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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1848

FUGA DI PIO IX - LA REPUBBLICA ROMANA - FUGA DI LEOPOLDO
( Atto Quattordicesimo - l'ultimo del 1848 )

FUGA DI PIO IX A GAETA - IL "BREVE" PONTIFICIO DEL 27 NOVEMBRE - LA SUPREMA GIUNTA DI STATO - L'ASSEMBLEA COSTITUENTE ROMANA - PROCLAMAZIONE DELLA REPUBBLICA ROMANA - PIO IX CHIEDE 1' INTERVENTO STRANIERO - TUMULTI DI FIRENZE E DIMISSIONI DEL MINISTERO RIDOLFI - IL MINISTERO CAPPONI - TUMULTI DI LIVORNO - IL MONTANELLI GOVERNATORE DI LIVORNO - LA COSTITUENTE ITALIANA E IL MONTANELLI - IL GUERRAZZI E IL MONTANELLI AL GOVERNO - FUGA DI LEOPOLDO II - IL TRIUNVIRATO - IL GRANDUCA A GAETA
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LA FUGA DI PIO IX DA ROMA

La sera del 24 novembre, travestito da prete ed accompagnato dal suo collaboratore segreto, Pio IX uscì dal Quirinale ...e in carrozza chiusa si fece accompagnare davanti la chiesa dei Santi Pietro e Marcellino, dove stava ad aspettarlo il conte SPAUR, ambasciatore di Baviera. Salito nella carrozza di quest'ultimo, il Pontefice si diresse verso il confine napoletano.

Nel corso del viaggio Pio IX fu raggiunto dalla contessa Spaur, mentre il cardinale ANTONELLI travestito da laico lo raggiunge anche lui ma poi corre a precederlo nel luogo di destinazione: che era Gaeta, dove l'augusto fuggiasco giunse la sera del 25 e subito si mise a scrivere a FERDINANDO II:
"Il sommo Pontefice Romano, il Vicario di Gesù Cristo, il Sovrano degli Stati della Santa Sede si è trovato nella circostanza di abbandonare la capitale dei suoi domini per non compromettere la Sua dignità e per non mostrare di approvare con il Suo silenzio gli enormi eccessi che si sono commessi e si commettono a Roma. Egli è in Gaeta, ma vi è per breve tempo, giacché non intende compromettere in nessun modo la Maestà vostra e la quiete dei suoi popoli".

Ferdinando II, appena saputa la notizia, lasciò Napoli con la famiglia e si precipitò a Gaeta e, aiutato dal cardinale Antonelli, riuscì a persuadere il Pontefice a non proseguire il viaggio ma a prender dimora in quella città.
Pio IX, fuggendo da Roma, aveva lasciato al marchese SACCHETTI, suo maggiordomo, la seguente lettera:
"Affidiamo alla sua nota prudenza ed onestà di avvertire della nostra partenza il ministro GALLETTI, impegnandolo con tutti gli altri ministri non tanto per premunire i palazzi, ma molto più le persone addette a lei stessa, che ignorano la nostra decisione. E se tanto abbiamo a cuore lei e i suoi famigliari, molto più abbiamo a cuore raccomandare a detti signori la quiete e l'ordine dell'intera città".

Il ministero, appresa la partenza del Pontefice pubblicò un energico proclama:

"Il Pontefice è partito questa notte da Roma trascinato da funesti consigli. In questi momenti solenni il Ministero non mancherà a quei doveri che a lui impongono la salute della Patria e la fiducia che gli accordò il popolo. Tutte le disposizioni sono prese perché l'ordine sia tutelato e siano assicurate le vite e le sostanze dei cittadini. Tutte le truppe e le guardie civili siano sotto le armi ai loro rispettivi quartieri pronte ad accorrere dove il bisogno lo richiedesse. Il Ministero unito alla Camera dei rappresentanti del popolo e al Senato di Roma prenderà quelle ulteriori misure che l'impero delle circostanze richiede. Romani, fidate in noi, mantenetevi degni del nome che portate e rispondete con la grandezza dell'anima alle calunnie dei vostri nemici".

Nel medesimo tempo fu convocata dal presidente STERBINI la Camera dei Deputati; il MAMIANI diede lettura della lettera al Sacchetti, affermando che costituiva una prova della legalità del ministero; l'assemblea, infine, respinta la proposta del principe di CANINO, di proclamare la Costituente, deliberò d'inviare un appello alle popolazioni delle province, annunciando loro la sua solidarietà con il ministero e invitandole all'unione da cui in gran parte dipendevano "l'unione, la concordia e la liberazione d'Italia". Identico invito rivolse ai Romani e alle province, con un manifesto, l'Alto Consiglio:
"Voi, popoli, ricorderete che la tranquillità dello Stato Pontificio non solo è necessaria a mantenere quella reputazione di civile sapienza e di bontà che avete nel mondo, ma è necessaria ancora a preservare e prosperare la sorte dell'italica grandezza e indipendenza e la pace del mondo".

Il 3 dicembre 1848, giunse a Roma un "breve" pontificio, scritto a Gaeta il 27 novembre, il quale era così concepito:

"Le violenze usate contro di noi negli scorsi giorni e le manifestate volontà di prorompere in altre (che Iddio tenga lontane, ispirando sensi d'umanità e moderazione negli animi) ci hanno costretti a separarci temporaneamente dai nostri sudditi e figli, che abbiamo sempre amato ed amiamo. Fra le cause che ci hanno indotto a questo passo, Dio sa quanto doloroso al nostro cuore, ma di grandissima importanza è quella d'avere la piena libertà nell'esercizio della suprema potestà della Santa Sede, quale esercizio potrebbe con fondamento dubitare l'orbe cattolico che nelle attuali circostanze ci fosse impedito. Che se una tale violenza è oggetto per noi di grande amarezza, questa si accresce a dismisura ripensando alla macchia d'ingratitudine contratta da una classe di uomini perversi al cospetto dell'Europa e del mondo, e molto più a quella che nelle anime loro ha impresso lo sdegno di Dio, che presto o tardi rende efficaci le pene stabilite dalla sua Chiesa. Nella ingratitudine dei figli riconosciamo la mano del Signore che ci percuote, il quale vuole soddisfazione dei nostri peccati e di quelli dei popoli; ma senza tradire i nostri doveri, Noi non ci possiamo astenere dal protestare solennemente al cospetto di tutti (come nella stessa sera funesta del 16 novembre e nella mattina del 17 protestammo verbalmente avanti il corpo diplomatico che ci faceva onorevole corona, e tanto giovò a confortare il nostro cuore) che noi avevamo ricevuta una violenza inaudita e sacrilega. La quale protesta intendiamo di ripetere solennemente in questa circostanza, di avere cioè soggiaciuto alla violenza, e perciò dichiariamo tutti gli atti, che sono da quella derivati di nessun vigore e di nessuna legalità. Le dure verità e le proteste ora esposte ci sono state strappate dal labbro dalla malizia degli uomini e dalla nostra coscienza, la quale nelle circostanze presenti ci ha con forza stimolati all'esercizio dei nostri doveri. Tuttavia noi confidiamo che non ci sarà vietato innanzi al cospetto di Dio, mentre lo invitiamo e supplichiamo a placare il suo sdegno, di incominciare la nostra preghiera con le parole di un santo re e profeta: "Memento, Domine, David et omnis mansuetudinis eius". Intanto, avendo a cuore di non lasciare acefalo in Roma il governo del nostro Stato, nominiamo una Commissione Governativa composta dei seguenti soggetti: il cardinale CASTRACANE, monsignor ROBERTO ROBERTI, il principe di RUVIANO, il principe BARBERINI, il marchese BEVILACQUA di Bologna, il marchese RICCI di Macerata, il tenente generale ZUCCHI.
Nell'affidare alla detta Commissione Governativa la direzione temporanea dei pubblici affari, raccomandiamo a tutti i nostri sudditi e figli, la quiete e la conservazione dell'ordine. Finalmente vogliamo e comandiamo che a Dio si innalzino quotidiane e fervide preghiere per l'umile nostra persona e perché sia resa la pace al mondo e specialmente al nostro Stato di Roma, ove sarà sempre il cuor nostro, qualunque parte ci alberghi dell'ovile di Cristo. E Noi, com'è debito del supremo sacerdozio, a tutti precedendo, devotissimamente invochiamo la Gran Madre di misericordia e Vergine Immacolata ed i Santi Apostoli Pietro e Paolo, affinché, come Noi ardentemente desideriamo, sia allontanata dalla città di Roma e da tutto lo Stato l'indignazione di Dio Onnipotente".

Contemporaneamente Pio IX scrisse al cardinale CASTRACANE di assumere la presidenza della Commissione e di prorogare i due Consigli legislativi.
Conosciuto il "breve" Pontificio, furono dal ministero interpellati i membri della Commissione nominata dal Papa. Essi dichiararono che non accettavano l'incarico e qualcuno domandò i passaporti per uscire dallo Stato. Quindi, il ministero, riunitosi in consiglio, deliberò di dimettersi, ma dietro richiesta del Parlamento, ciascuno rimase al suo posto, eccettuati il LUNATI e il SERENI i cui portafogli furono presi interinalmente dallo STERBINI e dal MUZZARELLI; inoltre, la sera stessa del 3 dicembre la Camera dei Deputati approvò i seguenti provvedimenti:
"1° - Il Consiglio dei Deputati, riconoscendo che l'atto che si dice firmato dal Pontefice in Gaeta il 27 novembre 1848 non ha alcun carattere d'autenticità e che, quand'anche l'avesse, non presentando sotto nessun rapporto i caratteri della costituzionalità, ai quali è soggetto non meno il sovrano che la nazione, non potrebbe essere accettato; e dovendo altronde obbedire alla legge della necessità ed al bisogno di avere un governo, dichiara che gli attuali ministri debbono continuare nell'esercizio di tutti gli atti governativi finché non si è altrimenti provveduto.
2° - Si mandi immediatamente una deputazione del Consiglio a Sua Santità per invitarlo a tornare a Roma ed a provvedere altrimenti alla mancanza del capo del potere esecutivo.
3° - S'invita l'Alto Consiglio a fare un'eguale dichiarazione e ad unire taluno dei suoi membri alla formazione della deputazione da mandarsi a Sua Santità.
4° - Un proclama sia fatto al popolo di Roma e dello Stato onde prevenirlo delle misure prese dal Consiglio dei Deputati, ed altro alle Guardie civiche onde raccomandar loro la tutela dell'ordine pubblico e la garanzia delle libertà e leggi fondamentali dello Stato".

L'Alto Consiglio, adunatosi la mattina dopo, approvò queste deliberazioni. La deputazione da inviare al Pontefice fu formata dell'abate REZZI e del dottor FUSCONI, in rappresentanza dei Deputati; di monsignor MERTEL e del marchese PAOLUCCI per l'Alto Consiglio, e del Principe CORSINI per il Municipio. I legati partirono il 6 dicembre ma giunti a Portello sul confine napoletano furono impediti ad entrare nel regno. Scrisse il CORSINI al Cardinale ANTONELLI lo scopo dell'ambasciata, ma ebbe la risposta che il Papa per i motivi espressi nel "breve" si era allontanato dalla capitale e per gli stessi motivi, con gran dispiacere, non voleva ricevere nessuna deputazioni incaricata di pregarlo di ritornare a Roma.
Qui intanto giungeva la notizia, che una flotta francese con tremilacinquecento soldati aveva gettato le ancore nelle acque di Civitavecchia per ristabilire con la forza il principato assoluto del Papa sotto il pretesto di difenderne la personale libertà. Il ministero, l'8 dicembre 1848, protestò vivacemente
"contro l'intervento armato straniero nello Stato romano -e dichiarò- che alle truppe della Francia si sarebbe impedita con tutte le forze possibili l'entrata e la violazione del territorio nazionale e che - concludevano i ministri - noi intendiamo di difendere l'onore non pure degli Stati romani, ma di tutta quanta l'Italia, e di assecondare la ferma volontà e deliberazione di tutti i suoi popoli; e similmente facciamo solenne e generale richiamo ai potentati di Europa e al senso loro di equità e di giustizia. Poiché, la causa è comune a tutte le nazioni gelose dell'indipendenza e altere di aver conquistato la propria libertà politica".

Quattro giorni dopo, essendo falliti tutti i tentativi di accordarsi con il Pontefice, la Camera dei Deputati decretava:
"che si costituisse una provvisoria e suprema Giunta di Stato composta di tre persone scelte fuori del Consiglio dei Deputati, nominata dal Consiglio dei Deputati stessi e approvata dall'Alto consiglio, la quale in nome del principe doveva esercitare tutti gli uffici pertinenti al capo del potere esecutivo nei termini dello Statuto e secondo le norme e i principi del diritto costituzionale; e dovesse immediatamente cessare le sue funzioni al ritorno del Pontefice o qualora esso deputasse, con atto vestito della piena legalità, persona a tener le sue veci e adempierne gli uffici, e questa assumesse, di fatto, l'esercizio di dette funzioni".

