PAPE ET LE CONGRES

Dopo il trattato di Villafranca, il Re di Sardegna, aveva il difficile e anche poco piacevole compito di mettere in atto le condizioni dell'armistizio su quei Ducati e quelle Legazioni i cui "ribelli" avevano aderito alla sua causa, con tante speranze, ma che purtroppo, dovevano in base all'Armistizio far ritornare i sovrani al loro posto. E se era poco piacevole perché avevano avuto in lui tanta fiducia, era oltremodo difficile spegnere gli incendi che fin dal primo giorno aveva procurato.
Dare ragione ai "ribelli" era del resto pericoloso; i francesi che avevano dettato loro le condizioni, avevano le truppe ancora Italia e gli Austriaci erano pur sempre a Verona. Il Re non poteva accettare le dimostrazioni di affetto e forse con la "morte nel cuore" lo disse pure: "� rendino pure palese il voto al mondo, ma io non posso accettare di fatto la loro decisione di annettersi al Piemonte".

NAPOLEONE gli ha appena scritto: " Signore Mio fratello.....per rammentarle il passato e per mettermi d�accordo con lei, sulla condotta che dev�essere tenuta per l�avvenire. Le circostanze sono gravi; � necessario lasciar da parte le illusioni e gli sterili rimpianti, ed esaminare accuratamente la reale situazione degli affari..........

(vedi l'intera lettera di Napoleone al Re e la sua risposta > > > )

Tornati in balia dei loro antichi principi, Parma, Modena, la Toscana e le Province Romane Pontificie, VITTORIO EMANUELE dovette richiamare i suoi commissari nell'Italia centrale, che erano il D'AZEGLIO a Bologna, il BUONCOMPAGNI a Firenze, il FARINI a Modena e il PALLIERI a Parma.

Il D'Azeglio era giunto a Bologna l'11 luglio (non sapendo ancora cosa stava avvenendo quel giorno a Villafranca) e il 15, essendosi dimessa la Giunta Centrale, aveva affidato il ministero delle Finanze a GIOACCHINO POPOLI, quello degli Interni al MONTANARI, quello della Giustizia all'avvocato LUIGI BORSARI, del Commercio e dei Lavori Pubblici al conte IPPOLITO GAMBA, dell'Istruzione al CONTO CESARE ALBICINI, della Guerra al colonnello piemontese ENRICO FALICON. Aveva inoltre nominato commissario straordinario di Forlì il deputato piemontese ARA, di Ravenna il deputato piemontese marchese di RORÀ, di Ferrara il marchese MIGLIORATI, aveva istituito la Guardia nazionale, riordinato i comuni sulla base collettiva, aperto un prestito nazionale di sei milioni e rimesso in vigore i codici napoleonici.
Avendo ricevuto, dopo la pace di Villafranca, l'ordine di lasciare Bologna e concentrare in Lombardia tutte le truppe, il D'Azeglio, non volendo abbandonare quelle province, che avevano riposto fiducia in Vittorio Emanuele, all'anarchia e alle rappresaglie degli Svizzeri che stavano alla frontiera, disobbedì, lasciò in Bologna tremila uomini, altri settemila ne spedì al confine meridionale delle Romagne per fronteggiare i papalini, cedette i poteri al colonnello FALICON suo capo di Stato Maggiore, e il 19 luglio partì per Torino, dove quel giorno stesso (dopo le dimissioni di quello di Cavour) si costituiva il nuovo ministero con ALFONSO LA MARMORA alla presidenza del Consiglio e alla Guerra, URBANO RATTAZZI agli Interni, il generale GIUSEPPE DABORMIDA agli Esteri, G. B. OYTANA alle Finanze, il marchese MONTICELLI ai Lavori Pubblici, l'avvocato MIGLIETTI alla Grazia e Giustizia e il lombardo G. CASATI alla Pubblica Istruzione.
Poco tempo dopo anche il FALICON fu richiamato e il 2 agosto il consiglio del Governo nominò governatore generale LEONETTO CIPRIANI, corso di origine e amico di Napoleone III, il quale assunse l'ufficio il 6 agosto e convocò un'assemblea costituente che doveva decidere le sorti dello Stato.
Il FARINI a Modena, richiamato dal governo sardo, il 27 luglio dichiarò con un proclama alla città che abbandonava l'ufficio, ma restava a Modena come semplice cittadino. Poi il giorno dopo, pregato dai municipi, assunse la dittatura, affidò il ministero degli Interni a MASI, della Giustizia a CHIESI, delle Finanze a TERNI, dell'Istruzione a GRINELLI, dei Lavori Pubblici al TIRELLI, della Guerra al RIBOTTY, ingaggiò con denari la legione toscana del generale ULLOA che ritornava in patria e convocò il 14 agosto i comizi popolari per l'elezione di un'assemblea costituente, la quale doveva esprimere i suoi voti come dovevano essere le province modenesi rispetto all'ordinamento nazionale.

A Parma il FALLIERI mantenne la carica di commissario fino all'8 agosto, quindi cedette temporaneamente i pieni poteri all'avvocato GIUSEPPE MANFREDI. Questi il 14 agosto convocò i comizi popolari perché si pronunziassero sull'unione del Ducato al Regno di Sardegna, e il giorno dopo persuase il municipio di Parma ad unirsi a Modena sotto la dittatura politica e militare del FARINI, il quale accettò, delegando come proprio rappresentante delle province parmensi lo stesso Manfredi.

A Firenze, il 14 luglio, si adunò la Consulta di Stato, composta di quarantadue
membri e presieduta da GINO CAPPONI, che deliberò quanto segue:
"La Consulta, udite le comunicazioni del governo, persuasa che il ritorno della caduta dinastia, come qualunque altro assetto fosse contrario al sentimento nazionale, e sarebbe incompatibile al mantenimento dell'ordine in Toscana perché getterebbe in Italia il seme di nuovi sconvolgimenti, suppone che il governo:
1° - faccia i più premurosi, uffici presso S. M. l'Imperatore dei francesi e si adoperi anche presso le altre grandi potenze affinché nel determinare le sorti di questa parte d'Italia abbia riguardo alla libera manifestazione dei suoi voti;
2° - ponga in esecuzione la legge elettorale del 1848 perché questi voti siano legalmente manifestati da un'assemblea di rappresentanti del paese e ordini frattanto la formazione delle liste elettorali;
3° - rivolga a S. M. il re Vittorio Emanuele se gli piace conservare il protettorato della Toscana, anche dopo la conclusione della pace e fino all'ordinamento del paese".

