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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1848

NAPOLI - RIVOLUZIONE SICILIANA - LA REP. ROMANA (DELITTO ROSSI)
( Anno 1848 - Atto Tredicesimo )

APERTURA DEL NUOVO PARLAMENTO A NAPOLI; IL DISCORSO DELLA CORONA E L'INDIRIZZO DELLA CAMERA AL RE - SPEDIZIONE BORBONICA IN SICILIA - EROICA MA SFORTUNATA RESISTENZA DI MESSINA. SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA NAPOLETANA - I CAPITOLI DI GAETA RIFIUTATI DAI SICILIANI - PRESA DI CATANIA - MEDIAZIONE DELL'AMMIRAGLIO BAUDIN - RESA DI PALERMO - PROCLAMA DEL GENERALE FILANGIERI - APERTURA DEL PARLAMENTO ROMANO; IL DISCORSO DEL TRONO - IL DISCORSO PROGRAMMA DEL MAMIANI - DIMISSIONI DEL MAMIANI - DIMISSIONI DEL MINISTERO FABBRI - PELLEGRINO ROSSI AL GOVERNO
UCCISIONE DEL ROSSI - TUMULTI DI ROMA - IL MINISTERO MUZZARELLI
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APERTURA DEL PARLAMENTO NAPOLETANO

Dopo le tensioni che esplosero il 15 maggio, con una controrivoluzione fra il Parlamento e il sovrano, e con il popolo che era sceso in strada al grido di "Viva il Re e abbasso i liberali" (scontri che provocarono circa 500 morti) FERDINANDO II aveva sciolto il Parlamento, la guardia nazionale, aveva proclamato lo stato d'assedio, riportato così l'ordine in città, nell'attesa di sostituire i deputati.

Il 14 giugno del 1848 fu tolto lo stato d'assedio, durato un mese, e il giorno dopo ci furono le elezioni dei nuovi deputati. Furono eletti quasi tutti coloro che erano stati, la prima volta, mandati al parlamento, il che provava, che i sentimenti del paese non erano per nulla mutati.
In alcuni collegi gli elettori si astennero dal votare, dichiarando che lo scioglimento della Camera era stato illegale e che volevano ancora le elezioni passate; nelle province di Basilicata, Terra d'Otranto, Bari, Capitanata e Molise, alcuni cittadini, dicendosi interpreti del pensiero delle popolazioni, dichiararono in un memoriale:
"...volere a qualunque costo il sincero e leale mantenimento del regime costituzionale; volere dalla rappresentanza nazionale, eletta sulle basi della legge del 5 aprile, lo svolgimento dello Statuto, con la facoltà di modificarlo, correggerlo dov'era imperfetto per meglio adattarlo al richiesto dall'andamento del progresso e della civiltà dei tempi; volere l'annullamento di tutti gli atti promulgati dal 15 maggio in poi; non soffrire che la rappresentanza nazionale si riunisse senza guarentigie che assicurassero la libertà del suo voto; essere risoluti di sostenere a qualunque costo queste loro domande però, ove queste giuste pretese fossero disprezzate, protestavano innanzi a Dio e al cospetto di tutte le nazioni civili della necessità in cui si potevano trovare collocati".

IL DISCORSO DELLA CORONA E L'INDIRIZZO DELLA CAMERA AL RE

II 10 luglio fu inaugurato il nuovo parlamento. Il re non si presentò e il discorso della Corona fu letto dal duca SERRACAPRIOLA, vicepresidente del Consiglio di Stato.
In questo documento il sovrano manifestava il suo rammarico per i casi del 15 maggio, dichiarava di stimare le nuove istituzioni, raccomandava lo studio delle leggi che dovevano completare lo Statuto e di quelle sull'ordinamento delle amministrazioni comunali, sulla guardia nazionale, sull'istruzione e sulle finanze. Il discorso, in, cui nessun accenno era fatto alla guerra dell'indipendenza, terminava così:

"In generale io non ho ragione di credere che le nostre pacifiche relazioni con le altre potenze d'Europa siano in nulla cambiate. Posti così nella felice situazione di rivolgere tutte le nostre cure all'amministrazione interna dello Stato, noi potremo contribuire d'accordo a farlo prosperare tranquillamente nelle sue vie. Infallibile nel mio proponimento di assicurare il benessere con il godimento di una benintesa libertà, farò di questo nobile obiettivo la costante preoccupazione della mia vita, ed il vostro autorevole concorso me ne garantirà pienamente il successo. Avendo a ciò chiamato a giudice Iddio della purità delle mie intenzioni, non altro mi rimane oggi che chiamare a testimoni voi e la storia".

Nella risposta al discorso della Corona, per iniziativa del TROYA, IMBRIANI, SCIALOJA, SPAVENTA e del DRAGONETTI, che sedevano all'estrema sinistra, furono inserite le seguenti parole:
"la nostra politica di rigenerazione non può essere perfetta senza l'indipendenza e la ricostituzione dell'intera nazionalità italiana la quale non può seguire senza accrescere lo splendore del trono della M. V. che regna sopra una parte tanto cospicua della patria comune. Laonde la camera fa fervidi voti perché si affretti l'ora del riscatto d'Italia e, tornata la pace nella penisola, possano i diversi Stati che la compongono rivolgere le loro cure a vicendevolmente rafforzarsi ed unirsi, identificando sempre più e perfezionando i loro politici ordinamenti, e stringendo i patti di un'amichevole federazione, di che lo sviluppo intellettuale, morale e materiale dei singoli Stati si gioverà grandemente, e, più che qualunque altro, questo Reame, noto per essere uno dei primi Stati d'Italia".

Al re non piacque l'espressione di questi sentimenti, rifiutò di ricevere la commissione incaricata di presentargli la petizione e dichiarò:
"Se la Camera non muterà consiglio e cercherà con la parte agitatrice di muovere il paese, non la servirà: la guerra con l'Austria non è possibile quando con le forze dell'esercito si ha da recuperare una parte del regno e forze dall'altra parte per non perderla".
In verità il pensiero che maggiormente assillava Ferdinando II era quello di risottomettere la Sicilia e poiché la camera dei deputati non lo assecondava completamente nelle sue mire, non osando scioglierla un'altra volta, il 5 settembre ne prorogò la sessione al 30 novembre, e quel giorno stesso fece inscenare una dimostrazione antiliberale dagli elementi più bassi della plebe forse per trarne motivo per creare incidenti e quindi far seguire rappresaglie poliziesche e carcerazioni.

SPEDIZIONE BORBONICA IN SICILIA - CADUTA DI MESSINA

Ma già due giorni prima si era mossa da Reggio la spedizione che doveva debellare la Sicilia: ventiquattromila uomini, fra cui due reggimenti svizzeri, numerose artiglierie, nove fregate, due corvette, parecchie cannoniere e quaranta imbarcazioni minori. Capo supremo
il tenente generale FILANGIERI.
Dopo tre giorni di bombardamento delle fortificazioni costruite dai Messinesi sulla spiaggia e nelle colline, il 6 settembre le truppe napoletane, protette dalla flotta che non cessava di vomitare fuoco, sbarcarono a Maregrosso ed assalirono la città. Le artiglierie della cittadella sostenevano l'assalto e il presidio comandato dal maresciallo PRONIO, impadronitosi del porto franco, tentava di prendere alle spalle i difensori, mentre il generale LANZA li attaccava dal fianco destro e il generale NUNZIANTE dalla sinistra.

La resistenza dei Messinesi capitanati da ANTONINO PRACANICA e dei volontari di Palermo guidati dal LA MASA fu eroica; più volte gli assalitori furono respinti alla baionetta e dovettero abbandonare il terreno con il sangue conquistato.
Fu ferito il Lanza, mentre il Pronio, perdute due compagnie per lo scoppio di una mina, fu costretto la sera ad abbandonare il porto franco e a rifugiarsi, mitragliato dai Siciliani, nella fortezza. Fra i difensori si distinsero, quel giorno, due donne, GIUSEPPINA e PAOLINA VADALÒ, che sotto il grandinare delle bombe e dei razzi, con il moschetto in mano percorrevano le vie della città rincuorando e guidando all'assalto i cittadini.

