Dalla   Russia con orrore  


Stanchi, sfiniti, ci si accascia; per un attimo diventano fagotti  neri nello sconfinato nevaio,
poi la neve  cancella anche quelli. Diventano 84.830 puntini, alla media di 2000  al giorno,
300  all'ora, ogni minuto 6 corpi vestiti di cenci e scarpe rotte cadono;  una vita stroncata  ogni 10 secondi.
Partendo avevano cantato
 "Aspetta mia bambina il mio giorno, vado, vinco e torno".

 

La tragedia degli oltre 229 mila soldati italiani mandati al massacro durante la 2a Guerra mondiale. Privi di armi moderne e di equipaggiamento adatto, quei ragazzi combatterono con grande valore e dignità. Poi dovettero soccombere alla forza d'urto dell'esercito sovietico. E cominciò il martirio della ritirata…

Non attingiamo a testi storici ma direttamente alla....

TESTIMONIANZA DI DUE REDUCI SCAMPATI

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DALLA RUSSIA CON ORRORE

Questa è invece una pagina di Paola Mocchi

(di PAOLA MOCCHI)

La tragedia degli oltre 229 mila soldati italiani mandati al massacro durante la 2a Guerra mondiale. Privi di armi moderne e di equipaggiamento adatto, quei ragazzi combatterono con grande valore e dignità. Poi dovettero soccombere alla forza d'urto dell'esercito sovietico. E cominciò il martirio della ritirata…

Grazie alla corposa e svariata bibliografia sulla campagna di Russia, abbiamo un quadro abbastanza preciso e dettagliato di quei terribili giorni di guerra sul fronte sovietico. Possediamo analisi delle tattiche militari e della preparazione delle forze armate, resoconti sulle strategie politiche, critiche e commenti sulle scelte compiute. Ma il contributo più interessante è costituito a mio avviso, dai diari dei reduci.
Oltre naturalmente al punto di vista soggettivo, che caratterizza e rende peculiare questo genere letterario, è lo scandire il tempo giorno dopo giorno e il fare nome e cognome dei compagni che sono morti ammazzati, congelati o sono ritornati in patria al fianco dei protagonisti dei diari, che sgomenta, ma al contempo avvicina più che mai il lettore ai loro destini. Un testo simile non produce certo una verità oggettiva sulla guerra, ma permette di recuperare l'umanità dell'individuo nella sua interezza, quella stessa umanità che forse, in mezzo alla devastazione che massifica e spersonalizza, ricercavano disperatamente i nostri soldati quando cominciavano un diario.

Il 22 giugno 1941, in piena seconda guerra mondiale, Hitler, infrangendo inaspettatamente il patto di non aggressione russo-tedesco, stipulato nell'agosto del '39 dai due ministri degli esteri Ribbentrop e Molotov, sferrava una massiccia offensiva contro l'Unione Sovietica, dando così inizio alla celebre "operazione Barbarossa". Il voltafaccia del Führer, in realtà non fu così inaspettato come poteva sembrare, considerando il fatto che le velleità espansionistiche di Hitler in Russia, per la conquista del suo 'spazio vitale', non erano mai state un mistero per nessuno. D'altra parte Stalin, così come il governo italiano, si era illuso che l'attacco tedesco alla Russia sarebbe stato sferrato dopo aver sistemato le cose con gli inglesi sul fronte occidentale. Sta di fatto che il cancelliere tedesco, con un tempismo eccezionale, riuscì a cogliere di sorpresa non solo i russi, cosa che all'inizio gli diede un notevole vantaggio, ma anche Mussolini, al quale aveva volutamente tenuto nascosto ogni piano per impedirgli di intervenire nell'operazione. In due settimane dodici armate tedesche di tre milioni e cinquantamila uomini sfondavano lo schieramento sovietico formato da quattro milioni e settecentomila uomini e stanziato su un fronte lungo 1600 chilometri, che andava dal Baltico al Mar Nero; i panzer e la fanteria tedesca riuscirono a penetrare speditamente e profondamente in Russia procedendo su due direttrici: a nord, verso le regioni baltiche e a sud, verso le zone petrolifere del Caucaso.

