Anni 2000 - Dagli USA: Il neocomunitarismo - Un nuovo liberalismo?

TRA GLOBALIZZAZIONE
E RITORNO AL LOCALISMO

AMITAI ETZIONI
E IL PENSIERO NEOCOMUNITARIO

di LUCA MOLINARI

INTRODUZIONE

Tornare alla “Comunità”, senza per questo rimanerne schiacciati, ricostruendo antichi blocchi ideologici e sociologici appartenenti al passato. Da oltre un paio di decenni il tema del “neocomunitarismo” appartiene alla sfera dello studio della sociologia contemporanea.

Una dottrina che nasce e sviluppa nel contesto sociale, storico e politico degli Stati Uniti d’America per poi approdare, anche se in misura minore, in quello europeo. E non poteva che essere così, visto che da sempre gli Usa sono una realtà complessa, in grado di anticipare, nel bene e nel male, tendenze e speranze poi destinate ad influenzare il resto del pianeta.

Si tratta della teoria del neocomunitarismo frutto del pensiero di Amitai Etzioni
e ormai consegnata al dibattito degli esperti, ma che rappresenta una nuova frontiera ancora da esplorare, se non altro perché punto di riferimento di governanti della cosiddetta “nuova destra conservatrice” alla George W. Bush o comune a tutto quel filone di messianesimo moderno che è la destra religiosa americana, fatta di telepredicatori in giacca e cravatta che quotidianamente entrano nelle case degli americani con i loro messaggi via radio con cui si cerca di creare un moderno esercito della salvezza, fatto di una fusione tra antico e moderno, tra e vecchio e nuovo, tutto con alla base il tentativo di creare i presupposti per un nuovo modo di governare e controllare una società sempre più atomizzata e in convulsa trasformazione.

Una scelta di una via di governo che si discosta da quella seguita fino all’inizio degli anni ’80, quando a prevalere è stata la linea liberal, la scelta democratica e progressista di integrare e trasformare il più possibile i gruppi esistenti, le singole comunità (e torna così la parolina magica, “comunità”).

Una sorta di nuova via fatta, come vedremo, della riproposizione del ruolo della comunity come centro dello sviluppo della società stessa.
Un ritorno alla “comunità chiuse”, care a Platone e che farebbe inorridire un filosofo liberale (
conservatore e “socialista” allo stesso tempo, basti pensare all’abbraccio al teatcherismo da un lato e alla condanna della “cattiva maestra” televisione dall’altro) come Karl Popper? No, nulla di tutto questo, o se se si vuole più di tutto questo. Non si tratta di avventurarsi in inutili giochi di parole, fatti di corsi e ricorsi storici, ma di puntare all’analisi di quanto avvenuto in questi anni proprio attraverso i principali aspetti della dottrina neocomunitari.

ETZIONI, MA NON SOLO
NEOCUMUNITARI A CONFRONTO

Ritorno al localismo come risposta ad una globalizzazione che mette in mostra sempre più i propri limiti e i propri drammi.
Si può rappresentare così il punto di partenza teorico e sociologico di Amitai Etzioni. Più che una serie di nomi e di studiosi, il suo punto di vista è proprio questo: il comunitarismo nel suo insieme, come dottrina e filosofia di riferimento e linea guida che ne conduce e regge i comportamenti.
Il comunitarismo non rimette in discussione il paradigma della modernità, ma ne fornisce una versione contestualizzata, ridando dignità alle appartenenze capaci di formare identità e di generare reticoli di protezione sociale, al contrario il comunitarismo propone una nuova società civile, autonoma e originaria rispetto allo Stato, ma contestualmente non assoggettata alle logiche di mercato e al primato dell’ordine etico utilitarista.

Non è un caso che poco prima di morire, nel 1943, Simon Weil scrisse:
“Il bisogno di avere radici è forse il più importante e il meno conosciuto dell’anima umana. Difficile definirlo. L’essere umano ha le sue radici nella concreta partecipazione, attiva e naturale all’esistenza di una comunità che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti dell’avvenire.


Nel 1990, quasi a cinquant’anni di distanza dall’ultima volta in cui qualsiasi riferimento al tema delle identità collettive era stato progressivamente estromesso dal dibattito delle idee, riducendo l’ampiezza semantica del termine “comunità” nello spazio ristretto della “comunità locale”, un gruppo di una quindicina di docenti e studiosi nel campo dell’etica, della filosofia e delle scienze sociali, si ritrovarono nella capitale degli States su invito di Amitai Etzioni, professore di sociologia presso la locale George Washington University, e del suo collega William Galston.

Nel 1990 era appena crollato il Muro di Berlino, un modello di società e di visione del mondo era stato completamente rivoluzionato: occorreva rivedere l’interpretazione e la visione della realtà alla luce della novità intercorsa.