La mattina del 7, l'assalto fu rinnovato con violenza maggiore. Da una parte e dall'altra lo scontro fu accanito. Il FILANGIERI con la sinistra riuscì ad aggirare la destra della difesa, espugnò il forte Gonzaga e prese dal retro le batterie messinesi; il centro oppose una valida resistenza, specie al convento della Maddalena, ma anche questo cadde dopo un feroce combattimento, quando furono sbrecciate dal cannone le mura.
Caduta la Maddalena, non fu più possibile opporre seria resistenza e la città fu invasa dai Napoletani e dagli Svizzeri, che come orde di barbari infuriarono sugli edifici e sugli abitanti, uccidendo, saccheggiando, stuprando, incendiando, facendo strage perfino dei poveri ciechi e paralitici dell'Ospizio degli Storpi e dei malati dell'Ospedale.

Il viceammiraglio inglese PARKER (gli inglesi c'erano sempre, onnipresenti) che offrì ricovero sulle navi della sua flotta a molti abitanti scampati all'eccidio, scrivendo a lord Napier, incaricato d'affari a Napoli, così si esprimeva:
"La città fu messa a fuoco in dodici parti e desolata dalla fuga dei suoi sventurati abitanti, dovuta al fatto che i Siciliani avevano consumate le munizioni. I Napoletani impiegarono la più gran ferocia durata oltre otto ore, dopo di che ogni resistenza era cessata. La voce dell'umanità imperiosamente richiede che sia preso qualche provvedimento per impedire che in altre parti della Sicilia si rinnovino tali ributtanti scene di devastazione".
(( Queste note immancabilmente finivano sulla stampa inglese, dandone ampio risalto.
Infatti inizia qui, con l'episodio di Messina, il soprannome di Ferdinando "re bomba" e inizia in Gran Bretagna una stringente campagna di diffamazione sui Borboni. Il protagonista delle campagna è Gradstone, che definirà anche il Regno delle Due Sicilie "la negazione di Dio". Ed iniziano le intese con Garibaldi, per abbattere il regno di Ferdinando II. E' la stessa idea che hanno i Francesi e Cavour. Gli Inglesi invece la volevano indipendente la Sicilia (fin dal periodo napoleonico) poi a rompere le uova nel paniere, dopo lo sbarco di Garibaldi, contro questi propositi ci si mise Cavour e La Farina piombato sull'Isola. Garibaldi ai siciliani già aveva concesso l'Indipendenza per farne uno stato federativo, non gradiva affato una annessione, nè la gradivano i Siciliani; infatti gli Inglesi Garibaldi lo avevano già aiutato nello sbarco a Marsala, e lo avrebbero ancora aiutato (e infatti lo faranno) a Messina per sbarcare sul continente per poi dividersi la "torta" borbonica. Ma qualcosa funzionò male. Cavour ha fatto un bel tiro mancino agli inglesi! Poi ripara e si allea segretamente con loro in funzione antifrancese, visto che Napoleone III (in cambio della sua neutralità) vuole la Liguria e la Sardegna e lasciare Roma al Papa. Fecero persino un trattato segreto in tal senso. Ma qualcosa funzionò male, o in Francia o in Inghilterra (quest'ultima piuttosto preoccupata di una Francia forte come quella di fresca memoria napoleonica).
A Marzo del 1861 Cavour definisce nettamente la posizione del governo Piemontese: la Sicilia annessa al Piemonte, senza nemmeno l'approvazione dei Siciliani.
Il 6 giugno muore.
Avvelenato ? )

Torniamo a Messina; anche in questa seconda giornata si distinsero le donne, che furono instancabili nell'aiutare i combattenti. Una di loro, ROSA DONATO, vedendo che una batteria posta in piazza del Duomo stava per esser presa dal nemico, appiccò al cassone delle munizioni e fece saltare in aria gli assalitori. Salvatasi con la fuga dallo scoppio, fu raggiunta da altri soldati regi, trafitta a baionettate e scaraventata giù dalle mura.
Il giorno 9, anche Milazzo fu occupata. L' 11 settembre, dietro le insistenze dei comandanti delle navi inglesi e francesi le ostilità furono sospese. Della tregua approfittò il governo siciliano per preparare con una certa serietà la difesa dell'Isola. GIUSEPPE LA FARINA, successo al PATERNÒ come ministro della guerra (*), fece venire dalla Francia e dall'Inghilterra fucili e cannoni, portò l'esercito, che era di appena quattromila uomini, a quattordicimila e poiché mancavano i capi e il tentativo di far venire il GARIBALDI era fallito, chiamò il generale GIACOMO ANTONINI, il francese DE TROBIAND e il polacco LUIGI MIEROSLAWSKY, che fu nominato comandante supremo.
((*) Giuseppe La Farina poi passerà dalla parte piemontese. Lui a smentire Garibaldi a Palermo).

Per far fronte alle spese che tali armamenti richiedevano, su proposta del CORDOVA ministro delle finanze, decretò l'emissione di quindici milioni di lire in biglietti garantiti sui beni nazionali e sugli ecclesiastici di regio patronato. Ma questa somma non bastò, né d'altro canto si riuscì ad ottenere un prestito all'estero; allora il Cordova chiese un prestito forzoso di un milione d'once d'oro, che danneggiò moltissimo la precedente operazione perché la carta moneta, affluendo allo sconto, assorbì la riserva metallica provocando la chiusura della cassa. Il Cordova si dimise e gli successe il conte AMARI, che preparò diversi disegni di legge, ma non ebbe il tempo di metterli in atto.

Mentre operava all'interno, il governo siciliano non trascurava di lavorare all'estero per trovare appoggi. Attivissimo queste negoziazioni era lo storico MICHELE AMARI, incaricato di procurare all'isola l'aiuto della Francia e dell'Inghilterra e di neutralizzare l'opera dei commissari di Ferdinando II presso le due suddette potenze.
Ma la mediazione inglese e francese non produssero buoni risultati; anzi fu così fiacca che il Borbone osò resistere alle pressioni e rifiutò tutte le proposte favorevoli alla Sicilia.

Per iniziare l'impresa della Sicilia FERDINANDO II aveva prorogato - come si è detto - la sessione parlamentare al 30 novembre; ma avendo visto, nelle elezioni suppletive del 13 di questo mese risvegliarsi l'opposizione, l'aveva prorogato nuovamente al 1° febbraio. Riapertosi il parlamento, i ministri chiesero che fosse loro concessa per sei mesi la riscossione dei dazi diretti e indiretti, ma le Camere modificarono la proposta che suonava sfiducia al ministero. Inoltre fu redatto il seguente appello al re:

"Qual'è stata e qual è pur sempre la condotta del Ministero? Esso violava le più sostanziali nostre franchigie; violava la santità del domicilio, manometteva la libertà delle persone e del pensiero con modi arbitrari ed illegali; non distingueva i cittadini se erano o no eguali davanti alla legge e per altri gradi di meriti civili; irrompeva nel santuario inaccessibile della coscienza dei magistrati e li profanava, e senza curare la sicurezza dei cittadini o provvedendovi con norme arbitrarie, scioglieva il Parlamento e scioglieva le Guardie nazionali del Reame e ricomponeva corpi armati non autorizzati da alcuna legge e con capi imposti contro lo Statuto. Non cercava di spegnere le funeste ragioni dei dissidi che hanno turbato l'amorevole accordo tra il militare e il civile; accordo che non sarebbe mancato né mancherà certamente di ristabilirsi tra i figli di una stessa patria, aventi bisogni, glorie, sventure e speranze comuni. Invadeva la potestà legislativa con atti che avevano bisogno del suo concorso, dei quali molti aggravanti la condizione delle finanze e dei contribuenti; e se gravi erano le condizioni e le necessità dello Stato, era dovere rivelarlo schiettamente a chi ne rappresenta i suoi interessi, per avere il leale concorso delle Camere; e queste non lo avrebbero di certo rifiutato con ragionevoli proposte. Il ministero da ultimo ha tentato e tenta di screditare, rendendolo infecondo, il regime costituzionale, togliendo alle camere tempo e modo di portare a termine i richiesti provvedimenti a salute degli interessi morali e materiali del popolo, e procacciando di rompere quel leale vincolo di fede e riconoscenza che stringe il principe e i rappresentanti della nazione, fino ad impedire che la loro voce giungesse dinnanzi al trono. E' prerogativa del re di nominare e dimettere i ministri; ma è dovere dei deputati del popolo nel segnalare al capo dello Stato il grande ostacolo che si oppone al regolare andamento della macchina governativa. Contro tante colpe ministeriali la Camera ha certo dei diritti sacri da esercitare. Pure oggi ritiene di volgersi al principe che non tarderà a proferire quella regia parola, medicina suprema ai travagli dello Stato".
Effetto di questo appello, che indispettì tanto i ministri quanto il sovrano, fu lo scioglimento della Camera che fu decretato il 12 marzo del 1849.

Alcuni giorni prima, e precisamente il 28 febbraio 1849, Ferdinando II aveva da Gaeta indirizzato ai Siciliani un proclama, in cui, dopo aver dichiarato di voler "dimenticare e considerare come non avvenuti e mai commessi i fatti ed i reati politici che tanto male avevano arrecato dal '48 in poi" e di avere esortato il popolo dell'isola a tornare alla pace, all'obbedienza e al lavoro, prometteva uno Statuto, basato sulla costituzione del 1812, che avrebbe contenuto le seguenti disposizioni:

1° - La religione sarà unicamente e ad esclusione di qualunque altra, la Cattolica, Apostolica, Romana.
2° - La libertà individuale è garantita, nessuno potendo essere arrestato o processato che nei casi preveduti dalle leggi e nelle forme prescritte.
3° - Nessuno può essere costretto a cedere la sua proprietà, se non per causa d'utilità pubblica e previa indennità. Una legge speciale sarà fatta dal parlamento in accordo con il re per determinare la competenza e la forma delle espropriazioni forzate per causa d'utilità pubblica.
4° - I Siciliani hanno il diritto di pubblicare e fare stampare le loro opinioni, conformandosi alle disposizioni che debbano reprimere gli abusi di questa libertà. Il re riserva a sé, nella pienezza dei suoi poteri, di emanare tali disposizioni con una legge speciale.
5° - La Sicilia continuando a far parte integrante dell'unità del Regno delle Due Sicilie, sarà retta a monarchia costituzionale con la divisione dei poteri nel modo che segue�."
.
Aggiungeva che il re "rappresentava la nazione all'estero, promulgava con il Parlamento le leggi e le faceva eseguire, convocava e scioglieva la camera, era capo delle forze di terra e di mare, sovrintendeva al commercio ed alle opere pubbliche, nominava i funzionari, conferiva titoli, onorificenze e grazie, che, non sedendo nell'isola si farebbe rappresentare da un viceré, che concedeva alla Sicilia sette ministri, dell'Interno, di Grazia e Giustizia, delle Finanze, dei Lavori Pubblici, dell'Agricoltura e Commercio, dell'Istruzione e della Polizia e degli Affari ecclesiastici; che le spese comuni con la terraferma ammonterebbero per la Sicilia a tre milioni di ducati annui".
Infine ordinava:
"Gli esiti straordinari a carico della Tesoreria di Napoli cui hanno dato luogo gli avvenimenti degli anni 1848 e 1849, valutandosi molto al di sotto del loro importo, si fissano a cinquantamila once d'oro. Unendosi tale somma a quella di cui va creditrice la tesoreria stessa di Napoli, formeranno queste somme un debito della Sicilia; il quale, essendo consolidato grazie alla emissione di una rendita inscritta con la corrispondente dote d'ammortizzazione, fornirebbe il capitale necessario per saldare questi avanzi del tesoro napoletano. Nello stesso tempo i debiti della Sicilia anteriormente al dì 12 gennaio 1848 contratti, e quelli posteriori restano a carico del tesoro della Sicilia stessa".

Il proclama e i capitoli di Gaeta ebbero pubblicità nell'isola per mezzo degli ammiragli inglesi WILLIAM PARKER e CARLO BAUDIN, ma suscitarono nei Siciliani grandissima indignazione; il Parlamento rifiutò sdegnosamente i patti dettati da un sovrano che era stato dichiarato decaduto, e, spinto dall'entusiasmo popolare, dichiarò la guerra; nel medesimo tempo il Governo dichiarava che con il 19 marzo 1849 considerava come denunciato l'armistizio.

A questo punto fu dato l'ordine di fare i preparativi per resistere all'assalto delle milizie regie; il Parlamento decretò che durante la guerra tutti i Siciliani dai diciotto ai trent'anni indistintamente erano soldati; fu chiamata alle armi la Guardia nazionale; gli studenti universitari formarono una legione; fu disposto che la città di Palermo fosse recintata di ripari e subito iniziarono i lavori partecipandovi con zelo i cittadini di tutte le classi, tanto che ben cinquantamila persone si vedevano lavorare quotidianamente alle fortificazioni, i campagnoli accorrevano ad aiutare i cittadini, le donne facevano a gara con gli uomini, i deputati assistevano ed animavano i lavoranti, che ricevettero visite e incoraggiamenti perfino dal cardinale arcivescovo Pignatelli.
C'erano insomma tutti; nobili, cittadini, contadini, clero.
Ma le forze erano troppo sproporzionate quando, il 29 marzo 1849, furono riaperte le ostilità. Il generale polacco LUIGI MIEROSLAWSKY (comandante supremo) si proponeva di marciare su Messina ed impadronirsene. Le sue forze, che assommavano a seimila uomini circa, erano così dislocate: due battaglioni di volontari a Taormina, due compagnie di fanti ad Augusta, due battaglioni con artiglieria e una legione d'osservazione a Siracusa; quattro battaglioni di fanteria, duecento guardie civiche e cinque cannoni a Catania.

PRESA DI CATANIA - RESA DI PALERMO

Contro queste forze, troppo disseminate e mal comandate dal polacco, il quale se era un buon soldato era un mediocre generale, il nemico metteva più di ventimila uomini, una cinquantina di pezzi d'artiglieria e una numerosa flotta destinata ad appoggiare le operazioni terrestri.
Mentre il Mieroslawisky sparpagliava le sue forze su un fronte di molti chilometri e logorava i suoi uomini in marce e contromarce, il generale regio FILANGIERI scatenava il 30 marzo 1849 l'offensiva da Scaletta, il 31 occupava Ali e, sostenuto dalla flotta, s'impadroniva di Sant' Alessio; quindi il 2 aprile, espugnava Taormina, accanitamente difesa dal maggiore GENTILE con soli trecento uomini. Ed intanto nelle colonne dei colonnelli PRACANICA, ASCENSO e SANT'ANTONIO, che avevano vagato invano sui monti, mandate ora qua ora là da vaghi ordini superiori, oltre la stanchezza subentrava il malcontento e la sfiducia. Ci fu anche un principio d'ammutinamento, ma ben presto fu sedato e le truppe furono avviate a Adernò dove giunsero il 16 aprile 1849.