Il governo sardo, per dimostrare che non voleva influire sulle deliberazioni che la Toscana avrebbe prese, il 21 luglio ordinò al BUONCOMPAGNI di ritornare a Torino.
Il Buoncompagni, ceduti i poteri al barone RICASOLI, lasciò Firenze il 3 agosto. Quattro giorni dopo ci furono le elezioni di 172 deputati (il doppio del numero stabilito nella legge del 1848), e il 10 agosto il Ricasoli strinse con Modena una lega con lo scopo di.
"respingere l'aggressione dei principi disertori per rientrare negli Stati, mantenere l'ordine contro qualunque turbamento, stabilire la massima dell'unità dei pesi e misure e della moneta sulla base decimale, e togliere ogni impedimento alla libera circolazione, fra Stato e Stato, delle merci e delle persone".
Inoltre la Toscana s'impegnava a dare un contingente militare di 10.000 uomini e Modena di 4.000; aderirono più tardi le Romagne fornendo 7.000 uomini e Parma 4.000.

L'11 agosto, nella sala dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, si riunì l'assemblea davanti alla quale il RICASOLI pronunciò il discorso inaugurale, dopo di che si procedette alla verifica dei poteri ed alla formazione degli uffici. Il 13 il marchese GINORI presentò una proposta tendente a dichiarare che la dinastia dei Lorena non poteva essere richiamata a regnare di nuovo sulla Toscana. La proposta, applaudita dall'assemblea e dal pubblico, fu inviata allo studio delle sezioni. Approvata fu una dichiarazione presentata da LEONARDO ROMANELLI, che diceva benemeriti del paese e dell'Italia gli attuali reggitori della Toscana.
Il 16 agosto riferì sulla proposta del Ginori il relatore FERDINANDO ANDREUCCI. La relazione, favorevole, fu calorosamente applaudita e messa ai voti approvata alla unanimità, per cui rimase sanzionato il seguente decreto: "

"Considerando che gli avvenimenti di più anni e i fatti maturati in questi ultimi mesi hanno dimostrato ed evidenziato quanto sia forte ed evidentemente radicato nei toscani il sentimento della nazionalità italiana e il proposito di costituirla ed assicurarla; considerando che questi sentimenti e questi propositi dimostrati in tanti modi, particolarmente con l'accorrere di volontari alla guerra dell'indipendenza, si sono manifestati con straordinario concorso e con mirabile unanimità anche nell'elezione dei deputati all'Assemblea, chiamati dovunque in conformità di questo principio; considerando che tutto ciò è stato fatto e si mantiene senza il minimo turbamento dell'ordine pubblico, e che la ferma volontà di conservarla è nell'animo di tutti; considerando che la Casa Austro-Lorenese imposta già dalla forza, benché poi sia stata un tempo benemerita per le riforme operate da alcuni dei saggi principi, abbia volontariamente spezzati vincoli che la legavano alla Toscana, e dopo la restaurazione del 12 aprile 1849 sottoposto il paese all'onta e al danno della occupazione straniera, abbia con i suoi atti e con le sue dichiarazioni indotto negli animi la certezza che dove anche professasse di ristabilire lo Statuto fondamentale che abolì, e di accettare la bandiera tricolore italiana che apertamente osteggiò, essa (Casa Austro-Lorenese) non potendo mai legare le sue sorti alla causa nazionale, non può nemmeno procurarsi la fiducia dei Toscani, né ottenere quella morale autorità che è fondamento necessario di ogni governo;.
L'Assemblea dichiara che la dinastia Austro-Lorenese, la quale il 27 aprile 1859 abbandonava la Toscana senza lasciarvi nessuna forma di governo e riparava nel campo nemico, si è resa assolutamente incompatibile con l'ordine e la felicità della Toscana; dichiara che non vi è modo alcuno che la dinastia possa ristabilirsi e conservarsi senza oltraggio alla dignità del paese e senza offesa ai sentimenti delle popolazioni; senza costante e inevitabile pericolo di vedere turbata incessantemente la pace pubblica e senza danno d'Italia; dichiara conseguentemente non potersi né richiamare né ricevere la dinastia Austro-Lorenese a regnare di nuovo sulla Toscana".

Nella medesima seduta fu presentata dal marchese GIROLAMO MAURI di Lucca, una proposta tendente a incorporare la Toscana in un forte regno italiano sotto lo scettro di Vittorio Emanuele. La proposta fu rinviata agli uffici, dove fu osteggiata soltanto da due deputati, GIUSEPPE MONTANELLI e DI LUPO PARRA, che invece sostennero la formazione di un regno dell'Italia Centrale.
La relazione, fatta da G. B. GIORGINI fu letta nella seduta del 20 agosto ed approvata dai 163 deputati presenti. Fu quindi data alla proposta Mauri forza di decreto:
"Coerentemente alle considerazioni e dichiarazioni espresse nella risoluzione dell'Assemblea del giorno 16 agosto corrente intorno alla dinastia Austro-Lorenese, dovendo l'Assemblea medesima provvedere alle sorti future del paese secondo i bisogni della nazionalità italiana, dichiara esser fermo voto della Toscana di far parte di un forte regno costituzionale sotto lo scettro del RE VITTORIO EMANUELE. Confida che il prode e leale Re, il quale tanto operò per l'Italia e protesse con particolare benevolenza il nostro paese, accoglierà questo voto. Raccomanda la causa della Toscana alla generosa protezione e all'alto senno dell'imperatore NAPOLEONE III, magnanimo difensore dell'italiana indipendenza; ripone speranza nella manifestata simpatia dell'Inghilterra, nella sapiente giustizia della Russia e della Prussia; infine incarica il governo di procurare l'adempimento di questo voto nei negoziati che avranno luogo per l'ordinamento delle cose italiane e di riferirne a suo tempo all'Assemblea".

MODENA

Nell'ex-ducato di Modena le elezioni dei 73 deputati avvennero il 14 agosto; il 16 il FARINI riunì l'assemblea, alla quale, dopo un magnifico discorso rassegnò i poteri, dopo di che, verificati i poteri e costituiti gli uffici, si nominò presidente GIUSEPPE MALMUSI. Il 19 il marchese FONTANELLI propose la decadenza della dinastia Austro-Estense. La proposta fu trasmessa agli uffici e il 20, dopo la lettura della relazione del deputato CARLO ZUCCHI, l'assemblea, con 72 voti su altrettanti votanti, dichiarò:
"la decadenza in perpetuo della dinastia d'Austria-Este, e l'esclusione in perpetuo dal governo di quelle province di qualsiasi principe della casa d'Absburgo-Lorena".
.
Nella stessa seduta il deputato BENEDETTO MARAMOTTI propose di decretare "l'annessione delle province modenesi al Regno monarchico costituzionale di casa Savoia sotto lo scettro di re Vittorio Emanuele II".
Rinviata agli uffici, il 21, dopo la relazione favorevole del deputato BARTOLUCCI, l'Assemblea approvò all'unanimità l'annessione al Regno Sardo e il 23 riconfermò al FARINI i poteri dittatoriali.