Questo gruppo di studiosi fu in realtà una “comunità di pionieri” che, per prima affrontò questa novità. E lo fece in anni in cui la moda storica e sociologica dominante era imperniata sulle tesi dello storico americano di origine giapponese Fukujama per il quale la fine del marxismo altro non rappresentava che la “fine della storia”.

Un posizione legata al neoconservatorismo post reaganiano che non trovò d’accordo né gli studiosi di formazione marxista (ancora tanti e agguerriti nel difendere le proprie ragioni) né quelli liberali che salutavano con favore la fine del modello ideologico totalitario sovietico, ma non una società legata al pensiero unico (benché fosse in estrema sintesi il loro) non volevano sentirne nemmeno parlarne.
Fu così che all’ordine del giorno dell’incontro studio che si tenne nello studio di Etzioni vi fossero i problemi cronici degli Stati Uniti e di tutte le moderne società occidentali:
disgregazione sociale, individualismo radicale, anomia, erosione del concetto di responsabilità sociale, egoismo, pericoli di teledemocrazia (fortemente rilanciato di li a pochi anni dagli scritti di Karl Popper, anch’egli liberale), scomparsa di una qualsiasi nozione di bene comune capace di bilanciare la pluralità degli interessi particolari, declino della famiglia, violenza, e crisi delle forme di rappresentanza tradizionale.

In estrema sintesi il dito ammonitori degli studiosi, di cui fra poche righe vedremo gli accenni delle singole posizioni, fu puntato contro la crisi delle tradizionali agenzie di socializzazione.
“Come mai – devono essersi detti le menti più lucide della sociologia contemporanea – con la fine dell’ideologia che più ha contrastato quella liberale, vediamo anche la fine di quegli strumenti che permettevano la convivenza civile e la reciproca conoscenza”.
Delusi della fine del bipolarismo? Nostalgici del nemico che veniva dall’Est che serviva a ricompattare la società occidentale? No, in realtà non fu nulla di tutto questo, ma molto di più: l’analisi spietata della società americana che, tramontato il mito di un certo rapporto stato-cittadino all’insegna del motto kennedyano “Non chiedetevi cosa può fare lo stato per voi, ma quello che voi potete fare per lo stato”, si stava pericolosamente involvendo su se stesso con accenni di individualismo preoccupanti.

Una dinamica ancora più evidente in una realtà come quella statunitense da sempre abituata a vedere il mantenimento dei legami all’interno delle singole comunità sub nazionali che dalle origini la compongono.
Il raffreddarsi di queste tensioni, una tendenza che però non portava a realizzare una nuova comunità collettiva, ma un solo marasma di singoli individui, allarmarono Etzioni e Galston.
A monte, quello che il gruppo di intellettuali di cui parliamo ritiene il pericolo maggiore: la progressiva scomparsa della comunità dalla vita sociale del paese.
I partecipanti decisero allora di darsi il nome di Communitarians, per enfatizzare così il fatto che era giunto il tempo di tenere fede alle responsabilità nei confronti dei principi e delle persone con cui tutti noi, sostengono, abbiamo qualcosa a che spartire: la comunità.

Fino a quel momento, buona parte del pensiero politico liberale aveva interpretato il fatto comunitario alla stregua di un fenomeno residuale, progressivamente sostituito dalle burocrazie statali e dai mercati globali.
Quindi ogni raffreddamento, riduzione dei legami di comunità era visto in casa liberale con favore: tramonto della comunità significa, per l’ideologia liberale, maggior libertà e benessere riorganizzando la società in forma razionale e atomizzata.
L’allarme per la crisi della comunità, però non va letta come inversione della dottrina liberale classica o un pentimento personale e collettivo del “gruppo Etzioni”, ma un ragionamento sull’idea stessa di comunità e la sua importanza per la società.
Innanzi tutto è bene intendersi su a cosa intendano esattamente questi intellettuali quando parlano di ricostruire la comunità.

Prima di tutto è d’obbligo dare una precisazione semantica: negli Stati Uniti il termine “comunità” assume connotazioni diverse rispetto all’originaria definizione fornita dalla sociologia classica.
Dobbiamo a Ferdinand Tönnies la prima formulazione del binomio comunità/società come grammatica generale per leggere la società nella sua struttura e nei suoi progressivi mutamenti.
Nel suo famoso “Gemeinschaft und Gesellschaft” del 1887, Tönnies introduce questa coppia concettuale nel lessico sociologico attribuendo al primo dei due termini (la comunità) caratteristiche di “organismo vivente” nel quale, sia esso nella forma di famiglia, di vicinato, di parentela, di amicizia, o di comunità locale, si trova il calore dell’affettività, dell’interazione face to face, la presenza rassicurante di opinioni condivise tipiche del mondo della “socialità primaria”.
Come in un gioco degli specchi sul versante opposto, la società, “aggregato meccanico”, assume la fisionomia del regno della mediazione, cui ci si mette in relazione attraverso strumenti come il denaro, il potere.