Quello stesso giorno il generale Filangieri diede l'assalto a Catania, difesa da scarse truppe comandate dai colonnelli LANZA, CERDA, LUCCHESI di Campofranco e dalle batterie costiere dei maggiori SCALIA, PETHERS, MANGANO. Dirigeva le operazioni il generale Mieroslawisky. Il combattimento svoltosi a Battiati, poco distante dalla città, dove i Siciliani andarono ad affrontare il cospicuo nemico, fu terribile. Gli isolani all'inizio riuscirono con la loro foga a respingere alla baionetta i Napoletani, poi dovettero mettersi sulle difese e resistettero sulle loro posizioni per alcune ore, finché, sopraffatti dal numero e dall'artiglieria, furono costretti ad entrare nella città che la flotta borbonica bombardava.

Qui la resistenza non fu meno accanita e vi parteciparono i cittadini. Sulla barricata eretta davanti la porta le truppe dei colonnelli LANZA e CAMPOFRANCO resistettero valorosamente fino a sera sebbene i regi rinnovassero gli assalti con forze sempre fresche e fulminassero senza tregua da Villa Gioeni. Caduto ucciso il Campofranco e perduta la barricata, la resistenza arretrò nelle vie della città, nella via Stesicorea dove cadde gravemente ferito il generale Mierolawisky mentre i Napoletani avanzarono in colonne serrate, bersagliati dalle finestre, nella via dei Fossi e specialmente intorno alla Chiesa del Carmine.
La notte pose termine al combattimento; al mattino successivo i regi entrarono nella città piena di morti e feriti e tutta fumante per i numerosi incendi.
La colonna dell'Ascenso, giunta la sera prima a Mascalucia, ripiegò su Castrogiovanni, dove sfiduciata si sciolse; Augusta, Noto e Siracusa furono occupate senza opporre nessuna resistenza, e il generale Filangieri si preparò a marciare su Palermo, mentre faceva pubblicare il seguente bando con il quale cercava di persuadere tutti gli sbandati delle schiere siciliane a rientrare nelle città occupate:

"Alcuni fra gli abitanti delle città e dei comuni delle province occupate dalle reali truppe, i quali hanno servito nelle file della Guardia nazionale e delle bande assoldate da un potere illegittimo durante i deplorevoli rivolgimenti che di tanto lutto hanno ricoperta la Sicilia, fanno vita raminga per le campagne, esitando a rientrare nei loro domicili per timore di essere arrestati. Ad assicurare gli animi trepidanti faccio voto universale che il governo del re, dopo avere esaurite tutte le vie della clemenza e della moderazione per ripristinare l'ordine in questa parte dei reali domini, se è venuto, provocato, dalla estrema necessità di impiegare le armi, non ha in mente dopo la vittoria di colpire i sedotti o i traviati che una feroce prepotenza ha trascinato in una serie d'errori. Solo i capi, gli autori della rivoluzione, i dilapidatori delle pubbliche casse e delle sostanze dei privati, e che sono la causa delle tante calamità che ora affliggono queste sventurate popolazioni, sono esclusi dal menzionato generale perdono. Mentre tutti gli altri, i quali non hanno fatto che seguire il torrente da cui le menti o le opinioni sono state travolte, gl'illusi, così i sedotti e i trascinati non avranno niente a temere e possono tranquillamente tornare alle loro privati occupazioni".

Dopo la caduta di Catania, l'ammiraglio francese BAUDIN si offrì al governo di Palermo di farsi mediatore presso il re, e il 14 aprile 1849 si riunì il parlamento per decidere sul da farsi. La camera dei Pari accettò la mediazione all'unanimità, quella dei Comuni a maggioranza. Allora i ministri diedero le dimissioni e il presidente mise al loro posto il barone GROSSO, il barone CANALOTTI e SALVATORE VIGO, incaricandoli di dirigere tutte le amministrazioni.
Nel frattempo l'ammiraglio BAUDIN a Gaeta trattava con Ferdinando II, il quale dichiarava di "non aver mai dimenticato di esser nato in Sicilia e di aver il cuore siciliano", consigliava che il municipio palermitano prendesse la direzione degli affari e mandasse una deputazione al generale Filangieri e prometteva le seguenti concessioni:

"una costituzione in conformità dell'atto del 28 febbraio; il figlio primogenito o altro principe reale e, in mancanza, un distinto personaggio per viceré, guardia nazionale per Palermo con una legge che ne stabilirebbe l'ordinamento; liberazione dei prigionieri siciliani fatti in conseguenza degli avvenimenti di Calabria, eccetto i capi che sarebbero mandati in esilio per un tempo determinato; amnistia generale, esclusi solo i capi e gli autori della rivoluzione; infine riconoscimento del debito pubblico contratto dal governo della rivoluzione".

Avendo il parlamento prorogato le sue adunanze, RUGGIERO SETTIMO, ricevuta la comunicazione dell'ammiraglio francese, chiamò a consulta i ministri, i presidenti delle due Camere, molti Pari e deputati, il pretore della città e i comandanti della guardia nazionale e della milizia. In questa adunanza e in quella che si tenne il giorno dopo non fu presa alcuna decisione essendo troppo discordi i pareri. Allora (22 aprile 1849) Ruggiero Settimo lasciò la propria autorità al Municipio, il quale mandò a Caltanissetta una deputazione al Filangieri per convenire che il 1° maggio si sarebbe recato a Palermo il colonnello ALESSANDRO NUNZIANTE per conferire col pretore.

Il 26 aprile 1849 comparvero nelle acque di Palermo undici navi borboniche e il Filangieri, non curandosi della convenzione stipulata per mezzo dell'ammiraglio BAUDIN, impose la resa della città. Sembrò un tradimento, il popolo si levò a tumulto e il pretore fu costretto a lasciare l'ufficio e a rifugiarsi a bordo di una nave francese. Fu acclamato pretore il barone RISO, già comandante della Guardia Nazionale, fu rinnovato il magistrato municipale, nominati con frenesia i consoli delle arti e si tenne nel Palazzo Pretorio un'adunanza per deliberare sui modi della resistenza.

Il l° maggio giunse il NUNZIANTE e il nuovo pretore gli espose il desiderio della cittadinanza che l'amnistia doveva essere più ampia e si doveva estendere anche ai rei condannati o condannabili fino a quel giorno. Non essendo in sua facoltà di fare concessioni, il Nunziante promise di impegnarsi presso il re affinché esaudisse i desideri della popolazione palermitana. Infatti, recatosi a Velletri, dove allora si trovava Ferdinando II, ripartì con la concessione che il Filangieri comunicò con il seguente proclama:

"Il re, animato sempre dal sentimento di portare a questa parte dei suoi reali domini una pace completa ed un balsamo che sani tutte le piaghe, che l'hanno così crudelmente afflitta per lunghi mesi, è venuto nella spontanea (sic) magnanima determinazione di amnistiare tutti i reati comuni di qualunque natura, commessi sino al giorno d'oggi. Quest'atto generoso della sovrana munificenza non potrà che riscuotere dal fondo del petto le anime le più dure, e ridurre sul sentiero dell'onore e dell'onestà tutti coloro che lo avevano smarrito. Quest'atto che la storia registrerà tra i fatti più magnanimi dell'umanità, raccoglierà intorno al trono del migliore dei principi tutti i suoi sudditi, dei quali non ha egli desiderato che la pace e la prosperità, fondata non sulle chimere ma sui bisogni reali della società e sulle leggi di Dio. Il re vuole però essenzialmente che quest'amnistia si abbia come non data, e non avvenuta per coloro i quali torneranno a delinquere.
Rientrino dunque tutti alle loro case sicuri e tranquilli; attendano ai loro antichi uffizi, vivano da fedeli sudditi e da onesta gente e non abbiano più nulla a temere sotto la parola del sovrano perdono. Ma se alcuni commetteranno nuovi reati, allora, alla nuova pena, si dovrà aggiungere quella che doveva espiare. Il re non teme che ciò avvenga, poiché non vi sarà nessuno, il quale dopo tanto soffrire non senta tutta la forza del sovrano benefizio. A togliere anche ogni equivoco ed a rinfrancare meglio gli spiriti, è carissimo al mio cuore il far conoscere che nell'atto d'amnistia già pubblicato il 22 d'aprile in Catania non ho inteso dare doppio o vario significato alle parole "autori" e "capi" della rivoluzione, che devono essere esclusi dall'atto della sovrana beneficenza, ma una sola e che colpisce unicamente quelli che architettarono la rivoluzione e sono stati la funesta cagione di tutti i mali che hanno travagliato la Sicilia".

