Analisi delle cause storiche che hanno portato allo sgretolamento dello Stato unitario.
  ( ANNO 1945) -  DA TITO A KOSTUNICA - (ANNO 2000)  

QUANDO LA IUGOSLAVIA
NON  ERA  ANCORA EX

SECONDA PARTE

DIETRO I MASSACRI 
UN PROBLEMA  ECONOMICO  E DUE RELIGIONI

La crisi del modello federale e la fine dell'unità iugoslava ebbero i loro germi in un'iniziativa apparentemente marginale. Intorno al 1967 un'antica accademia letteraria croata, la Matica Hrvatska, iniziò a pubblicare un periodico dal titolo "Kritika", dalle cui pagine emergeva una serrata critica revisionista. Al centro di questa critica stava, come è facile immaginare, la condizione delle minoranze croate nella Repubblica Federale, e la specificità del carattere croato. Oltre a queste considerazioni che potremmo definire storicistiche, non mancava una polemica di carattere economico. Le forze produttive in Croazia lamentavano una limitata autonomia e auspicavano un sistema bancario decentrato, oltre alla possibilità di mantenere entro i confini il capitale prodotto dal turismo. Storia ed economia cominciarono così a legarsi pericolosamente e, sull'onda di alcune forze nazionaliste, prese il via una crisi essenzialmente culturale. 

Alcuni, come il generale Tudjman (futuro presidente della Croazia), si spinse verso un revisionismo sulle responsabilità croate negli anni della guerra. I fermenti nazionalisti - cosa abbastanza singolare - trovarono una certa complicità non solo nella società civile, ma anche nelle istituzioni locali del regime. I responsabili del governo e del partito, Savka Dabcevic-Kucar e Marko Tripalo, non furono estranei a questo progressivo cedimento verso il localismo. Una sorta di "decomunistizzazione con vent'anni d'anticipo", come la definisce lo storico Josip Krulic, cominciò a svilupparsi in Croazia. Ovviamente, Tito non stette a guardare. Come prima cosa, secondo la tradizionale liturgia comunista, in estate Belgrado espresse "rimostranze" nei confronti delle istituzioni locali e soprattutto della Lega dei comunisti croati la quale, nelle parole di Tito, "faceva l'interesse della controrivoluzione col pretesto dell'interesse nazionale" I nemici interni - ammoniva il Maresciallo - erano molti e in fiduciosa attesa. L'uso della forza era solo ventilato, ma giustificato da parole profetiche: "Altrimenti - disse Tito - quando non ci sarò più, il paese esploderà". 

La replica avvenne a novembre, ad opera del Comitato centrale della lega dei comunisti croati, e assunse i crismi dell'eresia. La nomenklatura comunista non poteva non considerare alcune istanze nazionalistiche, proprio perché intendeva essere un partito di massa.

I comunisti - era il sensazionale rimprovero verso Belgrado - erano al servizio delle masse e non viceversa. Veniva così a crearsi un scontro ideologico che minava alla base il dogma della concezione leninista del partito, come avanguardia del proletariato. A dicembre calò la scure. Gli "anti-marxisti" e "filo-occidentali" croati vennero epurati dal partito, gli arresti scoccarono e la ribellione fu silenziata in breve tempo. 
Le conseguenze dei fatti croati del 1971 furono diverse. Indubbiamente, la Croazia godette di un aumento di autonomia (Tito era un politico e un leader troppo accorto per non cedere su alcun punto), ma in definitiva il lento processo verso una liberalizzazione del sistema subì un arresto. La nuova leva dirigenziale più liberale fu esautorata in molte repubbliche e cominciò un periodo di stagnazione che molti storici non hanno mancato di paragonare al contemporaneo "congelamento sociale e politico" in Unione Sovietica (con Breznev). 
Con l'inizio degli anni Settanta, quindi, venne a rompersi quel particolare rapporto "volontaristico" tra la società e la dirigenza storica che si raccoglieva attorno a Tito. Indubbiamente, le difficoltà iniziale del dopoguerra e la grande sfida a Stalin facevano parte del passato. Il momento "eroico" era finito, e la Iugoslavia cercava di diventare un qualsiasi paese che sostituiva la quotidianità all'emergenza. Una figura dai tratti epici come Tito cominciava ad apparire sempre più anacronistica in questa nuova realtà. 
Una seconda crepa si aprì nel complesso iugoslavo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta: il Kosovo. 

