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CRONOLOGIA

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E PAESI


GRECIA - STORIA


LA VITA INTELLETTUALE
Prima, durante e dopo la guerra del Peloponneso
(periodo 435-390 a.C. )

 

Accanto alla filosofia propriamente detta, che qui sotto appena accenniamo, ma della quale parliamo nell'apposita tabella a parte, si ebbero in questo periodo altri studi: filologici, politici, storici, letterari, grammaticali e in generale di erudizione. Studi che sono ancora oggi presenti nei banchi di scuola di tutte le nazioni civili

Ci piace qui citare una bella pagina di attilio De Marchi in Gli Elleni:
"Se un greco dell'età di Pericle risorgese oggi, proverebbe una lieta meraviglia a vedere quanta parte della civiltà sua fu ed è nutrimento della civiltà nostra, come nelle nostre scuole si leggono ancora i versi di Omero che egli leggeva, e si discutono i problemi filosofici posti da Socrate, e tante parole che egli usò risuonino con poche alterazioni sulla bocca non solo dei dotti, ma anche del volgo inconsapevole, e come le sue statue, anche mutilate, siano disputate a prezzo d'oro dai musei, e sia gioia del mondo civile ogni volta che dal suolo della sua patria risorge una bella forma di dio o un frammento di un suo poeta.
"E con lieta meraviglia vedrebbe anche come il presente nostro si ricolleghi così strettamente al suo passato; si potrebbero cancellare dalle pagine della storia Menfi e Ninive, ma non questo periodo d'oro della storia di Atene sezza essere costretti a pensare la cultura, l'arte e il pensiero ......"
"E con meraviglia, non lieta ma pensosa, vedrebbe quel greco come dopo tanti secoli e tante vicende, molte cose sono immutate dai suoi tempi: che lotte di classe si combattono ancora come già nella città sua, e dagli intellettuali e dal popolo si vagheggiano ricostruzioni ideali della società come già fecero Platone, e il popolo si inganna con le arti stesse usate da Cleone, e pur fra i tanti inni di pace, ancora i ministri dei parlamenti odierni dimostrano la necessità di essere armati come già Pericle dalla tribuna ateniese"


Lo sviluppo politico e lo sviluppo intellettuale sono l'uno e l'altro connessi; e quindi non poteva mancare che con l'iniziarsi della reazione nella vita pubblica incominciasse anche una reazione contro la sofistica. Alle masse le nuove dottrine erano state sempre sospette; esse erano convinte che ogni "sofista", vale a dire ogni maestro di filosofia ed eloquenza, fosse un uomo depravato, un corruttore della gioventù. Nè è a dire che questa opinione difettasse di una certa apparente giustificazione esteriore.

La retorica infatti come tale resta indifferente verso la morale; l'oratore come oratore non ha che un compito solo, quello di persuadere gli uditori della giustizia della causa ch'egli perora, senza preoccuparsi se essa è buona o cattiva. Fin qui gli avversari dei sofisti non avevano poi tanto torto quando giudicavano che la nuova arte andava a parare a questo, a « far diventare la migliore quella che era la causa peggiore ». Vero è che chi era estraneo a questi studi non poteva vedere come i sofisti, appunto per evitare l'accennato pericolo, si studiassero di impartire ai loro discepoli oltre l'istruzione oratoria anche una valida educazione morale. Scandalo ancor maggiore suscitavano le dottrine naturalistiche. L'affermazione di Anassagora, che le stelle erano null'altro che masse ardenti di pietra, fu considerata dalla pubblica opinione come una bestemmia, e per questa causa gli fu fatto quel processo che lo costrinse ad abbandonare Atene, malgrado avesse per protettore Pericle. Tuttavia egli trovò asilo a Lampsaco; in quella Grecia asiatica dove regnava maggiore liberalità di pensiero. Quando per colmo poi Diagora di Melo osò negare l'esistenza degli Dei, un decreto del popolo ateniese lo mise al bando e pose una taglia sulla sua testa.

Queste misure di polizia non avrebbero naturalmente potuto arrecar danni di sorta alla scienza. Fu invece la scienza stessa che spianò la via ai suoi avversari. La speculazione si era arditamente cimentata con i più alti problemi; ma le faceva difetto il fondamento empirico, e quindi i vari sistemi vennero uno dopo l'altro distrutti dalla critica, sinchè si arrivò alla fine a disperare della possibilità di una vera conoscenza reale della natura. La scienza era in via di distruggere sè stessa.

Sono un'espressione di questa corrente della pubblica opinione le Baccanti del vecchio EURIPEDE, una delle ultime tragedie ch'egli scrisse. In esse egli rinunzia all'indirizzo di pensiero per il quale aveva combattuto nelle prime file durante tutta la sua vita e predica il ritorno alla pia fede dei padri. Se non che ciò era altrettanto impossibile quanto il ritorno alla costituzione dell'epoca cavalleresca cui ambiva la reazione politica. L'opera compiuta dalla sofistica aveva troppo profondamente trasformata la società. Qual conto si facesse della religione negli ambienti delle persone colte ci è indicato da incidenti come quelli della decapitazione delle erme e della parodia dei misteri; e che in fondo anche le masse non la pensassero molto diversamente lo vediamo dalla secolarizzazione dei tesori dei templi, che fu allora fatta quasi dovunque nel mondo greco. Un secolo prima una cosa simile sarebbe stata impossibile. L'esigenza del sentimento religioso peraltro non era venuta meno, e quanto più essa non trovò soddisfazione nella religione dello Stato, altrettanto aprì l'adito all'accezione di altri culti. Il mondo greco si empì di sacerdoti orfici mendicanti e di indovini che promettevano l'eterna felicità a chi loro prestava fede e minacciavano quelli che restavano increduli di eterna dannazione. Eleusi ebbe ora il suo periodo di massimo splendore; ad assistere ai misteri che ivi si celebravano affluivano fedeli da tutta l'Ellade.

