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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1849-1854

LA DURA REAZIONE A ROMA - SICILIA - TOSCANA - PARMA-MODENA
GIUSEPPE MAZZINI e L' "ITALIA DEL POPOLO"
( Anno 1849 - Atto Sesto )

GIUSEPPE MAZZINI, LA SOCIETÀ EDITRICE DELL' UNIONE E L' "ITALIA DEL POPOLO" - IL COMITATO NAZIONALE ITALIANO - IL GOVERNO DEI TRIUMVIRI ROSSI - IL MOTUPROPRIO PAPALE DEL 12 SETTEMBRE 1849 - LE CONDIZIONI DELLO STATO PONTIFICIO - RITORNO A ROMA DI PIO IX - I PROCESSI ROMANI - LA REAZIONE NEL REGNO DELLE DUE SICILIE - IL PROCESSO DELLA "SETTA DELL' UNITÀ ITALIANA" - LE LETTERE DI LORD GLADSTONE - IL PROCESSO PER I FATTI DEL 15 MAGGIO 1848; ALTRI PROCESSI - GOVERNO DEL GENERALE FILANGIERI IN SICILIA; CONGIURE, INSURREZIONI E PROCESSI NELL'ISOLA - SOSPENSIONE DELLO STATUTO IN TOSCANA - ATTI REAZIONARI DI LEOPOLDO II - ABOLIZIONE DELLO STATUTO - IL DUCATO DI MODENA: GOVERNO DI FRANCESCO V - II DUCATO DI PARMA: GOVERNO REAZIONARIO ED UCCISIONE DI CARLO III
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GIUSEPPE MAZZINI
LA SOCIETA EDITRICE DELL' UNIONE E L' "ITALIA DEL POPOLO"


Dopo Venezia, dopo Roma, dopo Milano, dopo Napoli e altre città dopo la ritornata arroganza degli austriaci su quasi tutta Italia ci fu l'indignata "Reazione" della popolazione italiana. E non solo di quella che era stata bollata "assassini", "felloni", e dei "senza senno e senza nome"; questa volta l'indignazione, soprattutto quando iniziarono a circolare le notizie delle repressioni, dei processi, delle condanne, per la prima volta toccò profondamente anche il popolo minuto. Le pagine della storia non scritta, ma fatta solo verbalmente, si riempiva di storie eroiche, che non erano solo compiute da "felloni"; ma da gente comune, e perfino da ragazzini, da donne madri, sorelle, spose.
Ma anche quella scritta, per merito di ATTO VANNUCCI (di cui abbiamo citato molte pagine in questa storia) gli italiani d'ogni ceto la leggevano come "esercizio di preparazione spirituale". I suoi primi saggi dei "Martiri della Libertà dal 1794 al 1847" cominciarono a uscire su "l'Alba" nel 1847, ed erano i presagi dei due anni fatidici; e che poi il Vannucci, anche lui un protagonista (ricordiamo che andò in missione per unire la Toscana a Roma, e visse gran parte i dolori dell'Italia e conobbe più d'una delle vittime illustri), aggiunse alle sua "opera" raccolta in volume (stampato in Francia da Lemonnier). Un ragazzo precoce, erudito di latino a 15 anni al Cicognini di Prato, poi nello stesso insegnante di Storia, su Tacito e Livio, i fierissimi odiatori di tirannide e maestri di vita eroica. Era nato a Pistoia nel 1810, morì nel 1883.
Chi lesse i saggi, e poi il volume - e lo lessero in molti, fu ristampato diverse volte nell'arco di pochi mesi- aveva provato un sentimento profondo e potente anche dove il servaggio e l'ignoranza parevano avere prostrato da secoli ogni senso di umana dignità e spento ogni luce di pensiero. Si riunivano (non importa se in sette, in casa, o nei vari circoli) e tornavano a far brillare dopo secoli uomini che erano diventati le ombre di un passato. E non erano né "felloni", né "briganti" (dal '21 in avanti i loro nomi li abbiamo elencati, e le loro professioni pure, come quelli che più avanti citeremo), ma molti erano giovani, qualcuno giovinetto, ricchi di ogni bene, sorrisi da tutte le fortune; erano patrizi, artigiani, avvocati, notai, magistrati, sacerdoti, filosofi, scrittori, poeti, pittori, scienziati, mercanti, marinai, possidenti, conti e marchesi; molti già baciati dalla gloria e molti erano uomini oscuri, tutti con il loro carico di doveri e di dolori, che la vita impone a molti, alcuni fin dalla nascita come un peso. C'erano donne gentili, che per il loro sorriso la sorte poteva riservare ben altre fortune e non la forca.

N'abbiamo già citati molti (a partire dal 1820), con nome e cognome e professione, di Torino, Firenze, Milano, Napoli, Venezia, Brescia, Parma, Palermo, della Romagna, e ne citeremo ancora, ma non tutti, perché ad un certo punto le file s'ingrossavano; dalle "greggi", usciva un "popolo", spesso con creature ignote, senza volto e senza nome che sarà poi impossibile ricordare se non per numero: 50 lì, 100 là, 300 qui, e che i posteri non potranno ricordare. Tutti immolati in una "generosa follia", e che spesso perché anonimi, dimentichiamo i nomi, e scordiamo pure i fatti di quella realtà che in prima linea vollero vivere, anche se sapevano che nessuno non li avrebbe mai ricordati. Eppure coltivarono loro i successivi frutti della libertà, di cui ora godiamo.
Forse qualcuno, o forse tutti, pensavano, o forse dicevano ai loro carnefici "Ci volete distruggere tutti? Non ci riuscirete, perché non avete né forza né modo di raggiungere l'intento, noi siamo legioni, e prima o poi vi spazzeremo via".
E come abbiamo visto, e ancora vedremo, erano di tutte le classi, di tutte le condizioni sociali, chi abitava in palazzi e chi in capanne, chi al nord chi al sud, e proprio per questo, alcuni parlandosi non si capivano neppure. Eppure quando parlavano di Patria bastavano quattro parole e si capivano tutti: lottare, cacciare gli stranieri.

Certo c'erano i letterati, i più acculturati. Ma che pena anche loro dovettero provare. Quelli che ricordiamo, i più venivano dai liberi studi o erano usciti da seminari ecclesiastici, e gli uni e gli altri avevano scoperto, fra la retorica e i motivi della classicità, l'anima antica di Roma; e che dolore dovettero provare comparando con le loro presenti miserie con tutto quel passato di grandezza e di splendore, di coraggio e di audacia che andavano studiando o avevano studiato; come dovettero sentirsi colpevoli e padri degeneri, e come dovettero sentirsi umiliati dopo venti, trenta anni di lotte, quando, si ritrovarono nel '48 e nel '49 ancora curvati sotto la sferza e al gioco austriaco, o i più sfortunati, primi di essere appesi a una forca, o prima di essere fucilati alla schiena o quando finirono a marcire nelle carceri o nelle buie fortezze per anni e anni. Quanti pensieri! Quante riflessioni!
Mi piace riportare un passo proprio di Atto Vannucci:
"Chi volesse educare le nuove generazioni a servitù, non dia alle scuole l'indirizzo classico degli studi, bandisca dalle scuole il latino e la storia di Roma".

Per i tiranni è pericoloso. Roma ha dato a tutto il mondo e per mille anni, una luce, e da quella luce seguitano a sprigionarsi scintille ancora accese che possono provocare incendi, soprattutto in tempi di abiezione civile, di tirannia e di terrore.
Perfino Leopoldo II, in Toscana, ora si presentava con la divisa austriaca addosso, come a voler intimorire, quindi da despota reazionario, come non lo si era mai visto, e parlava come non aveva mai parlato, già dimentico di quell'"illuminazione" che aveva avuto nei primi anni di governo.

C'era dunque lo spirito, una nuova visione luminosa, in ogni ceto, ma purtroppo gli avvenimenti del 1848-49 parecchie cose avevano dimostrato: anzitutto che l'Italia non era in "grado di fare da sé", poi che l'idea della confederazione dei vari Stati italiani era un'utopia, infine che la guerra di popolo (salvo Venezia, che con la sua resistenza durata 18 messi, scrisse un'eroica pagina a parte) era impossibile. Roma, Milano, Napoli, Palermo lo avevano dimostrato. Si parlava molto, ma di concreto si faceva poco. Con l'improvvisazione non si combinava nulla; qualche colpo di fortuna ti fa vincere una battaglia, ma non la guerra. L'ostinazione di Garibaldi a Roma (al Casino di Villa Corsini) non aveva senso, si soffermava sul particolare ma era assente dal generale. Un Radetzky non lo avrebbe mai fatto; prima avrebbe messo insieme un esercito, capace di andare oltre la Villa, poi avrebbe tentato di prendere o oggi o domani la villa. Inoltre era un capo assoluto; da Vienna non avevano bisogno di dirgli nulla. Anzi quando iniziarono a dirgli qualcosa -perché ormai novantenne, amareggiandolo e compatendolo- prima a Villafranca, poi, nonostante la vittoria a Custoza, capitolarono.

