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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1821-1830

GLI ALTRI STATI ITALIANI DOPO LA RESTAURAZIONE

SECONDA PARTE
LO STATO PONTIFICIO E LE SETTE - ARRESTI E CONDANNE - LA "LEGIONE ROMANA" - REAZIONE INIZIATA DAI CARDINALI RUSCONI E SANSEVERINO - ESILIATI ED ARRESTATI - LA BOLLA CONTRO I SETTARI - MORTE DI PIO VII - IL CONCLAVE - ELEZIONE DI LEONE XII - SUO GOVERNO E SUA POLITICA - REPRESSIONE DEL BRIGANTAGGIO NELLE PROVINCIE DI MARITTIMA E DI CAMPAGNA - GOVERNO REAZIONARIO DEL RIVAROLA IN ROMAGNA - ATTENTATO CONTRO IL RIVAROLA, PROCESSO E CONDANNA DEGLI AUTORI
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LO STATO PONTIFICIO E LE SETTE


Nello Stato Pontificio, dopo il fallito tentativo rivoluzionario di Macerata (vedi il "periodo" 1815-1818 - Stato Pontificio) il movimento settario aveva avuto un periodo di rallentamento, ma ben presto le società segrete avevano ripreso la loro attività. "Guelfi, Carbonari, Adelfi, Sublimi Maestri Perfetti" erano abbastanza numerosi nelle Legazioni, ed aveva fatto la sua comparsa a Bologna perfino la setta della "Spilla Nera" per opera di CECILIA MONTI, moglie del generale D'ARNAUD, la quale, tratta in arresto nel 1818 a Fratta, rimase prigioniera degli Austriaci per qualche mese.

Fino alle 1817 pare che i settari più forti erano stati i "Guelfi", ma nell'ottobre di quell'anno si fusero con i "Carbonari" in una società sola mediante la cosiddetta "Costituzione latina" escogitata da COSTANTINO MUNARI e adottata dai settari di Romagna in un convegno tenuto nel palazzo Ercolani di Bologna. Allora la propaganda settaria s'intensificò così tanto che pochi mesi dopo, sotto la protezione di cardinali reazionari quali il RUSCONI, l'ALBANI e il CASTIGLIONI, si costituì, con un programma ferocemente reazionario, la setta dei "Sanfedisti" (di cui in altre pagine abbiamo già accennato).
Il cardinale CONSALVI, segretario di Stato, sorvegliava con grande diligenza, l'attività delle sette liberali, ma più che su queste, da lui ritenute non pericolose, vigilava (e a ragione) sull'Austria della quale conosceva le mire sulle Legazioni; infatti, scoppiata la rivoluzione di Napoli, lui si dichiarava contrario all'intervento austriaco nel Regno delle Due Sicilie ed opponeva un reciso rifiuto al Metternich il quale chiedeva che gli eserciti austriaci presidiassero lo stato pontificio.

Ma intanto Pontecorvo e Benevento si ribellavano costituendosi in governi indipendenti, e in tutto lo stato i settari si agitavano, destando grande preoccupazione nel governo pontificio, il quale, intensificata la vigilanza, riuscì nell'ottobre del 1820 ad arrestare a Macerata e in altre città delle Marche una diecina di persone, di cui cinque, e cioè ALESSANDRO CELLINI, LIVIO AURISPA, ANTONIO FIORETTI, BENEDETTO ILARI E GIUSEPPE PASSINI, furono poi condannati ad alcuni anni di segregazione nella fortezza di Civitacastellana.

Questi arresti crearono lo scompiglio fra i rivoluzionari marchigiani; alcuni si rifugiarono nell'Abruzzo e vi costituirono la "Legione romana" comandata dal maceratese VINCENZO PANNELLI, la quale, nel febbraio del 1821, con il proposito di indurre i sudditi del Pontefice ad insorgere, si spinse fino a Ripatransone, in provincia di Ascoli, ma, non sostenuta dalle popolazioni ed affrontata dalle truppe pontificie, si disperse. Dei legionari, alcuni furono fatti prigionieri subito, altri, fra cui il Pannelli, furono catturati a Messina, dove erano riparati, e consegnati al governo papale; altri - e tra questi il dottor CARLO CICOGNANI di Forlì - riuscirono a mettersi in salvo.