Questa regione era sempre stata parte della Serbia. Dal 1945 al 1968, sotto il nome di "regione autonoma di Kosovo-Metohija", e in seguito come "repubblica autonoma", il Kosovo aveva goduto di una certa libertà.

La regione, popolata da una maggioranza di lingua albanese, era il fianco debole della Federazione. Come area sottosviluppata, infatti, il Kosovo assorbiva una considerevole quota di sovvenzioni da parte del fondo governativo. Nella seconda metà degli anni Settanta la crisi economica nella regione aumentò, tanto da cancellare ogni vestigia di autonomia economica. In un'area nella quale la popolazione albanese aumentava demograficamente a vista d'occhio e quella serba si richiudeva in una progressiva minoranza, più del 70% del bilancio kosovaro veniva "alimentato" dalle casse di Belgrado. Nello stesso tempo, l'accesso allo studio di un numero sempre maggiore di giovani kosovari, e lo sviluppo di diversi centri culturali, tra cui l'Università di Pristina, portarono alla nascita di una consolidata e vergine intellighenzia che ovunque nei Balcani, come scrive Krulic, "da due secoli a questa parte aveva alimentato tutti i nazionalismi". 

Effettivamente, la nuova costituzione titina del 1974 aveva aumentato di molto le possibilità autonomistiche delle varie repubbliche e zone speciali, come appunto era il Kosovo. La Iugolsvia, inoltre, in un tentativo di riavvicinamento all'Albania, aveva ceduto a molte concessioni nei confronti dei kosovari: nei luoghi di formazione della cultura fu permesso l'uso della lingua albanese e all'università di Pristina erano numerosi i professori di nazionalità albanese. Questi due aspetti - la crescita di una "coscienza" albanese e le maggiori libertà sanzionate dalla nuova costituzione - furono la base per una miscela esplosiva.

Indubbiamente, la nuova costituzione del 1974 aveva penalizzato molto la posizione dei serbi, che venivano a perdere potere, oltre che in Kosovo, in Voivodina. Dalla morte di Tito in poi (prima metà degli anni Ottanta) la maggioranza albanese in Kosovo procedette ad una graduale e inesorabile marginalizzazione della minoranza serba: il monopolio del potere amministrativo e una scientifica politica di riscatto della terra (ricorrendo ai finanziamenti federali!) portò ad un vero e proprio esproprio legalizzato. 
Migliaia di serbi lasciarono così la regione. Per comprendere il significato del conflitto serbo-albanese nella regione si deve considerare che sin dal XVII secolo più del 60% della popolazione - integrata nell'Impero ottomano - si era convertita all'Islam, negli ultimi decenni del XIX secolo ci furono massacri di serbi in Kosovo e nella guerra del 1912-13 i kosovari albanesi si erano schierati con la Turchia contro i serbi. 

Senza dimenticare che molti albanesi erano stati collaborazionisti dei fascisti nell'ultima guerra mondiale, almeno fino al 1943. Inoltre, fino al XVII secolo il Kosovo era popolato essenzialmente da serbi, e questo "scippo" nei secoli non è mai stato digerito. Oltre a ciò la regione è considerata "santa" dai serbi, per ragioni religiose e nazionalistiche: in queste zone nacquero importanti patriarcati ortodossi (Pec, ad esempio, sede del monastero di Decani), e i serbi vi combatterono al prezzo di molto sangue la celebrata battaglia del Kosovo del 28 giugno 1389. 

Il contrasto che, sin dagli anni ottanta, divide serbi e "albanesi" è quindi incentrato su due punti di vista inconciliabili: per i serbi vale un alibi che affonda le proprie pretese in un mitico passato remoto, per la maggioranza di lingua albanese vale quello, più moderno, del principio dell'autodeterminazione dei popoli. Il rifiuto dello statuto di repubblica al Kosovo negli anni Ottanta apparve anche una logica conseguenza del fatto che Belgrado diffidava di quelle etnie che potevano avere un legame "nazionalistico" con un paese vicino. Kosovari e Albania entravano alla perfezione in questa definizione.