PARMA

A Parma, l'assemblea, composta di 62 rappresentanti, si riunì il 7 settembre. Due giorni dopo fu presentata dai deputati FIORUZZI e POMELLI la proposta di decadenza dei Borboni e l'11, dopo la lettura della relazione fatta dal Fioruzzi, cui era stato dato l'incarico di riferire, fu approvato all'unanimità. Quel giorno stesso, 17 deputati, fra cui GIUSEPPE VERDI, proposero l'annessione delle province parmensi al Regno di Sardegna, che il 12 fu approvata all'unanimità. Il 14 fu riconfermata al FARINI la dittatura.

ROMAGNE

Nelle Romagne le elezioni si svolsero il 28 agosto e furono eletti 124 deputati, che si riunirono in assemblea il 10 di settembre a Bologna. Inaugurò la seduta LEONETTO CIPRIANI e in un abile discorso espose le condizioni delle quattro province il ministro degli Interni ANTONIO MONTANARI. Il 3 fu eletto presidente MARCO MINGHETTI e dal deputato ALESSANDRINI fu presentata la proposta della decadenza del governo pontificio.
Passata la proposta agli uffici, fu nominato relatore il deputato PONTICELLI che il 6 settembre ne riferì all'assemblea, dalla quale la proposta fu approvata con 117 voti su 118 votanti. L' 8 settembre con 120 voti su 120 votanti fu approvata l'annessione della Romagna al Regno di Sardegna e il 10 furono riconfermati i poteri dittatoriali al CIPRIANI.

FIRENZE

Il 1° di settembre partì da Firenze una deputazione composta degli onorevoli GIORGINI, DELLA GHERARDESCA, ADAMI, RUSCHI, BORGHESI, incaricata di portare a Vittorio Emanuele i voti della Toscana. Il re a Torino il 3 settembre, senza ufficialità, con estrema cautela ricevette la delegazione, preoccupato delle ripercussioni internazionali di un'eventuale accettazione del voto di annessione; anche perché doveva tener conto dei dettami dell'armistizio di Villafranca in cui si stabiliva esplicitamente il ritorno dei principi sui troni dell'Italia centrale.
All'indirizzo letto dal conte UGOLINO DELLA GHERARDESCA, rispose:
"Io sono profondamente grato al voto dell'assemblea della Toscana, di cui voi siete gli interpreti verso di me. Vi ringrazio e con me ringraziano i miei popoli. Accolgo questo voto come una manifestazione solenne della volontà del popolo toscano che nel far cessare in quella terra, già madre della civiltà moderna, gli ultimi vestigi della signoria straniera, desidera contribuire alla costituzione di un forte regno che ponga l'Italia in grado di bastare alla difesa della propria indipendenza. L'assemblea toscana ha però compreso, e con lei comprenderà l'Italia tutta, che l'adempimento di questo voto non potrà effettuarsi che con il mezzo dei negoziati che avranno luogo per l'ordinamento delle cose italiane. Assecondando il vostro desiderio avvalorato dai diritti che mi sono conferiti dal vostro voto, appoggerò la causa della Toscana davanti a quelle potenze, in cui l'Assemblea con grande senno ripose le sue speranze, e soprattutto presso il generoso imperatore dei francesi che tanto operò per la nazione italiana. L' Europa non rifiuterà, io spero, di esercitare verso la Toscana quell'opera riparatrice che in circostanze meno favorevoli già esercitò in pro della Grecia, del Belgio e dei principati moldavo-valacchi. Mirabile esempio di temperanza e di concordia ha dato, o Signori, in questi ultimi tempi il vostro paese. A queste virtù che la scuola della sventura ha insegnato all'Italia, voi aggiungerete, sono certo, quella che vince le più ardue prove ed assicura il trionfo delle giuste imprese: la perseveranza".

Il medesimo linguaggio circospetto Vittorio Emanuele lo mantenne alle deputazioni modenese e parmense ricevute a Torino il 15 settembre. Molto abile fu la risposta del re all'indirizzo della deputazione romagnola, ricevuta a Monza il 24 settembre:
"Principe cattolico, serberò in ogni momento ed evento profonda ed inalterabile riverenza verso il supremo Gerarca della Chiesa. Principe italiano, debbo ricordare che l'Europa riconoscendo e proclamando che le condizioni del vostro paese ricercavano pronti ed efficaci provvedimenti, ha contratto con formali obbligazioni.
Accolgo pertanto i vostri voti, e forte del diritto che questi mi conferiscono, appoggerò la causa vostra davanti alle grandi potenze. Confidate nel loro senno e nella loro giustizia: confidate nel generoso patriottismo dell' Imperatore dei francesi che vorrà compiere quella grande opera di riparazione, alla quale pose sì potentemente la mano, e che gli ha assicurata la riconoscenza dell'Italia tutta. La moderazione che informò i propositi vostri nei più dolorosi momenti dell'incertezza, dimostra con l'irrefutabile prova dei fatti che nelle Romagne la sola speranza di un reggimento nazionale bastava a calmare le discordie civili.... Quando nei giorni della lotta nazionale mandavate numerosi i volontari, che mostrarono tanto valore sotto le mie bandiere, voi comprendevate che il Piemonte non combatteva per sé solo, ma, per la patria comune: ora, serbando unanimità di voleri e mantenendo incolume l'ordine interno, fate l'opera più grata al mio cuore: quella che può meglio assicurare il vostro avvenire. L' Europa sentirà che è comune dovere, come è comune interesse, di chiudere l'era dei sconvolgimenti italiani procurando soddisfazione ai legittimi voti dei, popoli".

Erano risposte, prudenti suggerite dalla difficile situazione politica, le quali, se, dai popoli dell'Italia centrale erano accolte con entusiasmo come se il re avesse accettata l'offerta della corona, dagli uomini politici d'azione non erano davvero lodate e servivano a fare aumentare il disagi, prodotti dall'incertezza sulle sorti future dei quattro stati.
Qui, se i più erano per l'annessione al Piemonte, non mancavano quelli che desideravano un regno dell'Italia Centrale (come il Montanelli in Toscana); e intanto il MAZZINI, che fin dal mese di luglio si trovava nella penisola, lavorava affinché il moto nazionale (repubblicano) si propagasse verso il Mezzogiorno e la Sicilia, e il GARIBALDI - il quale fin dai primi di agosto aveva avuto il comando in seconda dell'esercito della lega degli Stati Centrali, di cui capo supremo era stato nominato MANFREDO FANTI - si preparava ad invadere la Marche, da dove si proponeva di piombare nel Regno di Napoli a portarvi la guerra e la rivoluzione.