Considerazione non minore acquistarono i misteri in onore dei « grandi Dei » (cabiri) che si celebravano nell'isola di Samotrace. E così pure trovarono sempre più adito in Grecia culti stranieri: quello egiziano di Ammon, quello della madre degli Dei frigia Cibele e quello del pari frigio di Sabazio, il culto delle dee tracie Cotito e Bendis e del ciprio Adonide. Tutti i momenti processioni in onore di questi Dei percorrevano le vie di Atene fra un frastuono assordante; nell'occasione della festa di Adonide la città risuonava dei pianti delle donne per il dio che la falce della morte aveva toccato nel fiore della gioventù. Grande era il concorso anche alle cerimonie notturne inerenti ai culti frigi e traci, ed in particolare vi accorrevano pure le donne; sotto il manto della religione si annidava qui la più sfacciata immoralità. Di quando in quando le autorità intervennero a far opera repressiva ; ma non si poteva limitare la libertà di culto ai numerosi stranieri residenti ad Atene, ed anche nella cittadinanza ateniese quei culti avevano messo radici già troppo profonde perchè fosse ormai possibile porvi riparo. Da ultimo si finì per accoglierne parecchi nella religione dello Stato, il che per lo meno rese possibile esercitarvi un controllo.
Le classi colte naturalmente aborrivano con disgusto da tutto ciò: ma se in esse moltissimi si mostravano indifferenti per le cose religiose, v'erano tuttavia altri in numero considerevole che sentivano il bisogno di una dottrina che conciliasse il sapere con la fede.

In questo indirizzo si svolse in Atene a datare dal principio della guerra del Peloponneso l'opera di SOCRATE (Atene 470/469-399).
Suo padre era uno scalpellino statuario, arte alla quale Socrate si applicò anche con felice successo. Ma il filosofo Critone avendo scoperto in lui il genio, gli fece buttar via gli scalpelli e lo impegnò nello studio della filosofia.Nome allora ristretto a quella sola parte che trattava dei corpi celesti. Ma Socrate presto avedno preso disgusto di questo studio, per ragione delle difficoltà che lo accompagnavano e dell'incertezza delle conclusioni, come per la sua poca utilità nella comune vita umana, si dedicò ad un'altra specie di filosofia, cioè alla cognizione dell'uomo. Con queste vedute studiò accuratamente le passioni, e si affaticò per assicurare con solidi principi le nozioni del bene e del male. Quindi egli è giustamente ricordato come il padre della filosofia morale. E vi inculcò i precetti con candore, semplicità e precisione. La sua profonda cognizione del cuore umano, rinforzata dalla sua grande esperienza del mondo, fu quella che gli dette quell'apparente spirito di profezia. Lo stesso oracolo di Delfo lo dichiarò il più saggio degli uomini.
Tuttavia pur occupandosi di filosofia, non trascurò mai i suoi doveri civili.

Egli era una natura profondamente religiosa; già da fanciullo egli credeva di avere delle ispirazioni e questa voce divina (« demone ») lo accompagnò per tutta la vita. Se lo spirito divino lo invadeva, era il caso ch'egli restasse immoto per ore ed ore, completamente estraneo al mondo, rapito in un'estasi intima. Seguendo il comando di questa voce, egli abbandonò come abbiamo già detto il mestiere di scalpellino che aveva imparato da suo padre per potersi dedicare interamente all'opera di ammaestrare e migliorare i suoi simili. Ciò peraltro non lo fece da vero e proprio insegnante (ne ebbe mai una vera e propria scuola), o come si diceva allora, da sofista; ad una simile attività non sarebbe bastata la sua scarsa cultura, nè d'altra parte essa sarebbe stata conforme alle sue inclinazioni. La sua consuetudine invece fu di starsene da un capo all'altro della giornata sulla piazza o per le vie, dove attaccava discorso con chiunque voleva - e di oziosi ve n'erano a dovizia nella grande città - ma anche con chi non voleva, su un tema qualsiasi che l'occasione gli offriva.
In grazia delle sue grandi doti dialettiche e del continuo esercizio gli riusciva facile di prendere nelle sue spire chiunque si impegnava in una discussione con lui; persino sofisti di fama si trovarono a mal partito a stargli contro. Ben presto pertanto egli divenne una figura a tutti nota nella città. Naturalmente non poteva mancare che gli si affollassero attorno numerosi giovani, in parte uscenti dalle migliori famiglie; ed anche in altri ambienti divenne un ospite di cui era ambita la compagnia e che trovava accesso nelle case più civili. Per il suo insegnamento egli non pretese mai onorario, nè poteva farlo dal momento che non teneva corsi regolari e usava la piazza come aula. L'estrema semplicità delle sue esigenze ("di quanti imbarazzi io non bisogno") lo pose in grado di vivere col modesto reddito del suo piccolo patrimonio.

Per l'intelligenza dei problemi di scienze naturali egli difettava della necessaria preparazione; come tutte le altre persone devote del suo tempo egli opinava che fosse empietà occuparsi di simili argomenti. E, secondo lui, era anche cosa superflua, perchè malgrado ogni studio non è possibile arrivare a conoscere la verità e quand'anche la si potesse conoscere, non ci servirebbe a nulla. Egli mancava completamente di senso per la natura; le piante, egli soleva dire, non mi possono insegnar nulla. In generale egli professò uno schietto utilitarismo. Noi dobbiamo fare il bene perchè ci è utile. Non v'è alcuno che di proposito voglia arrecar danno a sè stesso; basta quindi ammaestrare gli uomini sul loro vero interesse, perchè essi agiscano conformemente a questo interesse, vale a dire virtuosamente. Dopo di che la virtù altro non è che la conoscenza del vero utile, cioè del bene. Perciò essa si può insegnare. Del fatto che nel petto dell'uomo, accanto alla fredda ragione, esistono anche delle passioni, Socrate non si diede alcun pensiero; come egli si dominava completamente, così esigeva che facessero gli altri.

Occorreva però stabilire che cosa fosse utile per noi; e questo Socrate considerò come il suo compito più importante. Egli credette di poterlo assolvere indagando « quel che propriamente fosse ciascuna cosa », e ritenne che a tal uopo bastasse precisare con una definizione ogni concetto che era espresso dal linguaggio. Egli non comprese che con tale metodo non si può pervenire ad acquistare il sapere, ma tutt'al più ad ottenere una terminologia scientifica, e quindi tutto si risolse in un gioco di parole. È questa la causa per cui l'intera socratica riesce tanto ingrata a noi moderni. Naturalmente egli trovò quel che andava cercando coscientemente od incoscientemente, la conferma della morale vigente nel popolo; al di sopra di essa egli non si è elevato. Questa morale pertanto è conforme alla volontà divina; ed è perciò che Socrate dice pure che noi dobbiamo agire virtuosamente, non perchè questo ci è utile, ma perchè è grato agli Dei. È qui la vera e propria sostanza della dottrina socratica.