Così accade che, mentre è soprattutto il cuore che, secondo Tönnies, ci lega alla comunità, l’unica fedeltà di cui si può essere capaci in un contesto societario è quella basata sul calcolo strumentale.
Comunità come luogo del legame affettivo, comunità come quello dell’interesse.
Così se da una parte prevale il sentire comune e reciproco, dell’altra il pluralismo è caratteristica.
Si arriva in questa maniera a una rappresentazione dicotomica classica, che ha trovato variazioni sul tema nell’opera di Weber, in Rimmel, in Durkheim, in Parsons, fino alla coppia “individualismo/olismo” proposta da Luis Dumont.

Il ruolo e il rapporto tra l’individuo e la comunità ha da sempre rappresentato un elemento base per la sociologia: punto massimo, almeno per quel che riguarda il positivismo europeo è Emile Durkheim e i suoi studi sul suicidio.
“Chi si suicida di più?”, “Quali sono i gruppi sociali che non reggono di fronte ai problemi della vita e che ricorrono all’estrema arma del suicidio più di altri?” Sono queste due le domande a cui il filosofo francese cerca di dare risposta. E lo fa partendo dal legame che i singoli individui hanno con la più antica e regolata delle comunità: quella religiosa.
Durkheim arriva così a stabilire che gli ebrei e i cattolici (cioè i gruppi religiosi più organizzati, in cui più è forte la dottrina e l’idea di gruppo) sono quelli che si suicidano di meno.
Nel caso dei discendenti d’Abramo c’è poi da segnalare il forte legame interno alle singole comunità forgiatosi e rafforzatosi da millenni di persecuzioni.
Più tenue, e quindi più esposto allo scoramento e alla disperazione che porta al suicidio, il rapporto tra le comunità protestanti (anche se è bene distinguere tra i singoli gruppi religiosi che presentano differenze non da poco gli uni con gli altri).

In fondo alla piramide disegnata da Durkheim si pongono i “liberi pensatori”, ossia gli atei materialisti: si può così affermare che coloro che hanno abbandonato la propria comunità diventano i soggetti più deboli. Per converso è chiaro che la comunità nell’ottica del padre del positivismo è uno strumento, un legame che aiuta la crescita e la vita dell’umanità.
Negli Stati Uniti, invece, il termine “comunità” evoca tanto la comunità politica intesa in senso globale, quanto le “subcomunità” etniche, culturali, religiose o semplicemente di quartiere che la prima può inglobare.
Per essere espliciti si tratta di quelle realtà tipiche di uno stato costruito dall’immigrazione di decine di anni. Le subcomunità si formano grazie all’arrivo delle diverse ondate di stranieri che, per mantenere vivi i rapporti tra i propri connazionali, stringono realtà comunitarie inferiori gerarchicamente alla comunità politica che le ingloba tutte.

Nella sua accezione più semplice la comunità è quindi un insieme di persone interdipendenti, legate da costumi, usanze e situazioni esistenziali comuni che, conseguentemente, sono spinti a discutere e prendere decisioni comuni.
Il termine richiama quindi in primo luogo l’atto, ormai caduto in disuso su entrambe le sponde dell’Oceano, di partecipare attivamente a un qualcosa di cui ci si sente parte integrante.
La comunità appare quindi come il contesto naturale di una democrazia di prossimità, fondata su una partecipazione più attiva e sulla costruzione di spazi pubblici locali.
È quindi necessario sottolineare bene come non vi sia dunque, nel recupero del termine prodotto dai neo-comunitaristi alcun riflusso antimoderno e passatista.
Anche se la conflittualità con il pensiero liberale classico è apparsa fin dall’inizio, ma si è trattato di una conflittualità filosofica, ma certamente non politica.

Nessuna polemica contro la modernità, nessuna volontà di rifugiarsi nel passato. Non è un caso quindi, se la prima preoccupazione che Etzioni e i suoi studenti e collaboratori si sono posti è stata infatti quella di non venire risucchiati dalla polarizzazione che avvelena il dibattito delle idee negli Usa come altrove, e che porta necessariamente a essere collocati in uno degli schieramenti politici in cui il Paese è diviso.
Una visione del tipo “O con noi, o contro di noi”, come quella che avvelena l’attuale dibattito politico, sostiene in sintesi Etzioni, crea inutili divisioni ed è in radicale contrasto con qualsiasi prospettiva comunitaria.
Forse è proprio per questo che le teorie comunitarie hanno fatto breccia in entrambe le ali del Congresso, tanto tra i democratici, quanto tra i repubblicani.
Una teoria sociologica bipartisan, al di sopra delle singole querelle partitiche che però, almeno negli anni ’90, sono state assimilate dalla sola dirigenza democratica: infatti, solo l’allora presidente in carica Bill Clinton e il suo entourage ne hanno talvolta adottato espressamente il linguaggio.