Mussolini, molto più abbagliato dall'idea della crociata anti-bolscevica e della vittoria veloce al fianco dei nazisti, piuttosto che reso prudente dalle recentissime batoste inflitte in Grecia e in Africa all'impreparato esercito italiano, offrì tutto il suo appoggio alla Germania, spingendo l'Italia tra i colpi dei due colossi armati. Ma Hitler, dicevamo, tutto voleva fuorché l'aiuto dell'Italia che ormai da tempo, anche a causa della sua rovinosa inefficienza militare, esercitava il ruolo dell'alleato subalterno. "'Col cuore colmo di gratitudine' ma con un evidente desiderio di declinare l'offerta, il Führer scrisse che vi sarebbe stato modo, in futuro, di soddisfare la richiesta italiana 'dato che in un teatro di guerra tanto vasto l'avanzata non potrà avvenire dappertutto contemporaneamente': e suggerì che l'aiuto decisivo, Duce, lo potrete sempre fornire col rafforzare le vostre truppe nell'Africa Settentrionale". Ma il Duce non se ne dette per inteso e, dichiarata guerra a sua volta all'URSS, insistette. "Sono pronto a contribuire con forze terrestri e aeree, e voi sapete quanto lo desideri. Vi prego di darmi una risposta." L'alleato dovette assentire di malavoglia." (Montanelli-Cervi, L'Italia della disfatta, pp. 170-171). L'atteggiamento degli alti comandi tedeschi nei confronti dell'Italia era quindi, fin da prima dell'inizio della campagna in Russia, di estrema diffidenza. Il 3 aprile 1941 il segretario degli Esteri del Reich Ernest von Weizsacker scriveva che: "il miglior servizio che potrà fare il nostro alleato è si starsene fermo" (Luciano Mela - Pietro Crespi, Dosvidania, p. XIV). D'altronde questa diffidenza era senz'altro reciproca ma, almeno all'inizio, più che il governo italiano, erano i comandi e i militari direttamente impegnati in Russia, che nutrivano un vero e proprio sentimento antiariano.

Il 3 novembre 1941 Luciano Mela, Tenente del Reggimento Savoia Cavalleria, inquadrato nella terza divisione Celere, scriverà: "Per quello che a noi porterà vantaggio, il Corpo di Spedizione ha fatto fin troppo; non lo meritavano certo, quello che ha fatto, i nostri alleati di oggi, i temibili nemici di domani."(ib., p. 90) L'aiuto italiano in Russia avvenne in due tempi: immediatamente furono spedite le divisioni del Csir, Corpo di spedizione italiano in Russia, cioè le divisioni Pasubio, Torino e Celere al comando del generale Giovanni Messe. Nell'estate successiva si unirono altre unità: Cosseria, Ravenna e Sforzesca, la divisione d'occupazione Vicenza e tre divisioni del Corpo d'Armata Alpino, la Tridentina, la Julia e la Cuneense, che insieme alle prime presero il nome di ARMIR, la 8a Armata Italiana in Russia, al comando del generale Italo Gariboldi. In totale 229 mila uomini. Nell'estate del '41, unito alla 11a armata tedesca, il Corpo di Spedizione Italiano, fu incaricato di forzare il fiume Dnestr in più punti, dove i tedeschi avevano scarsi rinforzi, e tentare di chiudere in una sacca, tra il Dnestr e il fiume Bug, alcuni contingenti sovietici. In agosto scoppiarono i primi veri e propri combattimenti che impegnarono in particolar modo la divisione Pasubio che dette ottima prova di sé, anche se il problema dell'impreparazione si manifestava in modo sempre più insistente. Il Csir dimostrò immediatamente di non essere all'altezza della situazione sia come qualità che come quantità di armamenti e mezzi trasporto: i carri armati erano inadeguati alle caratteristiche delle rotabili, l'artiglieria, come riferisce la Storia Ufficiale del Corpo di spedizione, era preda bellica austro-ungarica e i cannoni erano già veterani della guerra italo-turca e della prima guerra mondiale.