"I governanti dell'Italia centrale, - scrive il Gori - pur non osteggiando i concetti di GARIBALDI, studiavano per impedire uno scoppio prematuro, che mettesse in pericolo la sorte delle province centrali, e molto confidavano nell'autorità del Fanti per tenere a freno Garibaldi. Il Fanti però poco si curava di essere gradito a quei governi, specialmente a quello toscano e bolognese, cioè i più contrari alle intempestive imprese, e si mostrava più propenso ai propositi del Garibaldi, almeno per quanto riguardava le Manche e l'Umbria, dove si introducevano armi e si incoraggiava quasi allo scoperto l'insurrezione.
Non osava, tuttavia il FANTI far cosa che fosse poco gradito al re Piemontese, cercando di prender tempo, consigliando Garibaldi a non precipitare, ma solo tenersi pronto ad invadere gli Stati papali nel caso di un attacco delle truppe pontificie o l'insurrezione di Ancona o altre città importanti o di un'intera, regione.
Ma Garibaldi manifestava ogni giorno sempre di più l'insofferenza agli indugi ed era sempre più deciso a fare tutto da solo. Sembrava che il FARINI non lo contrariasse, anzi, era d'accordo con il FANTI ad incoraggiarlo a fare un'azione armata negli Stati papali.
Il CIPRIANI invece da Bologna tempestava il governo toscano alla calma, minacciando perfino di sciogliersi dalla lega perché vedeva in un'invasione nello Stato Pontificio una sfida diretta all'imperatore francese (e a quanto pare, per come andranno a finire poi le cose, non sbagliava)
Da Torino invitarono il Fanti di dare le dimissioni e rientrare a Torino, e di "suggerire" a Garibaldi di fare la stessa cosa; e se non accettava di lasciargli ogni responsabilità. Così Torino si copriva togliendo ufficialmente "un" generale dall'esercito regolare sabaudo, e nello stesso tempo creava "un" capo rivoluzionario e gli permetteva di agire a suo rischio e pericolo senza avere nessuna responsabilità se andava male (di coglierne però i frutti se invece andava bene).

Il momento era grave per la compattezza della lega. Per allontanare i pericoli che la situazione presentava, RICASOLI, FERINI, CIPRIANI giunsero alla determinazione di offrire la reggenza dell'Italia centrale al PRINCIPE EUGENIO di Carignano che il 6 e il 7 novembre le assemblee degli ex-ducati, delle Romagne e della Toscana eleggevano, reggente perché governasse quelle province in nome di Vittorio Emanuele. E questo alla vigilia di Zurigo.

Il 10 novembre a Zurigo si firmava il trattato di pace tra la Francia, l'Austria e la Sardegna.
In verità le due Potenze ignorarono del tutto i Sabaudi. Questi dovevano solo leggere e basta. Attenersi solo alle disposizioni già contemplate.
L'Austria all'inizio, aveva posto perfino il veto alla partecipazione del Regno di Sardegna (lo abbiamo già letto quanto poca considerazione aveva Francesco Giuseppe per gli italiani e soprattutto per Cavour) ma Napoleone III riuscì a fare ammettere anche i plenipotenziari del regno sabaudo. Che però non potevano intervenire, decidere nulla, e nulla ribattere. Sul tavolo restava in evidenza quello che aveva firmato Vittorio Emanuele a Villafranca. Altro non potevano dire, né fare, ecco perché era perfino superflua la loro presenza.
Tutto era già stato stabilito dai due imperatori.
Dei tre Stati, rappresentavano la Francia il Conte BOURQUENEY e il March. di BANNEVILLE, l'Austria il Barone di MEYSEMBUG e il Conte KAROLY, il Piemonte il Cav. DESAMBROIS. Questi doveva chiedere che le fortezze di Mantova e Peschiera restassero unite alla Lombardia; e che questa non passasse al Piemonte alcuna parte del debito austriaco; che fosse rispettato il così detto voto delle popolazioni dell'Italia centrale; alla Sardegna spettasse la direzione militare e diplomatica nella Confederazione Italiana; al Re di Sardegna restituita la Corona di ferro: tali erano le istruzioni sabaude date al Desambrois.
Non ottenne nulla e l'8 agosto, l'inviato sardo si astenne dall'intervenire alla conferenza che proseguì con i due plenipotenziari francesi ed austriaci; e questi stabilirono la cessione della Lombardia, che l'Austria cedeva alla Francia, dalle mani della quale doveva poi riceverla il Piemonte. Soli i plenipotenziari di Francia e d'Austria dovevano pattuirsi la cessione, e, fatto l'accordo tra i due Imperi, il Piemonte era solo libero di accettare o rifiutare dalla Francia il "dono" della Lombardia.

(vedi l'intero trattato di ZURIGO qui > > >


Intanto il CIPRIANI, designato come principale sostenitore della reggenza del principe Napoleone, abbandonava la dittatura delle Romagne, la cui assemblea chiamava al suo posto il FERINI. Questi, divenuto dittatore di tutta l'Emilia, compose un governo con rappresentanti dei tre Stati, affidando i Lavori Pubblici a PIETRO TORRIGIANI, parmense, la Grazia e Giustizia, a LUIGI CHIESI, reggiano, gli Interni a CARLO MAYR, ferrarese, le Finanze al bolognese GIOACCHINO PEPOLI e l'Istruzione ad ANTONIO MONTANARI di Meldola.
Nel frattempo l'elezione del reggente teneva in imbarazzo il governo sardo perché Napoleone III si era mostrato recisamente contrario alla reggenza, cui invece erano favorevoli l'Inghilterra, la Russia e la Prussia, e perché non si poteva respingere il voto
delle assemblee centrali.
Infine il gabinetto sardo ricorse all'abile ripiego d'impedire che il Carignano andasse ad assumere l'ufficio e d'indurre il principe ad affidare la reggenza al Buoncompagni. Si oppose energicamente il RICASOLI e dopo varie trattative fu stabilito di conferire al BUONCOMPAGNI la carica e il titolo di governatore generale della lega degli Stati centrali per mantenere le buone relazioni tra il governo di Vittorio Emanuele e quelli dell'Emilia e della Toscana.

Risolta la questione della reggenza, si aspettava che un congresso europeo, il quale doveva riunirsi a Parigi nei primi del 1860, decidesse la sorti degli Stati dell'Italia centrale. Ma al congresso era segretamente contrario NAPOLEONE III, il quale era sicuro che sarebbe stato ostacolato nei suoi desideri. Egli infatti, bramava che il regno di Sardegna cedesse alla Francia le province di Nizza e Savoia e solo a questa condizione non si sarebbe opposto all'annessione al Piemonte degli Stati centrali.
Mosso dal proposito di mandare a monte il congresso, Napoleone III ispirò al De La GUERRONIÈRE un opuscolo, "Le Pape et le congrès", pubblicato a Parigi il 22 dicembre del 1859.
L'Autore sosteneva la "necessità del dominio temporale, ma era d'avviso che nessun bisogno c'era che lo stato Pontificio fosse troppo vasto; inoltre si sforzava di provare che la perdita delle Romagne favoriva l'indipendenza del Pontefice. Del resto le popolazioni di quelle province, oramai separate di fatto, non potevano esser costrette a tornare sotto l'obbedienza pontificia: né il "governo paterno" del Papa sarebbe ricorso alla forza, né la Francia avrebbe prestato le sue armi a questi scopi, né avrebbe permesso l'intervento armato dell'Austria o del Re di Napoli. Un solo intervento sarebbe stato legittimo: quello dell'intera Europa riunita a congresso. Come il congresso di Vienna del 1815 aveva dato le Romagne al Pontefice così il prossimo congresso di Parigi con lo stesso diritto avrebbe potuto toglierle".