A formare la Giunta furono chiamati il principe CORSINI, senatore di Roma, il conte FRANCESCO CAMERATA, senatore di Ancona e di GIUSEPPE GALLETTI, in sostituzione di GAETANO ZUCCHÍNI, senatore di Bologna, che rifiutò.
Contro questo fatto Pio IX, il 17 dicembre, protestò energicamente, dichiarando che:
"quella Giunta di Stato istituita in Roma non era altro che un'usurpazione dei Sovrani poteri, e che essa non aveva né poteva avere alcun'autorità".

Allora la Giunta, con proclama del 20 dicembre 1848, diretto alle popolazioni dello Stato, promise che si sarebbe adoperata per la sollecita convocazione di una Costituente romana.
Le cose precipitavano: il 23 si dimise il MAMIANI e poiché si erano ritirati il LUNATI e il SERENI, si chiamarono l'avvocato CARLO ARMELLINI, l'avvocato FEDERICO GALEOTTI e LIVIO MARIANI. Al primo fu affidato il dicastero dell'Interno, al secondo quello della Giustizia, al terzo quello delle Finanze; il MUZZARELLI, oltre alla presidenza e quello dell'Istruzione, prese il portafoglio degli Esteri; il CAMPELLO rimase alle Armi e lo STERBINI al Commercio e Lavori Pubblici.
Il 26 dicembre 1848, la Giunta di Stato chiuse il parlamento, che ormai non funzionava più per mancanza di numero legale, e il 29 il CAMERATA e il GALLETTI (il Corsini si era dimesso) dichiararono di assumer insieme con i ministri il governo provvisorio dello Stato (Suprema Giunta) fino alla convocazione della Costituente e indissero le elezioni a suffragio diretto e universale con il seguente decreto:
"È convocata in Roma un'Assemblea Nazionale, che con pieni poteri rappresenti lo Stato romano; l'oggetto della medesima è di prendere tutte quelle deliberazioni che giudicherà opportune per determinare i modi di dare un regolare, compiuto e stabile ordinamento alla cosa pubblica, in conformità dei voti e delle tendenze di tutta o della maggior parte della popolazione. Sono convocati i comizi per le elezioni del 21 gennaio 1849; duecento il numero dei rappresentanti; il voto sarà diretto e universale; gli elettori tutti i cittadini dello Stato dagli anni ventuno compiuti, che vi risiedono da un anno e non privati dei diritti civili; eleggibili tutti i medesimi che abbiano compiuto l'età di 25 anni; il 5 di febbraio destinato all'apertura dell'Assemblea".

Anche contro il decreto che convocava l'assemblea il Papa protestò e il 1° gennaio del 1849 minacciò la maggiore scomunica a tutti coloro che avrebbero preso parte alle elezioni.
A Roma iniziano manifestazioni popolari al grido di "Repubblica".
Dopo la pubblicazione del decreto, i due membri della Giunta deposero il loro mandato e rappresentanti del potere esecutivo rimasero i soli ministri. Il ministero prese il nome di Commissione provvisoria di Governo, e portò a termine alcune riforme per rendere più facile alla Costituente il suo compito.
Il 21-22 gennaio si vota nei collegi elettorali dello Stato romano.
Nonostante la minaccia delle censure ecclesiastiche, il concorso alle urne non fu scarso e, poiché i legittimisti e i moderati si erano astenuti, la vittoria fu dei rivoluzionari. Per dare un certo carattere nazionale all'assemblea si elessero anche cittadini degli altri Stati italiani, come GIUSEPPE GARIBALDI (*), GIUSEPPE MAZZINI, E. CERNUSCHI, FRANCESCA DALL'ONGARO.
(*) Garibaldi era corso a Roma, e vi era entrato il 12 dicembre alla testa dei suoi volontari).

Il 5 febbraio 1849 avvenne la prima adunanza dell'Assemblea costituente, la quale fu inaugurata dall'ARMELLINI con un'orazione in cui, fatto omaggio alla sovranità dei popolo, narrava la storia del regno di Pio IX, i casi occorsi dopo la partenza del Papa, le opere dei ministeri e del Governo provvisorio ed augurava un fulgido avvenire alla patria.

Cominciati i lavori, si discusse della forma di regime da dare allo Stato, e TERENZIO MAMIANI si dichiarò contrario alla proclamazione della repubblica, che, diceva avrebbe, in ogni caso, dovuto esser lasciata alla Costituente italiana. Portata alla votazione la proposta per la repubblica messa avanti da QUIRICO FILOPANTI, di cento 142 deputati presenti 120 furono favorevoli, 10 contrari, 12 si astennero.
Il giorno 9 febbraio 1849 fu pubblicato il "decreto fondamentale" dell'assemblea costituente romana:


Art. - Il Papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Romano.
Art.- Il Pontefice romano avrà tutte le guarentigie necessarie per l'indipendenza nell'esercizio della sua potestà spirituale.
Art. - La forma del governo dello Stato Romano sarà la democrazia pura e prenderà il glorioso nome di REPUBBLICA ROMANA.
Art. - La Repubblica Romana avrà con il resto d'Italia le relazioni che esige la nazionalità comune".

(I PRINCIPI FONDAMENTALI e tutti i 69 ARTICOLI SONO RIPORTATI QUI)

L'assemblea creò un magistrato supremo per governare lo Stato con il nome di "Comitato Esecutivo", a formare il quale furono chiamati i romani CARLO ARMELLINI e MATTIA MONTECCHI e il napoletano AURELIO SALICETI, i quali completarono il ministero nominando il SAFFI agli Interni, GIOVITA LAZZARINI alla Giustizia, CARLO RUSCONI agli Esteri, IGNAZIO GRICCIOLI alle Finanze e lasciando il MUZZARELLI all'Istruzione, lo STERBINI ai Lavori Pubblici e il CAMPELLO alle Armi.
La bandiera adottata fu il tricolore italiano con l'aquila romana sull'asta.