Ma ritorniamo a questi anni fatidici del "risveglio".
Il crollo della dottrina giobertiana era stato completo e sulle sue rovine, tornava a fiorire l'idea unitaria, sia monarchica sia repubblicana.
Fedele sempre al concetto dell'unità rimase il MAZZINI, il quale, dopo la caduta del federalismo vide le file dei propri seguaci ingrossarsi, nonostante la diserzione di molti che, stimando l'indipendenza non potersi raggiungere senza l'appoggio del Regno Sardo, affermavano essere necessario abbandonare la pregiudiziale repubblicana.

Caduta la Repubblica Romana, GIUSEPPE MAZZINI aveva ripreso la via dell'esilio e prima era andato a Genova, poi si era trasferito a Losanna insieme con il SAFFI, il MONTECCHI, il SALVATI, il CARLI, con G. B. VARÒ e con altri. A Losanna, presso la tipografia Buonamici, fondò la "Società Editrice dell'Unione", la quale si proponeva "unicamente la stampa e vendita di opere scientifiche, politiche, religiose e letterarie, sia italiane che estere, le quali tendessero a mantenere e promuovere in Italia lo spirito di libertà, di Nazionalità, d'indipendenza".
Inoltre essa sarebbe venuta in soccorso degli uomini insigni esuli "pubblicando i loro scritti ed assegnando loro un compenso adeguato all'importanza dei lavori proposti".

La Società pubblicò subito una rivista mensile, che in memoria del giornale milanese del 1848 prese il titolo di "Italia del Popolo". La rivista, che dal settembre del 1849 uscì regolarmente fino al maggio del 1850 e poi irregolarmente fino ai primi mesi dell'anno successivo, ebbe l'assidua collaborazione di SAFFI, STERBINI, PISACANE, DE BONI, VARÒ, MAURIZIO QUADRIO, FRANCESCO PIGOZZI, del generale ALLEMANDI e di altri, e come programma questa la dichiarazione del Mazzini:

"Esso è nella parola uscita il 9 febbraio da Roma, madre comune e centro di unità a tutte le popolazioni d'Italia, nella missione che la tradizione e la coscienza popolare assegnano all'Italia. E quanto alla promessa di costanza operosa sta, ci sia concesso dirlo, nella nostra vita".

IL COMITATO NAZIONALE ITALIANO

Nella primavera del 1850, si trasferì a Londra, dove, un anno dopo, lo raggiunsero MONTECCHI, SIRTORI, SAFFI. Nella capitale dell'Inghilterra il Mazzini fondò il "Comitato centrale democratico europeo", che aveva come scopo di stabilire l'alleanza dei popoli, alle dipendenze del quale doveva agire per ogni nazione un apposito comitato.
Il "Comitato nazionale italiano" fu istituito l'8 settembre del 1850 dal Mazzini, dal Saffi, dal Montecchi, dal Saliceti, dal Sirtori e dall'Agostini, e due giorni dopo aprì un prestito nazionale italiano di dieci milioni di lire "diretto unicamente ad affrettare l'indipendenza e la libertà d'Italia" e costituito da duecentocinquantamila azioni, di cui cinquantamila da cento lire l'una e le altre da venticinque.

Mentre il Mazzini e i suoi amici dall'esilio tenevano accesa la fiaccola dell'idea nazionale e alacremente lavoravano per preparare all'Italia giorni migliori, trionfava nella penisola la reazione. Una dura reazione. Punitiva!

IL GOVERNO DEI TRIUMVIRI ROSSI

Il 21 luglio 1849, da Gaeta, PIO IX, indirizzando un proclama, ai sudditi, aveva annunciato la nomina di una commissione, che, coadiuvata da un ministero e munita di pieni poteri, regolasse il governo dello Stato. La commissione fu formata dei cardinali ALTIERI, della GENGA e VANNICELLI, i cosiddetti "triumviri rossi", i quali, giunti a Roma, dichiararono:
"Nostra prima cura sarà che la Religione e la morale siano rispettate da tutti come base e fondamento d'ogni convivenza sociale; che la giustizia abbia il suo pieno e regolare corso indistintamente per ciascuno, e che l'amministrazione della cosa pubblica riceva quell'assetto ed incremento di cui vi è tanto bisogno dopo l'indegna manomissione fattane dai demagoghi senza senno e senza nome".

Ma i loro primi atti e specialmente la famosa ordinanza del 2 agosto 1849, fecero capire che lo stato Pontificio stava per tornare ai tempi di Gregorio XVI. Infatti, il "Triumvirato rosso" annullò tutte le leggi e provvisioni posteriori al 16 novembre 1848, annullò tutte le magistrature municipali, istituì un Consiglio di Censura con l'incarico d'indagare sulla condotta di tutti i pubblici impiegati, di cui furono licenziati quasi mille per aver
servito la repubblica; ristabilì l'Inquisizione, il tribunale del Vicariato, la vecchia polizia e cacciò in bando numerosi liberali anche i più moderati come il MAMIANI.

Fu tale l'impressione di questi atti che LUIGI BONAPARTE, presidente della Repubblica Francese, scrisse al colonnello EGDARDO NEY una famosa lettera in cui rendeva noti il carattere e gli scopi dell'intervento francese:
"La Repubblica Francese non ha mandato un esercito a Roma per schiacciare la libertà italiana; ma al contrario per regolarla, preservandola dai propri eccessi, e per darle una base solida, restituendo al trono il principe che arditamente si era posto come il primo utile a tutte le riforme. Mi duole sapere che le benevole intenzioni del Santo Padre e l'opera nostra siano infruttuose a cagione di passioni e d'influenze ostili. Vorrebbero fare fondamento al ritorno del Papa sulla proscrizione e sulla tirannia; or dite da parte mia al generale Rostolan che non deve permettere che all'ombra del vessillo tricolore si commetta nessun atto contrario alla natura del nostro intervento. Io compendio così il governo temporale del Papa: amnistia generale, secolarizzazione dell'amministrazione; codice Napoleonico e governo liberale".

IL MOTUPROPRIO PAPALE DEL 12 SETTEMBRE 1849

Come il governo pontificio restaurato desse soddisfazione ai desideri espressi dal Bonaparte con questa lettera, fu dimostrato alcune settimane dopo dal "Motuproprio" papale, che in data del 12 settembre 1849 Pio IX emanò da Portici, di cui riportiamo gli articoli:
(nella sua originale stesura portata a conoscenza in italiano)