La "Congregazione criminale" della "Sagra Consulta" pronunciò la sentenza il 21 ottobre. 1822: VINCENZO PANNELLI, ALESSANDRO MONARI, ALESSANDRO COLBASSANI, SEBASTIANO OTTAVI, LUIGI MORTACCINI, VALENTINO ZANNOTTI, PACIFICO ANGELOTTI furono condannati alla pena di morte, che fu poi commutata nella segregazione a vita; MICHELANGELO ANTOLA, ANTONIO, RAFFAELE ROSSI, LUIGI e LEANDRO TOMASSETTI, GIUSEPPE GROSSI e CARLO VULPIANI condannati da sette a dieci anni di carcere.
Con altre sentenze furono condannati IGNAZIO BREGOLI al carcere a vita, GUGLIELMO CERESANI a cinque anni, a vari anni di reclusione nella fortezza di Civitacastellana FRANCESCO BERZOLARI, VINCENZO FALCIATORI, LUIGI GENNARI, ROCCO ANTONIO PACIONI, GIACOMO e NICOLA RICCIOTTI, GIUSEPPE ROMAGNOLI, AGOSTINO SPAGNOLI, FORTUNATO SERI ed alcuni altri.
Intanto nelle Romagne l'attività delle sette era tale ed i delitti di sangue erano tanti che il cardinale Consalvi, temendo che l'Austria, preoccupata dell'esistenza di società segrete ai confini del Lombardo-Veneto, occupasse le Legazioni, ordinò ai cardinali SANSEVERINO e RUSCONI, legati delle province di Forlì e di Ravenna, di cacciare o di confinare (e non di ammazzarli) i liberali più impetuosi.

LA "STRAGE DEGLI INNOCENTI"

I due legati, che erano severi reazionari, e non avevano certo bisogno di sollecitazioni, ed eseguirono gli ordini senza misura e discernimento e provocarono una vivissima agitazione nelle Romagne, che trovò perfino eco sdegnato nella stampa estera e suggerì al cardinal Consalvi una lettera al Sanseverino in data del 1° agosto 1821, la quale merita di essere riferita
(la riportiamo letteralmente come fu stesa, senza cambiare una virgola, né modificare la sintassi):

"Dalla lettera di V. E. del 18 di luglio raccolgo che l'E. V. è proceduta ad altri arresti ed espulsioni, e che si propone di andarne facendo altri. Ella deve avere già ricevuto le ultime due mie, nelle quali le accennai che la moltitudine delli arresti ed esilii eseguiti nell'una e nell'altra Legazione, rendeva assolutamente necessario di fermarsi e non venire ad altri passi per la sola vista delle qualità delle persone sospette; non astenendosene bensì se qualche fatto o detto o manovra criminosa lo esigesse. Il fatto sta che fra le due Legazioni il numero delli arrestati e delli espulsi supera non di poco il centinaio, né da Milano, né dal Piemonte, né da Napoli si è andati cossì avanti: e avremo da sentire fogli inglesi, francesi e tedeschi non dell'Austria cosa diranno di questa chiamata "strage deglì innocenti", come ne avvisa V. E.; e si farà passare il Papa per il più accanito dei persecutori. Tutti gli esiliati o gli arrestati esclamano tutti contro la tirannia e l'abuso della forza. Tutti dicono d'avere almeno il diritto di essere sentiti e di discolparsi costituendosi in un forte. Come negarsi a tale giusta istanza? O almeno, come lusingarsi che ad altri entri nella testa che si possa saltar sopra ad ogni forma e ad ogni regola? A me sembra che questo affare vada a diventare di una difficoltà somma. Il decoro, una giusta e sana politica, il non disgustarsi i buoni, esigono di non far passi retrogradi, almeno così presto. Dall'altro canto, la giustizia, la carità, i dovuti riguardi vogliono che non si cancelli ogni regola e si dia accesso ai reclami giusti, potendo esservi dei non giustamente colpiti dalle misure prese. Dividendo il futuro dal passato, il partito da prendersi per il futuro non è difficile, astenendosi cioè (salvo il caso che i cattivi esigano provvidenze contro i loro portamenti) astenendosi dico, almeno per ora, da nuovi arresti e nuovi colpi. Ma quanto al passato, lì sta la difficoltà, non essendo possibile di mantenere fermi tanti numerosi arresti e tante procedure e dovendosi badar bene, dall'altra parte, a non svistare, non disgustare, infine a non urtare con tutti gli altri".