Con la morte di Tito, quindi, la Iugoslavia avrebbe dovuto affrontare due grandi problemi: la crisi economica e la "questione albanese". Dalla quale sarebbe sorta la grande crisi dei nazionalismi. La Iugoslavia che entrava negli anni Ottanta era indubbiamente un paese indebolito. In uno scenario di crisi economica e di ripresa dei nazionalismi, la mancanza di una figura come Tito fu quello che si definisce un colpo fatale. La scena politica si venne così a svuotare non solo di un personaggio carismatico, ma cambiò a tal punto da diventare assolutamente "spersonalizzata". 
Se Tito poteva legittimare il proprio potere grazie al suo passato, i nuovi dirigenti sapevano di mantenere le redini solo grazie a una complesso burocratico. Eppure gli iugoslavi, soprattutto i serbi, per tradizione sentivano il bisogno di un uomo forte, di un immagine prestigiosa che incarnasse la nazione. Da Karageorge a Tito, perfino fino a Rankovic (il capo della polizia, morto nel 1983) i serbi identificarono l'unità e la stabilità in qualche "condottiero". Nelle repubbliche, invece, contemporaneamente andavano creandosi spinte per la democratizzazione e la delegazione di molti poteri. 

La crisi economica - come accade spesso - nacque da un apparente prosperità costruita su fragili basi. Sul finire degli anni settanta, infatti, l'economia della Iugoslavia era, da un punto di vista macro-economico, in netta espansione.

Citiamo a questo punto - per una maggiore precisione - Josip Krulic. "[�]investimenti inflativi finanziati da prestiti bancari più che gratuiti - scrive lo studioso - perché i tassi di interesse reali erano negativi [�] avevano fatto della Iugoslavia il più grande cantiere d'Europa; tale crescita si nutriva di ingenti importazioni che squilibravano il commercio estero e la bilancia dei servizi; questa situazione aggravava il debito con l'estero, che a partire dal 1979 superò i 20 miliardi di dollari". 
Negli anni immediatamente successivi, per ragioni di politica economica internazionale, e a causa della "seconda crisi petrolifera", il debito estero iugoslavo aumentava vertiginosamente, assorbendo fino al 43% delle esportazioni. Gli Iugoslavi, in definitiva, vivevano al di sopra dei loro mezzi. L'inizio della crisi si ebbe nei primi anni ottanta. 

"Il 1982 - scrive Krulic - fu un anno a crescita zero, un fenomeno unico negli anni del dopoguerra fino a questo periodo. Fu costruito un comitato incaricato di preparare un programma di stabilizzazione economica a lungo termine che teoricamente avrebbe dovuto guidare la politica economica fino al 2000" [�]Gli scopi proclamati dal rapporto dovevano essere la creazione di posti di lavoro, lo stimolo all'iniziativa privata, la riduzione del bilancio di spesa pubblica, una produzione agricola incentrata sull'esportazione, la ristrutturazione dell'industria [�] e una migliore cooperazione fra le regioni. Molte di queste analisi rappresentavano una messa in discussione del titoismo nell'ultima fase della costituzione di Kardelj del 21 febbraio 1974". 
Tra socialismo e mercato, il piano fu la chiave di volta della crisi disgregativa della Iugoslavia, proprio perché cercò di realizzare un passo indietro rispetto alle concessioni politiche regionali degli ultimi anni. In parole povere, Belgrado allentava le briglie in economia, ma le rinsaldava in politica autonomistica nazionale. Il piano fallì, soprattutto dal punto di vista economico. 

Tra il 1980 e il 1984 il costo della vita in Iugoslavia quadruplicò, e l'abbassamento del livello di vita era del 6% annuale. Quel che emergeva con chiarezza, soprattutto, era la diseguaglianza fra le varie regioni e repubbliche, con squilibri notevoli, ad esempio, nei salari da un'area all'altra. Basti pensare che, rispetto alla media iugoslava, il Kosovo era inferiore del 23% e la ricca Slovenia era superiore del 35%. "Gli anni fra il 1980 e il 1986 - scrive Krulic - furono un periodo di austerità e di dubbi". Da questo humus avrebbero tratto linfa vitale i nazionalismi. "Era inevitabile, allora, - scrive Stefano Bianchini - che il crollo dei vecchi valori e delle precedenti fonti di legittimità del potere offrissero un terreno fertile alla diffusione di antiche paure e di storici rancori. Ha soccorso, in questo senso, un'idea di nazione filtrata con grande intensità dalle popolazioni e dalle élite intellettuali iugoslave [�]". Alla fine del decennio la situazione sociale e politica in Iugoslavia subiva scosse inimmaginabili ai tempi di Tito. 
Nella primavera e nell'inverno del 1988 
si susseguirono crisi governative che costituirono un'assoluta novità per il paese.