1° - Viene costituito in Roma un Consiglio di Stato. Questo darà il suo parere sopra i progetti di legge prima che siano sottoposti alla sanzione sovrana; esaminerà tutte le questioni più gravi di ogni ramo della pubblica amministrazione, sulle quali sia richiesto di parere da Noi e dai nostri ministri. Un'apposita legge stabilirà le qualità e il numero dei consiglieri, i loro doveri, le prerogative, le norme delle discussioni e quant'altro può concernere il retto andamento di sì distinto consesso.
2° - Viene istituita una consulta di Stato per la Finanza. Sarà essa intesa sul preventivo dello Stato e ne esaminerà i consuntivi pronunciando sui medesimi le relative sentenze sindacatorie; darà il suo parere sulla imposizione di nuovi dazi o di diminuzione di quelli esistenti, sul modo migliore di eseguire il riparto, su i mezzi più efficaci per far rifiorire il commercio ed in genere su tutto ciò che riguarda gli interessi del pubblico tesoro. I consultori saranno scelti da Noi su note che ci verranno dai consigli provinciali. Il loro numero sarà fissato in proporzione delle province dello Stato; questo numero potrà essere accresciuto con una determinata addizione di soggetti che ci riserbiamo Noi di nominare. Un'apposita legge determinerà le forme delle proposte dei consultori, le loro qualità, le norme della trattazione degli affari e tutto ciò che può efficacemente e prontamente contribuire al riordinamento di questo importantissimo ramo di pubblica amministrazione.
3° - L'istituzione di Consigli provinciali è confermata. I consiglieri saranno scelti da Noi sopra liste di nomi proposti dai Consigli comunali. Questi tratteranno gli interessi locali della provincia, le spese da farsi a carico di essa e con il di lei concorso, i conti preventivi e consuntivi dell'interna amministrazione che verrà scelta da ciascun Consiglio provinciale sotto la sua responsabilità. Alcuni membri del Consiglio provinciale saranno prescelti a far parte del Consiglio dal Capo della provincia per coadiuvarlo nell'esercizio della vigilanza che gli incombe sui Municipi. Un'apposita legge determinerà il modo delle proposte, le qualità ed il numero dei Consiglieri per ogni provincia, e prescritti i rapporti che debbono conservarsi fra le amministrazioni provinciali ed i grandi interessi dello Stato, stabilirà questi rapporti ed indicherà come e fin dove si estenda su di quelle la superiore tutela.
4° - Le rappresentanze e le amministrazioni municipali saranno regolate da più larghe franchigie che sono compatibili con gl'interessi locali dei Comuni. L'elezione dei Consiglieri avrà per base un esteso numero di elettori avuto riguardo principalmente alla proprietà. Gli eleggibili, oltre le qualità intrinsecamente necessarie, dovranno avere un censo da determinarsi dalla legge. I capi delle magistrature saranno scelti da Noi e gli Anziani dai Capi delle province sopra terne proposte dai Consigli comunali. Un'apposita legge determinerà le qualità ed il numero dei Consiglieri comunali, il modo di elezione, il numero dei componenti le Magistrature: regolerà l'andamento dell'amministrazione coordinandola con gli interessi delle province
5° - Le riforme ed i miglioramenti si estenderanno anche all'ordine giudiziario ed alla legislazione civile, criminale ed amministrativa. Una commissione da nominarsi si occuperà del necessario lavoro.
6° - Finalmente, propensi sempre per inclinazione del nostro cuore paterno all'indulgenza ed al perdono, vogliamo che si dia luogo ancor questa volta a tale atto di clemenza verso quei "traviati" che furono trascinati alla "fellonia" ed alla rivolta dalla seduzione, dalla incertezza e forse ancora dall'inerzia altrui. Avendo d'altronde presente ciò che reclamano la giustizia, fondamento dei regni, i diritti altrui manomessi o danneggiati, il dovere che ci incombe di tutelarvi dalle perniciose influenze dei corruttori di ogni morale e nemici della cattolica religione, che, fonte perenne d'ogni bene e prosperità sociale, formando la vostra gloria vi distingueva per quella eletta famiglia favorita di Dio con i particolari suoi doni, abbiamo ordinato che sia a nostro nome pubblicata un'amnistia della pena incorsa da tutti coloro, i quali dalle limitazioni che verranno espresse non rimangano esclusi da questo benefizio".

L'atto d'amnistia fu pubblicato il 18 settembre 1849. Da essa erano esclusi "i membri dell'ex governo provvisorio; i membri dell'ex triunvirato e del governo della repubblica; gli ex capi dei corpi militari; tutti quelli che avendo goduto del benefizio dell'amnistia altra volta concessa da Sua Santità, e che mancando alla parola d'onore data avevano partecipato agli sconvolgimenti negli Stati della Santa Sede; tutti coloro i quali oltre ai delitti politici si erano resi responsabili di delitti comuni contemplati dalle vigenti leggi penali".
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Contro il "motuproprio" papale scrissero tutti i giornali liberali della Toscana, del Piemonte e dell'Europa. Basta per tutti il giudizio che di esso diede il NAZZINI sull'"Italia del Popolo". Il Papato, con questo nuovo atto "tronca per sempre la questione, che i sofismi dei moderati d'Italia e le menzogne dei Gesuiti di Francia si sforzavano di tenere ancor viva, essere cioè il Papato compatibile con il governo temporale di uno Stato .... Il dispotismo gregoriano è dunque pienamente ripristinato a Roma. Questo consiglio di Stato, questa consulta per i preventivi e i consuntivi annuali, non sono istituzioni fondamentali, non sono le garanzie che i popoli oggi hanno diritto di ottenere dai loro governi .... Le disposizioni anzi di questo motuproprio sono assai più restrittive di quelle contenute nel motuproprio 14 ottobre 1847 sulla istituzione della consulta di Stato, quando ancora nello Stato Romano non si era fatta parola di istituzioni rappresentative .... Quale amnistia poteva attendersi da un governo, che ristabilisce il dispotismo in tutta la sua onnipotenza? L'amnistia di Gregorio XVI eccettuò trentadue individui solamente, i di cui nomi furono tutti notati. L'amnistia di Pio IX esclude nientemeno che 7526 individui e lascia un arbitrio immenso agli uffici di polizia".
A parte le opinioni di Mazzini, nella sostanza il governo e l'amnistia, in questo modo e in questa nuova realtà operava.

Lo stesso Mazzini scriveva inoltre al presidente della Repubblica Francese una lettera in cui, fra le altre cose, scriveva:

"La libertà, di Roma è la commissione di censura istituita per tutti gli impiegati della repubblica, la destituzione pressoché generale e le settecento famiglie cacciate nella miseria, la dispersione dell'esercito e l'esilio di quasi tutti gli ufficiali, la sospensione di quasi tutti i maestri di ogni categoria, il richiamo agli uffici di polizia e della sbirraglia di quasi tutti gli uomini della reazione e del fecciume dei sicari di Gregorio XVI, il ristabilimento dell'Inquisizione e del Vicariato.
La libertà di Roma è ora la carta monetaria ridotta del 35 %; le tasse di barriera ripristinate; le multe di bollo portate al decuplo; la restituzione dei beni alle manomorte; il rincaro del sale; il rinnovamento della tassa sul macinato; l'aumento del 15 % sulle imposte; la miseria visibilmente crescente in ogni angolo e in ogni ordine dello Stato.
La libertà di Roma è un'amnistia che esclude i membri del governo provvisorio, il Triunvirato, i componenti i ministeri, i rappresentanti del popolo, i presidi delle province, i capi dei corpi militari, gli amnistiati del 1846; riordina il dispotismo, temperato da una Consulta di Stato eletta dal Papa su terne presentate dai consigli provinciali senza intervento dei comuni, accresciuta di membri nominati a suo capriccio e condannata al silenzio; un'istituzione di consigli provinciali i cui membri sono scelti su torno di municipi dal Papa, purché abbiano trent'anni, domicilio da dieci anni nella provincia, beni del valore almeno di seimila scudi e condotta religiosa e politica riconosciuta buona".

Era proprio il caso di esclamare (anzi accusare) con lui:
"Queste, o Francesi, sono le istituzioni, che ci hanno portato nello Stato le vostre armi fratricide".

All'inizio del 1850 le condizioni dello Stato Pontificio erano più deplorevoli di quanto non credesse il Mazzini. Ce ne fa un breve ma vivo quadro il FARINI:

"Il debito pubblico, se conti la carta moneta, è di circa settanta milioni di scudi; raddoppiate alcune imposte; restituiti tutti gli antichi dazi e balzelli; gli appalti delle gabelle; i monopoli, le privative, le tariffe doganali, ma è cresciuto e crescente l'annuo deficit. La poca milizia sciolta, senza ordini, senza capi. L'istruzione, l'educazione, la beneficenza governate e amministrate dal clero. Polizia clericale e polizia francese a Roma; polizia clericale e polizia austriaca nelle province. La censura sopra la stampa non governata né dalla legge piana del 1847 né da altra legge, ma dagli arbitrii del S. Ufficio, dei vescovi, della polizia. Una generale inquisizione politica su tutti i funzionari dello Stato e dei Municipi. Ristabiliti tutti gli antichi tribunali civili e criminali, ecclesiastici, misti, eccezionali; i tribunali militari stranieri fermi in tutto lo Stato. Inermi tutti i cittadini, i masnadieri padroni delle vite e delle sostanze loro. Restaurate tutte le immunità, restaurati tutti i privilegi clericali; privilegi dei chierici in tutti gli uffici della diplomazia, tutte le supreme dignità e cariche nelle amministrazioni, nella magistratura, nella polizia. Risorgente la Compagnia di Gesù, più potente, più procacciante. Trentamila stranieri nella dizione pontificia. Le carceri piene e con il ripristino del bastone per la correzione dei carcerati. Proscritti, esulanti, ammoniti a migliaia e migliaia; né solo i repubblicani, i costituzionali, i novatori di ogni qualità, ma anche taluni alieni dalle parti, amici delle prime riforme e delle prime piane glorie. La nobiltà romana avversa alle preminenze clericali; gran parte della curia e della borghesia nemiche, la plebe irata e ribelle. Ribelle nelle province la nobiltà, la borghesia, la plebe delle città. Il minuto clero non amico, né complice del governo; le popolazioni delle campagne scontente delle taglie, scontente degli stranieri che le disarmano, delle polizie che le lasciano in balia dei ladri. I commerci e le industrie poveri più che mai; non oro, non argento, carta monetata in corso, di moneta metallica solo certe piastre di rame pesanti come uno scudo. Le sette operose e frementi. A poco a poco manca la fiducia delle parti e si formano inimicizie fra i cittadini e i ceti amanti delle varie forme di vivere civile a cagione dell'insano e violento modo di governo che si osserva, nel quale tutti gli uomini di qualità, tutto il laicato appaiono conculcati ed abbietti, perché tutti schivi di piegare la cervice a quel giogo, vanno deponendo gli odi particolari ed uniscono la volontà nell'odio al clericale governo, vivono con un desiderio grande di mutazione, aspettando quale sarà l'una, e quale altra occasione di novità".