LA RICHIESTA DEL PAPA DI UN INTERVENTO ARMATO

Il Pontefice protestò ancora e il 18 febbraio del 1849 il cardinale ANTONELLI, che fungeva da Segretario di Stato, inviò alla Spagna, all'Austria, alla Francia e al Regno delle Due Sicilie una nota in cui fra l'altro era detto (e lo riportiamo fedelmente):

"�.le cose dello Stato Pontificio sono in preda di un incendio devastatore per opera del partito sovvertitore di ogni sociale costituzione, che sotto speciosi pretesti di nazionalità e d'indipendenza nulla ha trascurato di porre in opera per giungere al colmo delle proprie nequizie. Il decreto, detto fondamentale, emanato nel 9 corrente dall'assemblea costituente offre un atto che da ogni parte ribocca della più nera fellonia e della più abominevole empietà. Con esso si dichiara principalmente decaduto il papato di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Romano, si proclama una repubblica e con altro atto si decreta l'abbassamento degli stemmi del Santo Padre. Sua Santità, nel vedere così vilipesa la suprema sua dignità di Pontefice e di sovrano, protesta in faccia ai potentati tutti, a tutte le nazioni ed a tutti i singoli cattolici del mondo universo contro quest'eccesso d'irreligione, contro sì violento attentato di spoglio degli imprescrittibili e sacrosanti suoi diritti; quindi laddove non occorresse con un pronto riparo, giungerebbe il soccorso allorquando gli Stati della Chiesa, ora intieramente in preda dei suoi acerrimi nemici, fossero ridotti in cenere. Pertanto, avendo il Santo Padre esauriti tutti i mezzi che erano in suo potere, spinto dal dovere che ha al cospetto di tutto il mondo cattolico di conservare integro il patrimonio della Chiesa e la sovranità che vi è annessa, così indispensabile a mantenere, come Capo Supremo della Chiesa stessa, e mosso altresì dal gemito dei buoni che reclamano un aiuto, non potendo più oltre sopportare un giogo di ferro ed una mano tirannica, si rivolge di nuovo a quelle stesse potenze, e specialmente a quelle cattoliche, che con tanta generosità di animo ed in modo non dubbio hanno manifestato la loro decisa volontà di essere pronte a difendere la sua causa, nella certezza che vorranno con ogni sollecitudine concorrere col loro morale intervento affinché Egli sia restituito alla sua Sede, alla capitale di quei domini che furono appunto costituiti a mantenere la sua piena libertà ed indipendenza, garantita dai trattati che formano la base del diritto pubblico europeo.
E perché l'Austria, la Francia, la Spagna e il Regno delle Due Sicilie si trovano per la loro posizione geografica in situazione di poter sollecitamente accorrere con le loro armi a ristabilire nei domini della Santa Sede l'ordine manomesso da un'orda di settari, così il Santo Padre nel religioso interesse di queste potenze figlie della Chiesa, domanda con piena fiducia il loro intervento armato per liberare principalmente lo Stato della Santa Sede da quella fazione di tristi che con ogni sorta di scellerataggini vi esercita il più atroce dispotismo. Solo in tal modo potrà essere ripristinato l'ordine negli Stati della Chiesa e restituito il Sommo Pontefice al libero esercizio della suprema sua autorità, siccome lo esigono imperiosamente il sacro ed augusto suo carattere, gl'interessi della Chiesa universale e la pace dei popoli, e così potrà Egli conservare quel patrimonio che ha ricevuto nell'assunzione del pontificato per trasmetterlo integro ai suoi successori.
La causa è dell'ordine e del cattolicesimo. Per la qual cosa il Santo Padre si confida che mentre tutte le potenze con cui si trova in amichevoli relazioni e che in tanti modi nella situazione nella qual è stato gettato da un partito di faziosi gli hanno manifestato il loro più vivo interesse, daranno un'assistenza morale all'intervento armato, che per la gravità delle circostanze ha dovuto invocare; le quattro potenze sopraccennate non indugeranno un momento di prestare l'opera loro richiesta, rendendosi così benemerite dell'ordine pubblico e della Religione".

Sta per iniziare l'eroica resistenza della popolazione romana, che resta sconcertata quando si muove per primo in soccorso del pontefice, come potenza straniera il governo repubblicano Francese di LUIGI NAPOLEONE BONAPARTE, eletto il 10 dicembre dell'anno precedente, Presidente della nuova Repubblica Francese.
Paradossalmente l'ex rivoluzionario, che aveva partecipato nel 1831 all'insurrezione nello Stato Pontificio, dopo aver cercato il consenso dei conservatori e dei cattolici francesi si muove per andare a provocare la fine dell'effimera stagione del repubblicanesimo italiano.
Le vicende di questo periodo, sono nella prossima puntata: del 1849.

Prima di chiudere questo 1848 dobbiamo prima occuparci di un'altra Costituente:
quella Toscana; e di un'altra "Fuga", quella di Leopoldo II.


TUMULTI DI FIRENZE - DIMISSIONI DEL MINISTRO RIDOLFI
IL MINISTERO CAPPONI - TUMULTI DI LIVORNO
IL MONTANELLI E LA COSTITUENTE ITALIANA
IL MONTANELLI E IL GUERRAZZI AL GOVERNO
FUGA DI LEOPOLDO II - IL TRIUMVIRATO

Molto simili a quelli dello Stato Pontificio furono i fatti della Toscana. L'apertura del parlamento avvenne il 16 giugno del 1848 e il Granduca, per l'occasione, pronunciò un discorso in cui protestò amore sviscerato all'Italia, della cui grandezza e prosperità formulò vivo augurio, ed elogiò con calore il governo rappresentativo, dal quale il paese avrebbe ricavato immensi benefici (lo abbiamo riportato nelle precedenti puntate).

Pareva che un'era nuova si fosse inaugurata in Toscana e il paese vibrava di patriottismo; ma l'entusiasmo bellicoso cominciò a scemare quando si vide che la guerra non sarebbe stata di cosi breve durata come si credeva e quando si ebbe notizia della "nera" giornata di Curtatone e Montanara.
I reazionari conservatori, che si erano ritirati nell'ombra, ritornarono fuori a seminare lo scetticismo e il malcontento; il disagio economico provocò proteste e tumulti; le annessioni allo Stato Sardo generarono preoccupazioni e timori; i partiti cominciarono a dilaniarsi e i circoli politici si scagliarono contro il Governo, accusandolo di non provvedere sufficientemente alla difesa della patria.