Il 17 aprile 64 membri della camera delle repubbliche e 125 dell'assemblea socio-politica avevano spinto, con una mozione di censura, per la caduta del governo Mikulic. La mozione fu respinta, ma era indubbio che una crisi del genere appariva come la palese sconfessione del centralismo leninista su cui Tito non aveva mai ceduto. Nell'inverno successivo l'aggravarsi della situazione economica, con un netto aumento dell'inflazione, fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. 
E' questa la stagione dell'ascesa di Slobodan Milosevic. Membro del partito e comunista autoritario, il serbo seppe sfruttare le difficoltà sociali, politiche ed economiche appellandosi alle semplificazioni di un nazionalismo dai "riflessi purpurei". Il 30 dicembre 1988 il governo Mikilic cadeva tra accuse reciproche, nelle camere, di corruzione, inefficienza e sprechi finanziari. Quasi la totalità delle camere aveva decretato la sua caduta. 

La scintilla che diede il via all'ascesa di "Slobo" Milosevic fu senza dubbio la questione kosovara. Nella crisi dei rapporti tra minoranza serba e maggioranza albanese il nazionalismo di Milosevic affondò le proprie unghie, iniziando la scalata verso il potere assoluto. Oggi, quando si considera l'intransigenza nella questione kosovara da parte di Belgrado, si può facilmente comprenderne il motivo. Il mito di Milosevic cominciò a fiorire nell'autunno del 1987. Dopo aver esautorato i dirigenti più morbidi nella difesa della "serbità" all'interno della Lega dei comunisti serbi, "Slobo" diede vita ad un'intensa opera di propaganda. Verbale e nei fatti. Il 19 novembre 1989 Milosevic organizzò a Belgrado una manifestazione popolare che radunò più di un milione di serbi, pochi mesi dopo riuscì ad apportare alcuni cambiamenti alla costituzione nazionale, riducendo le autonomie di Voivodina e Kosovo.

La celebrazione del 600� anniversario della battaglia del Kosovo, il 28 giugno 1989, offrì il pretesto per una dimostrazione di forza da parte di Milosevic che organizzò in Kosovo un raduno di serbi nel quale pronunciò un discorso dai toni bellicosi e fortemente nazionalisti. Ancora nel 1989, Milosevic e tutta la dirigenza comunista del partito serbo affermavano la necessità del partito unico. Evidentemente, dal punto di vista di "Slobo", non aveva più importanza la matrice e i fondamenti marxisti-leninisti, quanto il principio dell'unità nazionale. Partito, per Milosevic, significava centralismo e unità. La Croazia, dopo la crisi del 1971, aveva comunque ottenuto alcuni vantaggi, come l'autonomia bancaria e la possibilità di reinvestire parte delle entrate turistiche. Da non dimenticare il fatto che il Primo ministro e dirigenza economica federale erano stati concessi ai croati. La grande rivoluzione liberale del 1989, che aveva coinvolto Polonia e Ungheria, non poteva non lambire i confini del nord iugoslavo. La Slovenia nel settembre dello stesso anno votava, attraverso il Parlamento, e con l'approvazione del governo, il diritto alla secessione. Obbiettivamente il monopartitismo iugoslavo stava manifestando sempre più i propri caratteri anacronistici in un'Europa dell'est spazzata dal forte vento liberalizzatore. L'erede di Reagan, Bush, e Gorbaciov stavano in effetti registrando il mutamento dell'assetto internazionale. Per non parlare degli avvenimento del Natale 1989 nella vicina Romania, con il crollo del despota Ceausescu.

Il 20 gennaio 1990 si aprì il XIV� Congresso della Lega dei comunisti: la secessione dei comunisti sloveni che vi prese parte non stupì più di molto, perlomeno non tanto quanto l'adozione - stupefacente, anche se per il momento dal punto di vista teorico - del pluralismo politico. Nella primavera dello stesso anno si sarebbero così avute elezioni libere in Slovenia e Croazia, dalle quali nacquero governi decisamente anti-comunisti e indipendentisti. "La parentesi comunista (1945-1990) - scrive Josip Krulic - si era dunque chiusa precipitosamente e con nettezza nella parte austro-ungarica (settentrionale, ndr) della federazione iugoslava, mentre le quattro repubbliche del sud si incamminavano verso un'evoluzione di tipo bulgaro o rumeno di transizione più lenta e incerta fra il neo-comunismo e la democrazia. [�] La parte settentrionale della federazione seguì dunque un'evoluzione di tipo centro-europeo analoga a quella della Cecoslovacchia e dell'Ungheria (elezioni ceche del 1990) mentre la parte meridionale prolungava il suo passato balcanico contrassegnato dal monolitismo teologico-politico che aveva poi trovato una sorta di rispondenza nella religione secolare rappresentata dal comunismo". Si veniva a creare così una frattura insanabile, che aveva riposato in un letargo creato ad arte dalla sagacia di Tito e anche dalle sue baionette. Purtroppo, come non manca di sostenere Krulic, in Iugoslavia "la democratizzazione ha coinciso con la disgregazione". La disgregazione politica del sistema federale iugoslavo succedette ad un grave scollamento nell'unità economica del paese. Tra il dicembre 1989 e l'ottobre 1991 si consumò, quindi, la scomparsa dello stato federale iugoslavo.