RITORNO A ROMA DI PIO IX - I PROCESSI ROMANI

Era questa la situazione dello Stato pontificio, quando, proveniente da Portici, per Terracina e Velletri, il 12 aprile del 1850 PIO IX scortato dalle truppe francesi rientrò a Roma. Non pochi erano quelli che dal ritorno del Pontefice speravano in un addolcimento del governo, reso veramente esoso dai triumviri rossi; ma le loro speranze non ebbero lunga durata, perché Pio IX non volle più prendersi cura delle faccende temporali, che passarono tutte nelle mani del cardinale ANTONELLI, e si dèdicò a stipular concordati con la Spagna (1851) con la Toscana (1851) e con l'Austria (1850-53), alla restaurazione della gerarchia cattolica nell'Inghilterra (1850) e nell'Olanda (1853) e all'elaborazione di nuovi dogmi. A lui si deve anche la proclamazione del dogma dell'Immacolata Concezione, avvenuta l'8 dicembre del 1854.
Sotto il governo dell'Antonelli, non meno che sotto quello del Triumvirato rosso, infuriò nello Stato Pontificio la reazione, che ebbe l'opportunità, specialmente nei processi, di sfogare tutto il suo livore. Uno dei primi processi politici fu quello per l'assassinio di
PELLEGRINO ROSSI, che terminò nel 1853: l'autore principale, LUIGI BRUNETTI, era stato, come si è detto nelle pagine dedicate a questi fatti, fucilato nel 1849 dagli Austriaci con il padre CICERUACCHIO e il fratello Lorenzo; due complici suoi, SANTE COSTANTINO e un RANDONI, furono condannati alla pena capitale, ma solo il primo fu poi giustiziato perché il secondo si tolse la vitaidò nella prigione di S. Michele.
Nel 1853 si diede inizio ad un altro processo politico contro numerosi membri dell'"Associazione Nazionale", rei di aver cospirato contro il governo e di aver preparato un'insurrezione per il 15 agosto di quell'anno; 62 furono gl'imputati, di cui 4 - il MAZZINI, LUIGI PIANCIANI, SISTO VINCIGUERRA, MASSIMILIANO GUERRA - contumaci. Con sentenza del 25 settembre 1854 furono condannati a morte, l'avv. PETRONI, il ROMITI, il ROSELLI, il RUITZ e il CASCIANI; alla galera perpetua 8, a venti anni 6, a quindici anni 5; a dieci anni 2; a pene minori altri. Solo 5 furono messi in libertà provvisoria; 8 non sufficientemente convinti della loro innocenza, furono lasciati in prigione per ulteriori indagini. Lo sdegno provocato da tale sentenza fu così grande che per ordine pontificio, le pene furono poi notevolmente diminuite.

Altri processi furono iniziati nello stesso anno 1.853 ad Ancona e a Ferrara; là fu condannato a morte ANTONIO GIANNELLI, che morì poi in carcere nel 1855: qua furono condannate a morte dieci persone, ma per generosità del Radetzky furono fucilati solamente questi "felloni": il medico DOMENICO MALAGUTTI, il possidente GIACOMO SUCAI e l'albergatore LUIGI PARMEGGIANI.
Naturalmente, lo spirito reazionario che informava ogni atto del governo pontificio non poteva che mantenere una sorda agitazione in tutto lo Stato, che qualche volta si manifestò con delitti politici, e non poteva che orientare verso il liberalismo anche quella notevolissima parte della popolazione che fino allora era stata indifferente o apertamente sfavorevole alle novità.
Privo oramai della più solida delle basi, che è quella costituita dall'affetto dei sudditi, il dominio del Papa rimaneva affidato più solo alle baionette austriache e francesi e questo fatto non solo spiega la sua debolezza ma anche l'odio delle popolazioni che di giorno in giorno si farà sempre più grande.

LA REAZIONE NEL REGNO DELLE DUE SICILIE
I PROCESSI POLITICI-LE LETTERE DI LORD GLADSTONE
GOVERNO DEL FILANGIERI IN SICILIA
CONGIURE, INSURREZIONI E PROCESSI NELL' ISOLA

Lo stato della penisola dove prima e più che altrove infierì la reazione fu il Regno delle Due Sicilie, dove il dispotismo fu presto restaurato con lo scioglimento della Guardia nazionale e con l'abolizione dello Statuto, e famosi rimasero i processi contro i liberali.
Il primo grande processo politico fu quello della setta dell'"Unità italiana" al quale diedero origine le rivelazioni strappate con sevizie a SALVATORE FAUCITANO, arrestato con altri nel settembre del 1849 in seguito ad uno scoppio in mezzo alla folla accorsa a vedere Pio IX che aveva causato il panico
Sotto l'accusa di cospirazione settaria furono sottoposti a processo 42 persone, fra cui CARLO POERIO, MICHELE PIRONTI, LUIGI SETTEMBRINI, FILIPPO AGRESTI, il sacerdote FRANCESCO BARILLA, NICCOLA NISCO, VINCENZO DONO, FRANCESCO ANTONETTI, e ANTONIO LEIPNECHER. Quest'ultimo, sebbene gravemente ammalato, dovette ugualmente presentarsi al tribunale e, ottenuto, per l'insistenza dei medici, di ritirarsi, cessò di vivere il 22 giugno 1850, tre settimane dopo l'inizio del processo.
Il 1° febbraio del 1851 fu pronunziata la sentenza, che condannava a morte il FAUCITANO, l' AGRESTI e il SETTEMBRINI, all'ergastolo a vita il BARILLA e il MAZZA, a trent'anni di ferri il NISCO e il MARGHERITA, a venticinque FRANCESCO CATALANO, LORENZO VELUCCI e CESARE BRAICO, a ventiquattro il POERIO, il PIRONTI e il tipografo ROMEO, a venti ACHILLE VALLO, a diciannove FRANCESCO NARDI, FRANCESCO COCOZZA, GIUSEPPE CAPRIO, VINCENZO DONO, SALVATORE COLOMBO, GAETANO ERRICHIELLO, GIOVANNI DE SIMONE e FRANCESCO ANTONETTI, a sei anni di relegazione ANTONIO MIELE e RAFFAELE CRISPINO.
Dieci giorni prima della sentenza FERDINANDO II aveva con un rescritto disposto che se vi fossero state condanne capitali di eseguirne solo la metà. All'ingrosso insomma.
La corte appreso l'ordine del re e non potendo eseguirlo alla lettera perché i condannati a morte erano in numero dispari, stabilì che solo il FAUCITANO doveva andare all'estremo supplizio; ma il re, forse stimandolo uno strumento altrui, non volle che soltanto lui salisse sul patibolo e lo graziò.
Il 4 febbraio i condannati furono condotti alla darsena, vestiti da galeotti, incatenati a due a due e mandati alcuni nelle orribili carceri di Nisida, altri in quelle non meno orribili di Santo Stefano.
Un grande uomo di stato inglese, GUGLIELMO GLADSTONE, che aveva assistito al processo ed era stato informato del barbaro trattamento usato ai prigionieri nel carcere preventivo, riuscì a visitare il bagno di Nisida, dove ebbe un lungo colloquio con CARLO POERIO, fece una coscienziosa inchiesta sui sistemi, del governo borbonico e denunziò questo all' Europa civile in due famose lettere indirizzate a lord ABERDEEN, in cui, squarciando il velo che nascondeva "spettacoli più degni dell'inferno che della terra", diceva di essersi assunta la grave e penosa impresa con la speranza di far qualcosa per diminuire una mole di umani patimenti, la più smisurata e, per dire il meno, la più acuta di quelle che l'occhio del cielo contempla".

Perché il lettore possa rendersi conto dell'enorme impressione riportata dal GLADSTONE nel corso della sua inchiesta (fu lui a coniare la frase (a Messina aveva coniata l'altra "il re bomba") che il Regno delle Due Sicilie era il "regno della negazione di Dio", dandogli ampio risalto sulla stampa inglese per aprire la campagna di diffamazione contro FERDINANDO II, riferiremo un brano di una delle sue lettere:
(che riportiamo fedelmente, e non vogliamo con questo accusare il Borbone,
ma solo riportare ciò che i giornali londinesi scrissero iniziando così una dura campagna diffamatoria -
Quando i Sabaudi bombardarono Ancora per quattro giorni di seguito, compiendovi una strage, pur essendosi la città arresa, nessun inglese lo chiamò "re bomba" ma "re galantuono").