(Ecco le ragioni e il perché quando morì Paolo VII, fu subito licenziato)

Fra gli esiliati e gli arrestati delle due Legazioni vi furono (da notare il ceto) il conte GIACOMO LADERCHI, padre del conte CAMILLO, testimone nel processo dei Carbonari di Fratta, il marchese MERLINI, il marchese RUSCONI, i CONTI MANGELLI, RONDANINI ed UGOLINI e i preti DON GIUSEPPE SEVERI, DON PIETRO MARIO CONTI, DON MARIO LEVERI, DON ANTON DOMENICO FARINI .

Il 13 settembre del 1821, PIO VII, sollecitato da alcuni sovrani e specialmente da FRANCESCO I, lanciava contro tutti i settari e in particolar modo contro i Carbonari, con la bolla "Ecclesia super", la scomunica; ma né questa né le proscrizioni e gli arresti valsero a scoraggiare i settari, anzi inasprirono maggiormente i loro animi e si ebbe una lotta silenziosa, ma feroce tra liberali e "Sanfedisti", che fu la causa di un iniquo spargimento di sangue.

Eppure (lo abbiamo letto il suo documento nel capitolo inerente) il cardinale SPINA, al Congresso di Verona, dichiarava che lo stato Pontificio "godeva di perfetta tranquillità e prosperità"; ma nessuno ignorava che i disordini andavano di giorno in giorno aumentando, che l'amministrazione era in pessimo stato, che le sette, invano perseguitate, acquisivano vigore, e che le strade della Chiesa erano infestate da delinquenti e da banditi.

Le truppe austriache, che per qualche tempo erano rimaste nel territorio della Chiesa, avevano cercato di liberar dai briganti le campagne, ma non vi erano riuscite e il CONSALVI con mal dissimulata gioia scriveva al cardinale SANSEVERINO:
"Si vede dunque che la cosa non è così facile come si credeva a Vienna e che non erano poi giusti i rimproveri che si facevano a noi perché non riuscivamo".

E allo stesso cardinale, dopo che il governo imperiale richiamò le sue truppe da Bologna facendo capire che le avrebbe rimandate tutte le volte che la ragion di stato le avesse richieste, il Consalvi raccomandava d'impedir qualsiasi disordine affinché l'Austria non approfittasse di un qualsiasi pretesto per un'occupazione militare.

LA MORTE DI PIO VII

Il 20 agosto del 1823, all'età di ottantun anno, dopo ventitré anni e mezzo di pontificato, moriva Pio VII e il 2 settembre quarantanove dei cinquantatré cardinali, di cui si componeva il sacro collegio, si riunivano in conclave. Questo era diviso in due partiti: quello degli zelanti filo-austriaci capitanato dai cardinali ALBANI, DE GREGORIO, DELLA SOMAGLIA, FALZACAPPA, PALLOTA, TESTAFERRATA, e quello dei moderati guidato dai cardinali CONSALVI, PACCA, AREZZO, MOROZZO. All'incirca i due gruppi come influenza si equivalevano.
Il conclave durò ventisei giorni. Pareva che la scelta del nuovo pontefice dovesse cadere sul cardinale SEVEROLI, che il 21 settembre, aveva avuto ventisei voti, quando il cardinale ALBANI, in nome dell'Austria, lo dichiarò non eleggibile. Altri votati furono i due antagonisti per eccellenza: il Somaglia, opposto al Consalvi.
Il 27 settembre, al cinquantunesimo scrutinio, il cardinale ANNIBALE DELLA GENGA raccolse trentaquattro voti e fu eletto papa con il nome di LEONE XII.

