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CRONOLOGIA

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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1831-1832

LA RESTAURAZIONE IN ITALIA CENTRALE
E GLI ALTRI STATI
( nei due anni 1831 -1832 )

PARTE SECONDA
I FUGGIASCHI DI ANCONA - GREGORIO XVI NON RICONOSCE LA CONVENZIONE DI ANCONA - PROCESSI CONTRO I LIBERALI DELLO STATO PONTIFICIO - IL MEMORANDUM DELLE POTENZE AL PAPA - IL MOTUPROPRIO DEL 5 LUGLIO - FERMENTO RIVOLUZIONARIO NELLE LEGAZIONI - PROVVEDIMENTI DEL CARDINAL BERNETTI - RIFORME GIUDIZIARIE - PETIZIONE DELLE GUARDIE CIVICHE - CONVEGNO DEI PROLEGATI A BOLOGNA - I FATTI DI CESENA E DI FORLI - SECONDO INTERVENTO AUSTRIACO - OCCUPAZIONE FRANCESE DI ANCONA - RISVEGLIO LIBERALE E REPRESSIONI AD ANCONA - I CENTURIONI
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I FUGGIASCHI DI ANCONA
GREGORIO XVI NON RICONOSCE LA CONVENZÍONE DI ANCONA


Se a Modena, Parma, Rimini, Bologna la rivoluzione era fallita miseramente, e dopo di questa erano iniziate con la restaurazione le dure repressioni e le vendette, nell'Italia centrale non è che la situazione era migliore, né dopo le promesse del cardinale BENVENUTI e la sua "sacra parola che nessun individuo non sarebbe stato mai perseguitato, molestato o turbato"

Dopo la capitolazione di Ancona, nonostante la "parola sacra" e l'amnistia concessa dal cardinale BERNETTI, molti, e quasi subito, presero la via dell'esilio. 204 s'imbarcarono per la Francia, 86 per Corfù e 3 per l'Inghilterra. La maggior parte si salvarono, ma 98, fra cui 64 erano modenesi, il 30 marzo del 1831, furono fatti prigionieri dalla flotta austriaca, comandata dall'ammiraglio FRANCESCO BANDIERA, padre di ATTILIO ed EMILIO, e tradotti nelle carceri di Venezia.

I sudditi pontifici, fra i quali si trovavano TERENZIO MAMIANI, CARLO POPOLI, FRANCESCO ORIOLI, GIOVANNI VICINI, ANTONIO SILVANI, ANTONIO ZANOLINI, furono il 10 luglio condotti a Civitavecchia e di là, nell'agosto, in Francia. I modenesi rimasero nelle carceri di Venezía fino al 1° giugno del 1832, poi anch'essi furono condotti in Francia.
Soltanto il generale ZUCCHI, considerato come disertore austriaco perché a Milano non aveva aspettato che fossero accettate le sue dimissioni, fu trattenuto. Sottoposto al consiglio di guerra per delitto di alto tradimento, fu condannato alla pena di morte, che, per intromissione dei governi francese ed inglese, gli fu commutata in quella di venti anni di carcere duro. I primi dieci anni li scontò nella fortezza di Munkacz, poi fu trasferito nel forte di Palmanova, dove fu liberato dalla rivoluzione nel marzo del 1848.

Con un improvviso voltafaccia, il Pontefice GREGORIO XVI, in data del 5 aprile, dichiarava nulla la convenzione e le amnistie di Ancona, affermando che erano state strappate al cardinal Benvenuti e Bernetti quando questi non godevano pienamente della loro libertà, e istituiva due commissioni, una civile e l'altra militare, per indagare su gli "autori o propagatori dei fatti, degli scritti o consigli della ribellione", prescrivendo le punizioni cui i colpevoli dovevano andar soggetti.
Era insomma un voltafaccia, e non era più "sacra" la parola del Benvenuti.

Per la sommossa del 12 febbraio del 1831 furono pronunziate due condanne a morte contro il capitano napoleonico GIOVANNI PASQUALINI, piemontese, e lo studente di medicina PIETRO SIMONE GABRIELLI, corso; furono condannati: alla galera a vita lo scultore romano ANTONIO LUPI; a venti anni di galera il dottor DOMENICO MURGIA, della provincia di Salerno, e gli studenti di medicina EUGENIO CARLO GIULIARDI e FILIPPO TESTORI, corsi; a cinque anni l'altro studente corso FILIPPO PACCONI, all'esilio perpetuo lo stagnaro tedesco FEDERICO BRUNST. Gli imputati MICHELE e FILIPPO ACCURSI, LUIGI BARTOLUCCI, ACHILLE NANNI e LUIGI MONSAGRATI non furono allora, condannati, ma tenuti in prigione e più tardi mandati in esilio.

Più di 1000 furono le persone processate per l'ultimo moto rivoluzionario; più di 200 furono condannate a pene varie; alcune centinaia dei soldati pontifici che si erano uniti ai ribelli furono retrocessi nei gradi ed ebbero diminuito lo stipendio e la pensione; agli altri fu concessa l'amnistia pur essendo estranee, ma sempre sotto osservazione.