Ma torniamo nello studio di Amitai Etzioni, dove è in corso l’incontro con colleghi, collaboratori e studenti. Proprio in quella riunione del 1990 vengono poste le basi del futuro Communitarian Network, che saranno sistematicamente esposte da Etzioni in “The Spirit of Community” e nel manifesto del movimento dal titolo “The Responsive Communitarian Platform” ad esso allegato.
I Communitarians sostengono con forza che una rinascita morale è possibile senza cadere negli eccessi del puritanesimo, che la sicurezza personale si può raggiungere senza trasformare il Paese in uno stato di polizia, che la famiglia, senza la quale nessuna società è possibile, può essere salvata dal disfacimento senza violare i diritti delle donne, che la scuola può fornire un’educazione civica e morale senza indottrinare i giovani, che è possibile vivere in comunità senza trasformare nessuno in vigilante ed essere ostili verso alcunché.

Allo stesso modo affermano che il richiamo alle responsabilità di ognuno nei confronti della comunità non vuole essere un invito a retrocedere sul terreno dei diritti, ma che, anzi, grandi diritti presuppongono grandi responsabilità.
Analogamente il bilanciamento degli interessi personali con le responsabilità sociali non richiede l’annichilimento di sé o il sacrificio di ogni realizzazione personale, un “Io sociale” è un “Io” più completo e realizzato di uno rinchiuso nel proprio orticello e il partecipare alla vita di una comunità politica non elimina ma, anzi, presuppone un’attenzione critica nei confronti di chi governa.
Su queste basi i communitarians si fanno promotori di una “democrazia forte” e partecipata, in cui il principio socio-politico più alto dovrebbe essere quello della sussidiarietà.
Sussidiarietà che fa rima con uno stato non propenso a intervenire troppo all’interno della vita delle singole comunità e realtà sociali autonome.
Alla base c’è la volontà di non indebolire i legami sociali di quelle comunità che al livello familiare, di vicinato o municipale possono assolvere certi compiti sociali e politici al pari o addirittura meglio di quanto si possa fare a livello regionale o statale.

Uscendo dall’astratto i compiti che le comunità possono fare meglio del governo federale (negli Stati Uniti) o dello stato centrale (se si passa all’esperienza europea) sono atti molto concreti: si va dall’assistenza ai malati e agli anziani, agli emarginati e ai senzatetto e agli emigranti.
Non si tratta però, come nella lettura dello stato leggero di reaganiana e teatcheriana memoria, di un disimpegno delle istituzioni, ma di un arricchimento delle autonomie e dei compiti delle comunità.
I punti di riferimento culturali di Etzioni, infatti, non prevedono affatto il disimpegno dello stato a livello generale o una sua attività legata solo a compiti di assistenza pietista e marginale.
Si afferma, infatti, che i compiti di assistenza e aiuto sono certamente di dimensione e autonomia comunitaria a cui però lo stato li demanda solo se la comunità si dimostra capace di assolverli.
Qualora questo non risulti vero, le forme di assistenza (o se si preferisce tentare di usare un’espressione più europea, di welfare) dovrebbe avvenire sotto la regia dello nel momento in cui si prendesse atto del fallimento delle comunità stesse che vengono delineate sempre di più come dei veri e prorpi “sottosistemi”.

Seguendo questa linea di pensiero, David Hollembach definisce il ruolo del governo in una società democratica: “Il governo non regola ma, piuttosto, serve il ‘corpo’ sociale animato dall’attività di queste comunità intermedie”.
Queste preoccupazioni sembrano condivise, pur con accenti spesso molto differenti tra loro, da una serie di altri autori che possono essere riconducibili al movimento comunitarista, anche se non tutti direttamente legati al Communitarian Network e, talvolta, anche apertamente critici nei confronti di esso.
Oltre al citato Etzioni, gli autori più noti sono certamente Alasdair MacIntyre, Charles Taylor, Michael Sandel.
Si tratta di tre autori che condividono la critica alla teoria liberale, provenendo da posizioni teoriche assai eterogenee: MacIntyre è un conservatore di impianto aristotelo-tomista, Taylor ha un passato di sinistra radicale, Sandel ed Etzioni si posizionano risolutamente sul versante democratico dello schieramento politico.

In una seconda cerchia di studiosi affascinati e poi padri del neocomunitarismo possiamo porre Roberto Mangabeira Unger, Mary Ann Glandon, Michael Walzer e Robert Putnam, le cui opere si richiamano a diverso titolo alla problematica comunitaria.
Mentre in una terza ideale cerchia potrebbero prendere posto autori come Robert Bellah o lo scomparso Cristopher Lasch, che pur non richiamandosi direttamente alle tesi ispiratrici del neo comunitarismo, mostrano identiche preoccupazioni di ordine morale e sociale.
Un discorso a parte merita invece il recente tentativo di Philip Selznick di coniugare i principi liberali con le preoccupazioni comunitariste, dando vita a un inedito “comunitarismo liberale” che tende a fondere due principi forse opposti. Una dicotomia che, già nel nome (“comunitarismo liberale”) si presenta come un ossimoro: due concetti opposti da cui ne nasce un terzo che cerca di mettere a frutto gli aspetti migliori dei propri padri.