Questo ci permette di considerare Gladstone (e Palmeston) un po' troppo faziosi.
Ecco cosa scriveva a Londra:

"Io non sono per descrivere né una semplice imperfezione, né corruzione dei bassi ordini della società, né severità temporanea; bensì la violazione delle leggi incessante, sistematica, deliberata, fatta da quel potere cui è affidato il carico di vegliare alla loro conservazione. È la violazione do ogni legge umana e scritta, compiuta con il proposito di violare ogni legge non scritta ed eterna, tanto umana quanto divina; è la persecuzione generica della virtù congiunta all'intelligenza, fatta in modo da colpire classi di cittadini, e da collocare il Governo in fiera, crudele, ed altamente illegale ostilità con tutto ciò che vive e si muove nella nazione, ed è là la fonte di ogni pratico progresso e miglioramento; è la spaventosa profanazione della religione pubblica, notoriamente collegata dai poteri governanti con la violazione di ogni legge morale dietro gli impulsi della paura e della vendetta; è la perfetta prostituzione della magistratura, fatta sotto veli troppo fragili e trasparenti, la degradata officina delle più vili e più ignobili invenzioni, malignamente e deliberatamente affacciate dagli immediati consiglieri della Corona con lo scopo di distruggere, fosse anche senza il mezzo di capitali sentenze, la pace, la libertà, la vita degli uomini più retti, più virtuosi, più intelligenti, più ragguardevoli e più colti del paese; è il sistema selvaggio e codardo di tortura morale parimenti che fisica al più basso grado, con cui sono eseguite le sentenze, carpite alle avvilite Corti di giustizia. In seguito a tutto ciò, tutte le idee morali e sociali sono capovolte: invece di essere rispettata, la legge è odiosa; base del governo è la forza non l'affezione; fra il principio di libertà e quello di ordine, non alleanza ma antagonismo violento; il potere governante che insegna essere l'immagine di Dio sulla terra, agli occhi della immensa maggioranza della gente che pensa, compare avere per attributi, tutti i generi di vizi. Io ho ascoltato pronunciare a suo riguardo le seguenti energiche, ma troppo vere espressioni: "È la negazione di Dio eretta è sistema di governo".

Lord PALMERSTON, ministro degli esteri d'Inghilterra, interrogato se i fatti denunciati dal Gladstone erano veri, non solo confermò la verità dei fatti, ma aggiunse aveva mandato copia della lettera a tutte le corti europee. Il governo napoletano, svergognato in tal modo, tentò di difendersi, incaricando giornali reazionari e prezzolati, francesi, inglesi e italiani, come la "Patrie", i "Debats" e la "Civiltà cattolica", di smentire le affermazioni del Gladstone e nel medesimo tempo intensificò l'azione reazionaria accrescendo i rigori contro i condannati e iniziando altri processi contro i liberali.

Conseguenza della rappresaglia borbonica causata dalle lettere dello statista inglese fu il processo contro 42 popolani che il 5 settembre del 1848 si erano scagliati contro un corteo d'altri popolani, i quali inneggiavano al re e gridavano: "abbasso la Costituzione !"
Il processo, apertosi il 4 agosto del 1851 si chiuse il 26 dello stesso mese con la condanna di uno degli imputati a venticinque anni ai ferri, di sette a ventiquattro anni, di nove a venti, di sette a diciannove e di uno a sette. Gli altri, sebbene assolti ed avessero scontato tre anni di carcere preventivo, furono trattenuti in prigione.
Tre mesi e mezzo dopo ebbe inizio il processo per fatti del 15 maggio 1848, che durò ben dodici mesi e fu per il numero e l'importanza degli imputati e per il fine del governo borbonico di colpire il ministero TROYA e la camera dei deputati, il più importante fra i processi politici dibattutisi a Napoli. 326 furono gli accusati, di cui solamente 84 detenuti, fra i quali gli ex-deputati GIOVANNI AVASSA, SAVERIO BARBARISI, G. B. BOTTIGLIERI, LUIGI DRAGONETTI, DOMENICO GIANNATTASIO, GIUSEPPE PICA, PIER SILVESTRO LEOPARDI, ANTONIO SCIALOIA, SILVIO SPAVENTA, l'ex-direttore di Polizia GIACOMO TOFANO e lo scrittore GIACOMO RACIOPPI. Ma in istruttoria molti furono assolti e solamente 46 furono rinviati al giudizio della Gran Corte Speciale, la quale in seguito doveva giudicarne altrettanti e procedere in contumacia contro gli assenti.
La sentenza si ebbe il 7 ottobre del 1852. Furono condannati a morte sette: lo SPAVENTA, BARBARISI, DARDANO, i due fratelli PALUMBO e i due LEANZA; a trent'anni di ferri RAFFAELE CRISPINO e FRANCESCO DE STEFANO; a ventisei anni il PICA, il BRIOL e l' ARCUCCI; a venticinque GIOVANNI DI GRAZIA e GIUSEPPE LA VECCHIA; a nove anni di reclusione ANTONIO SCIALOIA e PASQUALE AMADIO; ad otto NICOLA DE LUCA e FRANCESCO TRINCHERA; a sei GIUSEPPE AVITABILE, GIUSEPPE BARLETTA, MICHELE VISCHESI, GIOVANNI GERINO, MARIANO VANO e GIACOMO SABATINO; a tre anni di carcere GIUSEPPE PISCITELLI; a due GIOVANNI DE STEFANO; all'esilio il LEOPARDI. Due, ANDREA CURZIO e ANTONIO CIMMINO, ebbero la libertà provvisoria.

Con il decreto del 14 ottobre 1852, Ferdinando II commutò la pena di morte nell'ergastolo per lo Spaventa, il Barbarisi e il Dardano, e in trent'anni di ferri per i due Palumbo e i due Leanza; commutò la galera nell'esilio perpetuo al Briol, allo Scialoia e al Gerino; ridusse la pena all'Arcucci, al Di Grazia e al La Vecchia e concesse la libertà assoluta al Cimmino e al Curzio. Per altri 74 imputati Ferdinando II, con rescritto del 2 dicembre 1852, abolì per i fatti del 15 maggio l'azione penale e li rinviò al giudizio delle Gran Corti speciali delle province per i delitti ivi commessi.

Degli emigrati con sentenza del 20 agosto 1853 ben 22 furono condannati a morte e cioè il BELELLI, PIETRO CATALANO-COSENZA, CONFORTI, DE DOMINICIS, DE LIETO, GALLOTTI, GIARDINI, GAETANO GIORDANO, LANZA, IMBRIANI, MASSARI, MAZZIOTTI, LA CECILIA, G. A. e STEFANO ROMEO, RUGGERO, SALICETI, SODANO, TORRICELLI, TUPPATI E LO ZUPPETTA; a diciannove anni di ferri DEL RE, DE VINCENZI, FEDERICO CASTALDI, CLEMENTE E LUIGI CATALANO-CONSAGA, NICOLA MAGALDI, MANCINI, MAZZA, PISANELLI, DUCA DI PROTO, LUIGI e SALVATORE SANGIORGIO, FERDINANDO PESCARINI e il SIGISMONDI; all'esilio perpetuo FIORENTINO, PEREZ e lo ZENARA.

Anche nelle province furono fatti non pochi processi contro i liberali. Dal 28 agosto al 2 dicembre del 1850 la Corte di Lecce giudicò 41 imputati di cui cinque contumaci, condannando NICOLA SCHIAVONI e il DUCA CASTROMEDIANO a trent'anni di ferri, il prete NICOLA VALZANI a ventiquattro, lo studente LEONE TUZZO a nove, il cameriere MICHELANGELO VERRI a venti, il canonico SALVATORE FILOTICO a diciannove e a pene minori gli altri.