Dall'amnistia furono esclusi 33 cittadini. Don DOMENICO ARCHIBUZZI, il
cavalier GIOVANNI BUSSI ex-colonnello dei carabinieri, l'avvocato FILIPPO CANUTI, il farmacista FAUSTINO MALAGUTI, il conte CARLO POPOLI, il cavalier CESARE RAGANI, gli avvocati PIETRO SARTI, ANTONIO SILVANI, ANTONIO ZANOLINI e il marchese DANIELE ZAPPI, tutti di Bologna; LUIGI BALDINI e il conte CESARE BIANCHETTI, di Forlì; l'avvocato ANTONIO DELFINI e il tipografo GIUSEPPE POMATELLI, ferraresi; GIUSEPPE FONTINI e il dottor don GIUSEPPE ZACCHERONI di Imola; il generale GIUSEPPE SERCOGNANI e ATANASIO e LUIGI MONTALLEGRI, faentini; il dottor SEBASTIANO FUSCONI, il professor CLEMENTE LORETA ed ELEONORO SORAGNI, di Ravenna; DOMENICO TUZI e il conte PIETRO FERRETTI, di Ancona; il conte TERENZIO MAMIANI e CARLO MOLINARI, di Pesaro; il conte TIBERIO BORGIA di Perugia; PIETRO ORLANDI di Corinaldo; ALESSANDRO OLIVIERI di Genova; il professor FRANCESCO ORIOLI di Viterbo; FEDERICO PESCANTINI di Lugo; il generale PIER DAMIANO ARMANDI di Fusignano.

Mentre erano in corso tutti questi processi contro i liberali dello Stato pontificio, la Francia, pentita di non aver impedito all'Austria di riaffermare il suo primato politico in Italia, cercava di riguadagnarsi la fiducia dei liberali, spingendo a protestare, come si è detto, il suo ambasciatore di Sainte-Aulaire per l'occupazione austriaca delle Romagne e delle Marche, concedendo sussidi agli esuli e chiedendo al Papa di elargire ai sudditi riforme politiche ed amministrative.
Gelose della Francia, si associarono ipocritamente nella richiesta l'Austria, la Prussia, la Russia, l'Inghilterra e la Sardegna e per ordine dei loro governi verso la metà d'aprile del 1831 si radunarono in Roma il conte di SAINTE-AULAIRE, i1 conte di LUTZOW (Austria) il cavalier DE BUNSEN (Prussia), il principe GARGARIN (Russia), il marchese CROSA (Sardegna) e sir BOOCK TAYLOR (Inghilterra), per concordare un "Memorandum" da presentare al Pontefice allo scopo d'indurlo a largire riforme ritenute necessarie per la futura tranquillità dello Stato.

MEMORANDUM DELLE POTENZE

Il Memorandum fu presentato il 21 maggio. Esso era redatto nei seguenti termini:
(lo riportiamo fedelmente e letteralmente nella sua stesura originale":

"Sembra ai rappresentanti delle cinque potenze che nello Stato della Chiesa si devono stabilire, per vantaggio generale d'Europa, due capi fondamentali:
1° che il governo di questo Stato sia fondato sopra basi solide con il mazzo di opportuni miglioramenti, come Sua Santità stessa ha pensato e annunciato all'inizio del suo regno;
2° che simili miglioramenti, i quali, giusta l'espressione dell'editto di S. E. monsignore il cardinal Bernetti, fonderanno un'era novella per i sudditi di Sua Santità, siano per mezzo di una garanzia interna messi al sicuro dalle mutazioni inerenti alla natura di un governo elettivo.
A fine di raggiungere questo scopo salutare il quale importa molto all'Europa per causa della posizione geografica e condizione sociale dello Stato della Chiesa, sembra indispensabile che la dichiarazione organica di Sua Santità parta da due vitali principi:
1° di attuare i miglioramenti non solo nelle province, dove è scoppiata la rivoluzione, ma anche in quelle che sono restate fedeli e nella capitale;
2° dall'ammettere i laici alle funzioni amministrative e giudiziarie.
Pare che i miglioramenti stessi debbano abbracciare il sistema giudiziario e quello dell'amministrazione municipale e provinciale. In quanto all'ordine giudiziario pare che l'intera esecuzione e il conseguente adempimento delle promesse e dei principi del "motuproprio" del 1816 presentino i modi più sicuri e più efficaci per far cessare le molte lagnanze generali a questa parte così rilevante dell'ordinamento sociale. In quanto all'amministrazione locale pare che lo stabilimento e l'ordinamento generale dei municipi eletti dalla popolazione e l'istituzione delle franchigie municipali per regolare l'azione di questi municipi debbano essere la base indispensabile di ogni miglioramento amministrativo. In secondo luogo pare che l'ordinamento dei consigli provinciali (sia con un consiglio amministrativo permanente, destinato a coadiuvare il governo della provincia nell'esecuzione delle suo funzioni con attribuzioni convenienti, sia con una riunione più numerosa, tratta principalmente dal seno dei nuovi municipi, e destinata ad essere consultata intorno agli interessi più rilevanti della provincia) debba riuscire grandemente utile per migliorare e semplificare l'amministrazione provinciale, per sindacare l'amministrazione comunale, per ripartire le imposte e per far conoscere al governo i veri bisogni della provincia.