Naturalmente anche l'esistenza degli Dei, come tutto il resto, esige la prova; Socrate, seguendo Anassagora, la trova nell'ordine opportuno del mondo, che non può essere se non opera di un autore intelligente; oltre a ciò egli si richiamava al consensus gentium. Del resto non si interessò ulteriormente ai problemi teologici ed accettò in tutto e per tutto le forme della religione vigente; anche riguardo alle cose d'oltre tomba non istituì speculazione di sorta, perchè, egli diceva, non se ne poteva saper nulla.
Un uomo simile doveva necessariamente farsi molti nemici; quanti infatti non potevano perdonargli di averli messi nell'agone della discussione con le spalle a terra; e per di più egli non aveva mai fatto mistero del disprezzo che nutriva per gli ordinamenti pubblici vigenti e per gli uomini che si trovavano alla testa delle cose. Tanto vero che non mancarono neppure gli attacchi diretti contro la sua persona; così ARISTOFANE scrisse una apposita commedia contro di lui (le Nuvole, rappresentata nel 423), nella quale reclama addirittura un tribunale d'inquisizione.

Malgrado ciò Socrate riuscì a vivere in Atene indisturbato sino al settantesimo anno. Soltanto la democrazia restaurata dopo la caduta dei trenta procedette contro di lui; fu accusato di negare l'esistenza degli Dei dello Stato e di corrompere la gioventù col suo insegnamento. Fra gli accusatori il più influente era Anito, un ricco conciapelli, che verso la fine della guerra del Peloponneso era arrivato alla carica di stratega, poi aveva guidato a fianco di Trasibulo gli esiliati democratici a File ed al Pireo e da quel tempo era divenuto uno degli uomini politici dirigenti; egli, personalmente stimabile per carattere, era evidentemente convinto sinceramente del pericolo che le dottrine socratiche presentavano per lo Stato, dottrine di cui, data la deficienza in lui di una cultura elevata, non comprendeva nulla. I giudici naturalmente per la maggior parte ne capivano anche meno; malgrado ciò Socrate fu condannato con una maggioranza minima di voti, e se la sentenza suonò sentenza di morte fu soltanto dovuto al contegno sdegnoso dell'accusato. Probabilmente neppure Anito aveva avuto di mira di arrivare a tanto; per lo meno è certo che Socrate fu fatto custodire in prigione con così poca cura che gli sarebbe stato facile fuggire. Ma egli non volle saperne affatto di fuga, e così la sentenza fu eseguita (primavera del 399).

Per tutta la vita Socrate si era dedicato all'istruzione della gioventù, e non si stancava di metterli in guardia da quei presuntuosi che si davano grandi arie e importanza e che appropriandosi del nome di filosofi, pretendevano di essere sapientissimi in ogni scienza, si vantavano di poter argomentare su qualsiasi cosa, e vendevano i loro insegnamenti a carissimo prezzo. Socrate con il suo straordinario candore, si adoperava per screditare questi vanitosi parolai ignari di ogni scienza, ponendo loro semplicissime domande e ben presto li confondeva e li portava a sragionare. In questo modo li esasperò, cosicchè essi unirono i loro sforzi per abbatterlo, e quando venne l'occasione furono solleciti a procurargli la condanna.

Ma il processo di Socrate partorì l'effetto contrario a quello voluto da colui che lo aveva provocato. Fu infatti soltanto col martirio subìto dal maestro che le dottrine socratiche ottennero la vera consacrazione; i suoi discepoli levarono d'ora in poi verso di lui gli occhi come verso un santo e, ciascuno a suo modo, proseguì la sua opera. Ne venne che la socratica nel corso del decennio successivo diventò una delle forze che diedero l'indirizzo alla vita intellettuale della nazione. E mentre Socrate si era limitato all'insegnamento orale e non aveva lasciato scritti, quindi non aveva esercitato la sua influenza che su una ristretta cerchia di persone, i suoi discepoli si rivolsero al gran pubblico. Il loro scopo dapprima non fu altro che di rendere accessibili al pubblico i dialoghi tenuti da Socrate e di farlo il più possibile nella forma semplice da lui usata, giacchè appunto in essa era riposta in gran parte la loro particolare efficacia di persuasione.
Così il dialogo divenne la forma d'arte propria della letteratura socratica. In essa campeggia sempre quale figura principale che guida l'andamento del dialogo lo stesso Socrate. Pubblicarono dialoghi di questo genere gli ateniesi Eschine e Senofonte, l'eleate Fedone ed altri, attenendosi strettamente a quanto aveva insegnato il maestro, benchè naturalmente, a ragion veduta o no, vi abbiano aggiunto non poco del proprio.

Della forma medesima si servirono poi anche quelli fra i discepoli di Socrate che si diedero a svolgerne ulteriormente la dottrina con lavoro originale; anche qui la figura principale é sempre Socrate, ma la dottrina che forma la sostanza dei ragionamenti non è più la dottrina di Socrate, ma quella del suo discepolo. Molti di questi dialoghi, specialmente i dialoghi di Platone, sono dal punto di vista dello stile opere d'arte di primo ordine, ma essi, malgrado tutta l'arte impiegatavi, non riescono a farci dimenticare che si tratta di dialoghi finti e a darci l'illusione del dialogo vero; alla lunga l'eterno succedersi di domande e risposte diviene insopportabile. Platone stesso deve aver sentito questo inconveniente ; per lo meno è certo che nei suoi ultimi scritti egli ha conservato la forma di dialogo soltanto come una veste esteriore, mentre nella sostanza espone concatenatamente la sua dottrina.

Socrate non aveva mai pensato a ridurre a sistema la sua dottrina; ciò non fu fatto se non dai suoi discepoli. Fra coloro che si cimentarono a tale compito, quelli che più da vicino si attennero all'insegnamento del maestro fu l'ateniese ANTISTENE (436-360). Egli era stato in origine retore, scolaro di Gorgia, e soltanto in età matura si era messo al seguito di Socrate. Egli elevò a principio direttivo del vivere umano quella completa mancanza di esigenze che il maestro aveva mostrato. "Tutte le cose esteriori -egli dice- sono indifferenti, quanto più ce ne renderemo indipendenti, tanto più saremo liberi e quindi felici. Quel poco di cui realmente abbiamo bisogno nella vita è facilmente procurabile; un pezzo di pane ed un mantello, sia pur misero e consunto quanto si voglia. Gli animali e i selvaggi invero non vivono altrimenti eppure spesso sono più sani di noi uomini inciviliti. Futili del pari sono tutte le differenze sociali; tutti gli uomini sono fratelli, lo schiavo vale precisamente altrettanto quanto l'uomo libero, purché possegga il retto giudizio, cioé la virtù".