In Slovenia il processo di avvicinamento al pluralismo politico era cominciato già nel gennaio 1990, e nella primavera dello stesso anno si erano avute le prime elezioni libere. Il 20 febbraio 1991, il parlamento sloveno deliberava la sospensione delle leggi federali e decideva per l'indipendenza della repubblica, che sarebbe stata ufficializzata il 25 giungo. Nel maggio del 1990 lo stesso processo lo si ebbe in Croazia. dove raggiunse il potere Franjo Tudjman, presidente del partito HDZ (Hrvatska Demokratska Zajenica). Quel che avvenne in Slovenia, e soprattutto in Croazia, mise in evidenza un processo che non sarebbe risultato indifferente nelle future incomprensioni tra i nuovi stati balcanici nati dall'ex-Iugoslavia. I paesi del nord , quelli che storicamente provenivano dalla dominazione austroungarica, esautorarono rapidamente i comunisti dal potere, mentre nei paesi del sud - quelli storicamente "serbo-ottomani" - affidarono la transizione alle vecchie gerarchie comuniste camuffate ad arte dopo il crollo del Muro di Berlino. 

Gli avvenimenti che sconvolsero l'assetto politico e territoriale iugoslavo nel biennio 1990-91 spiazzarono completamente l'Occidente. I paesi occidentali, ovviamente, optarono per una politica improntata alla massima cautela. Sicuramente, uno stato unitario nella regione calda dei Balcani faceva più comodo. La posizione occidentale è sintetizzata chiaramente nelle parole del segretario di stato americano James Baker, pronunciate a Belgrado in quei giorni: "Gli USA non riconosceranno la Slovenia come stato indipendente, la crisi iugoslava riguarda ormai il mondo intero e in particolare i paesi membri del CSCE perché minaccia gravemente di sfociare in conflitti interni che non solo scuoterebbero tutta la regione ma destabilizzerebbero tutta l'Europa".

In poco tempo la situazione sarebbe mutata e l'Occidente avrebbe - sotto la spinta di paesi come la Germania - accettato come dato di fatto lo smembramento dello stato federale iugoslavo. La guerra in Slovenia (26 giugno-7 luglio 1991), quella in Croazia (luglio 1991-gennaio 1992) e quella in Bosnia-Erzegovina (aprile 1992- ottobre 1995) erano i primi conflitti sul territorio europeo dopo il 1945. 
Le secessioni di Slovenia e Croazia del giugno 1991 aprirono quindi un conflitto sanguinoso che continuò ininterrottamente fino agli accordi di Dayton del dicembre 1995. In questi quattro anni i Balcani sono diventati un mattatoio dove il tempo sembra essere tornato indietro ai momenti più bui della storia dell'umanità. A pochi chilometri dalle coste italiane e dal tranquillo universo europeo - impegnato nel coltivare il mito di Maastricht - parole come genocidio, olocausto, "pulizia etnica", campi di concentramento sono tornate a risuonare sulle labbra della gente e a ferire gli occhi e le coscienze di chi credeva definitivamente chiuso il capitolo della barbarie dall'età contemporanea. 