" Pare che l'immensa importanza di uno stato regolare di finanza e di un'amministrazione del debito pubblico capace di dare la guarentigia tanto desiderabile per il credito finanziario del governo che contribuirebbe essenzialmente ad aumentare i suoi proventi e ad assicurare la sua indipendenza, rende indispensabile uno stabilimento centrale nella capitale, incaricato, come Corte suprema dei conti, di sindacare la contabilità del servizio annuo in ogni ramo dell'amministrazione civile e militare e di sorvegliare il debito pubblico con le attribuzioni corrispondenti al salutare scopo. Quanto più una tale istituzione sarà indipendente e mostrerà l'unione intima del governo con il paese, più essa risponderà alle intenzioni benefiche del sovrano e alle aspettative dell'universale. Pare che, per ottenere questo scopo, dovrebbero essere scelte nei consigli locali formanti con i consiglieri del governo una consulta amministrativa, la quale potrebbe o non, formar parte di un Consiglio di Stato, i cui membri sarebbero dal sovrano indicati fra i più qualificati nel paese per nascita, per censo o per talento. Senza uno o più ristabilimenti centrali di questa natura, intimamente legati con le persone notabili di un paese tanto ricco di elementi aristocratici e conservatori, si crede che la natura di un governo elettivo toglierebbe per necessità ai miglioramenti che formeranno l'eterna gloria del regnante Pontefice quella stabilità, di cui si sente dall'universale potentemente il bisogno, e sarà più vivamente quanto più i benefici del Pontefice saranno grandi e preziosi".

"In Romagna, conosciuto questo (tardivo e forse ipocrita) interessamento delle Potenze straniere per indurre il governo pontificio a concedere delle riforme, fu pubblicato un manifesto perché si sapesse che poche riforme non erano sufficienti a togliere di mezzo le cause del malcontento:

"Parziali regolamenti, parziali leggi, non soddisfano ai suoi bisogni; non tolgono gli abusi inseparabili dell'antica forma costitutiva del governo, non compiono i suoi voti, perché non stabiliscono saldamente il suo benessere. Altrimenti sarà ogni ora con l'animo alla rivolta, la quale non si potrà impedire giammai, sempreché non sia schiacciata dal peso di una forza che vituperosamente fu chiamata per impoverirla e affliggerla contro la fede dei trattati, contro i diritti dei popoli e contro i patti del non intervento, che con tanto rigore si osservano invece per il Belgio, per la Polonia e per gli altri Stati" .

Ma il Pontefice (che proprio lui prima aveva richiesto l'intervento degli austriaci) ora non voleva che le Potenze europee; e per giunta collettivamente, s'ingerissero negli affari interni del suo Stato e fece rispondere dal Cardinale Bernetti che avrebbe concesso ai suoi sudditi le riforme quando e come lui lo credeva opportuno.

IL MOTUPROPRIO DEL 5 LUGLIO
FERMENTO RIVOLUZIONARIO NELLE LEGAZIONI

Le riforme vennero il 5 luglio con una legge, la quale non era altro che la riproduzione, lievemente ritoccata, del "motuproprio" del Consalvi, del 1816. La legge ammetteva i laici alla partecipazione del governo, ma a questi si assegnarono solo alcune province, Bologna, Forlì e Ravenna, a governar le quali furono mandati con il titolo di "prolegati" il conte PIETRO DAVIA, il marchese LUIGI PAOLUCCI DE' CALBOLI e il conte IPPOLITO RASPONI. Quanto all'ordinamento municipale questo "motuproprio" del 5 luglio dava al governo (centrale) il diritto di nominare i consiglieri e disponeva che il loro rinnovo fosse fatto in seguito dal consiglio medesimo salva l'approvazione del governo, al quale però era riservata l'approvazione degli argomenti che nel Consiglio dovevano esser trattati e delle deliberazioni prese.
Insomma le persone erano scelte da Roma, e gli argomenti pure. I "prolegati" erano dei semplici fantocci.

Questa legge si estendeva a tutto lo Stato, tranne a Roma e ai Comuni del Patrimonio di S. Pìetro, che rimasero sotto la dipendenza della congregazione del Buon Governo.
Dieci giorni dopo la pubblicazione del "motuproprio", le truppe austriache, secondo gli accordi presi tra Roma e Vienna, lasciavano le province occupate e subito dopo nelle Legazioni sorse una viva agitazione contro il motuproprio, contenente riforme considerate insufficienti: le guardie civiche seguitarono a ornarsi con la coccarda tricolore; in qualche luogo non si permetteva che l'editto del 5 luglio fosse affisso; da ogni parte si levavano proteste e partivano ambascerie dirette al Pontefice e ai prolegati(ma come abbiamo già detto questi non contavano nulla, seguivano esattamente solo le disposizioni impartite.