A modello di virtù etiche Antistene proponeva Ercole, ma ripudiava la religione comune siccome immorale e, non sgomento della sorte toccata al maestro, ebbe il coraggio di dirlo apertamente. « Se potessi trovare Afrodite, la ucciderei », diss'egli ad un tratto. Vero è che nemmeno lui seppe emanciparsi dall'autorità di Omero; é perciò si studiò di dimostrare che i postulati principali della sua dottrina si riscontravano in lui, il che naturalmente non era possibile ottenere se non introducendovi le più audaci interpretazioni allegoriche. Antistene sostenne queste idee con la parola e con gli scritti, ma principalmente tentò diffonderle col suo esempio; peraltro, data la rigida austerità dei suoi postulati, non riuscì a raccogliere attorno a sè che una piccola schiera di seguaci. Dal ginnasio del Cinosarge, un sobborgo di Atene, dov'egli insegnò, i suoi seguaci furono più tardi chiamati cinici, nome che loro si attagliava a perfezione anche perché essi non vivevano in realtà meglio dei cani.

Fra gli scolari di Antistene, DIOGENE di Sinope (413-323) superò il maestro per assenza di bisogni e per rigorismo, e per questo esercitò su molti un fascino demoniaco; vero é che altri lo chiamavano un «Socrate da manicomio». Ad ogni modo egli divenne uno degli uomini più famosi di tutte le età, popolare per la sua stravaganza dei costumi e la spregiudicata indipendenza verso le istituzioni e i potenti. Proprio per questo suo atteggiamento, sul piano sociale Diogene predica un comunismo estremo, esteso alla comproprietà delle donne e dei figli; il suo era un messaggio rivoluzionario, che costituì un preludio all'etica stoica e (per qualche aspetto) a quella cristiana.

Tenne una via diametralmente opposta ARISTIPPO di Cirene (435-366). Anch'egli, quando si fece uditore di Socrate, era uomo già maturo, sofista e retore, e non subì che un'influenza superficiale dalle dottrine socratiche. Egli era un esteta, che considerava quale sommo bene il piacere; salvo che, egli diceva, non dobbiamo a tal riguardo lasciarci trascinare dalle passioni, ma dobbiamo godere con giudizio; il saggio deve soprattutto sapersi dominare. Egli si mostrò indifferente ai problemi religiosi, e si curò poco anche di diffondere la sua dottrina; salvo sua figlia, non lasciò discepoli. Tuttavia il suo sistema ebbe più tardi non pochi seguaci ed esercitò specialmente una grande influenza sopra EPICURO (341-270 a.C.)

Ma l'allievo di Socrate che sorpassa di gran lunga gli altri in grandezza è PLATONE (427-347). Appartenente ad una stimabile famiglia ateniese, strettamente imparentata con Crizia, Platone condivideva pienamente col suo maestro l'avversione alla democrazia dominante, tanto che si astenne da ogni partecipazione pratica alla vita pubblica. Per converso egli, al pari di tanti altri suoi contemporanei, disegnò una costituzione modello, che non lascia nulla a desiderare in fatto di radicalismo, ma in fondo altro non è che la costituzione spartana idealizzata. La speranza di poter vedere realizzati questi suoi disegni lo condusse a Siracusa alla corte di Dionisio. Quando si convinse alla fine della inattuabilità del suo ideale politico, elaborò in tarda età un secondo progetto di costituzione, nella quale ha maggiore riguardo per le condizioni sociali esistenti al suo tempo, ma che naturalmente rimase lettera morta altrettanto quanto il primo.

Potentissima invece fu l'influenza esercitata da Platone sullo svolgimento del pensiero greco. La sua stessa posizione sociale gli permise di formarsi un orizzonte più vasto di quello che aveva avuto dinanzi agli occhi il suo maestro, e lo salvaguardò da quella unilateralità alquanto modesta che si riscontra in Socrate. Vero è che egli condivise pienamente con lui il disprezzo per le scienze della natura e per tutti i sistemi che vi si basavano; ma non per questo egli rinunziò alla concezione del sistema dell'universo. A tal uopo egli prende le mosse dal metodo socratico della determinazione dei concetti; queste astrazioni poi in lui si condensano in entità aventi una esistenza a sè, in « idee », come egli le chiamò. Esistono secondo lui altrettante idee quante sono le specie di concetti; l'idea del cavallo, del sudiciume, della piccineria, della malvagità; l'idea somma è quella del bene che sta alla pari con quella della divinità. Il mondo sensibile sorge dal fatto che l'«artefice dell'universo» riproduce nella materia le idee.

Anche nei riguardi delle cose d'oltre tomba Platone non volle tenersi pago all'agnosticismo socratico. Chè anzi seguì le dottrine orfico-pitagoriche della trasmigrazione delle anime. Ne derivò che naturalmente la sua etica assunse un carattere diverso dell'etica socratica. Anche Platone crede che soltanto il sapere può condurre alla virtù, e soltanto la virtù alla felicità; ma, mentre Socrate aveva tenuto presente solo la vita di questo mondo, per Platone tutto ciò si risolve in una preparazione alla vita dell'al di là. Così il nucleo religioso della dottrina socratica è giunto in Platone al suo pieno svolgimento ed ha impreso quella via che coll'andare del tempo condusse poi al cristianesimo.

A sede dell'esercizio della sua attività di maestro Platone si scelse il ginnasio dell'Accademia alle porte di Atene. Qui ben presto affluirono in gran numero i giovani da ogni parte del mondo greco, e molti di essi furono più tardi i corifei della vita intellettuale della nazione. Nel ginnasio dell'Accademia, oltre alle discipline filosofiche, si insegnava come propedeutica anche la matematica. In seguito Platone acquistò vicino al ginnasio un giardino che rimase poi per secoli la sede della sua scuola; egli con ciò divenne il fondatore della prima università.
Accanto all'opera di insegnante, Platone spiegò un'attività letteraria molto feconda. Nessuno dei suoi predecessori e contemporanei ha scritto tanto, se si eccettua il solo Democrito. Per lo più i suoi sono brevi scritti polemici, tendenti a combattere ad oltranza le dottrine dei « sofisti » e delle altre scuole socratiche. Opera di maggior mole egli non ne compose se non sull'argomento che più gli stava a cuore e per il quale invece aveva la minore vocazione, la riforma dello Stato e della società.