Il Pontefice definì l'opuscolo "un monumento iniquo d' ipocrisia ed un ignobile quadro di contraddizioni" e ad una lettera di Napoleone III che lo scongiurava di fare sacrificio delle Romagne rispose con un netto rifiuto, cui fece seguire un' enciclica nella quale dichiarava categoricamente che non gli era possibile concedere nessuna parte del territorio ecclesiastico.
Così tramontò l'idea del Congresso, del quale non si parlò infatti più, specialmente dopo che l'Inghilterra propose e Napoleone III accettò:
1° che Francia ed Austria rinunziassero ad intervenire negli affari interni d' Italia a meno che non fossero chiamate per l'unanime consenso delle grandi potenze;
2° che il Re di Sardegna fosse invitato dai governi inglese e francese a non mandare milizie nell'Italia centrale fino a che quegli Stati e Province non avessero, con un altro voto delle loro assemblee rinnovate con nuova elezioni, dichiarato solennemente la loro volontà; e se queste assemblee deliberassero un'altra volta l'annessione, la Francia e l'Inghilterra non si opponessero più all'entrata delle milizie sarde.
Erano a questo punto le cose quando a distanza di meno di quindici giorni ci furono a Parigi le dimissioni del WALEWSKY e a Torino quelle del Ministero LA MARMORA-RATTAZZI.
Erano, questi, avvenimenti che agevolavano grandemente la soluzione della questione dell'Italia centrale, perché Walewsky, favorevole alle restaurazioni nella penisola, succedeva (1 gennaio 1850) il THOUVENEL, più benevolo verso l'Italia, e perché al La Marmora, privo della necessaria energia per risolvere con l'annessione il problema degli Stati Centrali, succedeva e ritornava (20 gennaio) il Cavour, dotato di mente e di polso ben diverso.

CAVOUR nei primi giorni dopo Villafranca, rimase oppresso dal dolore nel vedere crollare tutto il suo intero edificio messo su mattone per mattone in dieci anni. Ma dopo quindici giorni dal dramma, rientrato nella calma, già si era pentito di aver perso il dominio di sé e di aver scavato un abisso tra il Re e l'Imperatore francese. Si era precluso il potere e ora non poteva dominare né più imprimere agli avvenimenti l'impronta della sua volontà. Si era ritirato a Pallanza sul lago Maggiore, ma presto incominciò a rendere dura e difficile la vita ai due suoi sostituti. Iniziò aspre critiche private e pubbliche, creando attorno malcontento, come a voler costringere i due a cedergli il posto, o per mettere il Re nella necessità di richiamarlo.
Cavour da "fuori" seguitava a dare consigli a destra e a manca, assicurando sì appoggio "in tutto e per tutto", ma poi faceva riserve che svalutavano spesso le sue affermazioni, alcune volte perfino contraddittorie. Mascherava insomma la decisa sua ostilità verso tutti: "come ministro RATTAZZI mi avrà tra i suoi seguaci; ma come uomo riservo la mia piena libertà d'azione". Più ambiguo di così!
Ricordiamoci che il Rattazzi - in aprile, prima del conflitto- aveva assunto la difesa dell'amante del Re (la "Rosina", che il Conte odiava, ritenendola una mala femmina che concupiva e disonorava il re), dichiarando che l'attacco di Cavour al sovrano era un'azione indegna, immorale. I rapporti quindi di Cavour erano ancora molto tesi sia con il Rattazzi che con il Re ancora su queste cose, fino al punto che si andava affermando che non era dovuto il suo allontanamento (a Villafranca) per questioni di vedute politiche ma per questioni personali.

Tutto questo su Rattazzi; ma l'altro, il La Marmora era un uomo di Cavour! l'aveva spinto proprio lui ad accettare l'incarico per servirsene al momento opportuno contro il Re. Il Rattazzi invece, anche se intenzionato a non cedere alle intimidazioni, era comunque a disagio in un ministero prevalentemente formato da elementi cavouriani, che non ascoltavano lui, ma ascoltavano il "loro capo" che... era "fuori".

Né dobbiamo dimenticare che tutti i capi dei governi provvisori dell'Italia centrale (delusi come Cavour, che ora in base all'accordo di Villafranca dovevano sciogliersi) erano anche questi uomini di Cavour, e si rivolgevano sempre e solo a lui e non agli uomini di governo. Anzi a questi ultimi lanciavano le accuse di essere stati deboli, di aver abbandonato la lotta per l'unità, di averli traditi, loro e insieme tutti gli italiani. Paradossalmente dentro i cavouriani ricompariva l'influsso mazziniano, sfruttandolo però a proprio favore. La guerra era finita com'era finita con l'Austria, ma il risorgimento politico e morale delle popolazioni non era mica finito, né era stato risolto con un indirizzo più democratico (più liberale) la politica interna. Bisognava riprendere la lotta per l'unità d'Italia, e per praticarla invocavano il ritorno al potere del loro capo: il ritorno di Cavour, unico uomo ad esserne capace.
Cavour sapendo di avere tanti alleati, iniziò ad attaccare, cercando di far mutare rotta al governo, che stava andando con i rattazziani a Sinistra, accusando perfino lo stesso La Marmora di intrigare con loro.
Fra questi alleati c'erano pure gli inglesi, che ne parlavano male, ma "filibustieri" com'erano, lo ammiravano e scrivevano al Re di rimetterlo al governo affermando "abbiamo bisogno di un uomo su cui poter contare, che conosca bene la situazione e che abbia molto coraggio morale. Questo uomo è Cavour; se ne cercherebbe invano un altro" (Francesco Cognasso, Vittorio Emanuele II, Utet, To 1942, pag. 178).
(Ovviamente gli inglesi pensavano all'Unità, ma non intendevano, annettere al Regno di Sardegna anche la Sicilia. Dopo ci rimasero piuttosto male - ne riparleremo).