In queste agitazioni non mancarono né le sedizioni né lo spargimento di sangue. A Rimini, il 10 luglio, mentre il popolo festeggiava la partenza degli Austriaci, il colonnello BENTIVOGLIO, che comandava mille soldati pontifici, fece sparare, non si sa bene perché, sulla folla ferendo molti cittadini. Questo fatto provocò alti clamori. I Romagnoli si rivolsero ai rappresentanti delle cinque potenze che avevano firmato il Memorandum del 21 maggio, e il 17 luglio spedirono al Pontefice un memoriale rispettoso ma nello stesso tempo molto energico
( che riportiamo fedelmente):

"I nostri sudditi di Romagna, che un mal governo di quindici anni costrinse durante l'ultima vacanza della Santa Sede ad insorgere contro un sistema oppressivo e pressoché insopportabile, temendo che l'espressione dei loro veri sentimenti, giacché unico mezzo sicuro e legale qui esiste di libera comunicazione fra il sovrano e il suo popolo, non siano stati enunciati interamente e francamente da coloro che furono qui spediti da Roma sotto la denominazione di deputati delle Legazioni, osano farsi innanzi all'augusto aspetto del supremo gerarca della Chiesa universale e al tempo stesso loro sovrano per manifestargli che, brandendo di nuovo le armi, non intendono emanciparsi dalla sovranità temporale del Papa, né fare oltraggio alla sua sacra persona, bensì in modo efficace quelle riforme in ogni ramo della pubblica amministrazione che i lumi e progressi della civiltà rendono anche a noi indispensabili; la quale domanda intendiamo umilmente sottoporre al vostro augusto trono dichiarando altresì che di nessun valore e del tutto insufficienti sono stati i cambiamenti ordinati nel ramo dell'amministrazione comunale e provinciale con l'editto della vostra Segreteria di Stato del 5 luglio corrente, il quale editto, universalmente riprovato, in alcune parti richiama le istituzioni dei secoli barbari e gli odiosi privilegi per una classe di cittadini già troppo protetta fin qui contro l'interesse di tutte le altre. Inoltre sembra che si dovesse iniziare una grand'opera della riforma dal più alto principio a far conoscere al popolo quale garanzia si darebbe per assicurare l'adempimento e la stabilità dalle nuove istituzioni, richiesta più che ragionevole in un governo elettivo.
"Né ci è permesso passar sotto silenzio l'atroce abuso che si è fatto e si fa tuttavia della forza dal colonnello Bentivoglio nella nostra città di Rimini, il quale, non pago di avere, nella sera del l° luglio, poche ore dopo il suo ingresso, fatto versare e versato con le sue stesse sue mani proditoriamente il sangue di pacifici ed inermi nostri compatrioti, esercita tuttavia in quella città il più aspro governo militare, il che è cagione di grandissimo sdegno al popolo di tutte le Legazioni, né può esser sentito diversamente dagli uomini di senno e di cuore, e non lascerà di esortare il più alto rammarico nell'animo umanissimo di vostra Beatitudine. Né taceremo le trame e i maneggi già scoperti a Bologna, o che si praticano altrove, per promuovere con uno scellerato disegno la guerra civile nei vostri Stati. I quali eccessi, al mansueto animo del Vicario di Gesù Cristo ed opposte al di Lui Vangelo, hanno poi cagionato in questi ultimi giorni il disordine e qualche fatto che non si ometterà dipingere a Voi ed all'Europa, come un nuovo attentato alla vostra sovranità.
" Finalmente ci sentiamo costretti a farvi umilmente conoscere che se i vostri ministri, tendono a nascondere ai vostri occhi la verità, e permettono di provocare ufficialmente la guerra civile, se non porranno fine a così gravi inconvenienti, non è sperabile ristabilire la pubblica tranquillità; e i vostri popoli di Bologna e Romagna loro malgrado si gioveranno del diritto che la natura concede a tutti gli uomini in qualsivoglia condizione di civile società. Affidati al vostro cuore paterno e alle generose promesse di un'era novella, ci confortiamo delle migliori speranze, implorando intanto l'apostolica benedizione".

Ma a nulla valsero queste proteste: il cardinale BERNETTI aveva buone parole per le deputazioni, ma intanto organizzava una brigata di soldati svizzeri, annunciava agli ufficiali e agli impiegati militari che la pena capitale sarà presto o tardi il sicuro retaggio di chiunque giungesse a macchiarsi partecipando in qualche modo anche lieve ai disegni dei nemici del governo, e il 14 settembre ammoniva i "prolegati" di Romagna che "�se il contegno delle popolazioni non fosse mutato, il Pontefice avrebbe chiesto di nuovo l'intervento straniero".

A metter legna sul fuoco dell'incendio arrivarono tre editti della Segreteria di Stato che, in data del 5 e del 31 di ottobre e del 5 novembre, riformavano l'ordinamento giudiziario, che era la cosa più delicata in questa fase e clima di sospetti, repressioni, delazioni.
Numerosi giuristi, causidici ed avvocati, riuniti in Bologna, preso atto degli editti, deliberarono di supplicare il Pontefice perché sospendesse l'esecuzione delle nuove leggi; furono inviati-ambasciatori a Roma per consegnare la supplica e intanto il prolegato di Bologna, in data del 2 dicembre 1831, bloccava la riforma giudiziaria fino a nuove sovrane disposizioni.
Il cardinale BERNETTI rispose ai deputati delle Romagne che, in attesa di ulteriori riforme, che si eseguissero le "nuove leggi", di fare in modo che le guardie civiche portassero le insegne e i colori del Papa e, infine, che fossero bene accolte le truppe stanziali che il governo aveva deliberato di mandare nelle Legazioni non appena fossero pronte.