Per quanto immensa sia stata l'influenza che la dottrina di Platone ha esercitato anche sullo svolgimento del pensiero umano posteriore, pure essa era troppo al di fuori del mondo per poter avere una efficacia profonda sui suoi contemporanei. La vita intellettuale del IV secolo non porta lo stampo della socratica, ma della sofistica; e questo già per la circostanza che la sofistica perseguiva in prima linea scopi pratici. Protagora, è vero, morì mentre era tuttora in corso la guerra del Peloponneso; ma PRODICO, IPPIA, TRASIMACO, GORGIA, sopravvissero di alcuni decenni alla fine della guerra, e rimasero sino alla loro morte i più celebrati intelletti dell'Ellade. Dalla scuola di Trasimaco uscì l'ateniese POLICRATE, che seguendo l'esempio del suo maestro pubblicò orazioni destinate a servir da paradigma; fra l'altro egli scrisse una requisitoria contro Socrate a giustificazione della sua condanna, e questa naturalmente provocò una viva polemica dall'altra parte. Se non che la semplicità della dizione, in uso nella scuola di Trasimaco, non corrispondeva al gusto dell'epoca, e quindi l'indirizzo di Gorgia ebbe il sopravvento.

Fra i numerosi discepoli di lui salì alla massima fama l'ateniese ISOCRATE (436-338) ; egli divenne per i contemporanei (e per i posteri il vero e proprio modello classico dell'eloquenza, ed ha esercitato sullo svolgimento della prosa greca, e per conseguenza della prosa di tutti i popoli civili, una influenza decisiva, anche perchè campò quasi cent'anni. A questo risultato egli giunse con l'attenersi alla sostanza dello stile gorgiano, alla maniera artefatta del periodo, che però spogliò di quel sovraccarico di ornamenti di cui si era compiaciuto Gorgia. Certo, inutilmente cercheresti in lui vigore di affetti ; le sue orazioni, le quali del resto non erano in gran parte destinate affatto ad essere pronunziate, sono lavori di tavolino accuratamente architettati. Ma appunto per questo ci lasciano freddi mentre fra i contemporanei incontrarono ammirazione sconfinata.
Da vicino e da lontano affluirono a lui i discepoli, per la massima parte appartenenti alle più elevate classi sociali; ed i suoi successi come maestro non furono minori di quelli ottenuti come scrittore. E benchè egli impartisse ai suoi scolari una educazione principalmente formale, pure non mancò di porre ogni studio per farne dei forti caratteri. Alla fine della sua lunga carriera egli poteva vantarsi che una larga serie degli uomini che si trovavano alla testa della nazione doveva a lui la sua educazione. Egli esercitò sulla sua epoca un'influenza assai più profonda che non Platone, cosa che a quest'ultimo seppe non poco amara. La ragione di ciò sta non solo nel fatto che Isocrate insegnava un'arte di utilità pratica immediata, ma sopra tutto nella circostanza che egli tenne l'occhio rivolto costantemente alla vita reale ed ai bisogni del momento, mentre Platone si costruì un mondo ideale. L'uno pertanto visse per il presente, l'altro per il lontano avvenire.

Oltre all'insegnamento, anche l'avvocatura offrì ai sofisti un campo di attività assai rimunerativo. Molti di essi si cimentarono in ambedue i campi; ma si sa che in generale un buon teorico riesce un cattivo avvocato e viceversa. Per conseguenza l'arte forense ben tosto si specializzò. Gli avvocati avevano già precocemente usato pubblicare o far pubblicare le loro arringhe come modelli. Così aveva fatto ANTIFONE, quello stesso che fondò ad Atene l'oligarchia dei quattrocento, a giudizio di TUCIDIDE il più grande avvocato del suo tempo, ma tuttora impigliato nell'ampollosità retorica che è caratteristica degli inizi della sofistica ed alla quale non seppe sfuggire neppure lo stesso Tucidide. In seguito, dopo la restaurazione della democrazia, pubblicò le sue orazioni Lisia, seguace dell'indirizzo di Trasimaco; egli, rinunziando deliberatamente ad ogni pompa retorica, seppe ottenere i massimi effetti coi più semplici mezzi stilistici ; vero è che fu anche un cavillatore scaltro e senza coscienza, per il quale ogni mezzo era buono purchè potesse tornar utile alla causa del suo cliente.

Anche Isocrate cominciò la sua carriera come avvocato, ma s'accorse ben presto che non era nato per questa professione. Nel corso poi del cinquantennio successivo Atene produsse una lunga serie di avvocati di prim'ordine, le cui orazioni vennero più tardi giustamente giudicate come opere classiche. Fra essi il primo posto spetta a DEMOSTENE (384-322) e ad IPERIDE (380-322 circa) ; ambedue furono pure fra i più eminenti parlamentari della loro epoca e vanno debitori della loro fama letteraria più alle orazioni tenute dinanzi all'assemblea popolare che alla loro eloquenza forense. Mentre Demostene riesce efficace principalmente per la foga degli affetti, noi ammiriamo in Iperide la semplicità e naturalezza e la trasparente chiarezza dello stile.

Sta pienamente alla pari con entrambi, ESCHINE (circa 390-320), che era venuto su come funzionario amministrativo e prese parte attiva alla vita politica, senza peraltro professare l'avvocatura; delle sue stesse orazioni non ne pubblicò che tre, ed anche queste soltanto per il fatto che le aveva pronunziate in causa propria, per giustificarsi dinanzi all'opinione pubblica. Esse, per la loro grazia e finezza prettamente attica, son forse tutto ciò che di più perfetto è pervenuto sino a noi dell'eloquenza greca. Certo noi non dobbiamo esigere da questi uomini la professione di principii morali eccessivamente rigidi ; si pensi che erano avvocati e uomini politici, e come tali non ebbero scrupolo di «far divenir la migliore quella che era la causa peggiore», se ciò tornava utile ai loro fini. Se quel che dicevano era poi vero o no, riusciva loro perfettamente indifferente.