Però, prima che il NUNZIANTE fosse di ritorno con questa concessione nel frattempo altri fatti erano accaduti. Il 5 maggio 1849, l'esercito regio era avanzato verso Misilmeri e Bagheria. A quel punto il popolo di Palermo, infuriato, aveva preso le armi, aveva costretto il barone RISO a fuggire e, comandato dal generale BIANCHINI e aumentati di numero con i contadini giunti in città per combattere, aveva rabbiosamente attaccato le truppe borboniche, combattendo con impetuoso valore per tre giorni, specialmente nei villaggi di Mezzano e di Abate.
Conosciuta la sopraggiunta amnistia, la lotta ebbe termine. Il 14 maggio 1849 il FILANGIERI entrò a Palermo alla testa delle truppe e ordinò la consegna delle armi meno quelle della Guardia nazionale; quindi pubblicò i nomi delle persone escluse dall'amnistia che erano 43. Fra questi GIUSEPPE LA FARINA, V. FARDELLA di Torrearsa, FILIPPO CORDOVA, M. AMARI, G. LA MASSA e FRANCESCO CRISPI, che già avevano preso la via dell'esilio. Ultimo a lasciare la Sicilia, e a far vela per Malta fu RUGGIERO SETTIMO (molti di questi li ritroveremo più avanti nelle guerre nel parlamento piemontese)

PROCLAMA DEL GENERALE FILANGIERI

Il 22 maggio del 1849, il Filangieri pubblicava in Sicilia il seguente bando:
"Conoscendo il re il modo pacifico e fraterno con il quale sono stato accolte in ogni luogo della Sicilia le reali sue truppe, meno la resistenza che hanno dovuto vittoriosamente respingere in Messina e a Catania, e che hanno eliminato il disordine e tutti gli orrori di una guerra fratricida, piantando invece lo stemma della pace e facendo rinascere la speranza negli animi di tutti i suoi sudditi; conoscendo il re per le mie relazioni quanto debba egli confidare nella siciliana fedeltà, che può essere per un momento scossa, ma non mai rovesciata, è venuto il suo santissimo petto, sede di tutte le più generose e magnanime virtù, nel disegno di far paghi gli antichi voti dei Siciliani, dando loro come rappresentante la gemma più cara della sua corona, suo figlio primogenito, erede di questo beato regno delle Due Sicilie. Parlare qui dei meriti di quest'angelo sarebbe fuor di luogo non essendovi angolo nei nostri paesi ove non risuonano splendide le eminenti sue virtù. Egli congiunge a una sagacia profonda la bontà che Dio nell'Evangelo suggellò. Quindi il re nostro Signore non poteva fare a questa gente dei suoi reali domini un dono più caro di quello che fa nel diletto figlio suo, stabilendo quelle leggi che più converranno al benessere della Sicilia e che assicureranno la pace, il progresso e la fortuna avvenire di questa terra. Il re, che è fonte di clemenza inesauribile, scioglie i ceppi dei siciliani prigionieri e li fa ritornare, salvo poche eccezioni dei capi, alle loro famiglie, che hanno pianto gli effetti dell'altrui aberrazione funesta e lacrimevole. Il re consapevole da' miei rapporti della lealtà della Guardia nazionale di Palermo, dello zelo, attività e fiducia che deve essa ispirare, ne consolida l'istituzione con quelle modifiche che il tempo e l'esperienza sapranno meglio dettare. Quindi io intendo che il suo capo cooperi con tutte le forze al suo miglioramento e s'impegni sempre più a meritare la sovrana fiducia. Siciliani, siate forti nel vostro zelo per il bene di questa terra di paradiso; comprendete che non già nelle istituzioni di sfrenata demagogia, ma in quelle che l'esperienza dei secoli consiglia sta la fortuna degli Stati. Qui voi non avete sentito una parola che guidi l'idea della forza; ma la voce del pensiero che è la vera espressione del santissimo animo del principe che ci governa. Confidate in lui, bandite il timore e il dubbio, e la fortuna dell'avvenire della vostra patria sarà pienamente consolidata".

Così scriveva (alcuni storici dicono "vergognosamente") adulando il re reazionario, il figlio di GAETANO FILANGIERI. E in ricompensa delle sue prodezze fatte in Sicilia, Ferdinando II gli conferiva il titolo di duca di Taormina, trasmissibile ai discendenti maschi con ordine di prima genitura e in più un maggiorato di dodicimila ducati annui a carico della Sicilia che così pagava le spese del premio concesso al suo carnefice.
(i successivi "liberatori" -i Piemontesi - dopo fecero di meglio: pagarono le spese dell'invasione quella parte di siciliani borboni e quelli� non borbonici (cioè questa parte che avevano combattuto ora i borbonici. Beffati gli uni e gli altri)

Il Filangeri continuò a governare l'isola come luogotenente generale. Non si fece più parola della costituzione promessa; ma fu istituito un ministro per gli affari di Sicilia con sede a Napoli e a quest'ufficio fu nominato GIOVANNI CASSISI. L'amministrazione dell'isola fu, separata da quella della terraferma e i Siciliani continuarono a contribuire alle spese comuni nelle proporzioni della quarta parte. Infine fu stabilita l'istituzione, accanto al viceré, di un consiglio composto di un ministro di Stato, e di tre o più direttori per gli affari di Grazia e Giustizia, dell'Interno, delle Finanze e della Polizia e di una Consulta formata di un presidente e di sette membri scelti fra i più autorevoli siciliani.

APERTURA DEL PARLAMENTO ROMANO
I MINISTRI MAMIANI, FABBRI E ROSA
UCCISIONE DI PELLEGRINO ROSSI - IL MINISTERO MUZZARELLI
FUGA DI PIO IX A GAETA

Abbiamo già letto nei precedenti riassunti, che dopo l'allocuzione del 29 aprile 1848, si era dimesso il MINGHETTI, ed aveva assunto il portafoglio dell'Interno TERENZIO MAMIANI. L'apertura del parlamento romano era stata fissata per il 5 giugno e il Mamiani, d'accordo con gli altri ministri, aveva preparato il discorso del trono, redatto nei seguenti termini:
(non fu mai pronunciato; tuttavia lo abbiamo e lo riportiamo fedelmente)