Un tentativo non nuovo nella storia del pensiero politico e della sociologia che rappresenta un passo in avanti negli studi: si cerca di prendere il senso etico, di libertà e di responsabilità diffusa e personale della dottrina liberale e di fondere tutti questi elementi con i principi di sussidiarietà, di socialità diffusa e di identità del gruppo sociale propri del comunitarismo.
Pur nelle diverse sfumature che abbiamo potuto solo sommariamente accennare, questi autori sono pressoché concordi nell’individuare i tratti più evidenti di quel “disagio della modernità” ben analizzato da Taylor.
Disagio della modernità i cui capisaldi e i cui tratti caratteristici sono molto semplici e che possono essere riassunti nella transitorietà, impersonalità e frammentazione dei rapporti sociali, nella perdita dei sentimenti di appartenenza, nell’assenza di significato e unità nelle vite dei singoli, nella separazione tra vita pubblica e privata, nell’isolamento e alienazione degli individui, nell’incapacità di giungere a una qualsiasi formulazione della nozione di bene comune.

Come tutte le correnti sociologiche di nuova generazione anche quella Comunitarista ha una parte destruens: ossia basa la prima parte della propria formulazione e costituzione come forma di pensiero autonomo partendo dalla critica alle dottrine precedentemente esistenti.
E così, sul piano strettamente filosofico, è soprattutto contro una visione neutralista e procedurale della società e dell’etica fondata su presupposti ritenuti astratti che i Comunitaristi basano la propria critica.
Il filone di pensiero in questione contro cui i Comunitaristi si scagliano è quello impersonato da John Rawls, politolo e filosofo autore del celebre “Una teoria della giustizia”, la cui edizione americana, che ha visto la luce negli anni Settanta, ha ridato vita al dibattito sulla questione dell’etica, del suo ruolo nella vita delle società e all’interno della filosofia.
Il motivo è molto semplice: con la sua riflessione Rawls si prefigge di portare a un più alto livello di astrazione la nota teoria del contratto sociale che ci è giunta attraverso autori come Locke, Rousseau e Kant, i padri del pensiero illuminista.

Il suo primo passo è quello di sottolineare, in polemica con l’utilitarismo classico, il primato del giusto sull’utile, una moderna riedizione della famosa legge morale kantiana contenuta in una delle più belle frasi di tutta la storia della filosofia in cui il filosofo di Konnisberg affermava che “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.
Il ragionamento che sottende al pensiero di Rawls il seguente: come la verità è la prima virtù dei sistemi di pensiero, così per lo studioso non americano la giustizia lo è delle istituzioni sociali.
Nella società, sostiene Rawls, convivono sia spinte cooperative in quanto la cooperazione sociale che esse rappresentano, rende possibile una vita migliore per tutti.
In maniera uguale, ma specularmente opposta sono numerosi anche i conflitti che riguardano la distribuzione delle risorse e dei benefici, perché ognuno nel perseguire i propri obbiettivi ne preferisce una quota maggiore. Vedendo in prospettiva tutto questo si ha una reciproca spinta di egoismo e di volontà di detenere maggiori quoti di risorse.

Un vero e proprio effetto domino da cui è logico far scaturire una la seguente domanda: “Come individuare allora i criteri di giustizia comuni a tutti che rendano possibile una società ordinata?”
Rawls sostiene che i principi di giustizia sono quelli che tutti gli individui liberi razionali e uguali sceglierebbero indipendentemente dai loro interessi e dalle conseguenze delle loro scelte.
Per arrivare a questo ricorre a una situazione astratta, una nuova edizione dello stato di natura, che chiama “posizione originaria” in cui gli individui, sono costretti ad accordarsi sui principi di giustizia sotto “un velo di ignoranza”, ignorando, cioè, quale sarà la loro posizione biografica sia naturale (sesso, razza, ecc.), sia sociale (classe, ceto, ecc.), nella società a venire.

Nasce qui la famosa teoria politologica del “velo di ignoranza” teorizzata proprio da Rawls a cui si rifanno tutti i teorici e i sostenitori delle riforme politiche: solo in una situazione di estrema incertezza (o in altri termini ignoranza, appunta) di come andrà a finire lo scenario politico e la lotta tra le parti e i partiti, è possibile arrivare e determinare nuove regole e nuovi equilibri in cui nessuno cerchi di far passare quella norma o quella disposizione di cui pensa di potersi avvantaggiare in virtù di rendite di posizioni.
Solo così, spiegano i teorici delle giuste riforme, si potrebbero avere nuovi ordinamenti sufficientemente imparziali ed equi.
Un’interpretazione che è ben avallata dalla formulazione del pensiero dello stesso Rawls che ipotizza come nella condizione di “velo di ignoranza” gli individui si accorderebbero su due principi: l’eguale diritto alla più estesa libertà fondamentale, compatibilmente con una simile libertà per gli altri (primo principio di giustizia) e sulla eguale distribuzione delle risorse sociali ed economiche (secondo principio di giustizia).