Nuove richieste intanto furono inviate a Roma. Il 19 dicembre le guardie civiche, per mezzo del loro comandante generale PATUZZI domandavano al governo pontificio:
1° Uno Statuto fondato sulla distinzione dei tre poteri e su un governo moderato;
2° Un codice civile, penale, commerciale, militare e di polizia conforme alle moderne legislazioni;
3° Regole di pubblica amministrazione e di finanza, stabilendo sopratutto modi certi e precisi di liquidazione ed assicurazione del debito pubblico.

La petizione del Patuzzi suscitò una viva agitazione nel paese e i prolegati delle province di Bologna, Forlì e Ravenna, allo scopo di calmare gli animi, stabilirono di chiedere al governo riforme meno radicali; quindi riunitisi in Bologna il 25 dicembre con i loro consiglieri e con gli ufficiali delle guardie civiche che non avevano aderito alle richieste del Patuzzi, deliberarono:

1° Che le tre province suddette eleggessero deputati propri nella proporzione di uno su quindicimila abitanti, per trattare in un congresso generale dei bisogni delle medesime province;
2° Che il detto congresso doveva tenersi a Bologna il 2 gennaio del 1832;
3° Di fare istanza al governo perché sospendesse quel movimento di truppe raccolte a Rimini e a Ferrara.

Giunta a Roma la notizia del convegno di Bologna, il cardinale BERNETTI disapprovò energicamente la riunione del 25 dicembre e le deliberazioni prese e, avendo ormai stabilito di ricorrere alla forza per rimettere nell'ordine le Legazioni, il 10 gennaio inviò ai rappresentanti dell'Austria, della Russia, della Prussia, della Francia, dell'Inghilterra una nota in cui, esposta la situazione, comunicava che il governo pontificio aveva deciso di occupare militarmente le Legazioni;
"E che se, contro ogni aspettativa le truppe e le sovrane decisioni incontravano resistenza, contava sopra i soccorsi, dei quali poteva aver bisogno per far prevalere la legittima autorità".

I soccorsi, di cui parlava la nota, dovevano essere inviati dall'Austria con la quale il Bernetti aveva già preso accordi. Allora l'ambasciatore francese, conte di SAINTE-AULAIRE, pur associandosi ai suoi colleghi nell'approvare le deliberazioni papali di occupare militarmente le Legazioni, fece sapere in via confidenziale al segretario di Stato che se gli Austriaci fossero di nuovo intervenuti a Bologna o in Romagna, la Francia avrebbe occupato un altro territorio dello Stato pontificio.

Soltanto l'ambasciatore inglese a Roma lord SEYMOUR disapprovò le decisioni del governo pontificio; abbandonò la capitale e spiegò in una lettera i motivi che lo avevano indotto a dissentire dai suoi colleghi:

"La corte di Roma sembra affidarsi nella temporanea presenza di milizie straniere e sopra i credibili servizi di truppe ausiliarie svizzere per il mantenimento dell'ordine nel proprio territorio. Ma le straniere occupazioni non possono essere definitivamente prolungate e non è probabile che alcuna forza svizzera, di tal numero da esser mantenuta dall'erario papale, riesca a tenere a freno il malcontento di un'intera popolazione. Egualmente, se la tranquillità potesse solo con questi modi essere ristabilita, non potrebbe considerarsi credibilmente durevole .... ".

Il governo pontificio incaricò il cardinale GIUSEPPE ALBANI di rimetter l'ordine nelle quattro Legazioni in qualità di Commissario straordinario, lo munì di pieni poteri e mise a sua disposizione seimila uomini divisi in due corpi, di cui uno, di cinquemila, comandato dal colonnello BARBIERI in stanza a Rimini, l'altro di mille stanziato a Ferrara sotto gli ordini del colonnello Zamboni.

Il 14 gennaio il cardinale BERNETTI pubblicava una notifica agli abitanti delle Legazioni nella quale annunciava loro il prossimo arrivo delle milizie pontificie e li esortava ad accoglierle senza ostilità; il 18 il colonnello Barbieri pubblicava un ordine del giorno ai suoi soldati esortandoli alla disciplina e al rispetto delle persone e delle proprietà nell'impresa che si accingevano a compiere, e il 19 si metteva in marcia alla volta di S. Arcangelo e di Savignano.
Nello stesso giorno il generale RADETZSKI comandante delle truppe austriache nel Lombardo-Veneto annunciava, con un proclama, che stava per
"entrare negli stati della Chiesa con il consenso delle altre potenze e dietro espressa richiesta del Papa a Sua Maestà l'Imperatore, mio augustissimo sovrano, prestando, come suo vicino ed alleato, la protezione delle sue armi al Sommo Pontefice, non ha altro scopo fuorché quello del mantenimento del buon ordine e del legittimo potere".