RITORNO DEL CAVOUR AL GOVERNO

Il 16 gennaio 1869, si dimette il governo LA MARMORA-RATTAZZI, e nonostante le proprie resistenze personali è costretto a richiamare CAVOUR per la costituzione del nuovo governo.
Riacquistato il potere, Cavour compose il nuovo ministero, prendendo per sé la presidenza, gli Esteri e l'interim degli Interni (da lui riservato al Farini) e affidando all'avvocato G. B. CASSINIS la Grazia e Giustizia, al generale MANFREDO FANTI la Guerra e Marina, all'avvocato SAVERIO VEGEZZI le Finanze, a TERENZIO MAMIANI l'Istruzione e a STEFANO JACINI i Lavori Pubblici. Mettendo nel ministero un lombardo (Jacini), un modenese (Fanti), un marchigiano (Mamiani) e serbando gli Interni ad un romagnolo (Farini), il Cavour continuava schiettamente la sua politica nazionale.

A rovinare un po' la festa di Cavour fu Napoleone III. Rispondendo con molto ritardo agli auguri del Re, l'imperatore francese metteva chiaramente in avanti la questione Nizza-Savoia. Più che avanzare una pretesa (legittima perché sancita nel trattato di Villafranca e Zurigo, ma finora dai Piemontesi disatteso) Napoleone usa la stessa arma che vuole usare Cavour: "lasciare alla Savoia ed a Nizza la stessa libertà di voto che si vuole offrire alle regioni italiane per decidere il loro avvenire". Sembra un ricatto, perché Napoleone aggiunge che rinuncia ad ogni ingerenza negli Stati italiani dell'Italia centrale le cui popolazioni esprimeranno con il voto l'annessione al Regno sabaudo, escludendo però la Toscana che avrebbe dovuto formare uno Stato indipendente; inoltre evita di pronunciarsi sulla Romagna (per non mettersi contro il Papa)

Napoleone III in effetti era difficoltà in Francia, perché non aveva ancora ottenuto l'annessione di Nizza e della Savoia prevista dagli accordi ed era in imbarazzo nel giustificare di fronte all'opinione pubblica francese la partecipazione al conflitto in Italia, non avendo la Francia ottenuto finora alcun vantaggio; mentre i Savoia stavano facendo man bassa di consensi e di territori. Non era questo pericoloso per la stessa Francia? si chiesero molti francesi.
Del resto La-Marmora- Rattazzi e il Re (ma la mano di Cavour ci doveva essere) indugiavano a rispettare i patti con una teoria singolare; a Plombieres si era sì parlato di Nizza e Savoia, ma solo se si arrivava vittoriosi fino a Venezia e non a Peschiera. Quindi Nizza e la Savoia valevano il Veneto perso (Ma sembra che a suggerire tutto questo fu Londra; Hudson, sulla stessa lunghezza d'onda cavouriana).
Cavour che stava già predisponendo per l'11 e 12 marzo i plebisciti in Romagna e in Toscana, informato dal suo sovrano, dà subito istruzioni più svigorite ai governatori, poi fa telegrafare al Re il 3 febbraio che il suo governo non "avrebbe fatto opposizione alla libera manifestazione dei voti della Savoia e di Nizza". Inoltre, acconsente anche alla richiesta venutagli da Parigi, di sostituire il rigido ministro Des Ambrosis con il più sottomesso Nigra. E non è da escludere l'invito a non pregiudicare la situazione con attacchi agli Stati limitrofi.
Così cadeva la politica cavouriana di resistenza dei mesi precedenti sulla famosa questione Nizza-Savoia. Forti critiche dell'opposizione della destra conservatrice e della sinistra non si fecero attendere: "è un ignobile mercato", "un vero e proprio asservimento del governo cavouriano alla Francia". Anche la stessa Londra espresse i suoi malumori. Più infuriato di tutti GIUSEPPE GARIBALDI, perché Nizza oltre che essere la sua città natale, proprio a Nizza era stato eletto deputato.

Poiché non era facile vincere l'opposizione di Napoleone III e della Francia all'annessione dell'Italia centrale senza la cessione di Nizza e della Savoia, il Cavour acconsentì al sacrificio. Dopo molte tergiversazioni, le trattative si conclusero il 12 marzo con la firma di un trattato segreto in cui Vittorio Emanuele s'impegnava a cedere le due province, riservandosi d'accordo con l'imperatore, d'interrogare la volontà delle popolazioni e di sottoporre il trattato all'approvazione del Parlamento.
Cavour poteva sfuggire a quest'imposizione? No. Poteva avere qualche esitazione? Neppure. Esistevano pericoli? Non sembra. La Francia non avrebbe mai osato scatenare una guerra per la questione; gli altri Stati non lo avrebbero permesso.
Cavour ora voleva solo affrettare i tempi delle annessioni, creare con i legali plebisciti subito l'Unione. E una volta creata l'Italia il suo avvenire non poteva essere più turbato da perenni ostilità della Francia o dalle inimicizie dell'Austria. Per arrivarci in fretta Cavour contribuì perfino a far vincere i Francesi a Nizza. Paradossalmente a Parigi (pur avendola richiesta) quasi non si voleva la votazione per il timore di uno scacco, e il Conte stesso preoccupato della persistenza della tendenza antifrancese nella città italianissima, scrisse il 27 marzo a Nigra "...bisogna assicurare, con misure abili, il successo del voto a favore della Francia". E quando a Nizza arrivò il ministro di polizia di Napoleone III per "convincere" l'opinione pubblica a votare per la Francia, Cavour ne fu lietissimo [....] Nella lotta tra il Cavour ed il Garibaldi, furibondo perché rimaneva senza patria, il Re (sollecitato da Cavour? é verosimile perché il Re non aveva proprio gradito questa cessione) intervenne per calmare il Generale e convincerlo a non comparire a Nizza, come intendeva fare Garibaldi, perché la questione non si aggravasse" (Francesco Cognasso, Vittorio Emanuele II, Utet, To 1942, pag. 196)
(su questo plebiscito ne riparliamo più avanti)

I PLEBISCITI E LE ANNESSIONI
CESSIONE DI NIZZA E DELLA SAVOIA ALLA FRANCIA

Il giorno medesimo - 12 marzo- mentre si firmavano i preliminari per la cessione di Nizza e Savoia, si chiudeva la votazione plebiscitaria in Emilia e in Toscana per l'annessione al Regno Sabaudo, cominciata l'11.
Alle votazioni furono chiamati tutti i cittadini che avevano compiuto i 21 anni e godevano i diritti civili, e che dovevano dare il voto segreto con questa formula: "Unione alla monarchia costituzionale del Re Vittorio Emanuele", oppure "Regno separato".
L'esito del plebiscito, proclamato il 15 marzo fu il seguente Toscana: per l'unione 366.571. per Regno separato 14.925, voti nulli 4949; Emilia per l'Unione 426.006, per Regno- separato 756, voti nulli 750.