Il nuovo Pontefice non confermò nella carica di segretario di stato il cardinal CONSALVI, che, quattro mesi dopo, e cioè il 24 gennaio del 1824, in età di sessantasette anni cessava di vivere. Di lui il COPPI ci lasciò il seguente giudizio:
"Fu zelante del pubblico bene e facile conciliatore fra le antiche e moderne idee; corteggiatore degli stranieri potenti, ed imperioso sui sudditi pontefici; faticatore indefesso, ma senza alcun ordine, e fra grandi affari fu intento spesso anche ai più minuti; regolò con opportuni concordati le correlazioni della santa Sede con varie potenze; adoperandosi, per ordinare lo stato, incominciò molte cose, ne stabilì alcune, e ne lasciò molte imperfette. Fra queste ultime il codice, il catasto ed il fondo per l'ammortizzazione del debito pubblico".

Al suo posto da Leone XII fu messo il cardinale DELLA SOMAGLIA; di lui l'ambasciatore e francese duca di LAVAL ne faceva il seguente ritratto in una lettera al suo governo:

"È un vecchio stimabile per le sue qualità, ma è malvisto dalle principali legazioni che gli rifiutano il loro appoggio; un vecchio dalla lunga età reso accorto dai pericoli del lavoro e dalla utilità di temporeggiare; un vecchio che salito al potere aveva conservato, per lentezza di carattere, la circospezione, la timidezza, la misura, la gentilezza cerimoniosa, che sono i modi per eseguirlo; un uomo che tutto rimette il giorno dopo in un'età in cui si può contare poco sul giorno dopo".

Avverso alle novità introdotte dal Consalvi e tenacissimo conservatore, LEONE XII pensò di dare un nuovo ordinamento allo stato e il 5 ottobre del 1824 promulgò un "suo" "Motuproprio". Nel proemio era detto che il pensiero di una riforma era venuto nel considerare come l'ordinamento del 1816 era apparso lacunoso perfino allo stesso pontefice che n'era stato l'autore e dai reclami "presentati da ogni ordine di persone, anche da quelli che nelle loro querele non potevano nascondere delle mire secondarie, e di privato interesse, onde il sistema della pubblica amministrazione e della procedura e delle tasse fosse interamente cambiato o per lo meno modificato ed emendato".

Nello stesso proemio s'indicavano le riforme che si introducevano
(che riportiamo letteralmente):

"Nel nuovo piano alcune delegazioni meno ampie sono state riunite alle altre più vicine, conservate però le une e le altre nel grado in cui erano prima: ai tribunali collegiali di prima istanza sono stati surrogati dei giudici singolari più acconci all'istruzione dei processi; ristretto il numero dei giudici in alcuni tribunali, altri tolti del tutto tanto nelle delegazioni quanto in Roma, ma eretto in Roma un tribunale particolare di commercio, di cui si era privi; cessano i così detti giudici supplenti, la cui istituzione poté sembrare opportuna nel sistema dei tribunali collegiali; ora poi nell'adottato piano di riforma diventa superflua; facilitato immensamente il corso dei giudizi sia per la loro celerità sia per il minor dispendio. Alle comunità ed ai consigli ampliate le facoltà; i consigli meglio equilibrati tra i diversi ordini di persone; restituita alla nobiltà quella distinzione, di cui gode in tutti gli stati civilizzati; accordata finalmente ai proprietari oltre il suffragio nelle pubbliche deliberazioni una più estesa disposizione delle loro sostanze. E ciò che richiamava maggiormente la nostra vigilanza e le nostre provvidenze, fu mantenuta nel suo pieno lustro e vigore la giurisdizione episcopale e restituita alla prerogativa colla quale l'esercizio della medesima fu ampliato da Benedetto XIV nostro predecessore di felice ricordanza. Quindi con quella uniformità che deve essere lo scopo dì una saggia legislazione le stesse prescrizioni di procedura, le stesse tasse ed uno stesso idioma più nobile (il latino) e più adatto al corso degli atti giudiziali, regoleranno tutti i giudizi tanto nelle curie laiche quanto nelle ecclesiastiche, tolto l'uso introdottosi che nello Stato pontificio le cause ecclesiastiche si agitassero in un linguaggio e le cause laiche in un altro, onde frequentemente in un medesimo tribunale ed in una medesima adunanza si parlassero due diverse favelle".