La Corte di Potenza il 17 luglio del 1852 condannò i PRETI EMILIO MAFFEI, ROCCO
BRIENZA e FRANCESCO CORONATI, il medico Vincenzo di Leo e il notaio Rocco De Bonis a diciannove anni di ferri, l'avvocato TOMMASO GHEZZI ad otto, il prete CARLO DE DONATI, i possidenti TOMMASO CALABRESE, RAFFAELE D'APUZZI e GIUSEPPE BRIGANTI e l'ex-procuratore del re NICOLA ALIAVELLI a sette anni: tutti "per misfatto di lesa Maestà, con attentati commessi nel maggio, giugno e luglio 1848 all'oggetto di distruggere e cambiare il governo e di eccitare i sudditi del regno ad armarsi contro la regia autorità".
La stessa corte il 22 marzo del 1854 condannò a morte il prete MAFFEI, a diciannove anni di ferri ACHILLE ARGENTIERI ed EMILIO PETRUCELLI, e a sette anni padre GIOVANNI CASAVOLA, GIUSEPPE LIBERTINI e GIUSEPPE GRIPPO.
Numerosissimi furono i patrioti condannati dalle corti calabresi tra il 1850 e il 1853: quella di Cosenza condannò a morte 14 persone, ai ferri 150; quella di Catanzaro pronunziò 9 sentenze capitali e condannò ai ferri 133 individui. Tutti i condannati all'estremo supplizio ebbero grazia della vita; le sole sentenze di morte eseguite in tutto il regno furono, in effetti, solo due, una a Salerno e l'altra a Reggio.

Mentre nelle province della terraferma si svolgevano i processi politici, che avevano per scopo di distruggere completamente il partito liberale, e si esercitava dall'onnipotente Polizia un'oculatissima sorveglianza sugli elementi che erano o si credevano imbevuti di liberalismo, in Sicilia il generale FILANGIERI, luogotenente fino al 1854, cercava di riconciliare al sovrano la popolazione.
Il compito era difficilissimo, eppure s'illuse, dopo poco tempo, di essere riuscito nel suo scopo. Infatti, quando, indirettamente, fu chiesto agli ex-pari e agli ex-deputati di sottoscrivere una ritrattazione del voto di decadenza della dinastia borbonica quasi metà degli uni e degli altri firmarono; quando nel 1850 fu sedata una sommossa, i comuni dell'isola protestarono confermando la loro devozione al re, e infine, quando nell'ottobre del 1852, FERDINANDO II, visitò Messina e Catania gli abitanti di queste due città gli riservarono delle accoglienze inspiegabilmente entusiastiche.
Ma il Filingieri s'ingannava. L'isola, sotto il governo militare dell'energico luogotenente, coadiuvato dal famigerato SALVATORE MANISCALCO, capo della polizia, si manteneva nell'ubbidienza, ma in realtà palpitava. Una Protesta di Siciliani fuorusciti, provocata dall'istituzione decretata il 19 dicembre del 1849, del Gran libro del debito pubblico di Sicilia, trovava, infatti, vasta eco a Palermo, dove furono fatti arresti e perquisizioni, e fin dal primo anno in cui l'isola fu di nuovo sottomessa si ordivano congiure contro il dominio borbonico.

Due erano i centri in cui ribolliva il sangue caldo, che lavoravano con maggiore alacrità: Catania e Palermo. A Catania si era stabilito che l'8 dicembre, del 1849 dovesse scoppiare un'insurrezione, ma questa era fallita perché la notte precedente la polizia aveva tratto in arresto i liberali più in vista. I congiurati palermitani, avuta notizia degli arresti di Catania, fissarono per un moto insurrezionale la data del 27 gennaio del 1850.
Quel giorno, un gruppo di giovani diede il segnale della rivolta gridando "Viva la Costituzione !" assalendo le pattuglie borboniche in piazza della Fieravecchia; ma poiché nessuno si mosse, come si sperava, i ribelli fuggirono. Furono poi arrestati GIUSEPPE CALDARA, GIUSEPPE GAROFOLO, VINCENZO MONDINI, ROSARIO AIELLO, PAOLO DO LUCA E NICCOLÒ GAZZILLI, che, portati davanti un consiglio di guerra, pur mancando le prove della loro colpa, furono condannati a morte e fucilati.
Gli abitanti di Palermo protestarono chiudendo in segno di lutto le case e le botteghe e lasciando deserte per alcune ore le vie. Un'altra sessantina di persone furono in seguito arrestate e molte di loro furono condannate ai ferri ed alla galera.
Era così diffuso il malcontento nell'isola e così forte l'odio dei Siciliani contro i Borboni che le severissime pene inflitte per l'insurrezione del 27 gennaio non scoraggiarono i patrioti; anzi questi intensificarono la loro azione e a Palermo costituirono
un'associazione segreta che si mise in relazione con gli esuli di Malta, Genova e Torino.

La polizia trasse in arresto il prete DOMENICO MARTRUZZI, il PONISBERG e il TRIOLO e il 29 settembre del 1851 fu contro di loro pronunziata sentenza che condannava il primo a ventiquattro anni di ferri e gli altri due a sedici.
Associazioni e comitati segreti, nonostante la sorveglianza della polizia, continuarono a Palermo a svolgere la loro attività. Uno di questi, con il nome di "Comitato Centrale Esecutivo di Sicilia", sorto con lo scopo di preparare i mezzi per una vasta insurrezione e per diffondere fra i Siciliani il concetto unitario italiano (su basi federalistiche, e indipendentistiche, molto simile a quelle di Manin nella Repubblica Serenissima, ma che Cavour liquidava come una "corbelleria") prese la direzione di tutti i comitati provinciali dell'isola, intensificò le relazioni con gli emigrati, sollecitò Genova e Londra aiuti d'armi e di denari e chiese di inviare un capo militare esperto ed energico (forse qualcuno fece il nome di Garibaldi), in modo che se in Sicilia scoppiava un'insurrezione, sapesse costui dirigerla.

O erano in tanti, o come scrivono altri, che affermano che erano pochi, a Londra, la cosa non dispiaceva proprio. Primo motivo: perché era da qualche tempo che l'Inghilterra mirava alla Sicilia. Secondo motivo: temeva le mire e il consolidamento in Italia della Francia, che nel '49 aveva se non proprio intimorito l'Austria, aveva tuttavia creato (anche se solo potenzialmente) qualche problema negli equilibri delle potenze. E' chiaro che in funzione anti-austriaca, la Francia non avrebbe mai avuto un aiuto dalla Gran Bretagna. La Francia per l'Inghilterra era sempre quella di Napoleone, e il "parvenu" non solo era stato un carbonaro, che nel '31 aveva collaborato alla rivoluzione che voleva abbattere quel papato, che invece stranamente ora la Francia difendeva; inoltre si chiamava anche Napoleone. E le cautele da prendere non erano mai abbastanza. E se a Vienna l'Europa non aveva più un diabolico Metternich a Londra n'era nato un altro: Lord Palmeston.
Oltre che esserci questi elementi, c'erano pure gli interessi d'altri gruppi: quelli della massoneria e pure quelli degli ebrei.
Insomma prepararono gli inglesi diligentemente un disegno che coinvolgeva immensi interessi e che (con i giochi politici puliti e sporchi) dovevano essere sapientemente gestiti.
Inutile nasconderlo, i grandi finanziatori delle spedizioni di Garibaldi furono gli inglesi (G. Di Vita - Finanziamento della spedizione dei Mille, Foggia 1990 - che con i documenti reperiti in Scozia, è possibile oggi stabilire con esattezza le somme ricevute; oltre gli aiuti materiali, in armi e munizioni, come quelle di Samuel Colt)
Oltre questo, c'era la volontà (massonica, ebrea, protestante - da sole o insieme - e diventa un guazzabuglio cercare i confini dove finiva una e iniziava l'altra - Marx era figlio di ebrei, ed ebbe come collaboratore il Mazzini; Palmeston (alias Henry John Temple) era Gran Maestro della massoneria ma nello stesso tempo anche il fondatore dell'Ordine ebraico di Sion) di voler infliggere un colpo decisivo al Papato e colpire il Cattolicesimo, per indebolirlo nel mondo intero. (Non dimentichiamo che nel regime anticlericale di Vittorio Emanuele, quando fu minacciato di scomunica, gli inglesi gli ricordarono che era un onore esserlo, rammentandogli Enrico VIII e che proprio grazie a quella scomunica era finito il cattolicesimo in Inghilterra).

Il segreto lavorio di questi elementi siciliani non rimase ignoto alla polizia tanto è vero che molti arresti furono eseguiti nel 1852 e nel 1853 e due processi iniziati contro i numerosi imputati; ma niente fu provato contro di loro e tutti furono prosciolti.
Sul finire del 1854 un manipolo d'audaci, fra cui erano GIOVANNI INTERDONATO, GIUAEPPE SCARPARIA e FRANCESCO SAVONA, avanguardia di un più numeroso gruppo, partito da Malta sbarcò presso Messina. Circondati dalle truppe regie in una casa, i cospiratori si difesero con le armi e riuscirono a mettersi in salvo.