"La Santità del Nostro Signore mandami a voi con l'ufficio lieto e onorevole di aprire in suo nome i due Consigli legislativi. Il Santo Padre vuole al tempo medesimo che vi significhi come un tale atto della Sovranità sua gli svegli in cuore un vivo e purissimo compiacimento. Egli si rallegra con voi e ringrazia Dio Ottimo Massimo di essere giunto per vie ordinate a mutare una così gran parte delle forme politiche dello Stato, che secondo le esigenze dei tempi e la maturità delle opinioni esse richiedono. Ora a voi appartiene, Signori, il dare fermezza al nuovo Statuto, l'alzare fino ai fasti il gran monumento. Il Santo Padre non cesserà di pregare l'Autore di tutti i lumi perché infonda nel vostro intelletto la vera sapienza civile e perché le istituzioni e le leggi alle quali ponete mano siano formate da quello spirito di giustizia e di religione che sono il vero e solido fondamento di ogni libertà, di ogni garanzia, di ogni progresso.
Il Santo Padre ha salda e piena fiducia che l'assidua vostra cooperazione efficacemente l'aiuterà a provare al mondo che Roma non chiude le porte alle riforme e alle feconde innovazioni per il durevole bene della società umana. La scienza moderna si travaglia lodevolmente a migliorare le condizioni e a scemare i disagi ed i patimenti del popolo minuto. Sua Beatitudine non può che raccomandarvi con somma istanza quest'opera, è vero, è assai malagevole, ma salutare e pietosa, ed è promossa ed inculcata da ogni pagina del Vangelo. I tempi corrono più che mai procellosi: nei popoli c'è una pericolosa impazienza di tramutare gli ordini e perfino i principi della cosa pubblica. Tutto ciò che i secoli edificarono con fatica e lentezza, è minacciato d'immediata distruzione. Sua Santità si confida che voi radunati nella città eterna, accanto all'incrollabile seggio di Pietro, vorrete compiere quest'impresa difficilissima del riedificare e ricostruire, e confermerete che non si può nulla innalzare di stabile e di glorioso, nulla condurre a sociale e politica prosperità e grandezza se non ha fondamento nelle coscienze e non si unisce con l'abnegazione e il sacrificio. All'anima paterna e italiana di Sua Santità fu dolce consolazione, o signori, di vedere l'Italia rifarsi gradatamente e assai quietamente alla vita pubblica e all'essere di nazione: e certo da lei non pervenne se quel movimento fu perturbato e in alcune parti della penisola deviò dai procedimenti temperati e legali.
"Del pari uscì dall'animo del Pontefice la prima proposta di stringere in lega fraterna i principi della nostra comune patria, e perdura nel desiderio di vedere in atto, quando sarà, quel disegno provvidissimo.
Dio colla differenza delle lingue e del suolo, delle razze e dei costumi ha costituito quaggiù le nazioni perché vivano di vita propria e gloriosa, e Dio ha dato all'Italia tutti questi incancellabili segni e caratteri. Altri vogliono costituirla in nazione con il vigore e la fortuna delle armi: il Santo Padre aborrente dalle guerre e dal sangue si adopera a conseguire lo stesso gran bene con la virtù della pace e della concordia. Arduo e laborioso sarà il vostro ufficio. Il Santo Padre ha commesso ai ministri suoi di istruirvi e ragguagliarvi puntualmente intorno allo stato del pubblico erario ed ai mezzi più acconci a ristorarlo con il minor aggravio possibile delle popolazioni. Ha pure la Santità Sua commesso ai ministri di presentarvi tra breve le proposte di legge che lo Statuto fondamentale promette. Da ultimo il Principe Augusto raccomanda alla vostra fede ed alle vostre cure incessanti l'ordine e la concordia interiore. Con questa, o signori, fonderete la libertà, con questa le ottime leggi, le larghe riforme, i sapienti istituti.
Corretti dalle lunghe sventure, ricondotti alfine al fraterno abbraccio, nessuna pienezza di beni vi sarà negata da Dio, nessuna parte della storia degli avi sarà impossibile di riacquistare".

Ma non era questo un discorso che poteva andare a genio all'autore della famosa "allocuzione" del 29 aprile; fece molte osservazioni su questo testo, il MAMIANI corresse più volte, ma neppure corretto il discorso non gli era piaciuto e allora corresse di sua volontà senza il consenso dei ministri e il 5 giugno il cardinale ALTIERI, in nome di Sua Santità, lesse alcuni passi molto "magri" che non dicevano nulla e che riportiamo perché il lettore possa confrontare il testo del primo con quello del secondo:

"La Santità di N. S. mi manda a voi con l'ufficio lieto ed onorevole di aprire in suo nome i due Consigli legislativi. Il S. Padre vuole al tempo medesimo che vi significhi come un tale atto della sovranità sua soddisfi al suo cuore per la fiducia che ha di vedere col vostro concorso migliorato il sistema del pubblico reggimento. Egli si rallegra con voi e ringrazia Iddio, perché si sia potuto giungere ad introdurre nei suoi stati quelle forme politiche richieste dalle esigenze dei tempi e che sono conciliabili con la natura del suo pontificio governo. Ora a voi appartiene, signori, di procurare di ritrarre dalle nuove istituzioni quei benefici che Sua Santità ha desiderato concedere.
Il S. Padre non cesserà di pregare l'Autore di tutti i lumi perché infonda nel vostro intelletto la vera sapienza, perché le istituzioni e le leggi alle quali ponete mano siano informate da quello spirito di giustizia e di religione, che sono il solido e vero fondamento, d'ogni libertà, d'ogni guarentigia, d'ogni progresso.
Il Santo Padre ha commesso ai ministri suoi di istruirvi, e ragguagliarvi principalmente intorno allo stato del pubblico erario, per proporre i mezzi più acconci per ristorarlo col minor aggravio possibile delle popolazioni. Ha pure commesso ai ministri di presentarvi le proposte di legge che lo Statuto fondamentale promette. Il Santo Padre raccomanda alla vostra fede e alle vostre cure incessanti l'ordine e la concordia interiore. Con questa, o signori, la libertà tornerà a vantaggio di tutti; con questa avranno sviluppo le ottime leggi, le larghe riforme, i sapienti istituti. Ammaestrati da lunga e penosa esperienza, sostenitori della santa Religione, che ha sede in questa città, avrete a sperare che nessuna pienezza di beni vi sarà negata da Dio per poter meglio emulare la gloria dei vostri maggiori".

Nessun accenno, nel discorso del Trono, alla causa italiana. Il MAMIANI però accennò lui qualcosa "in più" nel discorso-programmatico, pronunziato davanti all'assemblea elettiva il giorno 9 giugno 1848:
"Il Principe vostro, come padre di tutti i fedeli, dimora nell'alta sfera, della celeste autorità sua, vive nella serena pace dei dogmi, dispensa al mondo la parola di Dio, prega, benedice e perdona. Come sovrano e reggitore costituzionale di questi popoli lascia alla vostra saggezza il provvedere alla maggior parte delle faccende temporali. Voi dunque siete chiamati a consumare un gran fatto, profittevole a tutti i popoli, aiutando il Sovrano ad elevare fino ai fasti il nuovo edificio costituzionale".
"L'altra opera principale, cui c'invitava ed anzi imperiosamente ci commetteva, l'opinione universale, fu di aiutare in ogni modo, con ogni sorta di mezzi, con qualunque sforzo e fatica possibile la causa nazionale italiana. Appena prese le redini del governo ci siamo promessi di riannodare le pratiche più volte interrotte circa una lega politica tra i vari regni italiani. In riguardo dell'Austria e della nazione germanica; da noi non si porta odio ed anzi si porta stima ed amore alla virtuosa e dottissima Nazione alemanna ed agli Austriaci stessi. Siamo pronti e preparati a proferire la nostra amicizia in quel giorno ed in quell'ora quando l'ultimo suo soldato avrà reso sgombro l'ultimo palmo della terra italiana".

(Facciamo notare che in quel preciso istante Radetzky, si stava muovendo da Verona per invadere Ferrara)

PIO IX volle intervenire nei punti essenziali, su riferiti, del discorso del MAMIANI e il 10 luglio, inviando un "breve" alla Camera dei Deputati, scriveva:
"Se il Pontefice prega, benedice e perdona, è altresì in dovere di sciogliere e di legare. E se, come Principe, nell'intendimento di meglio tutelare e rafforzare la cosa pubblica, chiama i due Consigli con lui, il Principe-Sacerdote abbisogna di tutta quella libertà che non paralizzi la sua azione in tutti gli interessi della Religione e dello Stato; e questa libertà gli resta intatta, restando intatti, come devono lo Statuto e la legge sul Consiglio dei ministri che abbiamo spontaneamente concesso. Se i grandi desideri si moltiplicano per la grandezza della Nazione italiana, è necessario che il mondo intero nuovamente conosca che il mezzo per conseguirla non può essere per parte nostra la guerra. Il nostro nome fu benedetto su tutta la terra per le prime parole di pace che uscirono dal nostro labbro: non potrebbe essere sicuramente se uscissero quelle della guerra. E fu per noi gran sorpresa quando sentimmo chiamata la considerazione del Consiglio su quest'argomento in opposizione alle nostre pubbliche dichiarazioni, e nel momento in cui abbiamo intraprese trattative di pace. L'unione fra i principi e la buona armonia fra i popoli, possono solo conseguire la felicità sospirata. Questa concordia fa sì che tutti noi dobbiamo abbracciare egualmente i principi d'Italia, perché da quest'abbraccio paterno può nascere quell'armonia che conduce al compimento dei pubblici voti".