I combattimenti che seguirono la secessione slovena furono, in effetti, circoscritti. In pochi giorni, il tentativo dell'esercito federale di impedire il distacco della ricca repubblica naufragò contro l'evidenza dei fatti. Gli accordi di Brioni (8 luglio 1991), ottenuti grazie alla mediazione della Comunità europea, decretarono l'interruzione delle ostilità e l'inevitabile ratificazione nell'autunno successivo dell'indipendenza slovena. Questa "piccola guerra" costò la vita di 70 persone. Il conflitto serbo-croato ebbe un'ampiezza e una durata maggiori. 
Nei sei mesi che andarono dal luglio 1991 al gennaio 1992, Serbia e Croazia si contesero territori e diritti. Per quanto riguarda i primi la vittoria fu dei serbi: la Croazia perse un quarto del proprio territorio nell'area della Krajina di Knin, nella Slavonia occidentale e in quella orientale (indimenticato l'assedio di Vukovar, che durò dal 30 agosto al 18 novembre 1991); ma sul piano dei diritti i croati strapparono la libertà alla Serbia. Con la fine delle ostilità vedeva la luce, infatti, uno stato indipendente croato che la Germania si era affrettata a riconoscere e che aveva in seguito ottenuto il pieno riconoscimento internazionale. La guerra in Bosnia, per proporzioni militari e per numero di vittime, nonché per la sua durata (aprile 1992-ottobre 1995) è stata la ferita più dolorosa del processo disgregativo dell'ex-Iugoslavia. In tre anni questa guerra ha causato - come annota Krulic - tra i 60.000 e i 200.000 morti e i due milioni e mezzo di profughi su una popolazioni di poco più di quattro milioni. Indubbiamente, la compresenza di etnie differenti in Bosnia, molto più che in Slovenia e Croazia, ha causato una lotta fratricida di dimensioni agghiaccianti. Il Parlamento, liberamente eletto, aveva ratificato l'indipendenza della Bosnia il 15 ottobre 1991; tale provvedimento, come era accaduto nel caso croato, aveva causato l'immediata reazione della comunità serba che aveva proclamato la nascita di alcune "repubbliche autonome serbe" a est e sud della Bosnia.

Il referendum che avrebbe dovuto ufficializzare l'indipendenza bosniaca (marzo 1992) fu boicottato dall'assenza della comunità serba che si raccolse intorno al Partito Democratico Serbo (SDS) di Radovan Karadzic, legato a doppio filo al governo di Belgrado e da quest'ultimo ampiamente rifornito di armi. Nel mese di aprile, intanto, la Serbia e il fedele Montenegro davano vita alla "Repubblica federale di Iugoslavia", mentre quasi contemporaneamente l'ONU riconosceva la repubblica di Bosnia-Erzegovina. Esattamente tre anni dopo cominciava l'assedio serbo alla capitale bosniaca Sarajevo, che divenne il simbolo della resistenza all'imperialismo serbo le cui redini erano mosse da "Slobo" Milosevic, ormai assurto sulle pagine della stampa occidentale come "il macellaio dei Balcani". 

Gli accordi di Washington e Vienna nel marzo 1994 portarono ad un'iniziale stallo delle operazioni serbe, ma nel contempo i combattimenti tra mussulmani e croato-bosniaci continuarono nella Bosnia centrale e nei pressi di Mostar. Indubbiamente non si può escludere, nei tentativi dell'etnia croata di espandersi sul territorio, la giustificazione concessa dal piano Owen-Vance del gennaio 1993 che, in effetti, cedeva in sostanziali concessioni nei confronti dei croati. Gli accordi di Washington portarono comunque alcune valide soluzioni: la creazione di un "federazione croato-mussulmana" in Bosnia e i presupposti per avvicinare questa nuova entità politica allo stato indipendente di Croazia. Quest'ultimo, desideroso di guadagnarsi un'aura di rispettabilità internazionale, attuò un apolitica moderata, che ribadì con l'alleanza con la Bosnia-Erzegovina firmata a Spalato il 22 luglio 1995.

La storia della Iugoslavia, proprio per la particolare composizione multietnica di quest'ultima, è spesso stata macchiata da cruente manifestazioni di intolleranza, culturale e religiosa. Il termine "pulizia etnica" nasce comunque nei primi anni novanta nella stampa occidentale. Dai tempi della Seconda guerra mondiale e del delirante disegno della Soluzione Finale nei confronti del popolo ebraico perpetrata dai nazisti, il continente europeo non si è dovuto più misurare con l'allucinante concetto dell'eliminazione fisica di intere etnie considerate "concorrenti" nell'occupazione di uno "spazio vitale". Le pratiche di sterminio messe in atto dai serbo-bosniaci nei confronti dei mussulmani bosniaci , i massacri ad est e a nord della Bosnia, la deportazione di massa, la creazione di campi di concentramento, gli stupri di donne mussulmane affinché partorissero "nuovi serbi", sono il tragico resoconto della follia balcanica. Su tutto questo, emerge come autentico simbolo del male il massacro di Srebrenica, nel luglio del 1995, quando le milizie serbo-bosniache dirette dal generale Mladic organizzò scientificamente l'eliminazione di non meno di diecimila persone. "Secondo alcuni - scrive Josip Krulic - questa pratica corrisponderebbe a una ideologia serba. [�] non pochi ideologi e politici serbi hanno preteso di serbizzare le regioni di volta in volta annesse, soprattutto dopo le guerre contro l'Impero ottomano: i tentativi di colonizzazione del Kosovo, dopo il 1913, certi massacri dei cetnici in Bosnia, [�] la distruzione di tutte le moschee nella Serbia del XIX secolo derivavano dalla volontà di fa sparire tutte le tracce umane o culturali del passato ottomano."