SECONDO INTERVENTO AUSTRIACO
I FATTI DI CESENA E DI FORLI'

Il 20 gennaio del 1832 il colonnello BARBIERI con più di quattromila uomini e con otto cannoni assalì duemila volontari male armati e male addestrati, che forniti di tre cannoncini e guidati dal maggiore SEBASTIANO MONTALLEGRI di Faenza e dai capitani BELLUZZI, CONTI, LANDI, PICCONI si erano radunati presso Cesena, sulla collina detta Madonna del Monte.
Si combatté per circa due ore furiosamente; alla fine, sopraffatti dal numero, i volontari romagnoli furono travolti e si sbandarono. Allora i soldati pontifici, distrutte le porte a colpi di cannone, penetrarono a Cesena e, sebbene qui gli abitanti nessuno di loro avesse fatto resistenza, trattarono l'infelice città come se fosse stata presa d'assalto dai barbari del medioevo, uccidendo diciassette cittadini, ferendone molti, saccheggiando le case e le chiese e facendo violenza alle donne, perfino a quelle che vivevano dentro i monasteri.
Fu scritta una brutta e indegna pagina nella memoria perenne di Cesena.

Lo stesso giorno, il colonnello ZAMBONI partiva con un battaglione da Ferrara, passava il Po a Primaro e a Bastia sgominava un nucleo d'insorti, proseguiva quindi per Massa Lombarda e Lugo e il 4 febbraio entrava a Ravenna.

Il 21 gennaio il colonnello BENTIVOGLIO entrò senza colpo ferire a Forlì, la cui magistratura aveva il giorno prima ricevuto promessa dal cardinale Albani che i soldati non avrebbero recata alcun'offesa ai cittadini. Ma, verso sera, cogliendo il pretesto di un colpo di fucile sparato non si sa da chi, i pontifici si gettarono sugli inermi, cittadini massacrandone ventitré, di cui due donne, e ferendone sessantacinque.

Davanti a questo contegno "barbaro" dei soldati papali non desta meraviglia se gli abitanti delle Legazioni accolsero poi come liberatori proprio gli "odiati" Austriaci (ex "barbari"). Questi entrarono, senza incontrare resistenza, a Bologna il 28 gennaio. Vi entrarono pure le truppe pontificie dei colonnelli FREDDI e ZAMBONI, ma (già informate degli eccidi a Forlì e a Cesena) furono accolte con ostilità dal popolo bolognese, che le avrebbe conciate in malo modo se non fossero accorsi gli Austriaci a salvarli.

Il cardinale ALBANI stabili la sua sede a Bologna e scelse come consiglieri del governo un colonnello austriaco e quel famigerato PRINCIPE di CANOSA di cui tante volte ci siamo occupati; quindi pubblicò un editto contro le società segrete, minacciando pene gravissime agli affiliati e a coloro che, conoscendo l'esistenza di qualche setta, non facevano la denuncia; impose un prestito forzato di duecentomila scudi romani da ripartirsi fra i capitalisti, i possidenti e i negozianti, sciolse magistrature e i consigli municipali, ordinò il disarmo generale e lo scioglimento delle guardie civiche e tolse dagli uffici molti impiegati. Nacque un clima dove non si salvava nessuno -colpevoli o del tutto innocenti-
E molte persone, per fuggire a questi rigori, spaventate dalle minacce, o temendo pretestuose vendette di vario genere - magari solo perché benestanti- andarono in esilio.

OCCUPAZIONE FRANCESE DI ANCONA
RISVEGLIO LIBERALE E REPRESSIONE AD ANCONA
I CENTURIONI

La Francia a questo punto, questa volta non volle assistere inoperosa all'intervento austriaco e, avendo deliberato di occupare un territorio dello Stato pontificio, scelse Ancona.
"La Francia, - SCRIVE IL GUIZOT - la cui politica liberale e al tempo stesso antirivoluzionaria pareva approvata dall'Europa, non aveva potuto trionfare in Italia né aveva ottenuto di poter riconciliare il Papa con i suoi sudditi: prevalevano l'Austria e la politica di repressione materiale. Se a questo punto ci fossimo fermati, se il governo francese non si fosse mostrato sensibile a tale scacco e pronto a rimediarvi, esso perdeva la sua considerazione e la sua influenza: in Francia il governo non sapeva come rispondere agli assalti ed agli insulti degli oppositori, i quali già si sdegnavano, disputavano, raccontavano i dolori degli Italiani, gli eccessi dei soldati del Papa, il ritorno degli Austriaci nelle Legazioni come dominatori e quasi come liberatori per la sicurezza dei popoli e per l'autorità del sovrano. In questo non c' era per la Francia alcun interesse materiale e diretto; sebbene vi era una questione di dignità e di grandezza nazionale, forse anche di tranquillità interna. La politica della pace era abbassata e compromessa. CASIMIRO PÉRIER non era uomo da sopportare tutto questo freddamente né da stare ozioso in tale situazione. Il re fu alla fine dello stesso parere e la spedizione di Ancona fu deliberata".