LA STORIOGRAFIA

Un altro campo letterario che ora divenne dominio esclusivo dei sofisti fu la storiografia. TUCIDIDE (460 o 455-396) aveva già aperto la serie; egli a dire il vero non era sofista di professione, ma un gran signore, guerriero ed uomo di Stato pratico, e quindi potè creare un'opera che forse se non fu mai eguagliata nell'antichità, certamente non fu mai superata.
Era nato ad Atene, alcuni dissero ch'egli discendesse dalla casa del gran Milziade che si segnalò nella prima guerra coi Persiani, altri dissero discendente dal tiranno Pisistrato.
Il genio per lo studio e l'amore per la gloria furono le passioni che a preferenza di qualunque altra s'impadronirono dell'anima di Tucidide. Si racconta che trovandosi a Olimpia a udire ERODOTO (485-425) prerompesse in lacrime, e che da quel momento facesse il serio proponimento di studiare e scrivere. Tuttavia si dedicò anche alla vita pubblica e nel 424 comandò la flotta ateniese per proteggere le coste della Tracia contro gli Spartani, la quale tuttavia riuscirono a sbarcare ad Anfipoli e a occupare la città; Tucidide incolpato di negligenza, fu condannato all'esilio dove restò per venti anni. Rientrò in patria nel 404, al termine della guerra.
Nel luogo del suoi esilio iniziò a scrivere una "Istoria" affatto imparziale dei più importanti avvenimenti. Fu così diligente nel redigere i suoi scritti, che non risparmiò né fatiche né spese per procurarsi i documenti autentici, indispensabili alla sua opera. Una "Istoria" divisa in otto libri sulla guerra del Peloponneso, che però s'interrompe nell'anno 411 e che fu poi continuata da Teopompo e da Senofonte.
Nella sua opera Tucidide unì alla profondita del pensiero il genio dell'artista e il rigore del metodo scientifico. Si sforzò di stabilire la verità dei fatti e di ricercarne le cause. Volle che la sua opera fosse utile, secondo l'antico concetto della storia, perchè il lettore potesse giudicare il passato e prevedere il futuro.
Le molte lodi a questa sua opera sono anche per il metodo energico delle sue nazrrazioni, e per il fuoco, sempre uguale, col quale anima le sue descrizioni, con dolcezza di stile, con la grazia e l'eleganza dell'espressione. Le notizie che offre non sono soggette ad essere reputate né dubbie né alterate; Tucidide è ammirabilmente imparziale tanto verso i suoi concittadini, quanto verso i partigiani di Cleone che tanto si diede da fare per farlo bandire da Atene.
Ad Atene tornò dopo il suo esilio, ci visse gli ultimi suoi giorni e all'età di ottanta anni vi morì.

Un successore non indegno di Tucidide fu FILISTO da Siracusa, l'amico e il ministro dei due Dionisi; questi scrisse la storia della sua isola natale, trattando, come è naturale, con particolare amore la storia dei suoi tempi nella quale egli aveva avuto parte così eminente.

L'opera di TUCIDIDE, come abbiamo detto sopra, rimasta incompleta, trovò un continuatore nel socratico SENOFONTE (430-354), che in grazia della carriera militare percorsa fu spinto ad occuparsi di storia, un ramo d'attività intellettuale cui si tennero completamente estranei tutti gli altri discepoli di Socrate. Partito giovanissimo nell'assedio di Ciro, alla sconfitta e morte di questi si trovò improvvisamente a organizzare e guidare -poi la narrò- la ritirata dei diecimila Greci dall'interno dell'impero persiano fino in patria, in un libro assai celebrato (Anabasi) il quale mette l'autore in un'evidenza maggiore di quel che comporterebbero i suoi meriti, per quanto lodevoli certamente essi siano stati.

Poi si dedicò alla incompleta opera di Tucidide, ma Senofonte non era affatto pari al compito di completare un'opera come quella; egli ci offre poco più di una raccolta di materiali, quelli che il caso gli aveva messi a portata di mano. Portati assai notevoli si ebbero poi, nell'epoca di Filippo e di Alessandro, ad opera degli allievi di Isocrate, EFORO di Cuma nell'Eolide (400-330), e TEOPOMPO di Chio (378-304). Eforo, previo un vasto apparato di indagini, iniziò a scrivere una storia universale in 30 libri, compito questo al quale nessuno si era ancora cimentato. Egli lasciò da parte come fuori del campo della storia vera e propria i tempi mitici e cominciò la sua narrazione per quanto concerne la Grecia dal « ritorno degli Eraclidi » nel Peloponneso, mentre persino un Tucidide aveva tuttavia considerato la guerra troiana come un fatto pienamente storico. Anche in altri riguardi egli espresse principii critici perfettamente esatti, benchè poi, come di solito avviene, non li abbia sempre seguiti. A lui però mancava il requisito più essenziale per uno scrittore di storia; egli era un semplice erudito e non si intendeva affatto di cose politiche e specialmente di cose militari. Tuttavia ciò non menomò il successo della sua opera presso i contemporanei ed i posteri; del resto quel che essa offriva era qualcosa di assolutamente nuovo, una enciclopedia del sapere storico in tutto lo splendore della elocuzione isocratica; la storia greca più antica in seguito visse nella coscienza della nazione ellenica sostanzialmente così come la aveva narrata Eforo.

TEOPOMPO al contrario fu uomo pratico, un oratore di fama panellenica ed uno degli uomini politici dirigenti della sua città natale che aveva relazioni con tutti i maggiorenti della sua epoca. E pertanto -più tardi- egli si pose a narrare la storia di quest'epoca. La trama principale di questo racconto fu, come è naturale, costituita dalle gesta di Filippo di Macedonia ("Storie Filippiche") che avevano aperto un nuovo periodo storico; egli però prese in considerazione, non solo gli avvenimenti militari ed i negoziati diplomatici, cosa cui ancora si era limitato Tucidide, ma anche la storia interna degli Stati ("Storie Elleniche"). Peraltro, dato il carattere passionale dell'autore, l'opera era ben lungi dal presentare un colorito di rigorosa obiettività; essa era piena di smodate invettive, ma deve appunto perciò aver costituito una lettura attraentissima, ed infatti essa fu sempre considerata come uno dei primi capolavori della storiografia greca.