Il generale FILANGIERI, che allora si era dimesso da luogotenente, poteva forse pensare che, lontano lui dal governo dell'isola, i cospiratori avessero preso animo e intensificata la loro attività; ma la verità era che dal 1849 in poi i rivoluzionari non avevano mai interrotto la loro azione e che la Sicilia continuava ad essere per i Borboni un dominio incerto, una parte di Regno in costante agitazione, un paese ribelle, nemico della dinastia regnante e insofferente della tirannide.
Non perché il sovrano era un Borbone, ma più semplicemente perché non volevano un "sovrano", ma l'indipendenza. E proprio per questa lotteranno contro i Borboni, poi contro i Sabaudi, poi ancora nel 1943-1945; e per poco ci stavano riuscendo, perché per un breve periodo, la Sicilia di fatto si trovò ad essere già distaccata politicamente dall'Italia.
(Ne riparleremo a suo tempo)

ATTI REAZIONARI DI LEOPOLDO II
ABOLIZIONE DELLO STATUTO IN TOSCANA

Rientrato a Firenze sotto la scorta delle armate austriache, LEOPOLDO II aveva, il 21 novembre del 1848, concesso un'amnistia per tutti i delitti di lesa maestà e di defezione politica, però aveva escluso i condannati o accusati per offese alla Religione, i membri del ribelle Governo provvisorio e i ministri. Era questo un atto di clemenza che non illuse però molti sulla futura condotta politica, del Granduca, il quale ben presto mostrò il suo nuovo volto di principe ubbidiente all'Austria (iniziò a vestirsi con l'alta uniforme dell'Esercito Austriaco) e fornì prova del suo animo firmando, il 22 aprile del 1850, una convenzione con l'Austria, in cui si fissava a diecimila uomini il corpo di truppe imperiali destinate a rimanere per un tempo indeterminato in Toscana, e sospendendo, dopo un viaggio a Vienna, lo Statuto.
Questo fu sospeso con un decreto del 21 settembre 1850, in cui il Granduca:

"considerando che le circostanze politiche dell'Europa e maggiormente poi quelle particolari all'Italia e alla Toscana non gli avevano consentito né gli consentivano per allora di nuovamente attuare il sistema di governo rappresentativo, che già "da lui" accordato nel febbraio 1848 fu dalle violenze rivoluzionarie successivamente distrutto" e che pure
aveva dichiarato di "volere restaurare in modo che non si dovesse temere il rinnovo dei passati disordini, considerando che sotto l'imperiosa prevalenza delle circostanze enunciate non si poteva definire il tempo nel quale l'attuale precario stato di cose poteva aver termine; e considerando per ultimo esser frattanto indispensabile che ritenuti, quanto più le condizioni del tempo comportavano, i principi sanciti dallo Statuto, si provvedesse in modo spedito ed efficace alla migliore amministrazione del paese ed a consolidare l'ordine e la pubblica tranquillità"

stabiliva che si sciogliesse il Consiglio generale dei deputati e sospendeva la costituzione.
La sospensione dello Statuto produsse del gran malcontento. Protestò con una nobile lettera il ministro JACOPO MAZZEI, che con il CAPOQUADRI aveva dato le dimissioni; protestò il municipio fiorentino che, dietro proposta del gonfaloniere UBALDINO PERUZZI, chiese che fossero sollecitamente restaurati gli ordini costituzionali; protestarono altri gonfalonieri; ma ogni protesta fu vana, anzi provocò la destituzione di coloro che l'avevano fatta
.
Il malcontento crebbe per i successivi atti politici il 22 settembre del 1850 quando un decreto restringeva la libertà di stampa e concedeva all'autorità politica facoltà di accordare o togliere il permesso di pubblicare i giornali e di sequestrarli; il 24 settembre uscì un altro decreto, per pareggiare il disavanzo nel preventivo finanziario del 1851, aumentava il prezzo del sale, rinforzava, la legge di bollo e registro e le rispettive tariffe e aumentava la prediale tassa di famiglia; il 25 aprile fu firmato un concordato con la Santa Sede con cui l'autorità civile rinunziava al diritto di "sindacare e frenare l'esercizio pubblico della giurisdizione canonica episcopale, attribuendo esclusivamente ai vescovi la facoltà di prender cognizione dei delitti d'apostasia, eresia e simili, con obbligo da parte dello Stato di applicare le pene criminali da quelli inflitte, non esclusa la pena di morte, quando questa fosse stata ristabilita".
Infine un decreto del 25 aprile del 1851 autorizzava la polizia a trattenere in arresto fino ad otto giorni o ad allontanare fino ad un mese da un dato luogo i sospetti di criminosi propositi, e i consigli di prefettura a condannare senza appello al domicilio coatto fino ad un anno o alla reclusione gli autori di trame tendenti a turbare l'ordine pubblico, ad intralciare l'azione del governo o a rovesciare la Religione dello Stato.
(e se c'era questo timore, significa che quanto detto sopra "volontà di infliggere un colpo decisivo al Papato e colpire il Cattolicesimo" non era pura fantasia.

L'azione reazionaria si faceva di giorno in giorno più intensa: si sopprimevano o sospendevano giornali, si vietava la vendita di libri che trattavano materie costituzionali, si facevano numerosi arresti, si mettevano sotto processo cittadini per motivi politici o religiosi, si sfrattavano stranieri, si mandavano al confino i sospetti di trame.
Si giunse perfino a vietare la commemorazione dell'anniversario di Curtatone e Montanara nella chiesa di S. Croce, dove però il 29 maggio del 1851 si raccolse gran folla vestita a lutto che portò un copioso omaggio di fiori alla lapide consacrata ai morti in Lombardia. Intervenuti i gendarmi, il popolo fu scacciato dal tempio e numerosi colpi furono sparati; si eseguirono molti arresti e furono sottoposti in prefettura all'interrogatorio numerose persone autorevoli come GINO CAPPONI, COSIMO RIDOLFI, FERDINANDO ZANNETTI FRANCESCO FARINOLA E FERDINANDO BARTOLOMMEI. Quest'ultimo fu condannato a sei mesi di confino. Le tavole di bronzo che ricordavano i caduti di Curtatone e Montanara furono rimosse; ma i Fiorentini le fecero riprodurre e le mandarono a Torino, dove furono poste sotto il portico del Municipio.

Il 6 maggio del 1852, dopo un secondo viaggio a Vienna, LEOPOLDO II aboliva lo Statuto.
(cosi diceva il proemio del decreto)
(lo riportiamo fedelmente nella sua originale stesura e sintassi):

"Quando in mezzo agli straordinari avvenimenti, che in Italia e fuori si compivano, Noi deliberammo di concedere alla diletta nostra Toscana più larghe istituzioni politiche, promulgando il 15 febbraio 1848 lo Statuto fondamentale; non altro desiderio ci mosse se non quello di preservare il paese dalle commozioni onde era minacciato, di conformare la nostra maniera di governo con quella che in altri Stati vicini al tempo stesso si adottava, e di contribuire con il nuovo sistema, alla maggiore prosperità dei nostri amatissimi sudditi. Ma l'esito non rispose ai desideri comuni. I benefici sperati non si raccolsero; i mali temuti non si sfuggirono; e l'autorità nostra, disconosciuta da prima e resa inabile ad operare il bene, dovette poi cedere alle violenze di una rivoluzione; la quale rovesciò insieme lo Statuto e gettò la Toscana in mezzo alle più deplorevoli calamità.
Ristabilito dal coraggio dei Toscani rimasti a Noi fedeli il governo legittimo, Noi ringraziando la Provvidenza, che consolava con le amarezze del nostro esilio, accettammo il generoso fatto, riservandoci a restaurare, nonostante la dolorosa esperienza, l'ordinamento politico da Noi fondato nel febbraio del 1848, in modo che per altro non avesse a temersi la rinnovazione dei passati disordini.
A raffrenare nondimeno le macchinazioni dei faziosi, sconcertate sì, ma non dome dal felice successo del 12 aprile 1849, fu necessario assicurare la quiete dello Stato con mezzi straordinari; ed a provvedere poi in modo spedito ed efficace alla migliore amministrazione del paese Noi dovemmo riassumere l'esercizio d'ogni potere fino a tanto che le circostanze generali d'Europa e le condizioni particolari di Toscana e d'Italia non consentissero di restaurare quel sistema di governo rappresentativo.
Frattanto gravissimi avvenimenti si sono succeduti in Europa. La società, ove più ove meno minacciata nelle sue basi, ha cercato la propria salvezza nel ripararsi sotto il principio dell'autorità libera e forte. E mentre già nella più gran parte d'Italia non resta ormai traccia di governi rappresentativi, noi possiamo andare persuasi che la maggioranza stessa dei Toscani ricordandosi della quiete e della prosperità lungamente godute, ed ammaestrata dall'infelice esempio, senta più presto il bisogno di sperare nel consolidamento della potestà e dell'ordine lo sviluppo d'ogni benessere del paese, di quello che desideri di veder risorgere forme di governo, le quali non consonano né con le patrie istituzioni né con le abitudini del nostro popolo e fecero di sé mala prova nel breve periodo di loro esistenza.
Ora poiché il vero bene del paese esige e le condizioni generali richiedono che il governo dello Stato si costituisca sopra le basi stesse sulle quali fino al 1848, Noi perciò venuti con animo tranquillo nella determinazione di promulgare le seguenti disposizioni, assicuriamo i Toscani che continuerà ad essere, fin che la vita ci basti, la prima e più dolce cura per Noi quella di promuovere nel nostro diletto paese ogni maniera di morali e civili vantaggi. Così Iddio ci soccorra, e ci rafforzi ogni giorno di più la concorda fiducia dei nostri amatissimi popoli, mentre siamo consapevoli che al nuovo ordinamento politico della Toscana, tornando ad ampliarsi le prerogative del potere, viene a farsi più grave il peso dei nostri doveri".