L'occupazione di questa città avvenne la notte del 22 febbraio 1832. Una piccola squadra composta di un vascello e da due fregate al comando del capitano GALLOIS entrò nel porto e sbarcò tranquillamente milleottocento soldati di linea comandati dal colonnello COMBES.
La città era presidiata da novecento uomini agli ordini del colonnello LAZZARINI e del tenente colonnello SIGISMONDO RUSPOLI; ma questi non furono nella possibilità di opporre resistenza e così Ancona cadde in mano dei Francesi.
Avuta la notizia dell'occupazione, il governo pontificio impartì l'ordine alle milizie che presidiavano la città di trasferirsi ad Osimo, destituì il Lazzarini e il Ruspoli e con nota del 25 febbraio indirizzata all'ambasciatore francese SAINTE-AULAIRE e comunicata alle potenze protestò energicamente contro la violazione del territorio della Chiesa e contro l'offesa recata alla sovranità del Santo Padre e chiese che le truppe della Francia uscissero immediatamente dalla città occupata.
Nello stesso tempo il Pontefice si ricusò di ricevere il generale CUBIÈRES, che aveva il comando supremo della spedizione e che per Marsiglia Livorno era andato a Roma per assicurare il Papa delle benevole intenzioni della Francia.

Nonostante la protesta del Papa e quella dell'Austria, i Francesi rimasero ad Ancona, anzi al governo di Parigi riuscì a intendersi con quello di Roma per mezzo del Sainte Aulaire. Questi, il 15 aprile, inviò una nota al BERNETTI con la quale pregava il Pontefice di acconsentire al temporaneo stanziamento delle truppe francesi in Ancona alle condizioni che meglio piacesse di stabilire al governo pontificio. Insieme con la nota il Sainte-Aulaire inviò la comunicazione dell'allontanamento del Gallois e del Combes, i quali, oltrepassando le istruzioni avute, avevano fomentato alcune speranze dei liberali.

Il Papa aderì alle richieste dell'ambasciatore francese e tra i governi di Roma e di Parigi si convenne quanto segue:

"L'occupazione francese di Ancona doveva cessare contemporaneamente a quell'austriaca delle Legazioni; i soldati francesi non dovevano superare il numero di milleottocento; essi non potevano eseguire lavori di fortificazione né potevano estendersi fuori del recinto della città; sulla cittadella doveva sventolare la bandiera papale; tutte le spese dell'occupazione dovevano essere a carico della Francia, e infine doveva continuare senza ostacoli nella città il governo politico e civile della Chiesa.
Malgrado questi accordi, la presenza delle truppe francesi continuò a tenere accese le speranze dei liberali anconetani e richiamò nella città di Ancona molti liberali delle Romagne. Un patriota, certo NICCOLA RICCIOTTI di Frosinone, uscito da poco dal carcere di Civitacastellana dov'era rimasto chiuso nove anni, e CAMILLO MELLONI organizzarono una "Colonna mobile di volontari" i quali ebbero una bandiera nera su cui stava scritto: "buone leggi e garantita inviolabilità".

Queste milizie volontarie, che certamente non erano esemplari per disciplina, non tardarono a trascendere a provocazioni e a violenze che culminarono con l'uccisione del conte GIROLAMO BOSDARI, gonfaloniere della città, avvenuta il 23 maggio. Il 3 giugno poi ebbe luogo un pubblico comizio e una deputazione presentò al prolegato pontificio e al generale Cubières una petizione con la quale si chiedeva la divisione dei tre poteri, buoni codici finanziario, civile, criminale e militare e garanzie per l'osservanza delle leggi.

Allora il Papa lanciò la scomunica contro gli autori della petizione e fece chiedere dal Bernetti al governo francese l'immediato richiamo delle truppe. Queste non furono richiamate, ma LUIGI FILIPPO diede soddisfazione al Pontefice ordinando al CUBIÈRES di scacciare da Ancona i liberali stranieri e di tenere a freno quelli della città.

Il generale fece però di più: presa, nel luglio, la direzione della polizia, disperse le bande di volontari e fece arrestare i più turbolenti liberali, contro di cui più tardi si sfogò l'ira del governo pontificio. Infatti, nel marzo del 1833, il Tribunale penale di Ancona giudicò venticinque cittadini: quattordici furono condannati al carcere per vari anni, due - il ventiseienne MARIANO BEVILACQUA, cameriere anconetano, e il muratore trentenne LORENZO TORELLI di Fano - ritenuti autori dell'uccisione del conte Bosdari, furono condannati alla pena capitale e fucilati.

Anche a Roma l'occupazione francese di Ancona fece agitare i liberali. Nel maggio del 1832 ci fu uno sciopero di contadini delle terre vicine alla capitale e anche due tentativi andati a vuoto di penetrare in Roma per portare le loro lagnanze (causate dalla scarsa mercede) al Pontefice. Si sospettò che i contadini fossero stati istigati a scopo politico da qualche liberale e i sospetti furono avvalorati da alcune coccarde tricolori trovate nella piazza Lateranense, ma sul presunto istigatore non poterono esser messe le mani perché era sconosciuto.
Nel mese di luglio si scoperse una congiura di giovani che miravano a secolarizzare il governo. Si misero sotto processo circa 40 persone e, di queste, 9, fra cui il notaio capitolino FELICE SCIFONI, e gli studenti LUIGI UFFREDUZZI e MANLIO DE ANGELIS, furono condannati a dieci anni di carcere; dieci, fra cui ALESSANDRO TODINI, dai cinque ai tre anni di prigione.