Il 18 marzo il FARINI presentò i risultati del plebiscito emiliano al Re, il quale rispose:
"Accetto il solenne loro voto, e d'ora innanzi mi glorierò di chiamarli miei popoli.
Aggregando alla monarchia costituzionale di Sardegna e pareggiando alle altre province non solo gli Stati modenesi e parmensi, ma anche le Romagne, che già si erano da sole separate dalla signoria pontificia, io non intendo di venir meno a quella devozione verso il Capo venerabile della Chiesa, che fu e sarà sempre viva nell'animo mio. Come principe cattolico e come principe italiano io sono pronto a difendere l'indipendenza necessaria al supremo ministero di Lui, e contribuire allo splendore della sua corte e a portare omaggio alla sua alta sovranità. Il Parlamento sta per adunarsi. Questo accogliendo nel suo serio i rappresentanti dell'Italia centrale insieme con quelli del Piemonte e della Lombardia, assoderà il nuovo regno e ne assicurerà la prosperità, la libertà e l'indipendenza".

Quel giorno stesso fu pubblicato il decreto d'annessione dell'Emilia che fu annunziato al popolo della capitale del Nuovo regno Torino con centouno colpi di cannone.
Il 22 marzo fu presentato dal RICASOLI il risultato del plebiscito toscano, che il re accettò con parole simili a quelle usate per l'accettazione dell'altro plebiscito; aggiunse però:
"Il Parlamento, nel quale i rappresentanti della Toscana siederanno accanto a quelli del Piemonte, della Lombardia e dell'Emilia, informerà, io non ne dubito, tutte le leggi al principio fecondo della libertà, la quale assicurerà alla Toscana i benefici della autonomia amministrativa, senza affievolire, anzi rassodando quell'intima comunanza di forze e di voleri, che è la guarentigia più efficace della prosperità e indipendenza della patria".

Quel giorno usci il decreto d'annessione della Toscana e il RICASOLI, come già prima il Farini, fu festeggiato dal popolo torinese.
Con decreto del 23 marzo il principe EUGENIO di Carignano fu nominato luogotenente del re in Toscana e il RICASOLI governatore.
Il 24 marzo il FARINI fu nominato ministro dell'Interno e il 25, mentre in tutta la monarchia si riunivano i consigli elettorali politici (per le elezioni politiche generali), Vittorio Emanuele rivolse ai popoli dell'Italia centrale il seguente proclama:
"I vostri voti sono soddisfatti, voi siete uniti con gli altri miei popoli in una sola monarchia; questo premio hanno meritato la vostra concordia e la perseveranza. Grande beneficio è questo per la nostra patria e per la civiltà. Ma perché se ne colga ogni migliore frutto è necessario il perdurare ancora nella virtù, di cui avete dato mirabile esempio, e soprattutto è necessaria la ferma volontà di sacrificio, senza la quale male si compiono, e male si assicurano le grandi imprese. Io pongo in voi quella fede, che non invano avete posta in me. Il patto indissolubile che ci lega, è patto d'onore verso la patria comune e la civiltà universale. Io non ebbi in passato altra ambizione che quella di porre a cimento la vita per l'indipendenza d' Italia, e di dare ai popoli l'esempio della, lealtà per cui ristorandosi la pubblica morale, si dà con la libertà saldo fondamento agli Stati. Ora ho l'ambizione di procacciare a me ed alla mia famiglia dai popoli nuovamente uniti quella devota affezione per cui vanno celebrati i subalpini; ambisco di fortificare gl'Italiani nell'unanimità di quei nobili sentimenti per i quali si forma il forte temperamento dei popoli, che sa provare l'avversa e preparare la buona fortuna".

Il 24 marzo si ratificava il trattato della cessione di Nizza e della Savoia e il 25 si svolgevano le elezioni politiche generali, alle quali parteciparono anche le popolazioni dei territori annessi al nuovo regno.
CAVOUR con le elezioni si assicura una forte maggioranza parlamentare, ma si forma anche un'agguerrita pattuglia di democratici; fra i nomi di spicco al primo posto GIUSEPPE GARIBALDI, seguito da CARLO CATTANEO (convinto federalista, eletto più volte deputato, non andò mai in Parlamento per non prestare giuramento alla corona); GIUSEPPE FERRARI (anche lui tenace federalista, di sinistra, ma piuttosto isolato); FRANCESCO CRISPI allontanatosi gradatamente da Mazzini, inizia a aderire al regime sabaudo, fino a sostenere "la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe" pur rimanendo nelle file della sinistra; poi il dichiarato "nemico personale" di Cavour, URBANO RATTAZZI che fino all'ultimo voto contese la presidenza della Camera all'uomo del Conte, GIOVANNI LANZA.
RATTAZZI sfruttando lo sdegno di Garibaldi contro il Cavour per la questione di Nizza, cercò di sollecitarlo a riprendere in considerazione l'impresa antiborbonica, ora anche antimonarchica, visto che il Re è palesemente schierato con Cavour, quindi anche lui "servo" francese. CRISPI (che caldeggia la spedizione) si è già incontrato a Londra con Mazzini, cerca di intendersi con i democratici piemontesi, e ovviamente la sua grande speranza è proprio GARIBALDI, che però tentenna perché ora ha rapporti cordiali e anche impegni con il Re (!?). La trama (e l'impresa) rivoluzionaria era sempre quella, soltanto che ora GARIBALDI voleva adottare come grido di guerra solo: Italia e Vittorio Emanuele Re (del resto anche Mazzini il 3 0ttobre DEL'59, aveva non gridato, ma scritto lo stesso slogan
con una lettera al Re, e l'articolo sul "Diritto"
(vedi *** LETTERE DI MAZZINI (così poco repubblicano)


L'inaugurazione della Prima Legislatura del Parlamento italiano fu fatta il 2 aprile del 1860 con un importante discorso di Vittorio Emanuele, che terminò dicendo che
" l'Italia, non è più quella dei Romani, né quella del medioevo, non deve essere più il campo aperto alle ambizioni straniere, ma deve essere bensì l'Italia degli Italiani".

Il 6 aprile, alla Camera, GARIBALDI chiese di interpellare il Ministero sulla cessione di Nizza e della Savoia. Il 12 pose la sua interpellanza, sostenendo che la cessione di Nizza violava i patti con cui quella città si era data alla dinastia sabauda e pregiudicava la fama della monarchia e la sicurezza del Regno e reclamando che prima dell'approvazione del trattato da parte del Parlamento non si procedesse al plebiscito nizzardo e savoiardo indetto di lì a tre giorni, cioè per il 15 e 22 aprile.
La discussione invece fu rimandata a plebiscito ultimato; che nella Savoia diede poi 130.538 voti per l'annessione alla Francia e 235 contrari e a Nizza 24.448 contro 160, risultati, questi ultimi di Nizza, ottenuti con ogni mezzo illegittimo e contrastanti alla vera volontà della popolazione, che si sentiva e voleva rimanere italiana (ne abbiamo già parlato sopra).