Le strutture fondamentali delle società reali e i loro principi devono essere confrontate con i principi che scaturiscono dall’“accordo originario” e, se divergenti, abbandonate o riformate come avviene nella scienza per quelle teorie che non rispondono ai requisiti di verità.
In estrema sintesi la teoria della giustizia rawlsiana, che lo stesso autore definisce deontologica, mette a fuoco il primato del giusto sul bene, una visione del soggetto come antecedente ai suoi fini e una concezione della comunità non determinante nella formazione dell’identità degli individui coinvolti.
La centralità di quest’opera all’interno del dibattito contemporaneo delle idee, la rende la più discussa, e criticata, dai filosofi neocomunitaristi che non concordano sul primato del giusto sul bene, sulla visione neutra e procedurale dell’etica, sull’astrattezza di un “soggetto agente” anonimo e dato per scontato indipendentemente dal suo contesto socio-culturale, sulla visione sentimentale e non costitutiva della comunità.
L’aspetto più paradossale e più sottolineato da un punto di vista “comunitarista” è che siano proprio le teorie a base individualista a perdere per strada il soggetto nella sua interezza e a fornircene una versione per così dire “in scala ridotta”.
I communitarians rivendicano a pieno titolo, come costitutiva dell’uomo, la sua condizione di “animale sociale”, riprendendo così l’aristotelica definizione di “Zon politicon” (uomo come “animale politico”).
Aristotelica è anche la definizione che i communitarians danno della definizione.
Infatti “animale sociale” significa che l’uomo è naturalmente legato ai suoi simili, immerso in una cultura e in una tradizione, e capace, pur nella pluralità delle posizioni, di riconoscersi in una nozione di “bene comune”, come bene creato e fruito comunitariamente, capace di orientare e dare senso all’agire umano.

Tra i Comunitaristi la palma del più radicale va senza dubbi a MacIntyre che denuncia il fallimento del progetto illuministico della modernità e parla dell’uomo moderno come “cittadino di nessun-luogo”, auspicando un ritorno a forme locali di comunità e alle virtù aristoteliche.
Sulla stessa linea Bellah stigmatizza la visione liberale di società come costituita da individui essenzialmente separati.
E Sandel parla di “unencumbered selves”, distinguendo tra una “moralità del giusto” (liberale) che parla a “ciò che ci divide” e un’altra “del bene” (comunitaria) che si rivolge a “ciò che ci collega agli altri”. Torna così in auge la differenza tra scopo ed etica con i comunitaristi che puntano essenzialmente a valorizzare tutti quei punti che vogliono fortificare la società, ponendo i presupposti per una visione compattata della comunità.

Direttamente contro una certa lettura del pensiero liberale ed illuminista la lettura di Taylor.
L’autore, infatti, infine indirizza la propria critica contro il “sé atomista”, la perdita di senso, il relativismo e i pericoli di dispotismo morbido legati al disimpegno sociale dei singoli.
Come si può ben vedere tutta la critica comunitrarista altro non è che una presa di distanza da tutto il pensiero novecentesco, quello nato con il relativismo, con l’idea che la razionalità del singolo potesse portare a vedere gli eventi e a interpretarli con miglior successo se fossero stati presi in considerazione tutti i diversi punti di vista.
La superiorità, i fatti e la stessa storia della comunità cominciano ad assumere così i tratti degli elementi caratteristici del pensiero comunitarista che, per l’appunto, punta i riflettori più sull’insieme del corpo sociale che sul singolo individuo.

Non è un caso quindi se, al contrario dei teorici del liberalismo, i pensatori comunitaristi sostengono che la costruzione e la comprensione di sé e dell’identità di ognuno avvengano all’interno di una relazione, ritenendo che l’uomo sia possibile esclusivamente come “essere con gli altri”: il singolo, quindi, non viene più visto con propri attributi, ma come rotella di un più vasto soggetto che altro non è che l’insieme degli altri componenti della società e della comunità in cui vive.
Non si tratta semplicemente di individuare criteri di convivenza, norme e valori cui attenersi, ma di riscoprire un “Noi” (la Philia politica aristotelica) che dia un senso a queste norme.
Nell’introduzione al saggio “Liberalism and its critics”, Sandel si addentra in profondità nella questione.
Il suo pensiero può essere riassunto da queste sue parole scritte nel libro di cui si è accennato nelle righe precedenti:
“Dal punto di vista di un’etica basata sui diritti, è precisamente in quanto noi siamo soggetti separati e indipendenti che abbiamo bisogno di una struttura neutrale di diritti che non pregiudichi la scelta tra scopi e fini confliggenti. Se il sé è prioritario rispetto ai suoi fini, allora il giusto deve essere prioritario rispetto al bene. I critici comunitaristi del liberalismo basato sui diritti sostengono che non possiamo concepire noi stessi come esseri indipendenti in questo modo, ovvero come soggetti totalmente separati dai nostri scopi o legami. Essi affermano che certi nostri ruoli sono parzialmente costitutivi del nostro essere quelle persone che siamo - cittadini di un paese, o membri di un movimento, o sostenitori di una causa. Ma se noi siamo parzialmente definiti dalle comunità nelle quali viviamo, allora dobbiamo anche essere coinvolti negli scopi e fini di quelle comunità”
Una posizione che l’autore ribadisce con forza in un successivo passaggio dell’opera:
“La mia biografia, per quanto essa sia aperta, è sempre inserita nella storia di quelle comunità dalle quali derivo la mia identità - siano esse la famiglia o la città, la tribù o la nazione, un partito o una causa”.