E' insomma polemico su quanto è stato detto (e aggiunto) dal Mariani.

Mancando l'accordo tra il Pontefice e il ministero, questo, il 12 luglio, rassegnò le dimissioni, ma essendo, due giorni dopo, intervenuta l'occupazione austriaca di Ferrara (che abbiamo narrato nelle pagine precedenti) rimase in carica fino� al 2 agosto, quando le dimissioni furono accettate. A presiedere il nuovo ministero rimase il cardinale SOGLIA, a sostituire il Mamiani fu chiamato il vecchio conte ODOARDO FABBRI di Cesena, prolegato di Pesaro e Urbino, alle Finanze LAURO LAURI, alla Grazia e Giustizia rimase PASQUALE DE ROSSI; ai Lavori Pubblici, Commercio ed Agricoltura fu messo PIETRO GUARINI, il conte POMPEO CAMPELLO alle Armi; la direzione della Polizia restò affidata a GIUSEPPE GALLETTI.
Una settimana dopo avvenne la marcia austriaca su Bologna con la violenta reazione dei Bolognesi, e se a Roma (ovviamente nella fazione repubblicana) causò una vampata d'entusiasmo, nelle Romagne e specialmente a Bologna ci fu una spaventevole anarchia e anche tanta confusione sul da farsi (le abbiamo già abbondantemente narrate).
A rimettere l'ordine fu mandato LUIGI CARLO FARINI, che giunse a Bologna il 2 settembre e, spiegando subito una straordinaria energia, in breve ricondusse la quiete con la repressione; con il fare incarcerare i delinquenti (cioè i "patrioti"), con l'allontanare i turbolenti e con il costringere quelli che avevano le armi a partire o ad iscriversi nelle milizie regolari.
Il 16 settembre 1848, il ministero, che nella circostanza fornì una prova di grande debolezza ed aveva ormai pure perso la fiducia del paese, diede le dimissioni e Pio IX per nulla infastidito, chiamò al governo il conte PELLEGRINO ROSSI, già ambasciatore francese che dopo la caduta di Luigi Filippo, era rimasto a Roma come privato cittadino.
Il Rossi prese per sé l'Interno e le Finanze e chiamò all'istruzione il cardinale VIZZARDELLI, alla Grazia e Giustizia l'avvocato FELICE CICOGNINI,
al Consorzio il professor ANTONIO MONTANARI, ai Lavori Pubblici con l'interim delle Armi il duca di RIGNANO. Avocò inoltre a sé la direzione della Polizia e creò il conte PIETRO GUERRINI ministro senza portafoglio.

Il ROSSI oltre che essere francese, era un grande patriota, una mente di prim'ordine, uno studioso profondo e un consumato uomo politico, si diede subito a ristabilire l'ordine pubblico, a consolidare l'istituto parlamentare e a migliorare le condizioni civili, economiche e finanziarie dello Stato. Decretò sussidi e pensioni ai feriti e alle vedove di guerra; mentre il municipio coniava una medaglia per i reduci di Vicenza consigliò al Pontefice affinché onorasse con apposite decorazioni gli ufficiali che si erano distinti per atti di valore, dispose la costruzione di strade ferrate e linee telegrafiche, riordinò l'amministrazione e la giustizia, rialzò il credito finanziario e chiamò a dirigere il dicastero della Guerra il generale ZUCCHI per "ricondurre la disciplina nell'esercito pontificio, riorganizzarlo e completarlo" conoscendo "esser duplice l'ufficio di un esercito regolare: stare cioè saldamente alla difesa, qualunque siano gli eventi politici, dell'onore e dei diritti del sovrano e della nazione e frenare sempre più ed assicurare con ogni sua azione l'ordine pubblico".

Convinto che per dare all'Italia l'Indipendenza occorreva l'unione di tutte le forze, ROSSI fu un sostenitore accanito della Lega italiana. Ma avversava il disegno del ROSMINI e del GIOBERTI che miravano a costituire una confederazione di Stati italiani retti da forme rappresentative, ed era dell'avviso che si dovesse formare invece una lega di principi. In questo senso il Rossi sottopose al Pontefice un disegno di lega; ma il governo di Torino, il più bellicoso, che sosteneva una lega militare anziché politica non accettò il disegno di Pellegrino Rossi come non aveva accettato quello del Rosmini.
Non c'è dubbio che se fosse rimasto più a lungo al governo avrebbe fatto molto bene allo Stato; ma Pellegrino Rossi si era attirato molti odi. Egli rappresentava il "tiranno" per tutti coloro che lui voleva correggere gli eccessi di "tirannia".
L'odiavano i funzionari per la sua severità: gli albertisti perché era contrario alla guerra e all'egemonia del re di Sardegna; i moderati perché era energico e disdegnava le mezze misure e i compromessi; i democratici perché troppo sostenitore del potere temporale; i gesuiti perché liberale; i prelati perché obbligati da lui a pagare le tasse; i più per la sua alterigia, per lo sprezzo in cui pareva tenere i partiti, per la sua cruda franchezza, per l'irruenza delle sue polemiche giornalistiche; e infine perché molti vedevano in lui un ostacolo grandissimo al trionfo delle loro idee e alla soddisfazione dei loro appetiti.

Il 15 novembre 1848 si riapriva il Parlamento. Voci sinistre di trame contro il ministro correvano per la città; ma il ROSSI che per carattere non era certo un insicuro, a queste cose non prestò tanta attenzione, fidandosi nella forza pubblica e sicuro dell'appoggio dei buoni.

Così noncurante che il giorno prima anzi volle far sentire la sua voce ammonitrice ai retrivi e agli esaltati, ai due partiti che concordemente cercavano, sebbene con fini diversi, di rovesciare le forme del governo costituzionale.
Infatti, e parlando proprio di loro, quel giorno sulla "Gazzetta di Roma" scrisse:

" L'uno spera di richiamare un passato cui è impossibile il ritorno; l'altro, agitando apertamente le passioni e l'inesperienza di una parte del popolo, mira a precipitare nella dissoluzione e nell'anarchia la società intera. Ambedue, come differiscono nello scopo, hanno per mezzo comune il disordine. Sappiano ambedue che il Governo costituzionale del Pontefice veglia sopra di loro e che è deciso di adempiere i suoi doveri combattendo virilmente ogni attentato che fosse mosso contro lo Statuto".

La stessa mattina del 15 novembre avvisato da monsignor MARINI di una congiura fu pregato di non uscire di casa; Rossi però non prestò fede agli avvertimenti e lo prova il fatto che non prese nessuna misura per tutelare la sua persona; si recò al Parlamento in cui doveva leggere un discorso con il quale "dimostrava l'importanza e la bellezza degli ordini liberi e manifestava il proposito di consolidarli dando assetto alle finanze, ordinando e rafforzando l'esercito, accrescendo la pubblica sicurezza e diffondendo l'istruzione".