La metafisica e l'etica, se anche furono coltivate nelle scuole dei retori, lo furono soltanto come materie accessorie, e quanto alle scienze naturali e alla matematica, gli stessi fondatori della sofistica non se ne erano impregnati. La scuola di Democrito, al quale le scienze naturali andavano debitrici di così grandi portate, si immerse dopo la morte del maestro sempre più in una sterile scepsi. Invece la matematica e l'astronomia furono al pari di prima coltivate con ardore nella scuola pitagorica. La sua teoria della forma sferica della terra fu ora generalmente accolta nella scienza, e con ciò fu posta la base all'edificio di una geografia scientifica, la cui erezione venne infatti immediatamente intrapresa da ARCHITA di Taranto (428-347) - ultimo pitagorico - trovò la soluzione geometrica della duplicazione del cubo) e da EUDOSSO di Cnido (408-355 - elaborò la teoria delle proporzioni, esposta poi da Euclide), i due più grandi matematici di quest'epoca. Il pitagorico ECFANTO di Siracusa progredì persino al punto di illustrare il movimento della terra attorno al suo asse.
ERACLIDE da Eraclea del Ponto (390-310 - fondatore di una scuola di Eraclea), allievo di Platone, lo seguì su questa via e lo sorpassò perfino, sostenendo che i due pianeti interni Mercurio e Venere si muovono attorno al sole; egli arrivò quindi ad un passo dall'intuire il sistema eliocentrico (Copernico lo citò tra i suoi precursori)

Fuori di qui però queste dottrine incontrarono una quasi generale ripulsa; persino un uomo come Eudosso si mostrò chiuso ad esse, e per spiegare il movimento dei pianeti preferì ricorrere alla teoria che i corpi celesti circolassero su 27 sfere concentriche, situate intorno alla terra immota nel centro dell'universo ; ciascuna di queste sfere aveva, oltre alla rotazione giornaliera attorno alla terra, anche un movimento proprio comune a tutte. Vero è che ben presto si avvide che le 27 sfere non bastavano; ed allora il numero di esse fu via via aumentato a 56, finchè alla fine, verso il 200 a. C., APOLLONIO di Perge distrusse tutto questo sistema artificioso di universo incassato in una serie di cavi sferici e vi sostituì la sua teoria degli epicicli (il così detto «sistema tolemaico»).

Le scienze biologiche, come è naturale, furono principalmente coltivate nel campo dei medici. Anche a questo riguardo spetta ad Eudosso uno dei primi posti; ed accanto a lui al suo allievo CRISIPPO. Però la scuola di Cnido, alla quale essi appartenevano, non riuscì ad eguagliare quella di Cos. Qui vi dominarono, é ben vero, incondizionatamente le teorie del grande Ippocrate, tanto che i suoi seguaci poterono essere addirittura caratterizzati col nome di « dogmatici » ; ma parecchi di loro, come DIOCLE di Caristo e PRASSAGORA di Cos, furono tuttavia uomini di notevole dottrina che apportarono contributi molto validi all'anatomia ed alla fisiologia. Peraltro in queste scuole si continuò a rifuggire dal sezionamento del cadavere umano; e quindi Prassagora fece partire i nervi dal cuore e fu avverso alla teoria, affermata già cento anni prima dal pitagorico ALCMEONE da Crotone, che il cervello fosse la sede della facoltà di pensare.

È ad un medico, ARISTOTELE da Stagira (384-322), che la filosofia greca va debitrice di non essersi sin da allora sprofondata nelle paludi della teologia e della scepsi (atteggiamento mentale di dubbio conoscitivo, che però può essere punto di partenza per un' ulteriore e più approfindita ricerca). Suo padre Nicomaco era medico del re alla corte macedone; ma il figlio non si sentì attratto dalla professione paterna, ed appena divenuto maggiorenne (367) si recò ad Atene, dove per l'appunto Platone era all'apogeo della sua gloria; gli rimase accanto, discepolo fedele, sino alla sua morte (347). Ma anche qui Aristotele alla lunga non trovò quel che cercava

Platone nei suoi anni più vecchi si immerse sempre più nella mistica pitagorica dei numeri, e suo nipote SPEUSIPPO, che dopo la morte gli successe nella direzione dell'Accademia, si inoltrò ancora su questo stesso terreno oltrepassando il suo maestro. In questa atmosfera nebulosa Aristotele non poteva sentirsi a suo agio; egli quindi abbandonò Atene e poi aderì all'invito fattogli dal re Filippo di Macedonia di assumere la cura dell'educazione dell'erede del trono Alessandro (343).
Ma non seppe togliersi dal cuore Atene; appena finita la sua missione ed appena le condizioni politiche lo permisero, egli vi ritornò ed aprì una scuola propria nel ginnasio del Liceo (335). E qui insegnò, circondato da una numerosa schiera di discepoli, per lo spazio di dodici anni, finchè l'insurrezione di Atene contro la Macedonia, avvenuta dopo la morte di Alessandro, lo costrinse a cercar rifugio in Calcide (323); qui vi mori poco dopo di malattia (322).

Nella sua gioventù Aristotele scrisse dei dialoghi, alla maniera di Platone, che vediamo, celebrati come opere d'arte stilisticamente perfette, ma che non sono arrivati sino a noi; in seguito l'insegnamento non gli lasciò tempo di scrivere nulla di simile e fu costretto a limitarsi a redigere le sue lezioni, ovvero a farle redigere dai suoi scolari, e quindi la forma vi fu naturalmente trascurata. Nessun altro pensatore greco, salvo Democrito, ha posseduto tanta versatilità d'ingegno quanto lui; le lezioni di Aristotele abbracciarono tutto il campo del sapere del suo tempo, ad eccezione soltanto della matematica e della medicina, ed in ogni ramo egli ha fatto opera fondamentale. I suoi scritti occupavano circa 400 rotoli di papiro, mentre Democrito e Platone non ne lasciarono che circa 50 per ciascuno.

Il sistema filosofico di Aristotele è un compromesso fra la dottrina di Platone e le esigenze delle scienze naturali. Le « idee » sono state da lui trasportate dal mondo trascendentale nel mondo reale. Tutte le cose, egli dice, constano di materia e di forma, ma l'essenziale è la forma, poichè una materia senza forma non è concepibile, mentre è ben concepibile una forma senza contenuto di materia. Pertanto la materia informe esiste solo potenzialmente; essa diviene reale sol quando assume una forma. La materia inoltre oppone resistenza agli sforzi della forma di realizzarsi in essa, e quindi esistono due specie di tutti i fenomeni ; cause finali che procedono dalla forma, e cause meccaniche che procedono dalla materia. Però le forme non sono fra loro equivalenti; le forme inferiori dipendono dalle superiori, e quindi risalendo nella scala di esse si arriva alla fine ad una forma suprema, la quale non è altro che forma, scevra di ogni contenuto di materia, e che, immota essa stessa, è la generatrice di ogni movimento. Questo « primo movente », come lo chiamava Aristotele, è identico con la divinità.