Col "Motuproprio" del 1824 era completamente annullato quel po' di progresso che negli ultimi anni del pontificato di Pio VII lo stato pontificio aveva fatto: si sostituiva il "giudice unico" ai giudici collegiali; si ampliava la giurisdizione dei "vescovi nei giudizi civili"; si dava facoltà di istituire fidecommissi e primogeniture; si prescriveva che le femmine congruamente dotate fossero escluse dalle successioni degli ascendenti e dei discendenti; si "escludeva nei tribunali l'uso della lingua italiana" e si restituiva in parte il vecchio sistema di procedura nell'azione penale.

Nel settembre dì quello stesso anno il Pontefice aveva promulgato le costituzioni per un nuovo ordinamento degli studi già cominciato nel precedente pontificato, istituendo una suprema Congregazione di cardinali che doveva vigilare sulle università e su tutte le altre scuole dello stato, e prescrivendo che nello stato le due università primarie di Roma e di Bologna, dovevano essere presiedute da un arcicancelliere, e nelle cinque secondarie a Ferrara, Perugia, Camerino, Macerata e Fermo presiedute da cancellieri, e restituendo infine nel Collegio Romano i Gesuiti.

A Roma, come in altre capitali d'Europa, c'era un Magistrato sanitario preposto alla inoculazione del vaiolo. "Leone XII vietò la vaccinazione e sciolse il Magistrato" e, come ci informa l'annalista Coppi, fu una delle cause principali se poi la malattia produsse stragi specialmente nel popolo minuto.

Sperando di correggere i costumi con la severità e l'assidua vigilanza, il Pontefice istituì un particolare ed esteso spionaggio; con "Motuproprio" del 27 febbraio del 1826 istituì una Congregazione di Vigilanza perché vegliasse sulla condotta di tutti gli impiegati ed esaminasse tutti i ricorsi pervenuti a carico di questi; mise sotto la sua dipendenza le amministrazioni degli ospedali; creò una commissione per la distribuzione dei sussidi, determinando le norme che dovevano esser seguite e impartì severe disposizioni riguardanti l'accattonaggio.

Volendo giovare alle manifatture di lana, di seta e di lino dello Stato, per mezzo di una notificazione del cardinale segretario di Stato dell'agosto del 1827, dispose:

"Il clero deve essere autorevolmente persuaso a non fare più uso di tessuti di lana straniera, e prendendo norma dal suo esempio, di dare il sopravvento ai prodotti delle fabbriche dello Stato; così i pubblici impiegati di indurli a uniformarsi pienamente allo stesso consiglio: i più zelanti rispondenti a tale incitamento avrebbero acquistato un diritto alla sovrana considerazione: sebbene poi queste considerazioni fossero dirette precisamente agli ecclesiastici ed agli impiegati, non sarebbero mancati in ogni altra classe dei suoi amatissimi sudditi molti dei quali si sarebbero recati a gloria di imitare il suo esempio e di contribuire alla prosperità dell'industria nazionale".