Torniamo al 15 aprile; i lavori parlamentari, dopo l'approvazione dei decreti per l'annessione dell'Emilia e della Toscana, furono sospesi fino al 4 maggio per dare agio ai deputati di accompagnare il re nel suo viaggio nelle nuove province. Solo il 24 maggio cominciò la discussione del trattato del 24 marzo con la Francia, specialmente della parte che concerneva Nizza, discussione che durò fino al 29 maggio alla quale presero parte numerosi deputati, fra cui degni di nota il RATTAZZI, il GUERRAZZI e il CAVOUR.
Il GUERRAZZI terminò il suo discorso enumerando i motivi per cui non votava il trattato:

"1°- Non lo voto perché inviato al Parlamento italiano per operare quanto mi è dato a unire in un corpo solo l'Italia., diventerei mandatario infedele e mancherei di coscienza se con il primo voto cominciassi ad approvare il taglio di un pezzo nobilissimo della mia patria.
2° - Non lo voto perché la Toscana e l'Emilia annesse al Piemonte non crescono l'Italia, mentre con la perdita di Nizza rimarrà in perpetuo manomessa l'Italia.
3° - Lo voto perché credo e farei torto alla generosa Francia a credere che questa volesse sottoporci a queste forche caudine.
4° - Non lo voto perché questa necessità non fu dimostrata, né fu chiarito se è stato fatto quanto era debito fare un Ministero che si vanta italiano per evitarla; né salva opporre che la discretezza vieta palesare le cause della necessità, perché, dopo avere affermato che bisogna piegare il capo alla prepotenza, che cosa si può dire di peggio noi non sappiamo.
5° - Non voto perché potendo scindersi il trattato, per riverenza alle nazionalità, gran parte della Savoia, ricorrendo certe contingenze, avrei ceduto. Nizza invece non l'avrei ceduta mai.
6° - Voto perché mi sono sicuri i vantaggi presenti, né chiari gli avvenire, memore del proverbio: "palabras y plumas el vento las lieva".
7° - Non voto perché la votazione calpesta la legalità, santa custode del diritto.
8° - Non voto perché con questo trattato aborro mettere in mano all'amico un'arma per cui più tardi crescendogli il sospetto, aumenti nelle pretese di volersi assicurare, e al nemico un pretesto di fermarsi in qualche parte d'Italia con la ragione di bilanciare la potenza francese.
Non voto perché, mentre G. Garibaldi mette allo sbaraglio la vita per conquistarci con la spada la patria, mi pare delitto levargli con il mio voto la sua (I Nizzardi avevano eletto deputato Garibaldi - Ndr)
10 - Non voto perché, depositando il voto nell'urna, mi parrebbe conficcare un chiodo nella bara dell'unità italiana. No; non possiamo unire l'Italia, tolga Dio che per noi non vada divisa. Per seppellire i morti si chiamano i becchini, non i liberi italiani nel primo Parlamento italiano".

Il RATTAZZI sostenne che il sacrificio di Nizza si sarebbe potuto evitare facendo le annessioni lo stesso, e propose alla Camera di astenersi in modo che i soli voti dei ministri, e dei fautori del trattato dessero a questo la veste legale che non aveva, ed espresse la speranza che i deputati delle nuove province non avrebbero con il loro voto sanzionato la cacciata di coloro che non risparmiarono né sangue, né sacrifici per l'unificazione d'Italia.

Il CAVOUR pronunziò pure lui un discorso notevole; confutò gli oratori contrari al trattato, difese la sua politica di cui a larghe linee fece la storia e sostenne l'utilità dell'alleanza con la Francia. Volle anche "dimostrare la non italianità di Nizza"; ma questa parte fu forse il punto più debole del discorso perché furono messo in campo ragioni per nulla plausibili, a volte persino puerili e alle quali lo stesso Cavour sicuramente non credeva.

Il 29 maggio, la Camera approvò il trattato con 225 voti, 33 contrari e 23 astenuti. Al Senato la discussione avvenne tra l'8 e il 10 giugno e vi presero parte parecchi oratori. Commosse molto il discorso dell'ex ministro nizzardo GIOVANNI DE FORESTA che, pur rassegnandosi al doloroso sacrificio, si ribellò fieramente all'idea di chi considerava Nizza non italiana.
"Io vorrei pertanto, o signori, che si abbandonasse l'argomento dell'esclusione e del dubbio della nazionalità di Nizza, che per me rende il trattato tanto più doloroso. Non vorrei che si sostenesse oggi una tesi, che vi obbligherà domani a dire che Garibaldi non era italiano, che quella città che con il suo coraggio, con la sua fedeltà, con la sua costanza salvava già la monarchia sabauda non era città italiana .... Cedete se inesorabile necessità vi obbligano a questo doloroso sacrificio, cedete il territorio Nizzardo, ma non cedete le sue tradizioni, i suoi fasti, le sue glorie, che sono pur glorie nostre, perché sono glorie italiane. Signori, io qui pongo termine alle mie spiegazioni e, come ho detto, sia carità di patria, sia dignità personale mi obbligano a deporre contrario il mio voto all'urna. Io non mi lusingo di avere nella medesima molti voti uguali al mio. Fra pochi giorni il trattato sarà dunque ratificato. Nizza, la città fedelissima, sarà una città francese; io però non cesserò di essere italiano e con voi farò voti che, come già una volta, la fedeltà, il coraggio e la costanza di Nizza salvò la dinastia sabauda, ora il di lei sacrificio serva a condurla agli alti e finali suoi destini e al pieno trionfo della causa italiana".

La cessione di Nizza fu approvata dal Senato con 92 voti contro 10.
Il 10 giugno del 1860 il grande sacrificio fu compiuto. La magnanima e generosa Francia era stata pagata, con interessi da turpe strozzino, dell'aiuto mal volentieri e non interamente prestatoci nel 1859. Però, nonostante la notifica del primo parlamento italiano, la cessione di Nizza rimase sempre un conto aperto tra l'Italia e la Francia, forse perché le eterne leggi dell'umanità non ammettono che si sacrifichi la nazionalità d'un popolo con un baratto incivile. La questione Nizza tornerà sul tavole delle diplomazie più volte nei successivi anni; la prima (in un modo subdolo) nel 1870; l'ultima quando nel 1940 Mussolini invase la Francia.

Terminiamo qui la situazione nell'Italia Centrale e Settentrionale
in questo anno 1859, traboccante di avvenimenti
Ma nell'Italia meridionale nello stesso anno, proprio mentre l'esercito piemontese era impegnato nella sua prima battaglia a Montebello�
il 22 maggio a Caserta moriva FERDINANDO II, creando subito fermenti;
esplode la rivoluzione in Sicilia; mentre in altri ambienti
iniziano i preparativi per una spedizione sull'Isola.
Siamo alla vigilia di grandi avvenimenti nel Sud d'Italia.
è il periodo che va dall'anno 1859 al 1860

 

anno 1860 - Atto Primo > > >

 

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