A volte si arrivava a livelli paradossali. A causa dello scarsissimo numero di autocarri infatti, le divisioni erano costrette a fare a turno per utilizzarli, così che tra un reparto e l'altro si formavano centinaia di chilometri di distanza, provocando il fenomeno della dispersione delle truppe e rendendo i collegamenti tra le stesse estremamente difficoltosi. Fortunatamente per noi però, fino a quando l'altrettanto impreparato esercito russo adottò la tattica della difesa ad oltranza, le vittorie si susseguirono con relativa facilità ed in poche settimane l'esercito tedesco insieme ai suoi alleati, attaccando sul Dnepr, obbligò alla resa la città di Kiev e fece seicentomila prigionieri. Ma caduta Kiev, l'Alto comando sovietico decise per la strategia del ripiegamento di fronte all'avanzata nemica: da questo momento iniziò la lenta ma inesorabile disfatta dei due eserciti invasori, incalzati dagli assalti inaspettati della disperata resistenza dei siberiani, assediati dai terribili inverni russi e completamente disorientati di fronte alle aperte e sterminate pianure sovietiche. Leggo dal diario di Luciano Mela: "I russi ripetono la ritirata che hanno fatto ai tempi di Napoleone; non lasciano che rovine: persino le piste riescono a rovinare, con un metodo facile e pratico, che riesce a ritardare non poco la marcia degli automezzi. Quando se ne vanno da un paese, dove non ci sono ponti da far saltare o strade da interrompere, ma solo piste come qui, si fanno seguire da trattori con aratro che segnano dei grandi solchi a zig-zag per la pista. Una cosa da niente, sembra, eppure gli automezzi, su una strada così non riescono a fare più di 8-10 Km all'ora" (ib., p.175). In autunno furono assegnati al Csir gli obiettivi del bacino industriale del Donetz e la zona di Rostov e alla fine di ottobre, dopo alcuni aspri combattimenti come quello di Nikitovka, le nostre truppe entrarono a Stalino.

Il generale Messe, nel frattempo faceva continui rapporti a Roma sulla situazione disastrosa delle truppe che non avevano più viveri, mancavano di scarpe adeguate ed erano logorati completamente nel fisico e sosteneva che nessun'altra azione era possibile fintanto che non si fosse risolto il problema logistico. Ma la principale preoccupazione di Mussolini continuava ad essere il doveroso aiuto da offrire all'alleato e fremeva per spedire altri contingenti in Russia. Gli alti ufficiali dell'esercito si sentivano traditi e abbandonati dal governo:
"E così i nostri Comandi mandano in prima linea una divisione! Mi ero ripromesso di non scrivere che delle note, delle note-ricordo, per poter aiutare la memoria a riandare al tempo trascorso; senza esprimere opinioni, fare critiche, giudicare. Ma non ne posso più! Non ho paura che questi quaderni vadano in mano ad altri; non ho paura di dire che chi manda avanti una divisione nello stato in cui si trova la nostra, senza mangiare, colle scarpe rotte, le uniformi a brandelli, senza munizioni, ché le munizioni, a parte le poche in dotazione individuale, sono sugli autocarri fermi senza benzina a 200 Km, quel tale è un assassino." (ib., p. 79). E ancora: "la situazione infatti è (...) quasi tragica. Noi siamo quel che siamo, si sa: carri armati nessuno; artiglierie? Quelle, e senza munizioni, di anteguerra; armi individuali, il fucile 91, il moschetto 91: 50 anni di vita. I tedeschi quando vedono i nostri fanti con quella specie di alabarda, ridono di cuore.
E, quantunque ciò faccia venire i nervi, non ci si può negare che abbiano ragione, di ridere. Ma il Duce dice che in guerra è lo spirito quello che conta; è l'entusiasmo quello che vince. Per tenere su questo spirito, e rinfocolare l'entusiasmo, si lasciano i soldati quasi senza mangiare (...), senza indumenti di lana, colle scarpe rotte, i pantaloni a pezzi. Io parlo coi soldati, vivo la loro vita, li ascolto. Bisogna fare un monumento al soldato italiano per il suo spirito di sacrificio: bisogna meravigliarci, dico meravigliarci, che non succeda qualcosa di molto grave. Perché sarebbe una cosa assai logica se qualche soldato rifiutasse di marciare: noi aspettiamo che un reggimento sia accerchiato per far giungere le munizioni al di là del Dnieper (!), che qualche decina di soldati, molte decine, siano congelati per far giungere dall'Italia (!) qualcosa che li difenda dal freddo." (ib., p. 100).