Sandel prosegue poi a sua analisi del comunitarismo riprendendo la vecchia diarchia Hegel contro Kant, da sempre uno dei maggiori terreni di dialettica dell’intera storia della filosofia.
Scrive infatti Sandel: “I critici comunitaristi del liberalismo moderno, ispirandosi agli argomenti di Hegel contro Kant, mettono in dubbio l’asserita priorità del giusto sul bene e la concezione dell’individuo che sceglie liberamente ad essa sottesa. Rifacendosi ad Aristotele, essi sostengono che non possiamo giustificare gli assetti politici senza far riferimento a scopi e fini comuni e non possiamo concepire la nostra identità senza far riferimento al nostro ruolo di cittadini e di partecipanti a una vita comune”.

È chiaro che la domanda che sta a monte della riflessione di autori come Sandel e MacIntyre non è quindi quale condotta devo o posso scegliere?”. La vera domanda è “chi sono io?”.
Un viaggio all’interno del ruolo del singolo nella comunità in cui però la comunità (intesa come insieme degli individui) è il soggetto principale in cui occorre però procedere con cautela, perché sbaglieremmo a relegare questo quesito all’ambito metafisico o psicologico.
Si tratta invece di una domanda dalle profonde implicazioni politiche che focalizza l’attenzione sulla questione dell’identità collettiva come elemento determinante ai fini della vita sociale.
Argomenti e teorie forti che influenzano lo stesso Etzioni che, con il passare degli anni, diventa uno dei maggiori esponenti della corrente comunitarista.

Infatti, nella sua introduzione al “New Communitarian Thinking”, Etzioni afferma quanto segue:
“I liberal si preoccupano spesso di proteggere le libertà individuali dalla minaccia dello stato. Spesso ignorano o danno poca importanza alla relazione comunitaria: le precondizioni sociali che permettono agli individui di mantenere la loro integrità psicologica, civiltà e capacità di giudizio. Quando la comunità (reti sociali che veicolano valori condivisi) si sfalda, l’integrità psicologica degli individui viene messa in pericolo, e si genera un vuoto che invita lo stato ad espandere il proprio ruolo e potere. Gli individui e le comunità sono costitutivi gli uni delle altre, e la loro relazione è, al tempo stesso, di sostegno e tensione reciproci. Sociologi e psicologi indicano che gli individui privi di legami sociali (gli isolati, prototipi di attori nel mondo liberale dei diritti) si rivelano incapaci di agire liberamente, trovano invece che gli individui che sono legati da una ampia e stabile relazione, in gruppi coesi e in comunità, si dimostrano maggiormente capaci di compiere scelte ragionate, di dare giudizi morali, e di essere liberi”.

Una chiara requisitoria contro il relativismo e l’individualismo liberale che è diventato il testo sacro, il motto fondativo e di sviluppo del pensiero comunitarista.
Il richiamo a un rafforzamento di quelle che Etzioni definisce “voci morali” rimanda a un’eticità relazionale non riducibili né a un’eticità totalmente individuale (come accade nel liberalismo), né a una forma etica collettivizzata e interamente sociale (come accade viceversa nel pensiero socialista).
Tanto per continuare ad utilizzare le parole del sociologo americano siamo di fronte invece a un “fatto sociale che esprime la relazionalità delle persone umane e va coltivata in quella e attraverso quella”.
Contro la visione “strumentale” della comunità, figlia del pensiero utilitarista e “libertarian”, in cui la cooperazione tra individui è considerata una necessità imposta per il perseguimento di scopi privati, e quella “sentimentale”, di derivazione neokantiana di cui Rawls è l’esponente di punta e in cui gli individui condividono certi scopi e considerano la cooperazione come un bene in sé (per certi aspetti riportando in cima alle norme di comportamento la “legge morale” (di cui si è parlato prima), ma la loro identità è data antecedentemente a ogni legame, i communitarians propongono pertanto una visione della comunità come “costitutiva” dell’identità degli individui che la compongono, determinante nella definizione dei loro fini e della loro concezione del bene individuale e comune.