Per meglio conoscere Leone XH crediamo utile riferire una notizia che il Coppi ci dà nei suoi Annali:

"Fra le idee predilette di Leone XII vi era quella di innalzare il più possibile la nobiltà. Quindi fin dal principio del suo pontificato aveva suggerito a vari patrizi romani di chiedergli il ristabilimento delle giurisdizioni baronali. Diceva non esservi altro mezzo per ristabilire il lustro della nobiltà romana. Rinnovò la premura sul principio di quest'anno (1828) e fece circolare un progetto, secondo il quale si sarebbero ristabilite ed anche aumentate ai baroni le loro antiche giurisdizioni civili e criminali. Si dava inoltre agli stessi la facoltà di armare nei loro feudi truppe particolari ed occorrendo la guardia nazionale con le divise di famiglia ed a spese del pubblico erario, compensandone l'importo nel pagamento della tassa fondiaria".
(Era un ritorno a un passato lontanissimo, non alla metà, ma all'inizio del Medioevo)

"Dimostrando subito zelo, aderirono alla proposta i nobili BOLOGNETTI, CENCI, BUONCOMPAGNI, COLONNA di SCIARRA e MASSIMO.
All'opposto si mostrarono contrari gli ALTIERI, BARBERINI, BORGHESE, CHIGI, COLONNA di Palliano, DORIA e ROSPIGLIOSI. Quest'ultimi manifestarono realisticamente che queste istituzioni non erano più rispondenti allo spirito del secolo. Il Papa stesso poi si pentì di essersi mostrato tanto retrogrado ed avrebbe desiderato che gli stessi baroni avessero solo partecipato alle spese di un esercito regolare pontificio con le loro rendite feudali. Ma poi tutto questo progetto restò in sospeso e fu in seguito quasi dimenticato". (Coppi)

CONTRO GLI EBREI

Non possiamo però trascurare le retrive disposizioni adottate dal Pontefice contro gli Ebrei. Confiscò a loro ogni diritto di proprietà obbligandoli a vendere in un tempo determinato i beni stabili da loro posseduti: richiamò in vigore tutte le leggi del Medioevo che limitavano la libertà degli Ebrei, ordinò che rimanessero chiusi, con muraglie e porte, nei ghetti e li affidasse alla sorveglianza del Sant'Ufficio, cosicché accadde che molti ricchi commercianti israeliti di Roma e circondario emigrarono a Trieste, a Venezia, in Lombardia e in Toscana.

Da quanto detto si rileva come nella sua opera legislativa il Pontefice era mosso in parte dalla brama di recare vantaggio ai suoi sudditi; ma il desiderio di concentrare nelle sue mani ogni autorità e la smania di opporsi alle tendenze del secolo e a rimettere in vigore leggi ed istituzioni addirittura arcaiche gli impedirono di conseguire lo scopo: le sette continuarono a travagliare lo Stato, i sudditi rimasero scontenti e aumentò l'avversione al governo clericale.
Una piaga dolorosa - che sembrava insanabile - dello Stato pontificio era il brigantaggio (per alcuni era una delle uniche risorse per procurarsi da mangiare) che desolava specialmente le province nella Marittima e nella Campagna. Leone XII inviò nei luoghi con pieni poteri il cardinale PALLOTTA e, non avendo questi saputo combattere il fenomeno con la forza, lo sostituì con monsignor BENVENUTI, il quale per via di accordi, di pensioni, d'aiuti, più che con la forza riuscì nell'intento di sanare la "miserabile" piaga.

IL RIVAROLA

Nemico acerrimo di ogni idea liberale, nel 1824 il Pontefice mandò con "poteri sovrani" a Ravenna, con il grado di legato straordinario, il cardinale AGOSTINO RIVAROLA, affinché stroncasse dalle radici da quella provincia e da altre vicine tutte le società segrete.