Anche i generali nazisti cominciarono ad accorgersi della situazione disperata in cui si trovavano e furono fatti alcuni tentativi volti a convincere Hitler della rovina che stava per attenderli: ma il Führer non sentiva ragioni, la Russia doveva essere conquistata a qualunque costo.

All'inizio di dicembre il gelo insopportabile impose la sosta di tutte le truppe e i reparti tedeschi abbandonarono l'idea di conquistare Mosca entro la fine dell'anno. Anzi, Hitler decise che la conquista di Mosca avrebbe comportato una grande perdita di tempo e impose di procedere sulle due ali del fronte, verso nord, per mettere fuori gioco Leningrado e a sud, per conquistare la Crimea ed occupare Stalingrado e il Caucaso fino al confine turco. In maggio la Crimea era conquistata, eccetto Sebastopoli e l'esercito tedesco marciava, oltre il Don, verso il Volga, alla volta del Caucaso. I russi, che dal primo luglio avevano sostituito la strategia dello spazio aperto con quella della strenua difesa di ogni palmo di terreno, subivano continue sconfitte. Ma attingendo ad un serbatoio umano che sembrava inesauribile, riuscendo ad organizzare la produzione industriale e ricevendo aiuti americani, riuscivano incredibilmente a compensare lo spaventoso numero di perdite.

Nell'estate del '42 al CSIR si unirono altri due Corpi d'armata, il secondo corpo e l'alpino, in vista di un'avanzata sui monti del Caucaso: l'ARMIR si costituiva ed appariva ancora più disorganizzata ed inadeguata dello stesso Csir. Il 2 giugno 1942 Messe, ricevuto a colloquio da Mussolini, aveva ribadito per l'ennesima volta i suoi cattivi presagi sulle sorti della guerra e aveva dichiarato espressamente che l'invio di altri contingenti poteva costare un alto prezzo all'Italia. Ma la solfa era stata sempre la stessa e Mussolini "confermò che l'Italia non doveva figurare da meno di altri alleati e doveva trovarsi a fianco della Germania in quel fronte, così come la Germania prestava la propria cooperazione in Africa" (L'Italia della disfatta, p. 239). "Caro Messe" disse ancora Mussolini "al tavolo della pace peseranno assai più i 200 mila dell'Armata che i 60 mila del Csir" (Egisto Corradi, La ritirata di Russia, p. 8).

D'altra parte è inverosimile che il Duce non si fosse accorto della disastrosa situazione del suo esercito e della sconfitta che stava per attenderlo. Ma ormai era troppo tardi per tirarsi indietro e le forze armate, con l'Italia tutta, erano costrette a scontare l'errore madornale del Duce di aver subordinato ogni aspetto logistico ai suoi sogni politici in caso di vittoria: la spartizione dell'Europa. Inizialmente l'ARMIR fu inquadrata nella 17a armata tedesca e da essa riceveva gli ordini. Stanziata alla destra del Don, le fu assegnato il compito di lanciarsi alla conquista di Stalingrado, mentre altre divisioni tedesche sarebbero avanzate verso il Caucaso. I comandi tedeschi avevano l'ordine di non svelare tutti gli obiettivi e i piani militari agli alleati, mentre invece Berlino esigeva rapporti dettagliati sulla situazione degli italiani sul campo. Nonostante le vive lamentele di Gariboldi per la posizione di netta inferiorità in cui veniva tenuto dagli alleati, Roma eseguiva alla lettera le direttive del Führer e ripeteva di attenersi scrupolosamente agli ordini impartiti dall'esercito tedesco.