Lo studioso non manca però di evidenziare come il fenomeno della pulizia etnica sia sorto anche come un senso di autodifesa. "La pulizia etnica del 1992- scrive Krulic - è stata resa possibile da una reazione terroristica alla paura, avvertita dai serbi delle regioni rurali della Bosnia-Erzegovina, di subire la marginalizzazione della loro comunità, dopo che avevano rifiutato esplicitamente di riconoscere la sovranità dello stato bosniaco. Questa paura è stata strumentalizzata dal partito di Radovan Karadzic, l'SDS (partito democratico dei serbi) [�]". Sin dai primi anni Novanta le potenze europee mantennero un atteggiamento contraddittorio nei confronti degli sviluppi drammatici provenienti dai Balcani. Soprattutto Francia e Germania non condividevano strategie comuni nel riconoscimento delle due repubbliche di Slovenia e Croazia. La Francia era molto più cauta sulla moltiplicazione delle realtà statuali in Europa, mentre la Germania - soprattutto nei confronti della storicamente amica Croazia - dimostrò di voler accelerare i tempi dei riconoscimenti internazionali. In ogni caso l'intervento armato europeo per placare il conflitto appariva un percorso impervio. Il Consiglio europeo dei ministri, nel periodo che andò dal settembre al dicembre 1991, escluse all'opzione armata, ma si dichiarò propenso ad un riconoscimento internazionale delle due repubbliche. La Germania, senza aspettare l'ufficiale ratifica di Slovenia e Croazia che avrebbe dovuto entrare in vigore il giorno 24 dicembre, si mosse il 19 dicembre. L'atto, evidentemente, assumeva un significato simbolico: storicamente il mondo tedesco si era sentito più vicino alle repubbliche del nord - che non dimentichiamo facevano parte del panorama politico austro-ungarico - rispetto a quelle del sud slavo.

Ovviamente, il rifiuto ad intraprendere iniziative belliche per arginare la guerra civile (che però, dopo i riconoscimenti internazionali, perdeva anche tale definizione), la palla passava in mano all'ONU. In effetti un embargo sulle armi deciso dalle Nazioni Unite era reso effettivo sin dal 27 settembre 1991, ma da più parti non si faceva che considerare che tale misura indeboliva solamente la parte bosniaca mussulmana, mentre quella serba trovava un valido appoggio in Belgrado. L'inerzia internazionale venne rotta - come sempre, nei casi insolubili - dai bombardamenti americani del 1995 che ebbero l'effetto di ratificare una divisione della Bosnia tra croato-musulmani e serbo-bosniaci. I "padri putativi" che stavano alle spalle delle fazioni, la Serbia di Milosevic e la Croazia di Tudjman, annuivano. Nella base americana di Dayton, Ohio si stipularono il 21 novembre 1995 i famosi accordi, ratificati ufficialmente in seguito nel trattato dell'Eliseo del 14 dicembre. Accordi militari e civili raccolti in un volume di più di 550 pagine sanciscono, tra le altre cose, la Costituzione della Bosnia-Erzegovina. Inoltre, con tali accordi viene istituita una "Corte dei Diritti dell'Uomo" il cui compito è accertare le responsabilità dei crimini perpetrati nei Balcani. La Bosnia-Erzegovina che nasce da Dayton è quindi uno stato indipendente, ma comprendente due entità (la federazione croato-bosniaca e la repubblica serba), ognuna fornita di organi istituzionali come il parlamento, il Governo, la Corte Costituzionale. La presidenza federale è a rotazione. Lo stato della Bosnia-Erzegovina, senza dubbio, appare come un entità nata da un fragile compromesso. "[�] per la Bosnia-Erzegovina - scrive Dino Frescobaldi - si deve fare ancora un altro discorso.