Con questa teoria peraltro il concetto della divinità evapora completamente, giacché un essere supremo che dà soltanto l'impulso alla formazione dell'universo, ma non si dà, ulteriore pensiero del suo andamento, non può più formare oggetto di una religione. Altrettanto profondamente si stacca il pensiero di Aristotele dalla dottrina platonica dell'anima. L'anima è per lui la « forma » del corpo; tuttavia essa è composta di diverse parti. Le parti dell'anima di grado inferiore, che noi abbiamo comuni con le piante e con gli animali, nascono in una col corpo per via della generazione e quindi muoiono anch'esse col corpo; invece l'elemento più elevato dell'anima, la ragione, penetra nel corpo « dal di fuori » e perciò non resta coinvolto nella distruzione del corpo. Siccome poi tutto ciò che costituisce la nostra individualità, memoria, fantasia, sentimenti piacevoli e dolorosi, la stessa volontà, vanno annoverati fra le parti inferiori dell'anima, ne viene che per Aristotele non è possibile parlare di una immortalità personale; ciò perchè la ragione, che sola rimane dopo la morte, non è capace di sensazioni di sorta.

Coerentemente a queste dottrine, l'etica aristotelica è priva di qualsiasi sostrato teologico. Il sommo bene è la felicità, che si può raggiungere agendo conforme a ragione, e - più precisamente la felicità massima sta nella coltivazione della scienza. « Virtù » è quella qualità dell'anima che ci rende capaci di agire rettamente; per acquistarla non basta, come, riteneva Socrate, la mera conoscenza delle cose, ma occorre che la volontà sia dall'abitudine indotta ad ubbidire alla ragione. Una vita felice poi presuppone anche un ordinamento dello Stato conforme a ragione. Lo Stato ideale, ambito da Platone, è peraltro inattuabile; occorre tener conto delle condizioni sociali quali sono di fatto. La dottrina dello Stato quindi deve muovere dallo studio dello stato di cose esistente.

A questo scopo Aristotele fece raccogliere dai suoi discepoli moltissimo materiale, la descrizione di 158 costituzioni che pubblicò per renderne possibile a tutti l'utilizzazione. In base a questi materiali egli scrisse poi la sua « Politica », la quale appunto per il metodo induttivo da lui adoperato, divenne il modello cui si uniformarono tutti gli altri studi dello stesso genere. Il risultato naturalmente fu che nessuna costituzione é di per sè buona o cattiva, purchè non degeneri in un predominio assoluto di una classe ; la garanzia massima di buon governo è offerta da una forma di Stato che pone il potere nelle mani della classe media; è questa perciò per Aristotele la « costituzione » (o politie) per eccellenza.

Il suo libro poi svolge i principii di una teoria del diritto pubblico; la sovranità dello Stato è suddivisa nei tre poteri che la esercitano, il potere deliberante, il potere esecutivo ed il potere giudiziario e sono esaminate le funzioni dei singoli organi corrispondenti. È singolare vedere come Aristotele in questi studi rimanga completamente schiavo dell'ordine di idee tradizionali che identificava lo Stato con la città; sembra che il suo sguardo non sappia elevarsi alla considerazione di figure più complesse di Stati, come il dominio attico e siracusano, per quanto la sua stessa città natale, Stagira, appartenesse al dominio soggetto al regno macedone, il quale appunto al tempo in cui egli scriveva la sua politica aveva ridotto ad unità l'Ellade su base federativa e portava le sue armi vittoriose nell'Asia.
Non meno fondamentale è l'opera compiuta da Aristotele col suo sistema di logica benchè esso sia molto formalistico e si limiti in sostanza al metodo di trarre dai principii generali le conseguenze particolari con esatte illazioni. A complemento della logica scrisse la sua teoria della retorica e poi anche una teoria dell'arte poetica, sulla base di indagini di storia letteraria che furono in seguito proseguite dai suoi discepoli.

In mezzo a tutte queste cure egli non trascurò di coltivare le scienze naturali. Nei suoi scritti zoologici egli ci ha dato una anatomia comparata, una fisiologia ed una sistematica naturale del regno animale, che nelle sue linee fondamentali ha avuto valore in tutti i tempi avvenire. Nel campo della botanica fece opera analoga, benchè neppure alla lontana di pari valore, il suo discepolo Teofrasto, servendosi in parte di ricerche e collezioni di materiali del maestro. Anche di fisica e di chimica Aristotele si occupò molto profondamente, tuttavia il suo indirizzo segna qui un regresso di fronte a Democrito, giacchè egli abbandonò l'idea dell'unità qualitativa dalla materia e tornò nuovamente alla teoria degli elementi. Nell'astronomia egli non vi portò concetti originali, anzi non fece che complicare di più la già complicata teoria dalle sfere di Eudosso, ripudiando invece la dottrina del movimento della terra attorno al suo asse. Giunse persino a ritenere le stelle esseri animati.
Con l'opera di Aristotele era restaurato il connubio tra la filosofia e le scienze naturali che dopo Democrito era rimasto troncato. Per quanto Aristotele fosse rimasto ancora impigliato nel platonismo, pure la via era tracciata, ed i suoi discepoli trassero tutte le conseguenze della dottrina dal maestro.

Meriti non minori si acquistò Aristotele nei riguardi dell'organizzazione del lavoro scientifico. Egli non si limitò ad insegnare, ma sopra tutto si studiò di allevare nei suoi discepoli dei collaboratori che associassero le loro forze convergendole tutte al raggiungimento di uno stesso scopo. Egli ebbe la fortuna di trovare nel suo successore TEOFRASTO (373-287) un uomo eminentemente adatto a proseguire proprio sotto questo riguardo l'opera del maestro. Sotto la sua direzione la scuola del Liceo divenne il centro di ogni indagine scientifica; sull'esempio di questa scuola fu allora istituito quel Museo alessandrino, nel quale la coltivazione delle scienze fondata da Aristotele trovò una sede duratura allorché la scuola d'Atene andò in decadenza.

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Bibliogrfia e testi
Varie citazioni di Pausania, Cicerone, Strabone, Quintiliano, Plutarco, Plinio
SENOFONTE, Anabasi
WILLIAM ROBERTSON - ISTORIA DELL'ANTICA GRECIA
PFLUGK-HARTTUNG - STORIA UNIVERSALE, LO SVILUPPO DELL'UMANITA' , Vol. 1/6 - Sei
STORIA UNIVERSALE DELLE CIVILTA' - SONZOGNO
STORIA ANTICA CAMBRIDGE- VOL V- GARZANTI
STORIA UNIVERSALE , CURCIO, VOL.2/20

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