Comunque, come già accennato precedentemente, i rapporti tra l'esercito tedesco e quello italiano furono pessimi per tutta la durata della campagna. Obbligati dalle circostanze ad appoggiarsi e a collaborare l'un con l'altro, dimostravano però un astio ed un disprezzo reciproco che paradossalmente non si verificava tra italiani e russi. Nei diari non di rado si leggono episodi di vera e propria solidarietà ed amicizia tra di essi. I partigiani russi preferivano attaccare i reparti tedeschi piuttosto che quelli italiani ed i nostri soldati spesso e volentieri lasciavano scappare i civili sovietici anziché consegnarli ai tedeschi secondo gli ordini; i tedeschi infatti erano noti a tutti per le brutalità perpetrate ai danni delle popolazioni locali.

Scrive il tenente Mela: "Si fanno ogni volta 200-300 prigionieri, si portano dentro e poi bisogna lasciarli andare perché non si riesce a sapere nulla. Neppure il metodo tedesco vale; invano ogni giorno i tedeschi tolgono di mezzo decine di persone sospette (molto spesso non saprebbero dire con precisione di che cosa sono sospette). Così ieri 60 fucilazioni, o meglio pistolazioni, oggi 4, avant'ieri 28, ecc. ecc. Oggi 4, meglio 5 se si considera che una delle 2 donne era incinta. Ma era ebrea." (Dosvidania, p. 145)

La notte del 24 agosto 1942 avvenne il celebre assalto del Savoia Cavalleria nella steppa di Isbuscenskij. Alcune truppe sovietiche si erano portate pericolosamente vicine agli acquartieramenti del Savoia. Avvistate da un reparto in perlustrazione, fu dato l'allarme e il colonnello Bettoni, comandante del reggimento, ordinò al 2° squadrone di andare all'assalto: "Il 2° squadrone balza in sella, si porta al trotto a plotoni affiancati sul fianco sinistro dello schieramento nemico, manovra a larghe spirali quasi cercando la preda. In testa sono gli ufficiali: De Leone, Gotta, Bonavera, Donadelli, Bruni. Teniamo gli occhi fissi su questo movimento. All'improvviso il galoppo, compatto, irruente, esaltante! E' la carica! Impensabile qualche istante prima. Due, tre volte il rullo di 100 e più cavalieri passa e ripassa sulla linea avversaria: sciabolate e bombe a mano piovono sul nemico acquattato nelle buche, nascosto tra le sterpaglie. Cadono i primi cavalieri, i cavalli scossi vengono al galoppo verso il nostro schieramento: le selle sono nude, mancano i moschetti, qualche sciabola è spezzata..."

"Ora il 4° squadrone, appiedato, guidato dal capitano Abba, impegna frontalmente i russi. Anche il 3° squadrone è mandato all'attacco, galoppa generosamente verso lo schieramento nemico... Rientra al galoppo il maggiore Manusardi che ha caricato con il 2° squadrone e rivolto a Bettoni, dice con voce esaltante: 'Signor colonnello, è il momento di gloria del Savoia! Tutto il reggimento può caricare sbaragliando le ultime resistenze nemiche...'... Ha inizio il rastrellamento... Sul campo riversi al suolo soldati russi e italiani, insieme rappacificati da una morte comune seppure sotto una diversa bandiera" (ib., pp. 244-245).