Intanto il cardinale ALBANI organizzava nelle Marche e nelle Romagne una milizia volontaria, la quale, insieme con i reggimenti svizzeri che si assoldavano, doveva tenere a freno i liberali dello Stato permettendo a questo di non ricorrere più all'aiuto straniero. Questa nuova milizia che passò alla storia col nome di CENTURIONI, era comandata dal colonnello GIAMBATTISTA BERTOLAZZI e verso la fine del 1832 raggiungeva il numero di cinquantamila uomini. Di questa soldatesca volontaria, reclutata fra la plebe delle città e delle campagne più ignorante e fanatica, il comandante diceva, in un manifesto, che racchiudeva....
"gli elementi di una guardia nazionale e non ammetteva a farne parte che gli onesti cittadini, stanchi di sopportare l'empietà e la violenza di quella genia che, arrogandosi il titolo di liberalismo, pretendeva dare legge al mondo e che, essendo priva di mezzi di sussistenza, rifuggiva a procacciarseli con il sudore della propria fronte. Quindi i volontari pontifici, seguendo sempre la voce del Principe, sono fermamente risoluti a tenere lontano ad ogni costo il contagio di questo micidiale flagello; ed in caso disperato sono ben decisi a farsi ragione da se stessi nel miglior modo possibile".

Per l'ordinamento della brigata svizzera il governo pontificio spese cinquecentomila scudi e per il suo mantenimento trecento sessantamila scudi annui. Somme rilevanti furono inoltre spese per la milizia volontaria. Per fronteggiare queste uscite militari si ricorse a mezzi straordinari che aggravarono le condizione dei sudditi. Anche gli ecclesiastici furono compresi nei nuovi aggravi: sui loro beni, con un editto del 10 dicembre del 1832, fu messa un'imposizione dal due al dieci per cento. Non essendo le nuove imposte sufficienti a fornire i mezzi necessari, si contrasse un prestito con il barone Rothschild di tre milioni di scudi al 72 per 100.
"Credutosi forte, - scrive il PISTELLI - il governo non pose limite alla reazione: volle punire in eccesso; punire forse più le giovanili speranze che non le vere condotte sediziose. Rimasero chiuse le università degli studi, e fu fatto insegnare le scienze nei paesi e nelle città di provincia solo ai maestri privati; s'impedì che compiessero gli studi ed ottenessero gradi i giovani minorenni che nel '31 avevano preso le armi, molti furono respinti dal Foro, ad altri ostacolate le loro carriere. Il risultato fu che tutta una generazione fu stimolata ad entrare nelle sette e nelle cospirazioni.

Disciolti i consigli municipali nominati sul finire del 1831, furono carcerati e condannati tutti coloro che avevano dato prova di non resistere alle dissoluzioni, e le rappresentanze municipali furono mutate in congreghe servili di faziosi, o di povera gente spesso perfino analfabeta. Chiunque fosse in odore di liberale (e bastava ben poco, a giudizio dei Sanfedisti) non conservava né ufficio governativo né municipale, né l'otteneva se lo chiedeva, e non poteva rappresentare né municipio né provincia; in gran maggioranza furono quelli che rimasero esclusi da tutti gli impieghi. Non si pensò minimamente a quelle riforme e istituzioni che erano state indicate nel Memorandum dei potentati. Le stesse insufficienti e sgradite leggi municipali e provinciali furono tolte a favore di circolari pubbliche e segrete e dall'invasione dei Sanfedisti e Centurioni in tutte le cariche e gli uffici. L'ordine giudiziario non riceveva l'assetto che era stato promesso non si pubblicavano codici: era sancito un regolamento penale raffazzonato malamente, nel quale erano spietate le pene per i delitti che si dicevano di lesa maestà o che s'interpretavano come tali.

Esiste una circolare segreta del cardinale Bernetti, nella quale ordina ai giudici di applicare sempre ai liberali imputati di colpe o crimini comuni il massimo della pena. I giudici servivano o per amore, se tinti alla pece della setta, o per timore o per animo vendereccio. Le polizie erano faziose; un agente di polizia in alcuni paesi faceva paura ai cittadini più che un brigante; gli sgherri strappavano ai cittadini i peli dal mento e dal labbro superiore: non permettevano ai liberali di andare a caccia o a diporto; negavano passaporti, sorvegliavano le famiglie, violavano il domicilio alle persone con perquisizioni continue. E l'amministrazione dell'Erario pubblico restava, come anticamente, senza regola e senza sindacato; si facevano prestiti rovinosi e rovinosi appalti di pubbliche rendite; commercio, istruzione, industria non solo furono disprezzati, ma sfavoriti e peggiorati. Tali erano le condizioni dello Stato retto dai preti: e così si persero le speranze che i popoli avevano fidandosi nell'aiuto straniero. I potentati, che volevano assicurare la pubblica quiete, seguitarono ad ignorare le cause dei malumori; ma questa sofferenza della popolazione fu l'ultimo sperimento del governo clericale, ormai non più inconciliabile con la nuova civiltà".

 

la terza parte sempre di questo periodo dal 1831 al 1832 > >
con
IL GRANDUCATO DI TOSCANA - FERDINANDO II RE DELLE DUE SICILIE
MORTE DI CARLO FELICE - CARLO ALBERTO RE

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