Il Rivarola, sentito il parere di quattro giudici scelti da lui stesso, il 31 agosto del 1825 pronunciò una sentenza in cui condannava 508 cittadini: 7 furono condannati a morte: il conte GIACOMO LADERCHI di Faenza; ONOFRIO LUIGI ZOBOLI di Ravenna, fornitore; GAETANO BALDI di Faenza, ex-ufficiale del Regno Italico; VINCENZO SUCCI di Faenza, negoziante; PIETRO BARBIERI di Castelbolognese, musicista; FRANCESCO GANOFFONI di Cesena, e GIANBATTISTA FRANCESCHELLI di Castelbolognese; ma la pena fu commutata dallo stesso Rivarola in quella di venticinque anni di carcere; altri 6 condannati all'ergastolo PIER MARIA CAPORALI, il conte ODOARDO FABBRI, entrambi di Cesena, il medico LUIGI MONTALLEGRI di Cesena, FRANCESCO TORRICELLI di Meldola, CARLO BALBONI di Faenza e il cavalier SANTE MONTESI, faentino; altri 13, fra cui i conti RUGGERO GAMBA di Ravenna e GAETANO BENATI di Bologna, alla detenzione per venti anni; 12, fra cui il conte CAMILLO LADERCHI di Faenza, a quindici anni; altri 20 a dieci anni, 1 a sette, e 3 a cinque anni di detenzione. Seguirono alla galera perpetua altri 13, e a venti anni di galera altri 15; dai quindici ai tre anni 27; infine 61 furono espulsi dallo Stato; tutti gli altri puniti con la sorveglianza e il precetto politico di primo o secondo grado (o "ordine").

Il precetto di primo grado obbligava il condannato a non uscir dalla città natia, a rincasare ad un'ora prima di notte, a non andar fuori prima del levar del sole, a presentarsi ogni quindici giorni all'ispettore di polizia, a confessarsi una volta il mese, a fare ogni anno per tre giorni consecutivi gli esercizi spirituali in un convento indicato dal proprio vescovo. Obblighi invece più miti comportava il precetto di second'ordine.
Fra i condannati (notare le professioni, non erano plebei! ma un "mondo" in movimento!) figuravano 21 nobili, 82 possidenti, 74 impiegati, 12 tra medici e chirurghi, 20 tra avvocati, notai e casuidici, 7 tra farmacisti e flebotomi, 3 ingegneri, 4 fra veterinari e maniscalchi, 12 studenti, 38 militari, 2 preti, 74 negozianti, 159 operai ed esercenti piccole professioni o mestieri.

Semplici indizi furono la base delle sentenze e furono prive di ogni procedura regolare. Alla sentenza seguiva poi un bando, con il quale, perdonati tutti i settari non compresi nella lista dei processati (quindi a tutti), si dichiarava che, se nuovamente si accostavano alle società segrete, sarebbero stati puniti anche della colpa di cui erano in precedenza stati assolti e si minacciava ai capi e ai propagandisti delle sette la pena capitale e la pena di sette anni di galera tutti coloro che non denunciavano i settari (una norma questa da dove non si salvava nessuno. Bastava avere avuto magari dei semplici ed ignari rapporti commerciali o professionali per essere incolpati di frequentazione di quelli che poi risultavano essere dei settari).

Calmato il primo impeto, il RIVAROLA mitigò o perdonò alcune condanne, si adoperò per comporre le discordie causate dalle fazioni, cercò di rappacificare per mezzo di matrimoni famiglie nemiche, mandò frati a predicare la pace e la concordia, ma con la fama che si era fatta ottenne poco; pochi si fidavano della sua "nobiltà d'animo" e l'ipocrita "magnanimità".

Non riuscì neppure ad attenuare l'odio che si era attirato con le recenti condanne e con la severissima opera di repressione. Conseguenza di quest'odio fu l'attentato al quale fu fatto segno il 23 luglio del 1826: un semplice fornaio ANGELO ORTOLANI gli sparò contro, a Ravenna un colpo di pistola che però invece del Rivarola, ferì gravemente il canonico MUTI che sedeva in carrozza accanto al cardinale.
Seguì poi anche l'uccisione del direttore di Polizia pontificia, MATTEUCCI.