Seicentocinquanta cavalieri italiani si erano scontrati contro duemila siberiani, si seppe in seguito. L'impresa fu certamente eroica ma anche paradossale. Fa quasi sorridere quell'anacronistico impiego delle sciabole e lo squadrone, che aveva manovrato come in una piazza d'armi: trotto, galoppo, carica al grido "Savoia!". A novembre, dopo mesi di durissimi combattimenti, strada per strada, casa per casa, i sovietici agendo efficacemente sui fianchi chiusero la linea nemica in una morsa mortale. Hitler, impartendo l'ordine di resistere fino all'ultimo e promettendo aiuti da ogni direzione, non fece altro, semmai ci fossero state ancora speranze, che compromettere definitivamente l'esito della guerra. Lo schieramento italiano si estendeva lungo il Don per ben trecento chilometri; proseguiva, alla sua sinistra, una sottile linea ungherese lunga duecento chilometri e a destra un'armata romena, quindi c'erano armate tedesche fino a Stalingrado. L'incredibile lunghezza dello schieramento andava a scapito della sua robustezza: esso era infatti troppo sottile e totalmente sfornito di rincalzi.

Le truppe sovietiche invece, numerose e imponenti, erano tutte ammassate contro i punti deboli del fronte, cioè contro il settore rumeno e contro le divisioni Ravenna e Cosseria. Il 16 dicembre, dopo alcuni giorni di intensi bombardamenti di logoramento, i russi sferrarono l'attacco decisivo. Le due divisioni italiane di fanteria, con 47 carri armati, 132 pezzi d'artiglieria, 114 cannoni controcarro, resistettero per quattro giorni ai colpi di dieci divisioni di fanteria motorizzata e di due reggimenti corazzati forniti di 754 carri armati, 810 pezzi d'artiglieria, 300 cannoni controcarro e le terribili Katiuscie, razzi multipli piazzati su autocarri. Inoltre i MIG, i famosi caccia sovietici, attaccavano di continuo dall'alto ed in tutto effettuarono 4177 sortite a volo radente: di aerei italiani neanche l'ombra. Si aggiunga la disperata condizione fisica in cui versavano i singoli soldati: "I soldati russi, quasi tutti, erano ben protetti contro il freddo. Sopra le normali uniformi indossavano costumi a uno o due pezzi... Ai piedi avevano i valenki di feltro o calzari speciali derivati dai valenki. La parte superiore dei loro costumi o tute si prolungava in un cappuccio foderato di pelliccia e interamente chiudibili con una cerniera lampo. Erano perciò in grado di addiacciare all'aperto, semplicemente stesi sulla neve nuda. Anche i tedeschi, pure se non tutti nella stessa misura, erano difesi dal freddo press'a poco nello stesso modo. Gli italiani erano purtroppo assai più malmessi... Le scarpe alpine... avevano il grave inconveniente di non riuscire più a contenere il piede quando questo si era gonfiato per il freddo e la fatica...

La maggioranza dei fanti della Cosseria e della Ravenna, e più ancora quelli della Vicenza ai quali erano stati in linea di principio assegnati compiti di retrovia, facevano pena a vederli. Avevano scarponcelli nostrani di tipo leggero, voglio dire non del tipo pesante allora in uso ancora più ridicole fasce gambiere. Molti avevano in testa dei semplici passamontagna di maglia di lana o di ortica se non di filati autarchici, ossia indumenti atti a proteggere dal freddo dell'inverno russo così come un setaccio può essere atto a contenere un liquido" (La ritirata di Russia, p. 37).

Orde di sovietici si riversarono con incredibile violenza contro il fronte nemico che disordinatamente tentava la fuga da quell'inferno. Ma più i nostri arrancavano tra la neve e il ghiaccio in una ritirata che sembrava non avere mai fine, più si sfinivano nel fisico e nel morale, e agli incalzanti assalti sovietici da tergo, nulla potevano più opporre se non la fuga disperata. Il secondo corpo d'Armata era completamente annientato e altre divisioni, arretrando precipitosamente, riuscirono a creare una linea di difesa alcuni chilometri più a sud. Gli obiettivi dei sovietici erano la città di Karkov, il bacino industriale del Donetz e l'accerchiamento da nord dei tedeschi sul Don che supportavano la 6a armata che assediava Stalingrado.