Con lo Statuto fu abolita anche la guardia nazionale. Rimasero le leggi sulla stampa; ma di una vera e propria libertà non godevano più i giornali. L'ordinamento dei comuni subì importanti mutazioni: infatti, furono tolte le elezioni delle magistrature e fu restituito il sistema dell'estrazione a sorte sulle liste dei proprietari. Rimase il Consiglio di Stato, ma con funzioni puramente consultive e separato dal Consiglio dei Ministri, i quali non furono più responsabili davanti al paese, ma soltanto davanti al "principe, tornato sovrano assoluto". Un salto indietro di qualche secolo.

La presenza delle truppe austriache, ma forse più le condizioni morali e politiche del paese (il RICASOLI affermava che in Toscana non vi era l'ombra del sentimento nazionale e non vi erano veri cittadini, ma ragazzi chiacchieroni senza carattere e senza convinzioni, e il CAMPINI scriveva che non vi era d'attivo solo che la lingua e gli eroi da poltrona) faceva sì che l'opera reazionaria di LEOPOLDO II non suscitasse opposizioni violente. Vi fu solo qualche attentato: il 30 luglio, ad esempio, fu ferito il delegato di polizia di Siena e il 21 ottobre il ministro BALDASSERONI. Allora il governo granducale sfrattò i fuorusciti romani e napoletani, diede più ampi poteri ai Consigli di prefettura e "il 6 novembre ristabilì la pena di morte per i delitti di lesa maestà", di pubblica violenza contro il regime e la Religione, d'omicidio e di ferimento con propositi omicidi, pena che non fu richiamata in via transitoria, ma trovò posto nel nuovo codice penale, ottimo per quel tempo, sanzionato con decreto del 20 giugno del 1853.

Così la Toscana, negli anni che seguirono il ritorno di Leopoldo II, ritornava in condizioni certamente peggiori di quelle in cui si trovava prima del 1848.

I DUCATI DI MODENA E PARMA
UCCISIONE DI CARLO III

In migliori condizioni della Toscana si trovò, dopo la restaurazione, il ducato di Modena. Ritornando nel suo Stato, FRANCESCO V promise istituzioni adatte ai tempi e incaricò perfino una commissione di proporgli uno Statuto costituzionale; ma presto, dimenticate le promesse, si rimise sulla via dell'assolutismo, che se fu rigido e severo non assunse mai l'aspetto di violenta reazione.
Lui non volle mai riconoscere Napoleone III legittimo sovrano della Francia; ma si mantenne ligio all'imperatore d'Austria, con il quale stipulò una lega doganale, aderendo anche ad un'alleanza offensiva e difensiva italo-austriaca, che però non fu conclusa per l'opposizione di FERDINANDO II di Napoli.
Se fu un po' fatuo e qualche volta riuscì perfino ridicolo in fatto di politica estera, fu abbastanza prudente in fatto di politica interna, appoggiandosi al clero, alla nobiltà e ai contadini, che costituivano le classi veramente affezionate alla Corona. Al clero affidò quasi completamente le scuole e i collegi; gli studi universitari ebbero da lui carattere eminentemente clericale.
Si sforzò, ma inutilmente, di togliere il deficit finanziario. Nel 1851 istituì la coscrizione militare, escludendone gli ebrei, i quali però furono sottoposti ad un contributo. Nel 1851 pubblicò il codice civile, l'anno dopo il codice di procedura civile, nel 1855 il codice criminale, severissimo contro i delitti di Religione e di lesa Maestà, preceduto dal regolamento di polizia che venne fuori nel 1854.

In condizioni certamente non invidiabili si trovò invece il ducato di Parma. Dopo le vicende del 1848, CARLO II non aveva fatto più ritorno nel suo Stato e per lui avevano governato gli Austriaci, che, partiti dopo la denuncia dell'armistizio Salasco, vi erano tornati il 5 aprile con il generale D'ASPRE, il quale, proseguendo per la Toscana, vi aveva lasciato il barone STRUMER.
Nel marzo del 1849, CARLO II aveva abdicato in favore del figlio CARLO III. Questi, giovane stravagante, crudele e libertino, nel maggio fece una breve visita al ducato e vi pubblicò un proclama con il quale confermava il governo militare austriaco e prometteva che al prossimo suo ritorno avrebbe avuto cura di "porre le basi di uno Statuto consentendo alle esigenze dei tempi e alle massime di una sana politica".

Ma quando, nell'agosto, tornato a Parma, prese le redini del governo, Carlo III, non solo dimenticò la promessa ma mantenne il presidio austriaco, confermò lo stato d'assedio e la legge stataria, aggravandola con la pena delle nerbate ai rei, applicata con tanta larghezza che nei primi cinque mesi fu inflitta a circa trecento persone; soppresse l'università destituendone i professori; chiuse il collegio alberoniano; cacciò i Benedettini e i Padri della Missione accusati d'aver partecipato ai moti rivoluzionar e ne incorporò i beni a quelli dello Stato, infine per danneggiare i membri del governo rivoluzionario, li obbligò a pagare oltre seicentomila lire, che erano state spese da loro "per seguire, eccitare e accrescere il moto rivoluzionario".
"Fastidioso ai sudditi - scrisse di lui Nicomede Bianchi - libertino spudorato, gozzovigliatore da trivio, nelle cose di governo abusò di tutto, mercanteggiò il diritto di grazia, uccise le libertà comunali, sconvolse gli ordini della comunanza civile, dilapidò le finanze, non rispettò né le leggi né le forme della giustizia, fomentò odio tra le classi, castigò nei suoi sudditi il sentimento di patria con il nerbo e con il bastone".
A Parma si ripiombò nel peggior medioevo.

La duchessa MARIA LUISA desiderava che il marito abdicasse e forse, dietro sua ispirazione o incitamento, il marchese DELLA ROSA scrisse una relazione sulle tristi condizioni del ducato, la quale fu inviata a Vienna. Informato del fatto dal governo austriaco, il duca licenziò tutte le persone addette alla corte ed obbligò la moglie a rimaner chiusa nelle sue stanze.
Dopo cinque anni di regno CARLO III cadde vittima dell'odio intenso che aveva ispirato ai suoi sudditi. Nel pomeriggio del 26 marzo del 1854, mentre faceva ritorno a piedi alla reggia, fu colpito all'inguine da una pugnalata. Cessò di vivere dopo un giorno d'atroci sofferenze e dopo di aver chiesto perdono delle sue colpe a tutti. L'uccisore, ANTONIO CARRA, non fu scoperto e riuscì a rifugiarsi in America; il giudice GABBI, che aveva cominciato ad istruire il processo, fu aggredito e ferito.
La vedova MARIA LUISA con proclama del 27 marzo annunziò ai sudditi la morte di CARLO III e l'ascensione al trono del figlio ROBERTO, di cui assunse, per la minore età del successore, la reggenza, operando meglio del marito. Licenziò i vecchi ministri, rimosse i funzionari più odiati, revocò i provvedimenti più tristi, riaprì l'università, tolse il sequestro sui beni degli esuli, ridusse il numero dell'esercito permanente troppo sproporzionato all'importanza del ducato, diminuì le spese e la dotazione della Corona e guadagnò in brevissimo tempo al governo la fiducia della popolazione che fornì prova del mutato animo coprendo in meno di tre mesi il prestito -che era facoltativo e non imposto- di due milioni e mezzo di lire.


Passati in rassegna i piccoli Stati sotto la restaurazione
dobbiamo tornare ora nel Lombardo-Veneto
dove anche qui la reazione dopo il '49, fu dura e gestita militarmente quasi unicamente
dal pluriottantenne maresciallo Radetzky;
compreso un altro tentativo rivoluzionario a Milano nel '53

anno 1849 - 1854 - Atto Settimo > > >

 

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