Una vittoria piemontese avrebbe senza dubbio sanato le discordie, dissipato il malcontento e risuscitato lo spirito guerresco; invece giunsero dal teatro della guerra dolorose notizie che aggravarono la situazione. Il 30 luglio, una turba di faziosi, guidata da FRANCESCO TRUCCHI, nizzardo, mentre LEOPOLDO II era a Pisa, percorse le vie di Firenze gridando e, giunta in Piazza della Signoria, dichiarò decaduta la casa di Lorena e istituito un governo provvisorio, designandone membri GINO CAPPONI, il GUERRAZZI, il GIUSTI e CARLO PIGLI.
La dimostrazione non ebbe seguito, ma il ministero, che era composto da BALDASSERONI, CORSIVI, ANDREUCCI, CAPOQUADRI e BARTOLINI ed aveva alla presidenza il RIDOLFI, sentendo che non godeva la fiducia del paese, il giorno dopo presentò le dimissioni. Quel giorno stesso fu votata e promulgata una legge che autorizzava la mobilitazione di dieci battaglioni di Guardia civica.
Il Granduca, tornato subito da Pisa, conferì l'incarico di formare il nuovo ministero al barone BETTINO RICASOLI, gonfaloniere di Firenze, che però non vi riuscì. Allora l'incarico fu dato a GINO CAPPONI, il quale si scelse come collaboratori l'avvocato DONATO SAMMINIATELLI per gl'Interni, il cav. JACOPO MAZZEI per la Giustizia e il Culto, il cavaliere LEONIDA LANDUCCI per le Finanze, l'avvocato CELSO MAZZUCCHI per l'Istruzione, il colonnello GIACOMO BELLUOMINI per la Guerra e GAETANO GIORGINI come segretario della presidenza con l'interim degli Esteri.

Il nuovo ministero entrò in carica il 17 agosto. Esponendo al parlamento il suo programma dichiarò che sarebbe stata cura del Governo
"di provvedere alla guerra per il caso che si debba essa riaccendere, e quando essa cessi per via di accordi, di promuovere quanto è in noi l'indipendenza d'Italia, e mantenere, quel principio di nazionalità senza il quale non potrebbe aversi pace onorata e durevole".
Inoltre il programma assicurava che il ministero si sarebbe adoperato per la confederazione e impegnato a restaurare l'ordine nel paese.
Ma a turbare maggiormente l'ordine avvennero di lì a poco i fatti di Livorno.
Il 23 agosto approdava in quel porto il piroscafo "Achille" che recava a bordo il barnabita bolognese ALESSANDRO GAVAZZI, demagogo fanatico, il quale aveva seguito in guerra i volontari romani e, dopo i disastri del Veneto, si era dato ad arringare le turbe procurandosi l'espulsione dallo Stato Pontificio. Richiamato in patria e approdato a Livorno, il Gavazzi chiese il permesso di sbarcare e di attraversare il territorio toscano, ma il governatore non glielo permise e fece sorvegliare la nave.
I Livornesi, saputo il fatto, il 24 numerosi accorsero all'Achille, fecero scendere il frate e lo portarono in trionfo ad un albergo della città. Il Governo concesse allora al barnabita il passaggio per la Toscana. Il Gavazzi, accompagnato da alcuni esaltati suoi ammiratori, partì, ma, giunto a Signa, fu preso e scortato dai carabinieri granducali al confine; mentre i suoi accesi sostenitori furono condotti in carcere a Firenze.
Alla notizia di questo fatto, i Livornesi si sollevarono, imprigionarono il generale LELIO GUINIGI, governatore della città, e istituirono una specie di governo provvisorio a capo del quale posero il napoletano GIOVANNI LA CECILIA. La mattina dopo, il 25 agosto, alla Guardia civica ci fu una distribuzione di fucili, il popolo era convinto che dovessero servire per stroncare le loro manifestazioni di piazza, proruppe in minacce. Iniziatasi una violenta zuffa, la plebe penetrò nell'arsenale si impadronì delle armi ed occupò i posti delle guardie.
Il governo, per ricondurre l'ordine a Livorno, prima inviò VINCENZO MALENCHINI, poi, con pieni poteri, il colonnello LIONETTO CIPRIANI alla testa di millecinquecento uomini. Il Cipriani, anziché usare i modi conciliativi, iniziò la sua opera con zelante severità, proibendo sotto pena di ammende e di carcere le riunioni popolari e i Circoli (2 settembre), ma il popolo, ancora più infuriato, lacerò il bando e, quando sopraggiunsero i soldati, li accolse a fucilate.
Circa sessanta soldati caddero uccisi nel breve combattimento e le truppe, sopraffatte, si ritirarono nella fortezza, mentre il Cipriani riuscì a fuggire a Firenze.
Partito il Cipriani, la fortezza capitolò e la città rimase in balia dei rivoltosi; ma la Camera di Commercio chiese al Governo ed ottenne che fosse mandato il GUERRAZZI e all'arrivo di questo l'ordine fu ristabilito. Il Guerrazzi, radunato un consiglio popolare, fece votare le condizioni alle quali la città prometteva di ritornare all'obbedienza. Le condizioni furono: oblio delle offese, riforma della Guardia civica, cessazione dei poteri straordinari. Queste condizioni furono accettate dal Granduca che, per prima cosa, con un decreto ordinò lo scioglimento della Guardia livornese e la sua ricostituzione con quelle norme che avrebbero suggerite il Municipio e la Commissione governativa.
Non contento di queste concessioni, il popolo chiese come governatore il GUERRAZZI, ma il Governo si rifiutò e inviò invece FERDINANDO TARTINI, che non riuscì ad esercitare la sua autorità perché i Livornesi non vollero neppure riceverlo.
Allora il Governo interruppe ogni comunicazione con la città ribelle, ma, quando una deputazione di Livorno andò a Firenze a chiedere un governatore liberale, giudicò prudente accontentare i Livornesi e il 5 ottobre diede loro Giuseppe Montanelli.