A metà gennaio avvenne sul Don lo sfondamento definitivo e anche il corpo d'armata alpino e la divisione Vicenza, ultimi baluardi italiani ancora praticamente intatti, si sfasciarono. Ma dovettero aspettare a lungo fermi nelle loro posizioni perché l'ordine di ripiegamento, che doveva provenire direttamente dagli alti comandi tedeschi, tardava: "Il corpo d'Armata alpino avrebbe potuto avere ben altra sorte se l'ordine di ritirata fosse stato impartito tempestivamente, mettiamo la sera del quindici gennaio. O anche del sedici, sarebbero bastate ventiquattr'ore di più. E' evidente che gli alti comandi tedeschi pensarono di rallentare ed intralciare l'avanzata dei sovietici lasciandosi alle spalle, indietro di giornate di marcia, le divisioni italiane, due delle quali ancora fresche ed integre, ma sprovviste di mezzi di trasporto veloci. E' dunque sicuro che coloro che soltanto il diciassette gennaio ordinarono agli alpini di iniziare la ritirata, non potevano non essere consapevoli di emanare una sentenza di morte contro le decine di migliaia di uomini che costituivano il meglio del corpo di spedizione italiano in Russia" (ib., p. 79). Gli ungheresi invece se la davano a gambe infischiandosene degli ordini. Il 26 gennaio, in piena ritirata, a Nikolajewka ci fu una sanguinosa battaglia per lo sfondamento dell'ultimo sbarramento sovietico: morirono dai quattro ai seimila soldati.

Il ruolo maggiore lo svolse la Tridentina con non pochi aiuti da parte della Julia, Cuneense e Vicenza. Isba per isba (tipica abitazione delle steppe russe, ndr), si riuscì a penetrare attraverso le difese russe, dopodiché, fino alla metà di marzo, momento della partenza per l'Italia, fu un'unica tirata verso la libertà. "Non potevo fare a meno di tornare spesso con il pensiero a paragonare l'andare della colonna ad un fiume, un fiume del quale ciascuno di noi era una inconscia goccia o onda. Mi confortava che il fiume fluisse, quando fluiva; non poteva essere che il nostro andare ci portasse tutti quanti verso la morte o la prigionia senza che ci pervenisse qualche preavvertimento, senza che lontano, davanti, qualcuno facesse segno di invertire la marcia; alle linee tedesche la nostra anabasi avrebbe dovuto pur portarci, un giorno o l'altro. Pensavo alla foce, alla fine della nostra disperata fatica in un qualche naturale grembo accogliente, in un qualche miracoloso tepore. Si tentava talvolta tra di noi di fare la conta dei giorni, di stabilire la data... Quando le forze mi calavano e venivo preso dalla tentazione di piantarmi in una qualsiasi isba al caldo, riflettevo al dolore che, comunque, ne sarebbe venuto a mia madre. Così tiravo avanti, il procedere mi costava talvolta sforzi enormi... Ma andavo avanti, l'uomo è duro a morire" (ib., p. 129).
Di 229.000 uomini inviati in Russia, 29.690 furono rimpatriati perché feriti o congelati. Dei rimanenti, i superstiti furono solo 114.485. Mancarono all'appello 84.830 uomini di cui 10.030 furono restituiti dall'Urss. Il totale delle perdite ammontò a 74.800 uomini.

Paola Mocchi

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
Manuale di storia, di Giardina, Sabatucci, Vidotto - Laterza Editore
La ritirata di Russia, di Egisto Corradi - Mondadori Editore
Dosvidania. Savoia Cavalleria dal fronte russo alla Resistenza,
di Luciano Mela e Pietro Crespi,. Due diari inediti - Edizioni Vita e Pensiero
Centomila gavette di ghiaccio, di Giulio Bedeschi - Edizioni Mursia
L'Italia della disfatta, di Montanelli e Cervi - Rizzoli Editore


Ringrazio per l'articolo
concessomi gratuitamente
dal direttore di

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