Quando la sua carrozza giunse davanti la Cancelleria apostolica, un gruppo di facinorosi minacciosi lo accolse con grida e fischi. Rossi scese e con aria sprezzante e avanzò nell'atrio verso la scala, ma improvvisamente fu circondato da alcuni congiurati e uno di questi, figlio di CICERUACCHIO, lo ferì con un pugnale al collo recidendogli la carotide. Portato nelle stanze del cardinal Gazzoli, l'infelice ministro spirò alcuni minuti dopo senza avere articolato una parola.
L'efferato delitto atterrì gli onesti, produsse profondo dolore nell'animo del Pontefice, che mandò a chiamar da Bologna il generale ZUCCHI, mentre invece, fu accolto con gioia dai democratici e dal popolaccio, il quale la sera si diede a dimostrare con schiamazzi e canti, la sua letizia. Il giorno dopo, mentre il Pontefice radunava intorno a sé i presidenti delle due camere e le persone più autorevoli della città per consigliarsi con loro sul da farsi, una numerosa folla capitanata da CICERUACCHIO, PIETRO STERBINI e il Principe di CANINO, composta di popolani, di funzionari, di guardie civiche, di carabinieri e dei più accesi democratici, si raccolse davanti al Quirinale e tramite l'ex-ministro GALLETTI fece sapere a Pio IX che si "voleva" un ministro democratico, la costituente italiana e la guerra all'Austria.

Il Papa oppose un rifiuto a quei patti e allora la folla s'infuriò e cominciò a tumultuare minacciosamente. Un colpo di fucile sparato dagli Svizzeri, rimasti fedeli, aggravò la situazione: un cannone fu portato dai dimostranti nella piazza e puntato contro il Quirinale, dalla moltitudine furono sparati numerosi colpi e una palla andò a colpire in pieno Monsignor PALMA che si era affacciato ad una finestra del palazzo e cadde ucciso.
Impaurito dalla piega che prendevano le cose, Pio IX cedette, ma dichiarò agli ambasciatori esteri presenti che cedeva alla violenza e che considerava nulle tutte le concessioni che avrebbe fatto, quindi mandò a chiamare il GALLETTI e gli affidò l'incarico di comporre il nuovo ministero.
La sera stessa il giornale "Il Contemporaneo" pubblicava la lista dei nuovi ministri. La presidenza del Consiglio e il portafoglio dell'Istruzione erano stati affidati all'abate ANTONIO ROSMINI, gli Esteri al MAMIANI, gli Interni e la Polizia al GALLETTI, la Giustizia al SERENI, il Commercio e i Lavori Pubblici allo STERBINI, le Armi al CAMPELLO, le Finanze al LUNATI. Ma il Rosmini non volle accettare di far parte del Ministero e al suo posto il Pontefice mise Monsignor MUZZARELLI.

La mattina del 17 novembre, una moltitudine armata si avviò verso il Quirinale, con l'intenzione di cacciarne gli Svizzeri. Pio IX, appena lo seppe, ordinò agli Svizzeri di cedere il posto alla guardia civica, ma protestò, ancora, alla presenza del corpo diplomatico per la nuova concessione che della violenza era costretto a fare: "
"Io sono come consegnato; si è voluto togliermi la mia guardia e mi circondano altre persone. Il criterio della mia condotta, in questo momento che ogni appoggio mi manca, sta nel principio di evitare ad ogni costo che sia versato sangue fraterno. A questo principio cedo tutto; ma sappiano, signori, e sappia l'Europa e il mondo che io non prendo, nemmeno di nome, parte alcuna agli atti del nuovo governo, al quale io mi ritengo del tutto estraneo. Ho pertanto vietato che si abusi del mio nome, e voglio che non si adoperino neppure le solite formule".
Quel giorno stesso, i ministri che si trovavano a Roma, e cioè il Muzzarelli, il Galletti, lo Sterbini e il Lunati, pubblicavano il seguente proclama:

"Chiamati al ministero in mezzo a circostanze straordinarie, e quando il ricusare sarebbe stato per parte nostra un voler mettere a rischio l'attuale forma di governo costituzionale nel nostro Stato, dovremmo essere spaventati dalla gravità dei casi e dei tempi, se non ci confortasse l'idea che il nostro programma politico si trova già in perfetta armonia, non solo con i principi proclamati dal popolo, ma con quelli che dopo matura deliberazione, furono accettati dalle nostre Camere legislative; principi che serviranno di norma a tutte le nostre azioni, finché resteremo al potere. Fra i quali principi, taluno ebbe con un atto solenne l'assenso dal principe, e altri ebbe la promessa che sarebbe andato di concerto con il nuovo ministero purché si facciano altre proposte analoghe da presentarsi all'accettazione dei Consigli deliberanti.
Il principio della nazionalità italiana proclamata dal nostro popolo e dalle Camere cento volte, e accettato da noi senza riserva, fu sancito dal principe, quando con tanto zelo patrio lo rammentava all'imperatore d'Austria nella sua lettera. E siccome a conseguire quel bene noi crediamo indispensabile di adempire le deliberazioni prese dal Consiglio dei deputati intorno all'indipendenza italiana, quindi, la nostra ferma intenzione di mettere in atto quelle deliberazioni altro non è che una franca adesione ai voti dei rappresentanti del popolo. Né alcuno dubiterà mai della nostra piena adesione al programma del 5 giugno, il quale fu accolto con tanto entusiasmo dallo Stato e dai Consigli deliberanti. La convocazione di una costituente in Roma e l'attuazione di un atto federativo, sono principi e massime che troviamo proclamati nel voto espresso dalle nostre Camere per una convocazione di una dieta in Roma, destinata a discutere gli interessi generali della patria comune. Ed oggi che a questo voto, a questa massima fondamentale, si aggiunge l'assenso del principe a commetterne la decisione ai Consigli deliberanti, di quel Sommo che Italia tutta salutava come iniziatore della sua libertà e della sua indipendenza, il nostro animo esulta pensando essere vicino il momento in cui c'è dato sperare di veder nascere finalmente quel patto federale, che rispettando l'esistenza dei singoli Stati e lasciando intatta la loro forma di governo, serva ad assicurare la libertà, l'unione e l'indipendenza d'Italia. La quale opera acquisterà perfezione, a parer nostro, quando si assocerà la gloria di Roma e il venerato nome di un Pontefice. Con questo programma ci presentiamo al popolo ed alle Camere. Quello ci accordò la sua fiducia, e noi faremo ogni sforzo per continuare a meritarla; queste saranno chiamate ben presto a dimostrarci se ci accordano la loro, come c'è dato sperare, quando i loro principi politici siano oggi quali furono per il passato".

Il nuovo governo ordinò lavori pubblici per lenire la disoccupazione, permise che i legionari reduci dall'Italia superiore si costituissero in corpo militare e mostrò di essere appoggiato dal Circolo democratico e di voler abbattere il potere temporale del Papa, il quale venne nella determinazione di porre in atto il pensiero che, fin dall'uccisione del Rossi, gli era venuto in mente: fuggire da Roma.
Consigliatosi con il corpo diplomatico e avendo deliberato di recarsi alle isole Baleari, la sera del 24 novembre 1848, travestito da prete ed accompagnato dal suo collaboratore segreto, Pio IX uscì dal Quirinale ...

LA FUGA DI PIO IX A GAETA -
LA PROCLAMAZIONE DELLA REPUBBLICA ROMANA
L'INTERVENTO STRANIERO CHIESTO DA PIO IX
I TUMULTI DI FIRENZE E DI LIVORNO
LA FUGA DI LEOPOLDO II A GAETA
è il quattordicesimo e ultimo atto del 1848 > > >

 

Fonti, citazioni, e testi
Prof.
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - (i 5 vol.) Nerbini
P.COLLETTA - Storia (Napoleonica) del Reame di Napoli 1734-1825- 1834
A. VANNUCCI - I Martiri della Libertà - Dal 1794 al 1848 - Lemonnier 1848
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
+ ALTRI VARI DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE  

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