GIUSEPPE MONTANELLI era nato a Fucecchio (1813-1862). Carbonaro, aveva fatto parte della Giovine Italia, collaboratore dell'"Antologia", era stato sansimoniano, quindi acceso giobertiano; aveva combattuto con i volontari toscani a fianco dell'esercito piemontese e nella battaglia del '29 maggio a Curtatone; era stato gravemente ferito ma anche fatto prigioniero; fu infatti, creduto morto e gli erano stati perfino fatti solenni funerali.
Era - uscito dalla prigione - da poco riapparso a Firenze e, benvisto, tanto dai democratici quanto dai moderati, leader dei democratici socialisti livornesi, era tornato alle lotte politiche, facendosi sostenitore della Costituente italiana.
Favorevole ad un'unione federalista, era contrario all'egemonia piemontese, ma favorevole ad un sistema regionalistico.
Recatosi a Livorno, il Montanelli, l'8 ottobre 1848, espose la prima concreta alternativa ai disegni federalisti neoguelfi e agli inconcludenti negoziati dei principi e bandì davanti ad un foltissimo pubblico, il progetto di una Costituente italiana:

"La mia fede politica - disse - è democratica, nazionale, cristiana; democratica perché io ritengo essere finita l'epoca delle classi privilegiate e cominciata l'epoca dei popoli; è nazionale perché io guardo i diversi Stati d'Italia come parti di un tutto, come membri di un corpo; è cristiana perché io guardo il movimento politico, che attualmente si concreta nelle società europee come una più larga incarnazione dell'idea cristiana, come un'applicazione dei principi immortali del Cristianesimo alla civile società. Noi Italiani siamo in un periodo di rivoluzione. Questa rivoluzione è principalmente animata da un bisogno di nazionalità. I governi italiani non possono avere la forza se non in quanto partecipano a questa rivoluzione ed allo spirito di cui s'informa, vale a dire allo spirito nazionale. Personificare l'Italia, avere un governo nazionale italiano, ecco l'anima della nostra rivoluzione. Fino a quando questo fine non sarà conseguito, essa non avrà avuto compimento. E, fino a quando i governi italiani non creeranno un governo nazionale, non avranno acquistato quell'autorità della quale hanno tanto bisogno. La fondazione del governo nazionale è necessaria per effettuare la stessa impresa dell'indipendenza. Perciò io credo che il bisogno supremo dell'Italia attuale sia che i governi separati italiani compongano una Dieta permanente, che sia la personificazione vivente dell'Italia. Si tratta dunque di creare il governo dei governi, la costituzione delle costituzioni. Non crediamo, che da negoziazioni diplomatiche tra governi e governi italiani, possa uscire la fondazione del governo nazionale. È necessario dunque che la Dieta permanente italiana sia l'opera di una costituente nazionale, in cui i rappresentanti tutti dei diversi Stati d'Italia si uniscano. Questo consesso solenne stabilirà le basi, le attribuzioni, il centro della Dieta.
La Toscana può avere una magnifica parte nell'effettuazione di questo disegno. Essa dovrebbe prendere l'iniziativa, fare il suo programma per la convocazione, scegliere i suoi rappresentanti, e invitare gli altri governi italiani a fare altrettanto. Né questo sarà un pensiero orgoglioso per noi. Lo sarebbe se noi dicessimo: Vogliamo essere il centro d'Italia; vogliamo che la capitale politica dell'Italia sia fra noi. Ma questo deve essere oggetto delle discussioni della Costituente. Tutti i rappresentanti dell'Italia debbono concorrere in questa determinazione; e certamente se profferiranno il nome venerando di Roma, quale sarà fra le città italiane che vorrà essere la rivale della Regina? E se il voto, che io oggi esprimo, diventa il voto di tutta la Toscana, e diventa il voto di tutta l'Italia, questo sarà un giorno memorabile per il popolo livornese. Ora tocca a voi, Livornesi, a mostrarvi degni della proposta".

L'atto del Montanelli, che fornì motivo, tanto in Livorno quanto in altre città della Toscana, per fare delle dimostrazioni contro il ministero, provocarono quattro giorni dopo le dimissioni del CAPPONI e dei suoi colleghi, i quali davanti al parlamento le motivarono con la seguente dichiarazione:
"Manifestazioni illegali di un'opinione che non vogliamo giudicare sono venute a turbare ancora di più l'ordine pubblico, a seminare la diffidenza e la contrarietà al governo. Esso è consapevole a se stesso di non averle meritate. Avrebbe dovuto prendere tutti quei provvedimenti per impedire le manifestazioni illegali, oltre per quelle ancora più gravi che sono poi seguite. Ma quelle fatte e da farsi, mentre attentarono ed attenterebbero allo statuto ed all'ordine pubblico furono apparentemente dirette contro le persone dei ministri, quasi che fossero la sola mira dei loro colpi. E noi che qui fummo tratti per immolarci alla salvezza del paese, noi avremmo mancato ai nostri principi, se facendo le prove estreme per difendere lo statuto ed il governo avessimo dato il pretesto di dire che difendevamo noi stessi".
L'attacco al Montanelli era chiaro.

Il Granduca, non ascoltando i consigli dei moderati che volevano ministri il SALVAGNOLI, il RICASOLI e il D'AZEGLIO allora a Firenze, dopo un lungo esitare affidò l'incarico di costituire il nuovo ministero proprio al MONTANELLI, che il 27 ottobre lo formò prendendo la presidenza e gli Esteri e chiamando il GUERRAZZI agli Interni, GIUSEPPE MAZZONI alla Giustizia e agli Affari Ecclesiastici, AUGUSTO ADAMI alle Finanze, al Commercio e ai Lavori Pubblici, FRANCESCO Franchini all'Istruzione e MARIANO D'AYALA alla Guerra.

Il D'Ayala, appena insediatosi nel suo ufficio si mise a riordinare l'esercito; abolì il comando generale militare, sciolse i reggimenti di fanteria e i carabinieri e li ricostituì su nuove basi e creò il battaglione italiano nel quale iscrisse i volontari che avevano combattuto in Lombardia e volevano entrare nell'esercito.
Ma il principale pensiero che guidava l'opera del ministero democratico era quello della costituente bandita a Livorno dal Montanelli e accettata dal GUERRAZZI forse solo come mezzo per salire al potere.
I governi italiani furono interpellati sui tre seguenti punti:
1° - Se convenisse iniziare la Costituente italiana per provvedere frattanto ai bisogni della guerra contro l'Austria;
2° - Se credevano che i deputati dovessero essere eletti per suffragio universale, come intendeva fare la Toscana;
3° - Se stimavano opportuno che le questioni d'ordine interno fossero aggiornate fino alla cacciata dello straniero, senza che fosse vietato alla Costituente iniziatrice di preparare gli elementi per la loro soluzione.