A quel punto il Pontefice richiamò il Rivarola e al suo posto inviò - una Commissione speciale presieduta da monsignor FILIPPO INVERNIZZI, la quale non solo fece esasperate indagini per scoprire i complici dell'attentato e gli autori dei delitti politici commessi negli ultimi tempi, ma cominciò a perseguitare i settari e, promettendo impunità ai delatori, riempì le carceri peggio che il Rivarola.

Con sentenza del 7 giugno del 1827 otto cittadini della provincia di Pesaro, accusati di Carboneria, furono condannati alla galera ed altri undici furono sottoposti al precetto di prim'ordine. Per l'attentato contro il Rivarola, per l'uccisione del Matteucci, il 9 maggio del 1828 furono condannati a morte il fornaio ANGELO ORTOLANI, il calzolaio LUIGI ZANOLI, il barbiere GAETANO MONTANARI, il cappellaio RAMBELLI, tutti di Ravenna, e ABRAMO ISACCO FORTI di Lugo; due coimputati furono condannati uno a sette, e l'altro a cinque anni di galera.
I primi quattro furono impiccati il 13 maggio, a Ravenna; al Forti commutata la pena capitale con la galera perpetua.

Anche a ROMA nel 1825 fu scoperta una vendita carbonara. L'avevano costituita ANGELO TARGHINI, bresciano, figlio del cuoco di Pio VII e il dottor LEONIDA MONTANARI di Forlì, residente a Rocca di Papa, che erano riusciti a riunire nella capitale una sessantina di affiliati. Molti di questi però, pentiti, si erano poi allontanati e il Targhini volle punirli decidendo di ucciderne due. Il 4 giugno del 1825 uno dei disertori, un certo abate PONTINI di Belluno, ferito gravemente, rivelò ogni cosa. Seguirono dieci arresti e furono condannati a morte il Targhini e il Montanari, alla galera a vita l'avvocato POMPEO GAROFOLINI di Roma e l'operaio LUIGI SPADONI di Forlì, a dieci anni di carcere lo studente LUDOVICO GASPERONI di Ravenna e il cameriere SEBASTIANO BICCI di Cesena.

Nel 1829 fu scoperta a Roma un'altra vendita carbonara, istituita l'anno prima- dal sacerdote DON GIUSEPPE PICCILLI di Maddaloni. Con sentenza del 21 settembre del 1829, il prete Piccilli fu condannato a morte, ma poi la pena fu commutata alla galera a vita; SALVATORE LEONBRUNO detto il ROMANINO, fu condannato alla carcerazione a vita, ANGELO PASSINI e ANTONIO PICCARDI romani e TOMMASO VERNATI e NICCOLA CORTESI cesenati a venti anni di relegazione in una fortezza, altri cinque a quindici anni, uno a dieci, due a sette, uno a cinque, nove furono sottoposti a precetto politico.
Ci fermiano qui, perché siamo arrivati alla fine del periodo di cui stiamo parando (1821-1830) ma non è che la repressione, le condanne e le impiccagioni terminarono, anzi, aumentando il numero dei "ribelli", le disposizioni per il loro annientamento aumentarono, i processi non si contarono, e le forche, e perfino la ghigliottina funzionarono a Roma fino al 1865 (qui la foto dell'ultima esecuzione a Roma))

Fonti, citazioni, e testi
Prof.
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia -
P.COLLETTA - Storia (Napoleonica) del Reame di Napoli 1734-1825- 1834
NAPOLEONE - Memoriale di Sant'Elena - (origin.
1a Ed. -1843
R. CIAMPINI - Napoleone - Utet - 1939
E. LUDWIG - Napoleone - Mondadori 1929
A. VANNUCCI - I Martiri della Libertà - Dal 1794 al 1848 - Lemonnier 1848
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) Garzanti 
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi
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con
MORTE DI FERDINANDO I - FRANCESCO I DI NAPOLI - PARTENZA DELLE TRUPPE AUSTRIACHE - IL MOTO INSURREZIONALE DEL CILENTO - FEROCE REPRESSIONE DEL DEL CARRETTO - ANTONIO GALLOTTI E I FRATELLI CAPOZZOLI

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