Si può così dire che per Etzioni e tutti quelli che sostengon le dottrine comunitarie, è come se i singoli individui perdessero di valore (oltre che, forse, di identità) al di fuori dell’orizzonte della comunità.
In quest’ottica, la comunità fornisce a tutti un vocabolario comune di pratiche e discorsi, ma non solo. Michael Walzer sostiene infatti che nell’ordine dei beni, l’appartenenza alla comunità è il più importante, dal momento che permette di determinare il significato sociale dei beni da distribuire e le connesse diverse concezioni di giustizia.
La giustizia distributiva dipende infatti dal significato che i beni hanno per i membri di una comunità, e questo è legato a sua volta alle credenze e alle pratiche sociali condivise dai membri della comunità stessa.
È una società formata da tante “responsive communities”, tanto da diventare una “comunità reattiva” essa stessa, quella che i communitarians inseguono.

A spiegarlo è lo stesso Etzioni (verificare se la definizione 14 è la sua o correggerla):
“La società civile è la realtà più avvolgente, composta di numerose comunità di piccolo e medio formato, come le famiglie, le comunità di vicinato, le chiese, le unioni di lavoro, le corporazioni, le associazioni professionali, le unioni di credito, le cooperative, le università e molte altre associazioni”.
E poi ancora: “La base della democrazia non è un’atomistica autonomia individuale. La partecipazione alla vita democratica e l’adempimento della libertà reale nella società dipendono dalla forza delle relazioni comunitarie che offrono alle persone una misura di potere reale per dar forma ai loro ambienti, compreso quello politico”.

Come ha ampiamente argomentato, già nel secolo scorso, Alexis de Tocqueville nel resoconto del suo viaggio negli Stati Uniti d’America alla scoperta di quella democrazia che tanto inquietava gli intellettuali europei, spaventati di essere spazzati via dalle masse e di rimanere schiacciati dalla “dittatura della maggioranza” e che nel modello americano della democrazia rappresentativa americana trovarono un argine alle loro paure, una società coesa e pluralista la cui ossatura è costituita da associazioni volontarie e comunità è certamente una migliore difesa contro il totalitarismo di una società individualista e altamente frammentata.

La ricostruzione del senso civico e di quel “capitale sociale” che recenti ricerche mostrano in crisi sistemica nell’ambito degli Stati Uniti in preda a pulsioni e derive individualiste, diventa nella piattaforma programmatica neocomunitarista il baricentro della riflessione, sviluppandosi soprattutto in una rinnovata attenzione verso le istituzioni di socializzazione primaria, come le famiglie e la scuola.
L’ideale del rinnovamento della cittadinanza attiva costituisce dunque il nucleo centrale, accanto a una ridefinizione della vita democratica imperniata sull’idea di riconoscimento e di partecipazione.
Anche in questo caso le domande sono semplici: “Si tratta realmente di una prospettiva radicalmente alternativa al liberalismo? O siamo forse di fronte, come è stato sostenuto, a una variante, o meglio a un “correttivo” eternamente ritornante del liberalismo stesso?”

Sono domande a cui si può rispondere in molteplici modi. In effetti con ogni probabilità sono vere l’una e l’altra affermazione.
Infatti, da un lato il comunitarismo non rimette in discussione il paradigma della modernità, ovvero la centralità del soggetto individuale all’interno del discorso morale e dall’altro semplicemente ne fornisce una versione contestualizzata, ridando dignità alle appartenenze capaci di formare identità e di generare reticoli di protezione sociale.

Possiamo con tutta tranquillità affermare che le prospettive teoriche di Selznyck e di Walzer, dimostrano la conciliabilità delle posizioni, operazione riuscita con un certo successo in Italia anche a Sergio Belardinelli.
La chiave di volta sta in un salto di qualità e di contesto del discorso: piuttosto che insistere sulla contrapposizione tra liberalismo e comunitarismo, che si vorrebbe anche erroneamente sovrapporre la classica divisione destra/sinistra, sembrerebbe più adeguato riformulare lo schema analitico attorno alla matrice autonomia/dipendenza della società civile tanto dagli apparati burocratici statali, quanto dalle ferree leggi impersonali del mercato.

Il comunitarismo, in estrema sintesi quindi, sembra voler proporre una nuova società civile, la “comunità di comunità” di cui parla Etzioni, certamente autonoma e originaria rispetto allo Stato, ma contestualmente non assoggettata alle logiche di mercato e al primato dell’ordine etico utilitarista.
Un progetto a cui, privi di altri importanti punti di riferimento filosofico-culturali, attingono a piene mani i “nuovi-vecchi” conservatori alla George W. Bush che, non più reaganiani, ma neanche old conservative hanno fatto di questo ritorno alla comunità uno dei propri punti di riferimento.

LUCA MOLINARI


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