Ad essa non è applicabile il concetto di nazione, in quanto è il risultato della coesistenza su uno stesso territorio di tre nazionalità, nessuna delle quali costituisce una maggioranza in senso assoluto. In questo senso, sarebbe più corretto parlare di tre minoranze. L'ultimo censimento (autunno 1992, ndr) stabiliva le proporzioni in questi termini: il 44% di musulmani, il 33% di serbi, il 18% di croati, a cui va aggiunto un piccolo gruppo che si professano, genericamente, iugoslavi". Dayton, come primo effetto, segnò l'evacuazione delle milizie serbe dall'assedio di Sarajevo e il ritorno della speranza nella città martoriata. 

E' il 19 marzo 1996. Con i bombardamenti americani e lo sviluppo diplomatico che ne conseguì il disegno imperialista di una Grande Serbia covato da Slobodan Milosevic sembra segnare il passo. Molte associazioni che combattono per i diritti dell'uomo chiedono che "il macellaio dei Balcani" finalmente risponda della propria condotta. Ciò nonostante, per motivi di stabilità nella regione, "Slobo" sa di poter contare su un'immunità decretata dai principi di realpolitik. L'ultima ferita dei Balcani è, attualmente, il Kosovo. Accenneremo brevemente a questi ultimi sviluppi, in quanto entrano nella dimensione, in continua evoluzione, della cronaca. Quel che è certo è che a Rambouillet, nei pressi di Parigi, dove i rappresentanti delle Nazioni Unite, la delegazione serba e le delegazioni delle varie componenti kosovare si sono incontrate a cavallo tra febbraio e marzo di quest'anno, l'enorme complessità della questione kosovara è esplosa in tutta la sua drammaticità. Il gruppo di contatto composto da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia e Russia ha cercato di realizzare un compromesso. La soluzione più ragionevole sembrava essere quella di una "sostanziale autonomia" concessa al Kosovo.

Le due parti in conflitto spingono, ovviamente, per le soluzioni estreme e inconciliabili, il pieno controllo della regione da parte dei serbi e la totale indipendenza politica da parte delle numerose fazioni guerrigliere "albanesi". Sullo sfondo, inizialmente, l'opzione di un bombardamento anglo-americano sulle postazioni serbe in Kosovo, se il conflitto fosse continuato. L'imprevedibile sviluppo, scoccato sul filo del rasoio di un ultimatum rimandato, ha dell'incredibile. Il Segretario di stato americano Madeleine Albright, accorsa a
Rambouillet con lo scopo di piegare i serbi e tutelare le rivendicazioni più moderate dei kosovari albanesi, si è trovata di fronte ad uno scenario imprevisto. I serbi accettavano una qualche forma di autonomia del Kosovo, mentre i guerriglieri albanesi ribadivano la totale indipendenza. I presupposti per un bombardamento sui serbi venivano così a perdere la minima giustificazione. (*)


di FERRUCCIO GATTUSO

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
Storia della Jugoslavia dal 1945 ai nostri giorni, di Josip Krulic - Ed. Bompiani, 1997, pp.196
La Via Yugoslava, di Antonio Pitamitz, articolo contenuto in "Ventesimo Secolo" vol. VI - Ed. Mondadori, 1978, pp.247-252
Jugoslavia perché, a cura di Tommaso Di Francesco - Gamberetti Editrice, 1995, pp.144
L'esplosione delle nazioni - Il caso yugoslavo, di Nicole Janigro - Feltrinelli, 1993, pp.216

Ringrazio
per queste pagine 
il direttore di
STORIA IN NETWORK 


(*) PS. Non dimentichiamo che la risoluzione delle Nazioni Unite (dopo l'ultimo conflitto - ma poco sottolineato dalla stampa) ha riconosciuto il Kosovo come parte integrante della Jugoslavia. E anche con un governo democratico (con Milosevic esautorato) le cose in Kosovo non cambiano; gli albanesi cullano il sogno di rimanere lontano da Belgrado e di farsi assegnare di fatto il Kosovo. Con Milovesic dittatore, prima  albanesi e kosovari avevano buoni motivi per rivendicare una forma di indipendenza, ma con un governo democratico a Belgrado, non avrebbero più la scusa del terrore fomentato dallo stesso Milovesic. 
E la nuova Belgrado di Kostunica (dopo la sua vittoria "democratica" avvenuta in questi giorni di Settembre-Ottobre 2000) non intende proprio cedere il Kosovo agli Albanesi; e tanto meno il Montenegro che avanza le stesse richieste di indipendenza. (Ndr.)


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