Il governo di Torino rispose che era tempo di pensare alla guerra, non alla costituente: nessuna risposta diedero quelli di Roma e di Napoli. I ministri toscani non si scoraggiarono per quest'insuccesso e per divulgare le idee della Costituente fecero sciogliere da LEOPOLDO II, il 3 novembre 1848 la Camera dei Deputati e indire le elezioni politiche generali, nelle quali l'assenso o il dissenso dei candidati nella questione della Costituente offrisse norme agli elettori per la loro scelta.
Il 10 gennaio 1849, si aprì il nuovo parlamento toscano e il Granduca pronunciò un discorso, scritto dal GUERRAZZI, in cui affermava che era necessario procedere d'accordo con tutti gli altri principi italiani, se si voleva dare vera libertà alla patria; e si accennava alla Costituente.
Questa intanto -come abbiamo visto più sopra- era già stata costituita a Roma, e il Montanelli che intendeva formare il primo nucleo accordandosi con Venezia e con la Sicilia, sottopose a Leopoldo II un disegno di legge per l'elezione di trentasette deputati toscani da mandarsi all'assemblea romana; ma il Granduca, che non voleva incorrere nella scomunica minacciata dal Papa, si rifiutò e firmò solo quando dal disegno fu eliminato tutto quello che offendeva i diritti della Chiesa e del Pontefice (22 gennaio 1849).

La legge, portata davanti alla Camera dei Deputati fu a maggioranza approvata; l'approvò il Senato il 30; ma quando si chiese al Granduca di sanzionarla questi ancora una volta fu preso dagli scrupoli. Chiese il parere del suo confessore, interrogò il Papa e -ovviamente- n'ebbe la risposta che si può immaginare, cioè che sarebbe incorso nelle censure ecclesiastiche se lui avesse cooperato a privare la Santa Sede del dominio temporale.
Nel frattempo, per sfuggire alle pressioni dei ministri, si allontanava da Firenze e andava a raggiungere la propria famiglia a Siena, dove la fazione dei retrivi conservatori lo accolsero al grido di "Abbasso la Costitituente", "Viva Leopoldo".

Sparsasi la notizia a Firenze, vi produsse gran costernazione e subito partirono per Siena il conte CORRADINO CHIGI, comandante della Guardia civica, ed UBALDINO PERUZZI, gonfaloniere, per scongiurare il sovrano a tornare, ma Leopoldo II rifiutò e diede come pretesto motivi di salute, e, poiché i ministri minacciavano di dimettersi, propose che uno di loro andasse a stabilirsi presso di lui.

Ci si recò il MONTANELLI il 6 febbraio 1849, e lo trovò a letto. Ma era una finzione. Il giorno dopo il Granduca era in piedi e vispo e diceva al suo ministro che voleva uscire per prendere una boccata d'aria. Ma la sera il Montanelli si accorse d'essere stato giocato: Leopoldo II era partito per Porto S. Stefano e lasciava al ministro due lettere: nella prima gli raccomandava i familiari dicendo che erano ignari della sua fuga; nella seconda narrava di avere ricevuto dal Papa risposta ad una sua lettera in cui gli si diceva che sanzionando la legge sarebbe caduto nella scomunica. Pertanto, non volendo esporsi lui e i suoi sudditi alle censure ecclesiastiche e non volendo essere motivo di discordie, aveva deciso di allontanarsi.
L' 8 febbraio 1849, tornato il MONTANELLI a Firenze, si riunirono d'urgenza la Camera dei Deputati e il Senato, mentre sotto le logge dell'Orcagna avveniva un agitato comizio dei soci del "Circolo popolare", presieduto da ANTONIO ALORDINI. Questi ultimi deliberarono l'istituzione di un Governo provvisorio formato da MONTANELLI, GUERRAZZI e TAZZONÍ a condizione che "la Costituente italiana avesse a determinarne la forma definitiva e che nel frattempo il nuovo Governo si riunisse a quello di Roma, tanto che i due Stati apparissero all'Italia e al mondo uno solo".

Sottoposto alla Camera dei Deputati il Decreto popolare fu approvato per paura o per necessità di evitar mali maggiori; anche il Senato diede la sua approvazione. I tre membri del Governo provvisorio furono sostituiti nel ministero da ANTONIO MORDIVI, che prese la direzione degli Affari Esteri, da COSTANTINO MARMOCCHI che fu messo agli Interni e da LEONARDO ROMANELLI alla Giustizia e Culti. MARIANO D'AYALA, volendo rimaner fedele alla bandiera costituzionale, diede le dimissioni e l'interim della Guerra fu dato al MORDIVI.
Degli avvenimenti, fu data comunicazione ai sudditi con questo manifesto:

"Toscani, il principe cui voi prodigaste grande affetto vi ha abbandonati. E vi ha abbandonati nei supremi momenti di pericolo. Il popolo e le assemblee legislativo hanno appreso questo fatto con senso di profonda amarezza. I principi passano, i popoli restano: Popolo ed assemblee hanno sentito la loro dignità e provveduto come conveniva. Il popolo e le assemblee, ci hanno eletti a reggere il Governo provvisorio della Toscana. Noi accettammo, ed in Dio confidando e nella nostra coscienza lo terremo con rettitudine e con forza".

I Triumviri deliberarono di sostituire il Parlamento con un'Assemblea di 120 rappresentanti eletti a suffragio universale e indissero le elezioni per il 5 marzo; sciolsero le truppe dal giuramento di fedeltà al principe; proibirono ai magistrati di emetter sentenze in nome del sovrano; nominarono una giunta di sicurezza interna; mandarono ordine a CARLO PEGLI, governatore di Livorno, d'inviare una mano di audaci a Portoferraio per cacciarne il Granduca che si credeva là al sicuro e, quando seppero che era a Porto S. Stefano, ordinarono una spedizione a quel porto capitanata dal LA CECILIA.
Leopoldo II si era messo sotto la protezione di una nave inglese.
Il 12 febbraio 1849, sapute le novità corse a Firenze, dichiarò con una nota al corpo diplomatico, non vere e non esatte le cose stampate nella gazzetta del governo toscano. Soltanto le due lettere indirizzate al Montanelli erano vere.
"Dopo di quello che nei due documenti si legge, è inutile che io ripeta che le ragioni che mi hanno costretto a lasciare Firenze e Siena furono dalla necessità di difendere la libertà del mio voto in un affare della massima importanza, e dal desiderio di non dar campo a reazioni funeste. E' troppo chiaro a conoscersi che io non potevo esplicitamente indicare nel momento della mia partenza il luogo ove intendevo trasferirmi, senza pregiudicare la sicurezza del mio lungo e il mio viaggio; e che non era mia intenzione allontanarmi dalla Toscana evidentemente risulta dalla lettera da me indirizzata al Montanelli; ed io non ho, infatti, abbandonato il mio paese, ho solo fermato il mio soggiorno a Porto S. Stefano. Tale località mi si presentava da Siena come quella che mi offriva maggior libertà e sicurezza, garantita dalla presenza di un naviglio armato britannico, il quale amichevolmente mi offrì, dimora in questo porto".
Terminava esortando i legati esteri a non stare in relazione con il Governo provvisorio.
Contemporaneamente il Granduca lanciava un proclama ai suoi sudditi:

"Da questo confine estremo della Toscana io vi rivolgo la mia parola. Essa è la parola di un principe che voi conoscete da venticinque anni e che ha sempre, cercato con premure e affetto la vostra felicità. Costretto ad abbandonare la capitale per difendere la libertà del mio voto in un atto di cui sarei stato responsabile davanti a Dio e agli uomini, io non posso permettere che la mia voce taccia in mezzo a tanta violazione dei più sacri diritti. Io protesto dunque contro il nuovo governo provvisorio stabilito a Firenze e dichiaro di non riconoscere legale nessun atto emanato o che stia per emanare il medesimo. Illegittima è la sua origine, nulla la sua autorità. Io ricordo alla milizia i suoi giuramenti, agli impiegati l'osservanza dei propri doveri, al popolo la fedeltà verso il suo principe costituzionale. Confido che la mia voce richiamerà i traviati e sarà di consolazione ai buoni Toscani, l'affetto dei quali è per me la sola ragione di conforto in mezzo al dolore che io provo per così grandi disordini e per tante enormità".

Il giorno 13 febbraio, la protesta granducale produsse, sebbene disuguale, grande impressione in Toscana. Il MAZZINI, che era accorso a Firenze, consigliò che si proclamasse la repubblica e la si unisse a quella di Roma (proclamata il 9 febbraio) ma il GUERRAZZI si oppose. Intanto qua e là avvenivano violente manifestazioni legittimistiche: a Pontremoli e a Portoferraio le truppe si ammutinavano, mentre i contadini di Empoli, riunitisi al suono delle campane, andavano a fare barricate per interrompere le comunicazioni ferroviarie e telegrafiche tra Firenze e Livorno e inneggiavano a Leopoldo II.
Il governo arrestò i caporioni, condannò il municipio di Empoli a riparare a sue spese la strada ferrata danneggiata, ordinò che le campane che avevano suonato a stormo fossero fuse in cannoni e smussati gli angoli i campanili come segno d'infamia.

Intanto altro pericolo sovrastava: CARLO ALBERTO aveva offerto al Granduca l'aiuto delle truppe piemontesi per stroncare la rivolta per rimetterlo sul trono; Leopoldo aveva accettato e aveva scritto al generale DE LAUGIER -che con alcuni battaglioni si trovava a Massa e Carrara- di unirsi al corpo di ALFONSO LA MARMORA a Sarzana e di restaurare con la repressione gli ordini costituzionali.
Il DE LAUGIER, il 17 febbraio 1849, prima di muovere un solo uomo, pubblicò da Massa un manifesto in cui prometteva amnistia ai rivoltosi ma nello stesso tempo annunciava l'incarico ricevuto di muovere assieme ai ventimila piemontesi del LA MARMORA.

Prima che si muovesse, contro il De Laugier, furono mandati cinquemila uomini al comando di DOMENICO D'APICE, che aveva accanto, come commissario il GUERRAZZI; ma non furono usate le armi, né da una parte né dall'altra; i soldati toscani avevano scariche e con alla canna del fucile un ramoscello d'ulivo e i battaglioni del Laugier si rifiutarono di combattere contro i compagni e abbandonarono il loro generale, che trovò scampo nel territorio piemontese.

Ed anche il La Marmora non si mosse, perché il Granduca (ma non è escluso che avvertissero lo stesso Carlo Alberto), avvertito dall'Austria che se i piemontesi entravano in Toscana loro avrebbero fatto marciare le truppe su Torino.
(Ricordiamo che il 18 Pio IX aveva chiesto l'aiuto militare alle potenze europee. E che nello stesso giorno da Verona gli austriaci si mossero con 6000 uomini e occuparono Ferrara, rimettendo sui pennoni le insegne pontificie.)

Il 21 febbraio 1849, non credendosi più sicuro a Porto S. Stefano, dopo avere dato al De Laugier pieni poteri per ricondurre all'obbedienza la Toscana senza spargimento di sangue, LEOPOLDO II parti sulla nave inglese "Bull-Dog" per Gaeta.

A volere reprimere i repubblicani in Toscana, non fu la sola impresa di CARLO ALBERTO, ma anche quelli di Genova, che lui fece reprimere con durezza, fino al punto che i liberali liguri temevano più i piemontesi che non gli austriaci.

Con gli ultimi mesi del 1848 e i primi mesi del 1849, a Roma, in Toscana, a Venezia, l'ascesa al potere dei democratici, sembravano aprire inattese prospettive al movimento repubblicano italiano. Ma i dissidi interni non mancarono, le mediazioni (Tra Roma e Firenze) furono inutili, non si riuscì a dare al movimento una direzione unitaria, ed alcuni (come Venezia) rifiutarono di partecipare all'Assemblea costituente.

In più ci fu la sconfitta di Custoza, e la precipitosa firma dell'armistizio di Carlo Alberto
che infuriarono i democratici, ma misero in crisi anche i moderati
Tutti questi fatti li andiamo a narrare nelle prossime pagine
in un altro lunghissimo anno

anno 1849 - Primo Atto > > >

Fonti, citazioni, e testi
Prof.
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - (i 5 vol.) Nerbini 1930
COMANDINI - L'Italia nei cento anni - Milano 1907
DE VILLEFRANCHE G.M. Pio IX- Bologna 1877
G. BUTTA' - I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli.- Napoli 1875
N. NISCO - Ferdinando e il suo regno - Napoli 1884
PATRUCCO C. Documenti su Garibaldi e la massoneria - Forni 1914
O' CLERY - The making of Italy - Kegan&Trubner, Londra 1892
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
STORIA D'ITALIA Cronologica 1815-1890 -De Agostini
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